Bei tempi, il fascismo era caduto e si rideva con Totò
Il regime fascista annoverò fra le sue massime pretese quella di «incidere nel costume». E forse gli riuscì di incidere, ma solo superficialmente: mai di penetrarlo e condizionarlo realmente, quel pur misero e fragile costume italiano. I giovani, in genere, venivano sollecitati da ispirazioni assai lontane dalle fonti di cultura fascista e più vicine, piuttosto, a quelle che sorgevano dall’ombra delle sale di cinema e di varietà. Com'era stato impossibile costringerli a preferire le divise di Starace alle giacche di Gark Gable, così non c'era verso di far loro accettare parole d'ordine littorie, alle quali preferivano gli apoftegmi di Totò e i suoi neologismi, quelli che poi trasportavano nel loro eloquio quotidiano.
A taluno può ancora sembrare poco seno che si rivestano di serietà eventi per loro natura del tutto fatui, ma la stona è tuttavia costellata di buffonerie, poi rivelatesi assai più sagge della tragicità che si sono trovate a contrastare. Non è impossibile capire il significato della predilezione dei giovani, negli ultimi anni del «ventennio» — quelli cupi della preparazione della guerra, e della guerra — per i travolgenti strambotti di Totò Si può dunque affermare che Totò concorresse a mantenere alla larga il costume fascista? Certo in Germania Totò non c'era: sarebbe difficile immaginare i giovani tedeschi, in quegli anni mostruosi, dediti a ripetere, con esattezza di timbro, frasi corrispondenti a «mi scompiscio» e «alla faccia del bicarbonato di sodio»!
Totò, fra l'altro, proponeva dalla ribalta una complessa gestualità che comportava caparbia applicazione da parte del giovanotto che voleva impadronirsene. Dal proverbiale flettersi ad arco, quasi a sfiorare il piancito con il mento, allo spostamento dell'asse del collo in un macabro, meccanico dondolio, a quel gesto discorsivo, infine incomprensibilmente allusivo, che consisteva nel concludere una frase con un moto a semicerchio della mano socchiusa, come per svitare a metà una lampadina e che veniva compiuto unitamente ad una strizzata d'occhio. Era, quel gesto, una sorta di parodia dell'allusione ironica e la si accompagnava sconvenientemente anche a detti imponenti, attribuendo ad essi una demenziale malizia. «Italia proletaria e fascista, in piedi!»: dopo aver pronunciato questa frase si compiva quel gesto, che, tradotto in battuta, poteva essere inteso cosi: non sfugga l'occulto significato di queste parole.
Se non questi «scimmiottamenti*, che cosa faceva il cinema di quel periodo, invece di filmare fedelmente lo sketch del convegno amoroso fra Totò famelico gagà e Anna Magnani scalcagnata peripatetica? L'aura indecorosa e fiera che ammantava le due striminzite figure; gli spennacchietti di lei e il suo misero disdegno; i capelli di lui, dritti impeciati sulla nuca come una cresta di ferro, e la sua avvilita vanagloria; il comodino da notte in funzione di mobile-bar, il gioco del dialogo, comico, intenso e disperato, che ogni sera edificava se stesso divenendo man mano una cattedrale dell'arte scenica: tutto questo, per chi ha avuto la fortuna di assistere a quell'evento, costituisce un ricordo che è premio costante, saldo perennemente in attivo di fronte a ogni possibile passivo dell'arte teatrale passata, presente e futura. Forse anche a fronte di certe imprese megaregistiche che asciugano i bilanci degli enti promotori mentre dilagano fuori del boccascena e fuori del teatro.
Il pubblico giovanile di quegli anni era consapevole che la comicità di Totò conteneva una inafferrabile carica di preconcetta opposizione verso tutto e tutti? Probabilmente no, così come era generalmente all'oscuro di modi più propri (e rischiosi) di «opporsi». II ribellismo di Totò del resto rimase sconosciuto allo stesso Totò: egli era tanto contrario alle regole che ignorava totalmente anche le proprie. Ed era un radicale anarchismo quello che, muovendo dalla frantumazione della tradizione scenica, trascinava in volo gli spiriti oppressi dal conformismo e dall'ignoranza verso imprecise libertà del tutto inutilizzabili.
Quanti giovani che avrebbero voluto essere uomini anziché caporali, che ritenevano di poter esorcizzare il credere, l'obbedire e il combattere con l'allegro patetico culto dell' «a prescindere», sono poi morti di là dai monti, di là dai mari? Si riuscì a prescindere dal costume fascista, ma certo non fu, né poteva essere, impresa sufficiente.
Furio Scarpelli, «L'Unità», 29 gennaio 1983
Furio Scarpelli, «L'Unità», 29 gennaio 1983 |