Totò: uno, nessuno, centomila
Si può tentare una definizione del più popolare comico italiano 10 anni dopo la morte? Il grande successo che continuano a riscuotere i suoi film sta facendo giustizia di tante polemiche sulla loro «qualità». Ed è facile riconoscere in Totò l'interprete di un’Italia miserabile, capace di adattarsi spregiudicatamente alle più svariate mode culturali, trasformandole in oggetto della sua ironia schietta e corrosiva
«Cugino di Pulcinella e nipote di Arlecchino»: è forse la definizione che meglio ha sintetizzato la «cultura» di Totò, ma anche quella che più ha contribuito a darle il marchio del passato: la tradizione napoletana e la commedia dell'Arte, magari Plauto e i fescennini, con tutt’al più, di nuovo, un po’ di surrealismo di campagna alla Zavattini e Campanile. E’ forse lo stesso inconscio desiderio di trasformare la miseria in nobiltà che, quando se ne ripercorre la carriera, porta inevitabilmente a osservare che «solo alla fine» a Totò venne riconosciuto il ruolo che gli competeva nel cinema italiano.
Ma non si tratta più ora di rivendicare i film più sgangherati di Totò in opposizione a quelli «di qualità»: dieci anni son pur serviti a qualcosa. Quel che resta da fare è riportare Totò ai suoi anni, al suo cinema, che è cinema della miseria e dell’accattonaggio; vedere in lui non il flutto di un’evoluzione lineare radicata in tempi antichi ma il luogo della dispersione, della frantumazione dei modelli, dell’infinita disponibilità. Insomma, l'avanguardia.
Totò ci pare oggi l'unico vero attore e personaggio «interdisciplinare» (chissà come l’avrebbe detta lui questa parola) del cinema italiano. Specchio e prodotto di un cinema che si proponeva come spettacolo globale, riproduzione tecnica, a basso prezzo e per tutti, di tutte le altre forme di spettacolo e divertimento collettivo, il cinema di Totò integra e incrocia gli apporti della cultura popolare con i ricordi sfatti della cultura accademica e con i miti e i «media» della cultura di massa. Combina l'opera lirica con lo sport («La Maglia Rosa» cantata su un'aria rossiniana assieme a Coppi, Bartali e Kubler nel finale di Totò al Giro d’Italia): si adatta al mondo della canzone (Rondinella, Teddy Reno, Fred Buscagliene) e a quello della storia romana (Totò e Cleopatra, Il ratto delle Sabine). Coinvolge la televisione (Totò, lascia o raddoppia?) e i cinegiornali (uno dei suoi numeri più corrosivi è in una Settimana Incom che lo mostra alle elezioni del '48, mentre depone la scheda nell'urna con smorfie e lazzi tali da aspettarsi una denuncia per vilipendio alle istituzioni).
Nel sistema biologico del cinema italiano, Totò rappresenta insomma il plasma del gruppo zero, compatibile con tutto: gli altri comici del cinema e del varietà, i cantanti e le girls, i personaggi dello sport e del circo, i grandi attori e gli scalzacani. Ha le sue «spalle» preferite, ma accetta di far coppia con chiunque: con Orson Welles e con Rita Pavone, con Rossellini e con Mario Amendola. E’ napoletano, del Rione Sanità, ma, avendo fatto il militare a Cuneo, è uomo di mondo, conosce il francese «veramon», che vuol dire veramente) e l'americano («time is escudos»). Così si fa dirigere anche da registi stranieri, recita con Fernandel e De Funès, Pablito Calvo e Walter Pidgeon. E’ uno nessuno e centomila, è Totò Diabolicus.
Forse per questo una delle figure dominanti del suo cinema è il Travestimento (da marajà, da hostess, e da mille altri personaggi). Il tema del doppio, a lui che è Principe e guitto nella vita e sullo schermo, è naturale. E gran parte dei suoi film sono raddoppiamenti, parodie, in cui si pone a confronto col cinema d'autore e con i grandi successi internazionali (Fifa e arena, Totò-le-Moko, Totò d’Arabia, Totò, Peppino e la Dolce Vita). Ma poi gli succede, ben prima di essere ammesso di persona nel cinema d'autore, di portare sullo schermo testi di Cecov, di Pirandello, di Moravia. E intanto reincarna gli eroi del cinema popolare: Tarzan, Maciste, lo Sceicco. Ed è in questo eroe popolare che, lui cosi brutto. riesce a avere fra le braccia, tutte le dive e le divette del cinema italiano, maggiorate o no: Sofia Loren e la Pampanini. Sylvia Koscina e Tamara Lees.
Del resto è stato lui a introdurre nel cinema italiano il genere che si diceva sexy. Totò non è per bambini, i suoi film sono spesso «esclusi». sottoposti insieme alla censura estetica e a quella moralistica. E anche a quella politica, come per Totò e Carolina e Totò e i Re di Roma. Perché lui non lo dà a vedere ma dice la sua su tutto, la De e il Pci, gli americani e la legge Merlin, i teddy boys e la polizia. E partecipa alle mode culturali e agli «ismi» contemporanei: il neorealismo, un po' sul serio e un po’ con parodie magari involontarie, come Totò cerca casa; l'esistenzialismo, di cui ama ripetere la scena della «cave», musica tristissima, tutti annoiati e vestiti strambi. Finirà per entrare in contatto anche col marxismo, nelle sembianze di un vecchio corvo.
E chissà cosa gli sarebbe toccato di fare se fosse sopravvissuto in questi dieci anni. Lo avremmo visto senz’altro in Totò spara per primo di Stelvio Massi e in Il supplente del collegio femminile di Mariano Laurenti. Ma anche, ormai scoperto con tutti gli onori del cinema impegnato, in Totò, Peppino e le femministe di Dacia Maraini; Totò al Parco Lambro di Alberto Grifi; Totò contro Freud di Nelo Risi con la consulenza di Armando Vendiglione; Dish di Andy Warhol, con Viva Superstar, nella parte di un drogato da maccheroni che rimane senza la «roba». E magari Sesto Potere di Elio Petri, sceneggiatura di Ugo Pirro e Sergio Saviane, nella parte di un presentatore televisivo che medita il suicidio perché non riesce più a pronunciare «quisquilie e pinzillacchere».
Alberto Farassino, «La Repubblica», 15 aprile 1977
Alberto Farassino, «La Repubblica», 15 aprile 1977 |