Totò, che piacere rivederti
In sei telefilm la sua arte comica. Ecco come lo ricordano Macario, Taranto, Manfredi, Tognazzi e Gigante.
Roma, maggio
Sono sei telefilm, un’antologia di personaggi e macchiette, quelli più popolari fra il pubblico del teatro di rivista, che Totò riprese per il piccolo schermo. E' anche l'unica volta che lavorò in TV. Doveva morire pochi mesi dopo, nel ’67. Trasmessi uria prima volta dieci anni fa tornano ora sul video. Un’occasione per riparlare di Totò, discutere la sua validità d'artista. E' solo una maschera, un guitto geniale ma senza ambizioni, o è un «grande» della scena come, sia pure in modo diverso, Keaton o lo stesso Chaplin?
Secondo Daniele D'Anza, che lo ha diretto nei sei telefilm. «il suo talento è stato sacrificato dai copioni che gli hanno offerto. Avrà fatto più di cento film, tutti commerciali, nati soltanto per sfruttare l’enorme presa che aveva sul pubblico. Si giravano in due giorni, senza badare al contenuto: un grosso sketch centrale e poi quasi niente, né prima nè dopo. Ma lui un animale dì spettacolo lo è stato comunque, malgrado tutto»,
Bruno Corbucci, sceneggiatore del programma TV e di almeno 40 film, esclude invece queste «disgraziate e fatali» coincidenze: «Non facciamo lo stesso errore dei critici. Da vivo lo hanno accusato di superficialità e dopo, quando è servito — come è successo per tanti altri comici, a cominciare proprio da Keaton —, hanno voluto trasformarlo in un personaggio che non è mai esistito. Totò vale per quello che è, ha dato quel che doveva dare. Era un attore-maschera e basta. Come nella più classica commedia dell'arte, che prevede una maschera di Pulcinella o di Arlecchino, lui si era scelto la sua: era Totò. Che sia l'interpretazione più vera», dice ancora Corbucci, «è dimostrato dal fatto che il Totò che la gente ricorda ha il frac striminzito e il mento mobile, faceva ridere perchè scherzava sulle cose di tutti i giorni. Così come adesso, per esempio, si ride con Montesano e Villaggio. Anche se, l’opinione è di D'Anza, se fosse vissuto oggi, lo avrebbero valorizzato meglio. Lo stesso Pasolini, per il suo "Uccellacci e uccellini", se ne è servito soltanto a scopo culturale». In quanto ai giovani d'oggi, che vogliono a tutti i costi riscoprirlo nel cinema d’essai, «forse seguono soltanto una moda. E poi, lo dico contro di me, anche questa esperienza televisiva è stata un’occasione mancala. In TV Totò doveva seguire un testo prefissato e questo lo impacciava, soprattutto quando doveva ripetere le scenette di sempre, quelle che in teatro inventava ogni sera in modo diverso. Come ha fatto nell'unica occasione in cui, per aggiungere qualcosa di nuovo, lo abbiamo portato al Piper (allora il locale per giovani più in voga) e per lui è stato un po’ come tornare su un palcoscenico».
Ma cosa vedremo esattamente in questi telefilm? Una rielaborazione dei più famosi cavalli dì battaglia: dal direttore d'orchestra che nei momenti difficili ricorre alla marcia dei bersaglieri, al don Giovannino che, inseguito da un marito geloso, si finge un manichino.
NINO TARANTO
Principe, eccoci qua
Ho conosciuto Totò che avevo vent'anni: al Teatro Orfeo di Napoli eseguivo un mio numero, "Vicolo", che era una parodia di "Vipera", celebre canzone dell'epoca. Una sera, terminato lo spettacolo, mi si presenta Totò per chiedermi in prestito il numero. Fu così che, qualche tempo dopo, al Teatro Trianon, sempre a Napoli, vidi realizzala da Totò, in una maniera personale, questa mia creazione. Cominciò così un rapporto di reciproca stima che doveva trasformarsi in amicizia fraterna, con dei risvolti sul nostro lavoro che potrei addirittura definire singolari. Capitava infatti che, lavorando entrambi a Roma, io alla Casina delle Rose facessi la sua imitazione in "Le donne in generale" e lui, al Teatro Galleria, imitasse Nino Taranto «che imita Totò».
La nostra collaborazione continuò anni dopo nel cinema. Il primo dei sei film che realizzammo era "Totò truffa 62". Mi resi subito conto, io che avevo imparato scrupolosamente il copione, di aver fatto una fatica inutile. «Nino», mi disse, «ma ti pare che possiamo star dietro a quello che sta scritto su questi fogli?». Perche lui si scatenava, ma con naturalezza, senza essere accademico, riuscendo ad esprimere tutto ciò che la sua sensibilità gli permetteva di intuire anche dallo spunto più lieve. Proprio durante la lavorazione del film Totò espresse il desiderio che io incidessi per la mia casa discografica alcune sue poesie e canzoni.
Quando ascoltò "‘A livella", cosi come l'avevo incisa, si commosse; mi raccomandò di non tralasciare di proporla nei miei recital, l'ho detta molte volle; anche al suo funerale, durante la trasmissione in televisione, come commento che volli partisse dalla sua Napoli.
Ma non è soltanto il ricordo affettuoso che mi resta dell'amico e del grande attore. Ora è sepolto nella sua cappella gentilizia al Cimitero del Pianto, qui a Napoli, lì dove riposano anche Scarpetta ed Enrico Caruso; di questa cappella sono io che possiedo le chiavi e mi accade di capitarci spesso, per averne cura. Certe volte mi viene da dire: «Principe, eccoci qua. Ditemi come è andata», come quando, di notte, dopo lo spettacolo, si passeggiava a Roma in via Nazionale, scambiandoci confidenze. Sì!, perché io, malgrado le sue sollecitazioni, non sono mai riuscito a dargli del tu.
MACARIO
Meraviglioso clown
Che cosa posso dire di quello straordinario Pulcinella moderno che fu Totò? Per metà mimo, per metà attore, e tutto — nel cuore e nello spirito — napoletano, grande come soltanto i grandi napoletani sanno essere. Un meraviglioso clown, ecco; e io ritengo che clown sia la più bella e nobile definizione che si possa dare di un artista, quando sia capace, con un lazzo o una battuta, di interpretare e rappresentare la vita facendone un racconto.
Fui io, nel 1927, a procurargli la prima scrittura importante. Recitavo, a quel l'epoca, nella compagnia del cavalier Maresca e mi toccò di tornare con Isa Bluette. Allora, al Maresca disperato per la mia sostituzione, segnalai un comico che avevo visto più volte, di pomeriggio, al bar Apollo di piazza Duomo, a Milano. Era Totò, e lo ingaggiarono subito. Soltanto che commisero l'errore di insegnargli le cose che facevo io e come le facevo io. Così. la prima sera, fu un guaio. «Tu devi fare Totò perchè sei Totò». gli dissi. E da li nacque il Totò della rivista. Me ne fu sempre riconoscente, caro e generoso amico.
Da quando ho cominciato a recitare, un solo anno non ho fatto compagnia: nel 1963. Colpa di Totò: che, confidandomi il timore di avere ormai detto tutto nel cinema, espresse la speranza che insieme con me, forse, gli sarebbe riuscito di rinnovarsi. Ci impegnarono a girare un film: finimmo col girarne cinque. Tutti in quell'anno.
Qualche tempo fa ho letto su un quotidiano romano un titolo che mi ha lasciato perplesso: «Dove sono andati a finire i soldi di Totò?». lo vorrei sapere, piuttosto, dove siano andati a finire gli enormi gaadagni che hanno fatto i produttori dei film interpretali da Totò.
NINO MANFREDI
Questa non la sapete...
Che cosa si può dire di nuovo o di diverso di Totò che non sia stato già detto? Niente. Allora preferisco ripetere una cosa che sanno tutti — attori, comici e non — e cioè che Totò, il Principe in ogni senso, ha insegnato a ciascuno di noi qualcosa. Personalmente l'ho studiato a lungo e ho cercato di tradurre nel mio umorismo certi tempi, certi ritmi di questo straordinario attore che nel suo Paese non e stato capito fino in fondo (un Paese che pure deve la sua fortuna comica alle maschere), che ha — diciamo la verità — sprecato il suo straordinario talento.
Ripensare a lui significa recuperare per me una condizione di gioia (e credo che questo non capiti solo a me, vorrei dire anzi che in questi c'è la forza universale della sua maschera, ma anche rigustare il piacere del rapporto umano. Che avuto, per esempio, con Totò una storia di cani, che vorrei raccontarvi. C'era un randagio brutto e zozzo che mi seguiva sempre quando uscivo da una sala di doppiaggio al centro dì Roma: mi aspettava sulla porta, mi faceva festa, mi veniva dietro fino alla macchina, puntualmente tutti i giorni. lo ho molta passione per i cani e una mattina mi decisi a farlo salire in macchina. Lo portai a casa e lo tenni con me. Purtroppo il randagio era malato e per evitare che passasse l’infezione ai miei figli il veterinario mi consigliò di darlo via.
Ma a chi?, pensavo. L'ho raccolto dalla strada e adesso lo ributto sulla strada? Mi pareva una canagliata. Finché qualcuno mi disse di rivolgermi a Totò: lo sai che Totò mantiene un canile? Gli telefonai. «Me lo porti», disse. Andai col mio bastardo: Principe, grazie, però vorrei provvedere io al mantenimento, «Dove mangiano 150», rispose, «mangiano anche 151».
Avevamo girato insieme qualche film. "Totò, Peppino e la Malafemmina" e "Operazione San Gennaro". Quando dopo un cerio tempo ci rincontrammo su un set gli chiesi notizie del mio bastardo che lui aveva battezzato col mio nome. «Manfredi è morto», mi comunicò serio. Poi aggiunse: «Quello bravo, per fortuna, e ancora vivo».
UGO TOGNAZZI
Triste? Non è vero.
La mìa vita artistica e stata più volte legata alla presenza di Totò. Con lui, tra l'altro, ho girato due film, ma soprattutto la sua morte ha avuto per me un diverso sapore: al dolore immenso si aggiunse la soddisfazione — dolorosa in verità — di essere chiamato a sostituirlo nel film che slava girando proprio in quei giorni; Totò era impegnalo in "Il padre di famiglia" e Nanni Loy che ne era il regista pensò a me per portare a termine il lavoro, pur avendo io un tipo di comicità tanto diverso. A questo ricordo resto affezionatissimo e sono orgoglioso soltanto al pensiero di essere stato accostato alla sua figura. Con lui girai "Totò sulla luna" e "Sua eccellenza si fermò a mangiare": si trattò di due esperienze umane indimenticabili.
Molti hanno detto che fuori dal set era assai triste. Non è vero. Per me, che ero allora giovanissimo, ha sempre provato forte simpatia: una volta gli dissi che la mia compagna essendo di lingua inglese mi chiamava Jugo. Ebbene, la cosa lo diverti talmente che ogniqualvolta mi incontrava mi chiamava anche lui in questo modo ed ogni volta riusciva a dare alla voce un'intonazione diversa suscitando grandi risate tra i presenti. Quando ero ancora studente, e sognavo di fare l'attore comico, ricordo che ogni pomeriggio mi chiudevo nella mia stanza e dinanzi allo specchio tentavo di imitare i suoi gesti, la sua voce e con terribili sforzi mascellari anche la sua indimenticabile mimica facciale.
Mia madre sempre più preoccupata mi spiava e poi mi chiedeva :«Ughetto mio, sei proprio sicuro di sentirti bene?». Tutte le volte che, poi, al tempo della rivista, capitava a Cremona io passavo a teatro tutte le sere. Una volta, facendomi coraggio, gli chiesi l'autografo che porto sempre con me ancora oggi.
ELIO GIGANTE
Nato per il teatro.
Il Totò che ricordo è quello che recitava in teatro, quando ero suo impresario (dal '37 al '53) e anche dopo, perché continuai a seguirlo come semplice ma fedele spettatore. Il palcoscenico è stata la sua dimensione più vera, non la TV e nemmeno il cinema. Non gli vedi mai interpretare un personaggio di cui non fosse convinto, piuttosto preferiva cambiare copione, o rinunciava. Una volta, nel 1940, piantò in asso la compagnia durante le prove perché non ”vedeva” il gagà che Michele Galdieri aveva scritto per lui. La compagnia e la “gagarella”, cioè Anna Magnani, Lo sostituimmo con Mario Castellani, ma io non persi le speranze. Andammo a casa insieme continuando a discutere. A un certo punto Totò vede sull'attaccapanni la giacca del padre, una giacchetta corta, stretta, color latte. Da come rimane a fissarla capisco che il problema è risolto. La indossa: ”Ecco”, dice, ”mi sembro proprio il principe di Sirignano” (un playboy di allora), e intanto si guarda allo specchio schiacciando si con una mano i capelli pieni di brillantina; “manca un paio di baffetti e sono vestito”. Il difficile fu puoi convincere la Magnani ad andare in scena senza nemmeno una prova.
Anche lui aveva le sue” debolezze”, certo, come tutti sanno era un patito di titoli nobiliari: una vera e propria mania. Una volta a Napoli, subito dopo la liberazione, non lo vedo arrivare in tempo per lo spettacolo al Teatro Reale. Mi preoccupo e lo raggiungo a casa. Mi dice che non può muoversi perché impegnatissimo con Sua Maestà l'imperatore di Serbia. Mi trovo davanti un ometto vestito con un abito nero pieno di macchie: è in causa con la famiglia che gli ha negato i titoli e chiede un finanziamento. In cambio gli ha promesso di investirlo del titolo di principe appena possibile, per il momento lo ha nominato ambasciatore. La cosa, naturalmente, finì lì ma Totò, per parecchio tempo, si sentì davvero ”ambasciatore” .
Fiammetta Rossi, «Radiocorriere TV», anno LV, n.23, 4-10 giugno 1978
Fiammetta Rossi, «Radiocorriere TV», anno LV, n.23, 4-10 giugno 1978 |