Quel Totò non lo voglio in scena!

1980-Radiocorriere

Così diceva il capostipite dei Maggio: poi cambiò idea e quel giovanotto «sicco sicco» cominciò a far ridere le platee. Non avrebbe più smesso per mezzo secolo. La storia segreta del grande comico di cui la TV ripropone gli sketch più famosi.


Roma, novembre

Ottantadue anni, se fosse vivo oggi. Sarebbe uno dei «grandi vecchi» di questo Paese, come Sandro Pertini, come Eduardo o Paola Borboni. Ma non è vivo, se non per il fatto che le TV private continuano a usare e consumare la sua immagine cinematografica, caoticamente ogni giorno. Ora però che la televisione nazionale (Rete 2) dà spazio ad un ciclo organico, selezionando il meglio di ottanta dei suoi 115 film, può essere interessante esplorare la Napoli nella quale nasce Totò, tentare di capire cioè da quale Napoli viene questa maschera ineffabile.

Risaliamo dunque a 82 anni fa, a quel 1898 che forse scoppiò a ridere ascoltando il primo pianto di Antonio De Curtis nel cupo di vicolo Santa Maria Antesaecula, al rione Sanità, e rileggiamo quel periodo che va dal 1898 al 1922, quando Totò emigra, si trasferisce a Roma per raccogliere immediati consensi all’Ambra Jovinelli, il tempio dell’avanspettacolo.

1927 Antonio De Curtis 002 L

Napoli ha appena cominciato a fischiettare il ritornello della canzone che è ancora oggi la più famosa in tutto il mondo, ’O sole mio di Capurro e Di Capua. E si è già abituata a pronunciare una parola nuova, che viene dalla Francia, «cinema». E’ del 1897 infatti l’apertura del primo cinematografo in Galleria, la Sala Recanati. Ancora pochi, forse, sanno che in questo stesso periodo Napoli vanta il primo produttore italiano di film, Roberto Troncone, un fotografo che nel 1900 fonda una «manifattura cinematografica» e nel 1906 realizza un breve documentario sull’eruzione del Vesuvio che gli consentirà, con la vendita in tutto il mondo, di potenziare nel 1908 con capitali freschi la sua Partenope Film. Val la pena di citare una pellicola, Primavera di lacrime, lunghezza 250 metri, con Francesca Bertini. Un’altra parola, invece, «variété», anch’essa francese, fa parte ormai da tempo del linguaggio popolare.

I nomi che «chiamano», come si dice in gergo, sono quelli di Elvira Donnarumma, di Gennaro Pasquariello, di Armando Gill (l’autore di Come pioveva, per citare un solo titolo), di Nicola Maldacea (bersaglio preferito delle sue macchiette la decadente nobiltà partenopea), di Maria Campi, romana, che a Napoli miete trionfi immediati: è l’inventrice della «mossa», figura scenica di derivazione manco a dirlo francese, il «coup-de-ventre». E poi Peppino Villani, Anita di Landa, Lida Gys.

La stirpe dei Maggio è già spuntata. Beniamino — che con Pupella, Dante e Rosalia è uno degli epigoni di questa famiglia teatrale gloriosa — mi ha raccontato che conobbe Totò quando era «sicco sicco» (magrissimo). «Mio padre», dice il comico settantatreenne, «non lo voleva in compagnia perché Totò sfondava le scéne». In che senso? «Nel senso che il pubblico per indurlo a fare alcuni numeri fuori programma glieli sollecitava lanciando monete da due soldi o da quattro soldi, monete pesanti che finivano quasi sempre sui fondali di carta, bucandoli. E allora un fondale dipinto costava trecento lire...». Quali numeri? «I numeri da marionetta».

Beniamino Maggio parla di un Totò che ha 18 o 19 anni, il quale sta già applicando la lezione appresa da colui che considera il modello, il padre artistico, Gustavo De Marco. E’ lui il comico originale eccentrico, o meglio «il comico di caucciù». Figlio d’arte, era nato nei 1883 nel camerino della madre, Letizia Crispo, al Teatro San Ferdinando, durante la rappresentazione di I due sergenti. Si ritirò dalle scene nel 1923: Milano gli aveva dato fama nazionale e Milano gliela tolse. Mise su un negozietto di abbigliamento dopo aver sposato la canzonettista Cleo Miranda, al secolo Emilia Calise, che vive tuttora a Napoli (83 anni, risposata). Le macchiette più note di Gustavo De Marco erano Il bel Ciccillo, ripresa da Totò anche in un film, Il Paraguay, Fifì Rino.

I temi della comicità in quegli anni sono prevalentemente due: la fame e la donna. E quelli della musica leggera? L’amore (’A vucchella di D’Annunzio-Tosti), Voce ’e notte (rilanciata nell’ultimo dopoguerra da Peppino di Capri); le canzonettiste che sfoggiavano nomi francesi pur essendo napoletanissime (Lili Kangy, Nini Tirabusciò); e poi il sole il mare la luna le località turistiche (Torna a Surriento, tuttavia, è nata per ricordare al ministro Zanardelli che Sorrento non ha un ufficio postale: 1904).

Nel mondo della lirica la voce di Enrico Caruso si accinge a diventare mitica. Il tenore va a New York nel 1903 e il Metropolitan gli spalanca le porte. Naturalmente sui palcoscenici cittadini c’è Pulcinella. A calarsi sul viso la prestigiosa maschera è Salvatore de Muto, colui che più tardi la passerà ufficialmente a Eduardo De Filippo (nato nel 1900, appena due anni dopo Totò). Gli scrittori, i poeti, i commediografi si chiamano Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Raffaele Viviani, Eduardo Scarpetta.

Sono riferimenti che danno un’idea abbastanza chiara della vivacità del mondo dello spettacolo in questo periodo a cavallo dei due secoli. Però, come spesso avviene nella lunga storia di Napoli, i fermenti culturali e quella che siamo abituati a definire «la fabbrica del divertimento» contrastano notevolmente con il clima politico e sociale. Dopo l’unità d’Italia la città è stata defraudata di tutte le sue riserve valutarie (oltre 400 milioni oro del Banco di Napoli) e l’amministrazione centrale, lo Stato, la trascura. Essere stata una capitale «europea» e non esserlo più è un trauma da cui Napoli stenta a guarire. Per giunta l’amministrazione comunale si macchia di corruzione, clientele politiche e camorra imperversano. La popolazione cittadina si potrebbe dividere in tre blocchi: i superstiti di una nobiltà in sfacelo, la grande e la piccola borghesia, il proletariato e il sottoproletariato.

La classe operaia, se di classe operaia si può subito parlare, guarda con i suoi esponenti più consapevoli a Labriola e al partito socialista. Il gruppo meglio organizzato risulta essere quello dei ferrovieri. Il solo fatto che percorrono l’Italia ogni giorno li fa portatori di informazioni.

Eduardo Piromallo, «Radiocorriere TV», 1980


La sua prima "macchietta"

Dal 1971, epoca del suo rilancio, a oggi sono usciti diversi libri che affrontano il fenomeno Totò. Segnaliamone tre per chi sul grande comico volesse sapere di più: «Totò, l’uomo e la maschera» di Goffredo Fofi e Franca Faldini (che visse col principe 15 anni), ed. Feltrinelli; «Totò, principe del sorriso» di Vittorio Paliotti, Fiorentino Editore; «Totò» di Orio Calderon, Gremese Editore, con prefazione di Federico Fellini, filmografia completa. Un editore napoletano, Colonnese, ha poi ristampato qualche mese fa le «Poesie d’amore» di Antonio De Curtis, alcune delle quali inedite, scoperte dal cugino Edoardo Clemente, suo segretario dal 1950 al 1967, lo stesso che nella casa in cui abita a Pollena Trocchia, un paesino nei dintorni di Napoli, custodisce il «baule teatrale» di Totò.

L’attore nacque a Napoli il 15 febbraio 1898 e morì a Roma il 15 aprile 1967: «Chiudo in fallimento, nessuno mi ricorderà», dichiarò nella ultima intervista. Pessimo profeta. Il primo film della carriera è «Fermo con le mani!», del 1937; gli ultimi: «Operazione San Gennaro», con Nino Manfredi, e «Uccellacci e uccellini» di Pasolini) del 1966. La fatica finale, tra il gennaio e l’aprile del ’67, fu televisiva, una serie intitolata «Tuttototò».


Tra le prime macchiette di Totò, celebre quella assunta dal repertorio di Gustavo De Marco, «Il bel Ciccillo». Eccone un brano, per cortese concessione dell’editore Luciano Villeviéille Bideri.

IL BEL CICCILLO

Io di nome mi chiamo don Ciccio
e mi firmo don Ciccio Salciccio;
in ovunque m’impaccio e m’impiccio,
ove vado vi faccio un pasticcio,
e così per un puro capriccio
don Ciccio-pasticcio mi sento chiamar.
Vado sempre in biroccio,
somiglio a un bamboccio
dal mulo o dal ciuccio mi faccio tirar.

All’inverno vo a caccia,
d’estate in barcaccia,
di nulla mi cruccio,
mi faccio ammirar.

Vieni a me mio bebé,
sento dir chi sa perché!
Son bello, son ricco
e le donne le scaccio...
ma dopo d’averle ridotte uno straccio;
ognuna la testa vuol perdere invano
per Ciccio pasticcio pallottola in mano.


Radiocorriere-TV
Eduardo Piromallo, «Radiocorriere TV», 1980

Riferimenti e bibliografie:
  • «Il bel Ciccillo», editore Luciano Villeviéille Bideri