«Principe, parli come bada». Ricordo di Totò a vent'anni dalla sua scomparsa
Vent’anni fa moriva Totò. Ricordiamo l’ultima giornata del grande comico
Vent’anni fa, il 15 aprile del 1967, moriva Totò, forse il più grande comico che l’Italia abbia mai avuto. Abbiamo chiesto a Giancarlo Governi, autore del libro «Vita di Totò, principe napoletano e grande attore» (Rusconi), di scrivere un articolo per noi. Ci racconta l’ultima giornata del principe dei comici.
Quel 3 aprile di venti anni fa Totò si era presentato sul set de Il padre di famiglia al mattino presto, per una scena che si svolgeva in esterni. Il personaggio che doveva interpretare era quello di un vecchio anarchico che sbarcava il lunario vendendo calzini e mutande ai compagni della sinistra. La prima scena rappresentava un funerale. Il sole scottava e Totò aveva sofferto molto il caldo, infagottato in un abito pesante e povero. «Ricordo ancora con emozione» dice Nanni Loy, il regista del film, «proprio la grande qualità tragica del suo lavoro, la verità con cui interpretava l'emarginazione del suo personaggio».
Quando il regista gli disse che non aveva più bisogno di lui, si accomiatò dalla troupe alla sua maniera andando a salutare lutti, accompagnato dal fido autista Cafiero che gli bisbigliava nell'orecchio il nome delle persone, che non poteva riconoscere a causa della quasi totale cecità in cui era caduto dieci anni prima, proprio mentre in teatro eseguiva la famosa «passerella» al suono della banda dei bersaglieri.
In macchina l'autista gli porse un pacchettino. «Cos'è? Cafie' guarda tu!» disse Totò che ancora si lamentava con un po' di esagerazione per il caldo e la fatica. Era la prima copia di un disco contenente «A livella», una sua celebre poesia che parla della morte e che aveva inciso per la Fonit Cetra. Nei giorni precedenti, aveva fatto telegrafare alla casa discografica per avere notizie sull'uscita del disco a cui teneva molto, ma ora che la prima copia era nelle sue mani sembrava che non gliene importasse più. «Cafiè, prendilo tu, portatéllo a casa». Un presentimento, diranno poi i cronisti. Comunque Totò mostrò di non gradire l'arrivo di quel disco che parlava della Morte livellatrice, di fronte alla quale cadono tutte le differenze sociali e le vanità umane. Arrivati alla casa di via Monti Parioli 4, Cafiero, come al solito, lo aiutò a scendere dalla macchina, ma quel giorno si senti in dovere di sorreggerlo delicatamente fino all'ascensore. Dirà poi che in ascensore sua altezza il principe, come lo chiamava lui e lutti coloro che non erano in confidenza, gli aveva detto di sentirsi una schifezza.
Nell'Elenco storico del Sovrano Militare Ordine di Malta, a pagina 204 troviamo: Focas Flavio Angelo, Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio, Gagliardi Antonio Giuseppe di Luigi Napoli, Principe Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero. Nobile Altezza Reale. E’ Totò, quell'omino dal mento stono e dal viso sbilenco che da anni fa scompisciare le platee. E' quel ragazzo inquieto, nato in un vicolo di Napoli, che per anni si chiamò Clemente come la mamma, che era riuscito a diventare prima marchese e poi principe, con un complicato sistema di adozioni, e a cambiare il suo misero nome di figlio di ragazza-madre con una sfilza di nomi roboanti ed esplosivi come un fuoco d'artificio, guizzanti come i muscoli della maschera comica che sapeva modellare a piacimento sulla sua faccia. «Come se avessi a disposizione della creta, posso formare in pochi secondi, sul mio volto, l’espressione corrucciata del dittatore, stupefatta dello sciocco, impaurita del debole, audace e avida del dongiovanni, istericamente ghignante del guapparello vanitoso, imbronciata o civetta del bambino, pseudo-misteriosa dell'uomo che si ritiene depositario dei segreti di Pulcinella...».
Questa immagine della faccia da modellare come creta ci richiama prepotentemente al viso di Totò, a questa maschera di carne inimitabile e unica nel suo genere. Nessun comico, tra quelli che ci vengono alla mente, ha la faccia di Totò: Charlot ha bisogno di ritoccarsi il viso, di mettersi i baffettini, Petrolini usa il trucco o i sapienti giochi di luce. Forse soltanto Buster Keaton e Stan Laurei lavorano con la loro faccia «naturale», senza ritocchi o trucchi, ma senza l'esasperata mobilità del Nostro.
Totò è come se sul suo volto di uomo comune poggiasse. prima di salire sul palcoscenico, una maschera particolare, viva e mobile, fatta di carne e pronta a scattare sotto i comandi dell'attore, divenendo ora ammiccante, ora sorniona, ora irridente. Una maschera già di per se buffa per la sua particolare forma asimmetrica (con il naso ed il mento tendenti esageratamente a destra, con gli occhi allineati su due assi diversi e pronti ad agire indipendentemente, con la bocca costretta a seguire l'andamento del mento per cui, partita bassa sulla parte sinistra, finisce per impennarsi al centro e nella parte destra fino a disegnare una punta parabolica) c che diventa irresistibile, quasi frenetica e ossessiva, quando si anima, quando si muove in maniera aritmica rispetto al corpo, quando si allunga e poi di scatto si contrae, quando si appoggia sul corpo disarticolato come la testa di una marionetta ora disanimata, ora abbandonata in un angolo, quindi ripresa e manovrata in maniera a tratti abile, a tratti maldestra.
Anche quella notte si addormentò alle quattro: era una sua abitudine contratta durante gli anni del teatro. Si svegliò verso le dicci, come al solito, completamente ristorato e ristabilito. Prese il suo caffè e rimase sul letto a fumare la sua prima sigaretta, tranquillamente: tutti i brutti presentimenti del giorno prima erano scomparsi, davanti a sé aveva una giornata di libertà, priva di impegni di lavoro. Aveva persino dimenticato che era venerdì.
Il pomeriggio trascorse tranquillo, ma quando cominciò a calare la sera l'inquietudine lo assali nuovamente. «Eppure non mi sento bene» disse a Franca Faldini, la sua compagna. La sera lo trovarono vicino al telefono, pallidissimo. «Chi mi ha sparato questa fucilata» disse indicandosi il petto.
Le tre del 15 aprile 1967 erano passate da pochi minuti quando si spense, all'età di 69 anni, il principe Antonio de Curtis, in arte Totò, il più grande comico italiano, forse del mondo, ma anche il più incompreso in vita come il più rivalutato e idolatrato dopo la morte. «Chiudo in fallimento, di tutto ciò che ho fatto salvo pochissimo» disse poco prima di morire, facendo torto ad intere generazioni che lo avevano seguito, amato, venerato e che ne avevano fatto una specie di bandiera.
Ma cosa è stato Totò per gli italiani? Non dico per i giovani che lo scoprono oggi e che ritrovano in lui soprattutto uno straordinario personaggio comico, dalla tecnica inimitabile ma senza cogliere particolari segnali che riecheggino un'epoca, un momento di vita collettiva. Dico per coloro che crebbero con Totò, dico soprattutto per la generazione che ne ha guidato la «riscoperta». Totò, per questa generazione, è stato la «macchina liberatrice», con i suoi sberleffi, con la sua irrisione alle convenzioni, con quel suo entrare continuamente negli ingranaggi e nelle regole del perbenismo per metterli in crisi, romperli, frantumarli con l'arma del ridicolo. Per le altre generazioni, Totò ha lignificato e significa un ricordo spensierato, una risata liberatrice. Per la generazione che era adolescente nel dopoguerra e che lo ha visto nascere e crescere come star del cinema, Totò è stato innanzi lutto un educatore.
Giancarlo Governi, «Il Messaggero», 15 aprile 1987
Giancarlo Governi, «Il Messaggero», 15 aprile 1987 |