Totò, la gaia sapienza
Punto e a capo. Franca Faldini e Goffredo Fofi hanno scritto un libro su Totò. Giriamogli un po’ intorno
Franca Faldini e Goffredo Fofi: «Totò. L’uomo e la maschera». Feltrinelli, 280 pagine, 3.000 lire
Di questo nuovo libro su Totò la pagina che mi ha emozionato di più è quella che riporta in ordine cronologico i titoli delle riviste che negli anni Quaranta e Cinquanta furono la vera gloria di quel nostro indispensabile Maestro. A partire dal '42, che è l’anno di Volumineide, fino al '56, che è l'anno di A prescindere, quelle riviste ho avuto la fortuna di vederle tutte. Nel '42 avevo undici anni, oggi ne ho quarantasei. Dal giorno in cui il bambino borghese che ero a quel tempo fu sconvolto per la prima volta dalla vis comica di Totò, sono dunque passati trenta-cinque anni. In tutto questo tempo credo di aver capito poche cose, e una di queste è che il Totò di quelle riviste non fu soltanto il più straordinario avvenimento teatrale italiano di quegli anni: fu anche uno dei rari eventi culturali d’alto rango che l'Italia abbia prodotto in quei decenni. Fra i pochi altri di pari grandezza, metterei soltanto i libri di Gadda e di Savinio. Totò, Gadda, Savinio: tre maestri della tenerezza e del cachinno...
Nel 42 andavo a scuola dai gesuiti. Ero iscritto alla seconda media e nella mia cartella, fra gli altri libri di testo, c’erano due grotteschi volumetti col duce in copertina intitolati rispettivamente Il primo e II secondo libro del fascista. La forma era quella del catechismo: tante domande («Chi è il duce?», «Che cos’è il fascismo?», «Che cosa sono le Corporazioni?») e altrettante risposte che bisognava imparare a memoria. Il sabato, vestiti da balilla, bisognava andare all’adunata. La domenica, vestiti da paggetti o crociarmi. bisognava andare a messa. Così la mia esistenza si svolgeva fra un catechismo e l’altro, una comunione e una sfilata, un fioretto alla madonna e un saluto al duce. Mie sole assidue consolazioni: i film americani (Clark Gable e Joan Crawford, Fred Astaire e Ginger Rogers, Gary Cooper e Barbara Stanwvck), i romanzi che leggevo furtivamente anche in classe (Verne, Dumas, Hugo), e i giochi erotici ai quali, nel tardo pomeriggio, dopo le ore di studio, potevo dedicarmi, altrettanto furtivamente, con una bambina che aveva un nomignolo molto grazioso: Kinka.
Le consolazioni del teatro erano molto più rare. Mia madre e mio fratello lo consideravano un piacere d’eccezione. Ma nel '42, quando Volumineide sbarcò sotto le feste di Natale al Politeama di Napoli, fu presa una poltrona anche per me. In quella rivista c'era già, fra l'altro, una delle invenzioni più memorabili di Totò — il suo celebre Pinocchio — e il bambino che ero allora ne rimase folgorato. A quell’apparizione misteriosa tutte le uggiose ossessioni di un'infanzia torturata da tre istituzioni solidali nel proporle una visione invereconda e servile della vita (una chiesa rugiadosa, un regime imbecille e una scuola irresoluta fra la brutalità fascista e la lilialità cattolica) svanirono di colpo. La grandezza di quel Pinocchio era la sua violenta misteriosità. Era per farmi ridere o farmi piangere che Totò aveva inventato quell’assurda e inespressiva fissità. quella crudele e burattinesca astrattezza, quella rigorosa e ritmica follia? Come poteva quell'impossibile oggetto suscitare simultaneamente la massima ilarità e il più doloroso turbamento, il più candido divertimento e il più raggelante stupore, lo sgomento più profondo e il piacere più infantile, sgangherato e liberatorio? Fu ridendo e spaventandomi a un tempo di fronte a quell'inquietante pantomima che scoprii, senza poter ancora nominare il senso di quella esperienza, ('ambiguità della vita e il potere della poesia.
Lo rividi nel '44 in Con un palmo di naso, nel ’45 in Imputati alziamoci, nel '46 in Eravamo sette sorelle, nel ’47 in Ma se ci toccano nel nostro debole, nel '48 in C'era una volta il mondo, nel ’49 in Bada che ti mangio e nel '56 in A prescindere, che dopo sette anni di assenza dal palcoscenico segnò la sua ultima apparizione teatrale. In tutte queste riviste Totò era di volta in volta Pinocchio o Napoleone, Wanda Osiris o il Figlio di Torio, il gagà romano a Capri o il rivale dell’onorevole nel celebre sketch del vagone letto, poi riprodotto quasi fedelmente in Totò a colori, il solo film in cui resti qualcosa della magia del Totò teatrale. Ma in quegli spettacoli che in quasi tutto ,il resto erano discontinui, slabbrati e grossolani, Totò era soprattutto il geniale organizzatore di quelle pazzesche e vertiginose cerimonie anarchiche e plebee che erano i finali interminabili delle sue riviste. Luogo privilegiato di queste cerimonie era la passerella, lungo la quale Totò non si stancava di correre, marciare o passeggiare trascinandosi dietro l’intera compagnia (comici trafelati, soubrettes eccitatissime, ballerine seminude, stremati boys). Suoi aiutanti indispensabili erano i musicisti dell’orchestra, e il batterista più di tutti gli altri, addetto com’era a scandire con la grancassa e i piatti gli estri mimetici del capocomico. Suo complice essenziale era ovviamente il pubblico in delirio, che non cessava mai di richiamarlo. Scopo del rito, infine, era il massacro delle istituzioni.
Non sto esagerando per nulla. Tutte le crudeltà e le dissacrazioni che ci vengono oggi proposte da un preteso teatro d’avanguardia non sono che lambiccature di fronte all'esplosiva violenza di quei rovinosi ed esilaranti «finali». Totò mimava una rivista militare? Tutta la retorica marziale franava nel grottesco. Totò mimava una processione? Tutto il beghinismo cattolico franava nel ridicolo. Totò mimava un funerale? Tutta l'ipocrisia religiosa franava nel dilegio. Totò mimava la marcia dei bersaglieri? Tutta la retorica patriottica franava nella derisione. Totò mimava un attacco alla baionetta? Tutta la mitologia guerresca franava nella beffa. Quei finali erano insomma una fragorosa successione di frane in fondo alle quali, travolti uno dopo labro da una frenesia pirotecnica, finivano tutti i pezzi dell'eterna imbecillità italica. In seguito, a teatro, non ho mai visto nulla di così allegramente distruttivo. Solo in quell’irresistibile racconto che è L'incendio di via Keplero di Gadda (come Totò, un conservatore lucido e temerario) soffia la stessa arietta delirante e sovversiva.
Forse sembrerà incongruo che l’anarchica allegrezza di Totò abbia raggiunto la sua massima intensità proprio verso la fine della guerra e negli anni del dopoguerra. In quegli stessi anni il mitico demiurgo del populismo sentimentale della piccola borghesia napoletana — il sentenzioso e moraleggiante Eduardo — si affliggeva e ci affliggeva con le sue querule meditazioni su quelle che a lui sembravano le «rovine morali» del dopoguerra, deprecando pateticamente l’agonia di un’istituzione — la famiglia nucleare piccoloborghese — che una sconfitta provvidenziale, l’arrivo degli alleati e il pareggiamento sociale prodotto da quegli eventi, avevano finalmente, benché in via del tutto provvisoria, incrinato o annichilito. Sempre in quegli anni Togliatti — come risulta dai suoi discorsi sul dopoguerra — non riusciva a veder altro, in quel che aveva trovato al suo arrivo da Mosca a Napoli via Odessa, che vergogna e disonore. Ancora in quegli anni il vanitoso Curzio Malaparte in quella stessa realtà vide solo un arbitrario pretesto per esercitarsi in una mediocre letteratura dell'orrore. Come dunque si giustificava e da dove proveniva l’allegrezza scatenata di Totò?
Proveniva dalla sua lucidità. Cosi Totò fu forse il solo artista che riuscì a cogliere quello spiffero di sovversione che investì il paese con la fine del regime e la liberazione, con l’occupazione alleata e col contrabbando, col whisky che nei mobili-bar installati persino nei bassi sostituì il rosolio e col boogie-woogie che rimpiazzò le chiesette di Rabagliati e le campagnole belle di Gino Buti. Ma soprattutto fu il solo che riuscì a intuire, con la libertà interiore dell’aristocratico plebeo, l'importanza dell'azzeramento sociale provocato da una catastrofe che costringeva tutti — signore e portinaie, figlie di principesse e figlie di bustaie. grandi professionisti e poveri nullatenenti, figli di papà e figli di nessuno — a fare le stesse cose per sopravvivere: derubare un ufficiale americano, commerciare con un sergente negro, andare a letto con un capitano inglese, arrangiarsi con un po’ di contrabbando...
Certo la vita allora era difficile, ma in compenso era tale per tutti. Era inoltre avventurosa, ma questo non sembrava a lutti un male. Infine era assai irriguardosa (chi s’inchinava più ai generati imbecilli, ai prefetti traditori, ai podestà boriosi, ai capufficio ottusi?), e questo era senz’altro divertente. Insomma la vera «nottata» — non già quella della «rovina morale» di cui il rispettoso Eduardo di Napoli milionaria pavidamente invocava una fine che avrebbe coinciso con l’inizio del trentennio democristiano, bensì quella di un ordine iniquo crollato, ahimè solo provvisoriamente, insieme al fascismo — era finita di colpo, come finiscono gli incubi, e l'anarchico / monarchico Totò, unico inconsapevole sapiente fra tanti inconsapevoli saccenti. festeggiava l’evento trascinando nella frana sbeffeggiatoria dei suoi «finali» tutti i simboli della nostra imbecillità.
Questa mia idea di un accordo essenziale tra l’allegrezza anarchica degli anni del dopoguerra e quella dei grandi «numeri» di Totò nelle riviste degli anni Quaranta può sembrare in disaccordo con la cronologia. Si obietterà che quel vento di beffarda sovversione spirava già nelle cose che Totò faceva negli anni Venti e Trenta, in quei numeri di variété dove lui, secondo i testimoni più attendibili (Zavattini, per esempio), in certi avanspettacoli molto più poveri e scalcagnati, ma involontariamente anche più rigorosi, delle riviste successive, aveva già dato il meglio di se stesso. Ma se in quegli avanspettacoli. che non potei vedere, soffiava la stessa arietta, vuol dire che lo spirito della grande cultura sotterranea alla quale Totò era ancorato — quella di una plebe così euforica e grandiosa da situarsi agli antipodi della depressione piccoloborghese — è nichilistico e anarchico da sempre. Occorreva solo un grande evento — come la generale follia del dopoguerra — perché in quello spirito, per pochi anni, ci riconoscessimo tutti.
Ruggero Guarini, «Il Messaggero», 26 ottobre 1977
Ruggero Guarini, «Il Messaggero», 26 ottobre 1977 |