L'eredità maledetta di Totò: che fine hanno fatto i suoi miliardi?
La vita privata di Totò nel racconto della nipote: «Mio nonno era ricchissimo», racconta Diana Buffardi De Curtis: «lasciò un miliardo e mezzo a mia madre e circa un miliardo a Franca Faldini, sua compagna per oltre 15 anni, ma tutti questi soldi si sono volatilizzati in brevissimo tempo» - «La sua amicizia con i "pezzi da 90 della malavita napoletana» - «Diceva lui stesso la Messa in casa» - «Quando andava al bar, dava sempre la mancia in anticipo perché temeva che i camerieri gli sputassero nella tazzina del caffè»
Quando Totò seppe che la moglie da lui ripudiata stava per risposarsi, andò su tutte le furie. Pur passando continuamente dalle braccia di un'attrice a quelle di una ballerina, Totò non si considerava un libertino; anzi, si sentiva nel diritto di censurare e criticare il comportamento altrui. "Il mio caso è diverso", rispondeva ogni volta a chi osava fare dei raffronti con lui.
«La nonna Diana non era affatto innamorata dei suo pretendente, l'avvocato Mario Tufaroli, un uomo molto ricco che divenne suo marito, perché amava ancora Totò, nonostante le umiliazioni cui era stata sottoposta. La nonna aveva deciso di sposarsi una seconda volta cedendo alle pressioni di amici e parenti: a 35 anni era troppo giovane per rinchiudersi in un eremo e aspettare che Totò invecchiasse e si stancasse di correre la cavallina. Totò, però, non capì né perdonò mai alla nonna il secondo matrimonio. La nonna Diana, infatti, unica principessa De Curtis, è stata la sola persona di famiglia a non essere citata nel testamento di Totò: il solo lascito, troppo modesto perché non fosse simbolico, furono gli occhiali neri che Totò
portava negli ultimi anni».
E’ la ventiduenne nipote di Totò che parla e descrive l'indimenticabile, e per certi lati ancora sconosciuta, figura del nonno. Diana Buffardi De Curtis è, fra tutti i familiari di Totò, quella che più obiettivamente ricorda la personalità, il carattere, pregi e difetti del grande artista, nato da padre ignoto in un tugurio del rione Sanità a Napoli e divenuto, una volta ricco e famoso, erede del trono di Bisanzio.
«I soldi lasciati da Totò erano maledetti», dice Diana Buffardi. «Due miliardi e mezzo se ne sono andati in pochi anni, spariti come nell’incantesimo di una strega. Forse perché Totò li aveva maledetti, sapendo che quasi tutti gli "aventi diritto" da anni aspettavano la sua morte per venir in possesso di quel capitale. Di tanto denaro è rimasto adesso solo qualche appartamento che i rispettivi eredi abitano.
«Mia madre, Liliana De Curtis, figlia di Totò, ha ereditato un miliardo e mezzo in denaro liquido, gioielli, ville e appartamenti. Ha dilapidato il patrimonio senza neppure gioirne, con una serie di investimenti sbagliati. Dal nuovo marito ha avuto anche una figlia, Elena, che adesso ha sette anni. Questa bambina, che è mia sorellastra, è l'unica persona di famiglia che parlando di Totò lo chiama "nonno Antonio”. Ciò mi fa pensare che il mito di Totò, mentre diventa sempre più grande fra il pubblico, sta svanendo invece tra i suoi discendenti.»
«Franca Faldini ricevette circa un miliardo. Non so che cosa ne abbia fatto perché non la frequentiamo, anche se un tempo andava molto d’accordo con mia madre. Non credo che le siano rimasti molti soldi. Erano somme astronomiche per il 1967 quelle che il nonno ha lasciato: il denaro liquido era depositato presso banche svizzere.
«Negli ultimi 15 anni di vita, nonostante la cecità incalzante, mio nonno ha interpretato oltre 150 film. Ne girava uno al mese, talvolta due contemporaneamente. A quell’epoca ogni film gli rendeva dagli, 80 ai 100 milioni. Ma aveva anche tante spese: manteneva diverse famiglie e conduceva un tenore di vita molto elevato, anche se non usciva mai di casa e non frequentava quasi nessuno. Sembrava che nonno facesse di tutto per spendere il denaro che guadagnava: come se preferisse sprecarlo piuttosto che lasciarlo in eredità. Solo col fisco non era generoso. Si giustificava dicendo che quando era giovane la società ora stata troppo spietata con lui per pretendere adesso che Totò contribuisse al risanamento del bilancio pubblico. Considerava, quindi, le sue evasioni fiscali una partita che andava in pareggio con le privazioni subite durante l'infanzia.
«Totò era un po’ misantropo. Forse perché non era mai riuscito a far prevalere la figura del principe su quella di Totò. La gente si ostinava a chiamarlo Totò, immagine che lui avrebbe voluto imprigionare sullo schermo perché legata a origini che preferiva dimenticare, ma soprattutto far dimenticare agli altri. E allora se ne stava da solo in casa: così era sicuro di essere chiamato principe o addirittura "altezza". Quando firmava qualcosa, un contratto o una lettera, metteva tutti i suoi nomi: S.A.I. (che significava Sua Altezza Imperiale) Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno di Bisanzio De Curtis. A me e a mio fratello Antonello aveva concesso il titolo di conti di Ferrazzano.»
«Il nonno non aveva amici: soprattutto negli ultimi tempi, l’unico frequentatore della sua casa era l’avvocato De Simone. Ma lui ci parlava sempre di gente molto influente e importante che gli era devotamente amica. Questi pezzi grossi che si sarebbero mossi a un suo cenno erano dei mafiosi napoletani. Ovviamente noi non credevamo una sola parola di ciò che ci diceva: con la sua mania di perbenismo era impossibile che frequentasse simili ceffi della cui amicizia si diceva anche orgoglioso. Ci parlava soprattutto del capo dei capi, un certo Nas’e cane al quale un rivale, durante una lite, aveva strappato il naso con un morso e se l'era mangiato. Inutile dire che Nas’e cane l’aveva poi fatto giustiziare.
LA MONETA DI BISANZIO
«Quando poi il povero Totò morì, ad attendere il corteo funebre davanti al cimitero di Napoli trovammo alcune persone che rassomigliavano a quelle che nonno ci aveva descritte. A dirigerli c’era proprio Nas’e cane, un uomo dal volto come una maschera, con due buchi sul viso al posto del naso che gli mancava. Si avvicinò alla mamma e le disse con tono solenne: "Siamo amici a vostra disposizione in qualsiasi momento, come se il principe fosse ancora vivo”.»
«Quando talvolta il nonno veniva a prendermi a scuola, i miei compagni assediavano esultanti la sua Cadillac e gli chiedevano l’autografo. Bastava, però, che qualcuno lo chiamasse Totò perché il nonno si mettesse subito di cattivo umore. Allora tirava giù la tendina del finestrino e ordinava all’autista di ingranare la marcia.»
«Nessuno della famiglia poteva andarlo a trovare sul set mentre girava un film, tranne mio padre che era il suo produttore. Non voleva che lo vedessimo nei panni di Totò, povero, sporco, prevaricato: si vergognava. Lui era sempre elegantissimo, in doppio petto scuro, camicia bianca e cravatta, i capelli con la brillantina, che nessuno poteva toccargli, perché non un pelo si muovesse. Aveva la mania della pulizia: si faceva il bagno almeno due volte al giorno.»
«Viveva in un mondo tutto suo, lontano dalla società: non si occupava di politica né gli interessavano i fatti di attualità. Se voleva che qualcuno, mia madre o Franca Faldini, gli leggesse il giornale, non era per tenersi informato, ma per avere compagnia.»
«Un bel giorno decise di battere moneta: un principe regnante, seppure su un trono inesistente, aveva il diritto di mettere in circolazione monete d’oro con la propria effigie. E, infatti, fece coniare una medaglia col suo profilo da un lato e con lo stemma di Bisanzio sull’altro. Tutto attorno c’era la scritta "Antonio I di Bisanzio De Curtis”.»
«La sua personalità artistica faceva a pugni con l’uomo. Artisticamente, infatti, Totò aveva l’istinto inconsapevole del rivoluzionario, mentre nella vita era un conservatore. Nei suoi film, e prima ancora nelle riviste, prendeva in giro i costumi borghesi, il militarismo, la religione dei bigotti. In pratica, invece, rappresentava l'immagine di tutto ciò che Totò contestava. Dava molta importanza alla forma e al cerimoniale, come se vivesse ancora ai tempi dell’Impero di Bisanzio. Considerava morale tutto ciò che era consentito dalla legge; anche se si trattava di una legge di cui solo alcuni privilegiati potevano godere. Come, per esempio, l’annullamento del matrimonio concesso dalla Sacra Rota, di cui lui ha beneficiato. Ma era un conservatorismo puro il suo: ci credeva fermamente, non era ipocrita. "Se potessi fare io le leggi, come le facevano i miei antenati”, diceva spesso "la povera gente soffrirebbe molto meno”. Con i poveri, però, Totò non voleva averci a che fare. Gli piacevano tanto i bambini, ma non si sognò mai di visitare un brefotrofio.»
UN CANE A TAVOLA
«Aveva, invece, un canile che ospitava tutti i cani randagi e lui ci andava ogni giorno. Lo aveva istituito in omaggio alla memoria di un suo cane lupo, Dick, che era diventato cieco assieme a lui e che poi era morto. In casa di nonno c'era sempre un cane: morto Dick, fu la volta di Peppe, un barboncino nero che veniva trattato come un essere umano. Nelle ricorrenze o nelle feste, per esempio il cenone di Natale o di San Silvestro, Peppe si metteva a tavola con gli invitati: aveva una sedia accanto al nonno e se ne stava buono per tutta la cena.»
«Faceva anche molta beneficenza, alle chiese, alle suore, agli ospedali. Era religiosissimo: andava a Messa tutte le domeniche, scegliendo la funzione delle sette del mattino per non trovare molta gente in chiesa. Da ragazzino tutti pensavano che Totò avesse la vocazione sacerdotale perché non solo frequentava assiduamente la parrocchia, ma addirittura diceva lui stesso la Messa in casa. Nella sua stanzetta, quando viveva ancora al rione Sanità, aveva addobbato un altare in piena regola, con i ceri, i calici e gli altri accessori e, con una tonica bianca da chierico, celebrava la Messa. Poi confessò che, da buon napoletano, aveva pensato che la chiesa e la religione erano le sole sfere privilegiate cui un poveraccia poteva aspirare.»
«Quando usciva da casa, distribuiva i biglietti da cinque e diecimila, attraverso un percorso prefissato lungo il quale tanta gente lo aspettava. Era molto generoso, ma soprattutto giusto: ecco perché talvolta alcune sue posizioni sembravano contrastare con la sua bontà.»
«Totò era cordialissimo e affabile con i camerieri, con i cuochi e con tutti coloro che gli servivano da mangiare o da bere. Quando andavamo al ristorante o semplicemente a un bar a prendere un gelato noi e un caffè lui, si comportava in modo completamente diverso dal solito. Non sembrava più Sua Altezza Imperiale il principe di Bisanzio, ma Antonio Clemente. Non erano slanci di socialismo i suoi: aveva paura che i camerieri gli sputassero nella tazzina. "I camerieri si vendicano quando prendono in antipatia un cliente”, ci spiegava. "Ecco perché la mancia va data prima di ordinare, non dopo. Io queste cose le so perché quando ero ragazzino avevo tanti amici che facevano i camerieri e certe verità me le raccontavano”. Non appena, però, il cameriere aveva posato la tazzina o il piatto sul tavolo, Totò tornava ad essere l’altezzoso principe De Curtis che non guardava, neppure dall'alto, chi apparteneva a un rango inferiore.»
NOBILE NELLE OSSA
«Io ero la sua cocca perché lo salutavo con la riverenza, vestivo sempre in modo tradizionale e, diceva lui, ero una bambina che non toccava mai i dolci con le mani. Ma soprattutto lo chiamavo nonnino e non gli parlavo di Totò. Ogni volta che andavo a trovarlo o veniva lui a casa nostra mi diceva: "Chiamami pure Totò, ti darò ugualmente diecimila lire”. E io rispondevo sempre: "Tu non sei Totò, sei il mio nonnino. Preferisco rinunciare alle diecimila lire piuttosto che non chiamarti nonnino”. A quel punto, anziché dieci, mi dava ventimila lire. Era un rituale che si ripeteva continuamente e di cui lui era contentissimo. E a me faceva tanto piacere vederlo felice perché sapevo che lo meritava: la sua umanità prevaricava le apparenze che talvolta potevano renderlo antipatico e scostante.»
«A me ha lasciato un appartamento perché "una ragazza di buona famiglia”, diceva ”ha bisogno di una dote per fare un buon matrimonio e non essere schiava del marito”. A mio fratello Antonello, invece, non ha lasciato nulla perché, gli spiegava "l’uomo deve farsi da sé”. La verità è forse che Antonello non gli dava l’affetto che Totò cercava e quindi lui non lo considerava un nipote.»
«Non era mai andato a scuola, credo, né aveva studiato da grande o frequentato accademie teatrali. Eppure Totò parlava in perfetto italiano, se voleva. Amava accentuare, però, la sua inflessione partenopea per vezzo e perché era sempre innamorato della sua Napoli. Era compito, educato, gentile e cordiale con tutti. Anche se non per discendenza, come lui pretendeva di dimostrare, Totò era nobile' nella figura, nei modi, nell’animo. "Persino nelle ossa”, aggiungeva lui. "Ho la struttura fisica del nobile”.»
«Non aveva mai sposato Franca Faldini, anche se sia lei che il nonno avevano messo in giro la notizia di un loro matrimonio celebrato chissà dove. La verità è che fino a pochi giorni prima della sua morte il nonno risultava celibe allo stato civile. La nonna Diana effettuava spesso simili controlli e poi ci diceva: "Miss Torta di formaggio non è ancora diventata principessa De Curtis". Miss Torta di formaggio era un concorso che la Faldini vinse giovanissima.»
«Totò l’avrebbe certamente sposata il giorno in cui Franca avesse messo al mondo un erede maschio. Una sola volta durante la loro unione la Faldini rimase incinta; ma il bambino, Massenzio, nacque morto e fu sepolto nella tomba di famiglia a Napoli. Da allora Franca non ebbe altre gravidanze e finì per persuadersi che con l’età il nonno fosse diventato sterile. Pur di avere un figlio, almeno così sentivo dire in casa, la Faldini tentò l’esperimento della fecondazione artificiale in una clinica svizzera. Ma anche quel tentativo fallì perché si vede che a esser diventata sterile era lei, non Totò. Quando il nonno venne a sapere del motivo del viaggio di Franca in Svizzera si arrabbiò moltissimo e i loro rapporti non tornarono più quelli di un tempo.»
IL "TEST” DEL SESSO
«Negli ultimi anni, infatti, Totò sembrava essersi stancato di Franca Faldini e si era riavvicinato alla nostra famiglia. Faceva in modo che Franca viaggiasse spesso e stesse lontana da Roma il più possibile: la mandava in crociera con la madre per poter rimanere solo in casa. Ovviamente, non mancava l’appuntamento quotidiano con l’aspirante attrice per soddisfare il bisogno di dimostrare a se stesso di essere ancora giovane e potente sessualmente. Ma veniva quasi tutti i giorni a casa nostra e si stupiva di non trovare mai papà che, in realtà, non viveva più con noi. Totò, però, non seppe mai che papà e mamma si erano separati: ne avrebbe sofferto moltissimo. Gli tenemmo nascosto anche che noi, Antonello e io, vivevamo ormai affidati alle cure di camerieri e governanti: che papà viveva con una ragazza di cui si era innamorato; che la mamma da un po' di tempo frequentava un ambiente di play-boy e, approfittando di un periodo di smagliante bellezza, si divertiva come mai aveva potuto prima di allora. Il nuovo marito di mia madre, allora solamente fidanzato, ha potuto mettere piede a casa nostra per la prima volta il giorno in cui Totò morì. Il nonno non avrebbe mai accettato un secondo genero, come non aveva accettato mio padre 15 anni prima.»
«Il nonno era gelosissimo di mamma. Quando seppe che, diciottenne, era decisa a sposare Gianni Buffardi, fece di tutto perché cambiasse idea. Non che Totò non avesse stima di mio padre: era proprio la figura del genero che gli stava odiosa. Considerava il genero un estraneo che si sarebbe impadronito della figlia, che apparteneva, invece, solamente a lui. Mamma e papà, infatti, si dovettero sposare ad Assisi, "il più lontano possibile da Roma”, aveva detto Totò che si rifiutò di presenziare alla cerimonia. Il nonno proibì a mamma non solo di sposarsi a Roma, ma in qualsiasi altra città del Lazio. Un'altra cosa che Totò non perdonò mai a nonna Diana è di essersi schierata dalla parte di mamma quando lui cercava di contrastare il matrimonio.»
SBERLE ALLA FIGLIA
«Mìo padre e mia madre si erano conosciuti a Capri, dove le rispettive famiglie trascorrevano da anni le vacanze estive. Il nonno aveva comprato una villa a Marina Piccola, proprio davanti allo stabilimento balneare, in modo da poter controllare la mamma quando andava a farsi il bagno. Totò si metteva di vedetta sul terrazzo e col binocolo seguiva la mamma in tutti i suoi movimenti. Un bel giorno, dal suo punto di osservazione, Totò scoprì che la figlia passeggiava sulla spiaggia tenendo per mano un giovanotto, che divenne poi mio padre. Totò, che non era mai uscito dalla villa se non in macchina o in motoscafo, quella volta non esitò a precipitarsi per prendere a ceffoni la figlia e il corteggiatore. ”Una persona per bene”, sosteneva "si rivolge alla famiglia se ha intenzioni serie”»
«Passarono degli anni prima che il nonno dimenticasse quella passeggiata innocente in riva al mare. Neppure la nascita del nipotino riuscì a placare il risentimento di Totò per il matrimonio celebrato contro la sua volontà. Tanto più che al bambino furono imposti i nomi di Salvatore Antonio. Il primo nome era quello di casa Buffardi, il suo occupava il secondo posto anche se poi divenne quello di uso quotidiano. Neppure quando papà si mise a produrre i film di Totò i suoi rapporti col nonno furono familiari. Mio padre chiamava Totò "principe”, come chiunque altro, e il nonno chiamava papà "signor Gianni”.»
«Non si può dire che la nostra fosse una vera famiglia, nemmeno mentre Totò era in vita. La presenza del nonno, però, serviva a tenerci più uniti. La sua casa era come una boa alla quale ognuno sapeva di potersi aggrappare nel momento del pericolo. Alla morte di Totò, purtroppo, la boa è affondata e i naufraghi si sono dispersi».
Angelo De Robertis, «Gente» anno XXI, n.47, 26 novembre 1977
Angelo De Robertis, «Gente» anno XXI, n.47, 26 novembre 1977 |