Totò, ladro di cuori re della risata

Totò Malattia

Totò è nato in un pomeriggio di ricreazione al collegio Cimino di Napoli, “figlio clandestino di un incidente con il precettore". Un collegiale e un giovane precettore benvoluto dai ragazzi si battono in uno scherzoso incontro di boxe. I colpi vengono dati per finta, si bada più a mostrarsi abili nello schivarli che nel portarli. Finché, nella foga del combattimento, parte un destro che va a stamparsi netto e preciso sul volto del ragazzo. Sgorga il sangue dal naso, che subito si gonfia paurosamente. Si provvede con impacchi di acqua fredda, l'emorragia viene bloccata, sembra che non ci sia niente di grave. Soltanto più tardi i danni di quel pugno appariranno evi-enti: il setto nasale è stato deviato, atrofizzati i muscoli di una mandibola, deturpata la simmetria del volto, con un centimetro di dislivello tra un lato e l'altro. Insomma, quello che prima era un viso ovale, regolare, illuminato da grandi occhi scuri e pensosi, è diventato una maschera dai lineamenti distorti: la maschera di Totò.

Quando accadde questo episodio che avrebbe segnato tutta la sua vita, il futuro comico aveva dodici anni. Era venuto al mondo sul finire del secolo, il 15 febbraio 1898, in una povera casa di una povera strada nel cuore di Napoli, via Santa Maria Antesaecula. Ufficialmente non aveva padre e venne registrato all’anagrafe con il nome di Antonio Clemente, figlio di Anna Clemente. Solo molti anni più tardi la madre sposerà il principe Giuseppe De Curtis, che riconoscerà Antonio come figlio naturale. Dal padre, Antonio non riceverà nè soldi nè beni, dato che lo spiantato don Peppino aveva anche lui il suo daffare pei' mettere insieme di che vivere. Erediterà però il diritto a fregiarsi delle sue ascendenze nobiliari, che non erano nè poche nè prive di lustro. E questo diritto Antonio lo rivendicherà puntigliosamente per tutta la vita, ignorando gli scherni della gente e lottando in tribunale per recuperare titoli le cui radici affondavano nei secoli più remoti e toccavano perfino l’antica dinastia dell’impero di Bisanzio: ne metterà insieme una sfilza chilometrica che si apriva con il titolo di Principe, che è poi l'appellativo con il quale pretendeva di essere chiamato.

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Quella mascella storta è tutto quanto gli resta della vita di collegio: la licenza ginnasiale che, nei sogni della madre, avrebbe dovuto aprirgli la strada per una "brillante" carriera di prete o di ufficiale, si rivelerà fuori della sua portata. Antonio non è mai stato uno scolaro modello: basti dire che alla fine della quarta elementare, invece di essere promosso in quinta era stato retrocesso in terza. Se dunque negli studi andava avanti come i gamberi, tanto valeva fargli imparare un mestiere. E così, a 14 anni, lo troviamo in cima ad una scala a pioli, con in testa un berretto fatto di carta di giornale e in mano spatole e pennelli, a stuccare pareti e ad incollare carta da parati.

La paga non è alta, ma quel lavoro lo tiene almeno lontano dai perdigiorno e dalle cattive compagnie. Non però da Carmela, che è la 'puttana' del quartiere e che si incarica della sua iniziazione sessuale, lasciandogli un interesse precoce per “quelle" cose ed una conseguenza spiacevole che si manifesterà di lì a qualche giorno e che gli costerà una massiccia dose di ceffoni materni. Anche la passione per il teatro si manifesta in questo periodo. Appena mastro Alfonso gira gli occhi, Antonio svicola dalla bottega di imbianchino e corre ad applaudire Gustavo De Marco, un comico contorsionista che fa impazzire Napoli con il suo repertorio di macchiette acrobatiche. Antonio le conosce tutte a memoria e si diverte a ripeterle davanti allo specchio. La sua abilità nell'imitare il comico del momento la metterà in mostra durante una “periodica”, cioè una di quelle riunioni familiari che si organizzavano una volta la settimana in casa di qualche vicino e che servivano a far passare una serata allegra alla presenza di papà, mammà, zii, nonni, bambini, giovanotti e ragazze da marito. Ad una di queste periodiche, Antonio era rimasto incantato dagli occhi scuri e dai lunghi capelli di Vincenzella, una sua coetanea che cantava languide melodie da strappare il cuore. Per starle vicino, saltò anche lui in mezzo al cerchio e improvvisò uno sketch alla De Marco, che fu accolto da un subisso di applausi e da un sorriso amoroso di Vincenzella.

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Arriva la guerra e con essa un sussulto di patriottismo che spinge Antonio ad arruolarsi volontario. Assegnato ad un reggimento di stanza a Pisa, invece di essere mandato ài fronte viene destinato in Francia, presso un reparto di marocchini. Prima della partenza, il colonnello si fa un dovere di ammonire i soldati a non fraternizzare troppo con i marocchini perché, si sa, hanno gusti e tendenze particolari. Suggerisce anzi di tenere sempre un coltello a portata di mano, per scoraggiare eventuali assalti. Antonio decide di non correre il rischio. «E che son scemo io? Va bene morire per la patria, ma non essere marocchinato!». Alla stazione di Alessandria si fa venire un attacco di epilessia e simula così bene che viene ricoverato d’urgenza all'ospedale militare. La sua guerra finisce qui. Gliene resta, oltre al terrore per i marocchini, un'invincibile avversione per la genia dei caporali, nata dalle angherie a cui lo sottoponeva quotidianamente un tipico rappresentante di questa razza, che «gonfio quanto una vescica di strutto, imbrillantinato, si aggirava pettoruto, sbraitava con voce metallica e andava a spidocchiare ogni minima trasgressione, trattandoci come un padreterno che pesta una merda». È questo astio covato per tanti mesi, giorno dopo giorno, che, durante una recita in caserma, gli suggerisce quel «Siamo uomini o caporali?»: è la sua prima battuta di successo e resterà la più famosa.

Di ritorno dal servizio militare, si dedica interamente al teatro, nonostante l'opposizione della madre e le prediche del padre. Compagnie scalcagnate e teatrini di periferia, dove interpreta le solite macchiette di Gustavo De Marco. Con scarso successo se, dopo una recita al teatro “Della Valle” di Aversa che si conclude con un uragano di fischi e che lo costringe a fuggire letteralmente dal palcoscenico, decide di prendere su le sue poche cose e di andare a cercar fortuna a Roma. Neanche Totò, come si vede, è stato profeta in patria. Lo diventerà sull'onda del successo che incontrerà nei grandi teatri della capitale. Ma anche qui, quanta fatica prima di imporsi! I guadagni sono così scarsi che per nascondere le toppe dei pantaloni porta il cappotto anche d’estate. «Che volete? Sono freddoloso per natura», si giustifica con gli amici.

Finché non si decide a prendere il toro per le corna, che nel caso specifico è Giuseppe Jovinelli, proprietario dell'omonimo teatro in piazza Guglielmo Pepe, l'uomo il cui appoggio è nel varietà una garanzia di successo. Ottiene un'audizione, esegue “Il bel Ciccillo”, una famosa macchietta di De Marco, e si vede sottoporre un contratto. La sera del debutto si scatena in una mimica così disarticolata che trascina la platea all'entusiasmo. Un trionfo: il “comico caucciù” e il “burattino di gomma”, come viene subito soprannominato, ha conquistato Roma. Resta a lungo allo Jovinelli, con compensi sempre più elevati man mano che la sua popolarità va crescendo, poi lavora in altre compagnie, anche in quella, famosa, dei Maresca. Finché arriva il momento del grande ritorno a Napoli, dove il destino gli riserva il primo amore e la prima tragedia della sua vita.

Una sera, in un palco del teatro Nuovo dove lui si esibisce, compare la donna di cui parla, in bene e in male, tutta la città: la “vedette internazionale” Liliana Castagnola, giunta sul golfo qualche settimana prima con un contratto del teatro Santa Lucia. Alta, sottile, occhi verdi e pelle bianchissima, raffinata di modi e ricca di fascino, Liliana gira su una Rolls Royce donatale da uno spasimante, indossa pellicce di ermellino e cincillà, sfoggia più gioielli di una regina. Per ei un industriale si è sparato un colpo di pistola, un principe ha dilapidato il suo patrimonio e due gentiluomini si sono battuti in duello. Non c'è moglie di nobile o di milionario che non tremi per la sua presenza in città. Ebbene, quella sera, al termine dello spettacolo, Liliana fa avere a Totò un biglietto di ammirazione, che lui contraccambia con un mazzo di fiori. Segue un appuntamento, una notte passata a discorrere fino all’alba, mesi di reciproca passione. Quella donna di 35 anni che ha ai suoi piedi i più bei partiti di Napoli si è innamorata con l’entusiasmo di un adolescente di un attore agli inizi della sua carriera, non ricco, non prestante e meno che mai bello. Anche lui l’ama, ma in maniera meno accesa e possessiva, in ogni caso senza mai formulare giuramenti per l'eternità. Si conosce bene, Totò, e sa che non è nel suo temperamento restare a lungo fedele a una donna, sia pure splendida e ardente come la Castagnola.

Infatti, in capo ad un anno, si accorge di non provare più nulla per lei. Per troncare la relazione firma un contratto con la compagnia di Cabiria, una splendida soubrette di quegli anni, che l'avrebbe portato a recitare a Torino. Durante l’ultimo incontro, Liliana lo supplica di condurla con lui, lui e ripete che intende partire da solo. Quando la lascia alla pensione degli artisti dove lei alloggia, tira un sospiro di sollievo: finalmente è finita. Non immagina quanto sia vero. Salita in camera la Castagnola prende carta e penna e scrive: «... Grazie del sorriso che hai saputo dare alla mia vita grigia e disgraziata. Non guarderò più nessuno... Te lo avevo giurato e mantengo. Stasera, rientrando, un gattaccio nero mi è passato dinanzi. E ora, mentre scrivo, un altro gatto nero, giù nella strada, miagola in continuazione. Che stupida coincidenza, è vero?...». Il mattino dopo, la cameriera della pensione la trova distesa sul letto, serena, quasi sorridente. Aveva inghiottito l'intero contenuto di un tubetto di sonnifero. Totò rimase sconvolto dalla morte di Liliana e il suo carattere diventò ancora più scontroso di quanto non fosse per natura. Quando ebbe i mezzi per costruirsi la tomba di famiglia, vi fece tumulare le spoglie della cantante, che ora riposa al suo fianco, come una sposa.

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Intanto, però, una sposa se l'era trovata davvero. Una sera a Firenze, aveva incontrato una deliziosa ragazza di 16 anni, Diana Bandini, napoletana, figlia di un generale, ospite di parenti nella città toscana, grande ammiratrice della comicità di Totò. Il quale provò subito per lei una forte attrazione, ma si sforzò di respingerla quando ne conobbe la giovane età. Fu lei a volerlo. A Napoli, dove erano tornati entrambi, fuggì di casa per raggiungerlo in teatro. Lui le fece una specie di paternale e la rimandò dal padre. Con il risultato che qualche sera dopo se la ritrovò davanti. Era evidentemente inutile resisterle, nè Totò era il tipo capace di dire troppi no ad una donna innamorata. Dopo un burrascoso colloquio col padre di lei, che sì rifiutò di concedere il consenso per il matrimonio, se la portò a Roma e in mancanza di una casa si stabilirono in un alberghetto di via della Vite. Qui, pochi mesi dopo, vide la luce Liliana, chiamata così in onore della Castagnola.

Quando, finalmente, nel 1935, fu celebrato il matrimonio, l'unione tra l'attore e la sua giovane moglie era già in crisi. Nel provocarla aveva certamente avuto la sua parte la differenza d'età e la difficoltà per Diana di abituarsi al ruolo di moglie vecchio stile che Totò voleva imporle. Ma soprattutto aveva influito l’estrema volubilità dell’attore, il suo bisogno di correre dietro ad altre donne, il suo interesse, non solo professionale, per le ballerine della troupe. In breve la coppia si sfasciò. Dopo una prima separazione durata alcuni mesi, marito e moglie tornarono insieme per amore di Liliana, che nessuno dei due voleva la sciare in collegio. Questo accordo provvisorio durò tuttavia solo fino al '40, quando si divisero definitivamente e iniziarono le pratiche per ottenere l'annullamento.

I dispiaceri familiari erano compensati dai successi nel lavoro. In questo periodo Totò fa compagnia con Anna Magnani e sulla piazza di Roma non ci sono altri spettacoli che possano rivaleggiare con i loro. Inoltre lo riscopre il cinema, che sembrava averlo dimenticato dopo alcuni infelici tentativi di lanciarlo negli anni precedenti. Al ritmo di quattro pellicole all’anno, comincia a sfornare una serie lunghissima di film che si interrotti perà solo con la sua morte. Ad ogni nuovo film I critici storcono il naso, mentre il pubblico fa la fila ai botteghini: Totò sarà l’attore di cinema più sfruttato dai produttori, più ammirato dalla gente e più sbeffeggiato dai critici, che solo dopo la sua scomparsa faranno tardiva ammenda.

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Il successo clamoroso, l'inizio di quella che sarà per 15 anni una vera e propria “Totomania”, arriva con “Fifa e arena”. “47 morto che parla" gli porta un ulteriore supplemento di popolarità e gli occhi di giada dì Silvana Pampanini, sua partner nel film. Occhi che lo incantano, fino a farlo innamorare perdutamente. Gli incontri fuori del set non gli bastano, gli inviti continui, accompagnati da cestini di fiori, sono omaggi troppo inadeguati a tanta bellezza. Le propone di sposarla. «Principe, sono lusingata della vostra offerta, ma io vi voglio bene come a un padre»: la risposta di Silvana lo raggela. La delusione e il tormento sfoceranno nei versi amari di una canzone che diventerà subito popolarissima: "Femmena, tu sì 'na malafemmena... chist’ uocchie 'e fatto chiagnere... lacreme 'e ’n famità". (1)

Passa dei mesi angosciosi. La solitudine, accentuata più che attenuata dalle lettere degli ammiratori che riceve a pacchi, gli pesa in modo intollerabile. Poi, all'improvviso, ecco che una foto sul giornale gli accende il cuore e gli ridà la gioia di vivere. E la foto di una giovane attrice appena tornata in Italia dopo una permanenza di due anni a Hollywood. La didascalia dice che si chiama Franca Faldini e che ha 20 anni. Totò le manda un mazzo di fiori. Riceve un biglietto di ringraziamento. Telefona per chiedere un appuntamento. Invece di una risposta incoraggiante, trova una vaga promessa. L'incontro avviene solo un paio di settimane dopo, ad un pranzo a cui sono stati invitati entrambi. «Senza un motivo», ricorda Franca Faldini in "Totò: l'uomo e la maschera", «mi pregò di mostrargli le mani. Pensai che si dilettasse di chiromanzia e glielo chiesi. Rispose che, macché, era perché le mani, subito dopo gli occhi, rappresentavano, per lui, l’attributo più importante di una donna. Perfette o meno, denotavano razza, origini, carattere, temperamento, un’infinità di sfumature. Le mie gli andavano bene».

L’unione con Franca doveva rappresentare il traguardo tinaie per il cuore vagabondo di Totò, il saldo e tenero legame che l'avrebbe accompagnato fino alla morte. Altre tragedie lo colpiranno in questi ultimi anni, mentre, quasi per un gioco beffardo del destino, i film che continuerà a interpretare a ritmo serratissimo, gli porteranno altra popolarità e altri soldi. Nel 1954 Franca dà alla luce un bambino. È finalmente il maschio che Totò desidera da sempre. Traboccante di felicità, lo chiama Massenzio. Ma non fa in tempo ad amarlo: lo stesso giorno in cui è nato, il bambino muore.

Nella primavera del '57 perse completamente la vista, che già da anni si era gravemente indebolita. Accadde sul palcoscenico del Politeama, a Palermo, durante la tournée di "A prescindere". Improvvisamente si avvicinò a Franca, che per pura coincidenza quella sera sostituiva la soubrette infortunatasi in una piroetta, e le mormorò: «Non ci vedo, è buio pesto». Nessuno in sala si accorse di niente. Totò portò a termine lo spettacolo e anche quella sera, come sempre, mandò il pubblico in delirio. Alla fine tornò ripetutamente sul proscenio a ringraziare la platea, con passo incerto e muovendosi ad intuito. Ma la tournée venne interrotta.

Il comico si rintanò nella penombra del suo appartamento di via Bruno Buozzi.

Il sipario calò per sempre alle tre e mezzo del mattino del 15 aprile 1967. La sera prima aveva detto di non sentirsi troppo bene. «Ho un formicolio al braccio sinistro», brontolò. Franca capì immediatamente. Per tutta la notte fu un susseguirsi di attacchi cardiaci, fino all’ultimo, che io stroncò. Prima di spirare, mormorò: «T’aggio voluto bene assai, Franca. Proprio assai».

«Telesette», anno II, n.49, 12 dicembre 1980


Telesette
«Telesette», anno II, n.49, 12 dicembre 1980

NOTE

  • (1) La canzone "Malafemmena" fu ispirata da Diana Bandini Rogliani, la moglie di Totò, non da Silvana Pampanini.