Dove sta Totò
Dal revival sessantottino al periodo di saturazione provocato dall’orgia dell'emittenza privata. Le radici e le ragioni di un carisma sovversivo.
Totò segna una brutta e quasi una nera pagina sull’antropologia, la psicologia e l’ allegria napoletane. Le abbatte tutte e tre e, a suo modo, ne descrive la storia. Totò non fa un passo avanti nei tempi moderni. Totò va direttamente collocato nel Seicento, al tempo delle pesti e della fame nera, dove la vita, per chi non è regnante o un nobile, è semplicemente un’avventura spaventevole - o ridanciana alla maniera del picarismo spagnuolo - nel regno dell’ orrore.
L’antropologia: Totò è pallido, storto, sbilenco, con la mascella deforme. Egli sarà stato partorito forse anche da una principessa, ma una principessa dei vicoli, dei bassi, del formicaio umano, denutrita e sbattuta. Totò è uno di quei tipi fisici che si presume siano stati generati da una madre e da un ventre collettivi, come la regina fa con il suo alveare. Il suo compagno di strada sarà stato nella sua fanciullezza un ragazzo demenziale e astuto come l'impareggiabile Vardiello del «Cunto de li cunti» di Basile. Non riesco a pensare che egli abbia avuto un’infanzia regolare. Fin da allora, Totò dovette cominciare a scendere nell’ abisso della gesticolazione, come quella degli animali: dei cani, dei gatti, delle scimmie, ecc. per dire agli altri che aveva fame, sete, ecc.
La sua psicologia: è una conseguenza della sua antropologia. È una psicologia sommaria, affatto illogica e astrusa; giacché non si può salire alla luce della ragione se non sono soddisfatti gl’ istinti primordiali. In tutta la sua opera di attore, Totò, come tutti sanno, non ragiona mai. Tende a una sola meta: ottenere qualcosa.
Pulcinella nasce nel Seicento. A rappresentarne le sue avventure saranno molti fino a Petito. Ma Totò in costumi apparentemente moderni, non lo rappresenta, lo incarna. Pulcinella non è esistito. Fu un’ invenzione dell'immaginario collettivo e della fame del secolo e, qua si verifica il miracolo, oltre trecento anni dopo, Totò ne eredita l’ossessione logorroica, la confabulazione ludica, un’ideorrea con insalata di parole, provocata da una sorta di lesioni cerebrali e la gesticolazione meccanica e frenetica.
Non so se Totò ne avesse coscienza, ma, secondo me, egli doveva sapere qualcosa di questo suo ultracentenario progenitore onirico. Ne ebbi una prova una volta. Totò mi invitò a Roma perché leggessi le poesie de «’A livella». Lo trovai sul set e lo appellai: «Principe». Lui rispose: «’O principe d’ ’o cazzo! Mi volete sfottere?». E per due ore filate, bloccando le riprese, sedia contro sedia, non ci fu versò di liberarlo della paurosa miseria del suo passato. Mi disse che recitava in cambio di un filoscio. Per risparmiare i pochi centesimi del tram andava a piEdi andata e ritorno dalla Sanità a Posillipo per recitare in un teatrino di avanspettacolo, ecc. Di Napoli ricordava la precarietà, il disagio, la fame.
L’allegria? Io quando vedevo recitare Totò mi intristivo. Sentivo remoto il «Petrouschka» più che il «Pulcinella» di Stravinskij: quando la maschera tenta di diventare con tutte le sue forze un uomo e. non vi riesce, anzi, sente il legno osseo che gli sta dentro. Vero è che, essendo il suo mondo aggrappato al quotidiano, ridotto nei limiti di appetiti mai soddisfatti, Totò stravolge il dialetto, entrando di prepotenza nel grottesco surreale. Per quest’uomo incompiuto le parole erano giocattoli di pezza, palle di carta, filastrocche.
Spiace dirlo, ma Totò non sarebbe stato un «maradonista» organico. A vent’anni dalla morte, si possono già valutare corsi e ricorsi del fenomeno: ma se c'è una costante fissa nel va-e-vieni delle mode è quella della sua non-omologabilità destabilizzante.
Attorno al giro di boa tra i Sessanta ed i Settanta, il gauchisme universitario aveva sfondato il fronte dell’ufficialità critica, praticando in allegria il vizio di Totò nei cinemini di periferia ed imponendone, poi, teoricamente la misconosciuta insostituibilità. La prima piroetta post-mortem dell’attore era, insomma, dedicata all’occhiuto intellettuale lukacciAno, tetro ed allora incontrastato custode della «parte buona» del cinema, quella onesta ed illibata dell’Arte con la maiuscola (e la funzione sociale incorporata). Quell’innamoramento travolgente, quella fruizione disinibita prescindevano, infatti, dal Totò neorealista e dal Totò acculturato e riguardavano i film dei Mattoli, Corbucci, Bragaglia e Mastrocinque dove il genio dell’attore è rintracciabile allo stato puro, abbagliante ed incontenibile come un soffione di vulcano. Attraverso le pagine tempestive e - dobbiamo ribadirlo - definitive di Goffredo Fofi, acuto portabandiera della cinefilia sessantottina, veniva precisandosi il motore «camuffato» del revival inviso agli esperti. L’inividualismo allucinatorio ed invasato, plebeo ed insolente di Totò - sdoppiando, triplicando, decuplicando 1’ esilità delle trame - cominciava a visualizzare il balletto ghignante e perverso di un'umanità degradata, rivisitata col sorriso selvaggio del reduce e del sopravvissuto.
Dietro la maschera non c'è ombra di speranze piagnone ma la caligine della sfiducia assoluta: l'arte di arrangiarsi, la farfté, l’imbroglio, la beffa, la perenne golosità sessuale dichiarano guerra alle istituzioni collettive.
Nei film i Totò non c’è appello alla palingenesi o apertura verso un domani da scudetto: il fuoco della vita si brucia tutto e subito in una spinta brada e anarcoide che non può esaurirsi nell’approdo nobile & redento. I suoi partner debbono necessariamente avere la faccia volpina di Taranto, l’andatura voluttuosa di De Sica, l’espressione sbigottita e farsesca del grande Peppino De Filippo; debbono esibire la laida deformità psicofisica dei Fabrizi, Macario. Tognazzi; debbono, infine, incarnare il rachitico immaginario dell'Italia televisiva col muso delle Ritepavoni, dei Teddyreno, dei Dorelli e dei Celentano. Ogni dissonanza al suo posto: il gesto irridente, l’aforisma insolente, la marginalità recidivante si scavano il percorso nelle viscere stesse della mitologia nazionale. In questo senso Totò è persino realista: se non ci fosse sempre spazio - magari in extremis - per il guizzo nell’assurdo e nel paradossale che ristabilisce le distanze giuste. Totò a colori. Un turco napoletano, Miseria e nobiltà, Totò le Mokò, Totò cerca casa restano, insieme, l'identikit più credibile dell’uomo-massa di corredo cromosomico partenopeo, e la più scatenata negazione dell'addentellato sociologico nell'arte. Un film così, è un'avventura spirituale. un gorgo profondo che trascina e che seduce, un’attesa continua, una promessa fisica di sguaiataggine liberatoria, un contenitore entro cui far esplodere la santabarbara dell’eterna rivolta. Contro i caporali della morale, le demagogie umanitarie, i ferventi di una Fede (costituita o alternativa, fa lo stesso). Del resto, il Totò meccanico e l’uomo-marionetta annichiliscono - con la feroce parodia dell'umana prigione biologica - le promesse di riscatto e di evasione accampate dal patriottismo mistico.
Soltanto Pasolini, altro (ed ultimo?) rappresentante della libertà e dell’anticonformismo dell'intelligenza, seppe proporre un Totò di livello diegetico, programmaticamente alto. In «Uccellacci e uccellini», «La terra vista dalla luna» e soprattutto nel meraviglioso episodio «Che cosa sono le nuvole?», i due poeti sancirono la catastrofe di ogni razionalismo politica-mente taumaturgico.
Dopo il revival è seguito un periodo di saturazione (grazie alla frenetica, smodata bulimìa delle teleprivate) e di imbalsamazione encomiastica. Un nuovo grigiore, dal quale conviene estrarre la boutade più irresistibile, puntualmente rimasticata dai film parassitari tra i neofiti, secondo cui i critici avrebbero distrutto Totò in vita per rivalutarlo con cinico calcolo da morto (peccato che si tratti di critici diversi, spesso in fiera guerriglia tra loro: la verità è che ognuno resta sulle identiche posizioni. a parte le cancellazioni per pensionamento). Uno spunto fondamentale è stato rimesso in moto dalla morte di Eduardo, oltreché dall’impressionante rigurgito di pan-napoletanismo nello spettacolo, nella pubblicistica, nella cronaca e nello sport. Quello che appare di più «anti-Totò» è il tentativo di beatificare in modello aggregante le infinite vie della retorica municipalistica, di normalizzare in buonsenso progressista la vecchia arroganza cartolinesca. Sul ceppo della storia della città (si potrebbe risalire addirittura alla grande mostra sul Seicento, con l’immagine «indecorosa» della simbiosi caravaggesca e riberiana tra Angelo e Manigoldo), nessun vigore e nessuna presa radicale ha mai ottenuto la poetica della «bontà» indotta e del salvazionismo sociale. Anzi, tutto ciò che si è richiamato sino in fondo a questa autopromozione glorificante, a questo far quadrato ideologico, a questo sanfedismo consolatorio è sempre finito nel pericoloso imbuto del folklorismo o della sterilizzazione benpensante. Due, al contrario, i filoni leaderistici plausibili: quello discendente dalla feconda stagione del café chantant, della farsa scarpettiana, della sceneggiata e dell’avanspettacolo; e quello occupato dall’aggressività del grande comico.
L’ultimo ambasciatore possibile della napoletanità, l’unico divulgatore sempreverde dell’indiavolata vitalità dialettale, il custode di un Tempio che è tale solo se rinuncia alle bandiere, ai recinti e ai comandamenti. Della sua memoria artistica tentano d’impadronirsi gli alfieri del sussiego provinciale, i masanielli del canale libero ed i burocrati del potere camaleontico. Patetica mistificazione: Totò non è stato e non sarà mai recuperabile all’elegia dei buoni sentimenti. Né reazionario né populista: come tutti i grandi «reprobi», Totò resta un cuneo piantato nei gangli dell'unanimismo di comodo. La sua Napoli no è quella - sublimante e penitenziale del permaloso narcisismo qualunquista ma, piuttosto, una cornice di genere, nel senso positivo dello spazio e del volume mitico-simbolici. Non illudetevi su di lui, non nascondete il suo formidabile penchant losco, non trasformate la sua disperata apatia nell’attivismo dell’apostolo, non ammantatelo di quel disgustoso trasformismo che volge una concezione esistenziale in concezione del mondo. L’uomo svitabile, fantasista e macchiettista dei poveri cristi non è lo zombie delle trionfanti lagne di regime. Il suo carisma, che affonda le radici in un magma di sincerità e menzogna, generosità e turpitudine, memoria atavica e detrito ottenebrante, irruenza sovversiva e oblio metafisico, non viene per unire ma per dividere la gente.
Valerio Caprara, «Il Mattino», 11 aprile 1987
Valerio Caprara, «Il Mattino», 11 aprile 1987 |
Riferimenti e bibliografie:
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