Totò, il marziano del Rione Sanità

Totò

Una iperbolica creatura.

Totò, grandiosa marionetta. Grandiosa opera dei pupi. Ma, al contrario dell’opera dei pupi, quello di Totò non è mai stato un repertorio eroico-cavalleresco. Niente eccelsi paladini, niente Cristiani contro Turchi. Ma forse, a tale repertorio, segretamente egli aspirava, tanto è vero che, nella sua strepitosa innocenza, si creò titoli leggendari, carlomagneschi, da poema eroico-cavalleresco: Sua Altezza Imperiale, Principe di Cilicia, di Macedonia, di Tessaglia, Duca di Epiro e Cipro, Arciduca - ma tale titolo son io che glielo regalo - di Eccetera e di A Prescindere.

E tuttavia Totò era diverso da tutti i duchi e da tutti i principi di questa terra e di quest’Italia: perché se i principi fanno piangere, il piccoloborghese Antonio de Curtis, fa ridere. Talora anche i principi fanno ridere, ma per motivi indipendenti dalla loro volontà. Invece il principe Totò ha fatto ridere volendo e sapendo di far ridere, è quindi un principe a. modo suo, un principe di origini al limite della plebe.

Un raro principe. Ben diverso dai «Principe» di Machiavelli Niccolò, assetato dì virtù, creatore dello Stato. Il principe Totò non è mai stato «virtuoso» ma è stato «virtuista», non ha mai creato Stati, tantomeno questo Stato. Il solo Stato che ha creato, è quello del riso. Nello Stato di un altro principe, dico Amleto, prence di Danimarca, invece si piangeva. E Amleto si vestiva in permanenza di funebre velluto, se ne andava a cimiteri, colloquiava coi teschi e con le tibie, e singhiozzava.

1927 Antonio De Curtis 003 L

Il principe Totò si scompisciava dal gran ridere. E, tuttavia, qualcosa in comune con Amleto ce l’aveva, cioè la Malafemmena. La malafemmena di Amleto fu mammà sua, che scatenò nel depresso figlioletto il fatal complesso edipico. Nel principe Totò, niente fatal complesso, la sua malafemmena non aveva arcani requisiti, era un’attriciona, o meglio vamp, era soltanto bbona, scusate la maldicenza. Ora a me non sembra, come è sembrato a un mio geniale e antico e caro amico, che il principe Totò alimentasse nei confronti della femmena sentimenti angelicizzanti, da soave, dolce stil nuovo. Ricordate «Totò-Tarzan»? In quel film, in cui indossa una pelle di leopardo tarzanesca (ma in testa ha sempre la bombetta, cioè la sua corona) non appena prelevato dalla vergine foresta, Totò dice a Isa Barzizza col rustico linguaggio della jungla: «Io Tarzan, tu bbona». Che non è un complimento stilnovista, ma da avido principe partenopeo.

Il qual principe Totò, guarda caso o contraddizione, aspirò, sì, a Magnifici Avi e regressivi, ma direi fino ad un certo punto. Perché quegli Avi li desiderava, certamente, ma puranche li derideva (almeno nel subconscio, perdonate il tenebroso termine), li prendeva in giro, li sfotteva, allorché inventava sulla scena strepitosi tornei tra prenci antichi, grandi cacce principesche, favolose imprese alla Magnocarlo. Sfotteva, e quanto, la Magnificenza, e la rappresentava nel trasformar se stesso in fantasmagorica girandola di razzi, bengala, castagnole: gioiosa contro-apoteosi, leggendaria presa in giro del regal fasto.

Ma da che cosa gli veniva, quel folletto sfottitorio? Dal rione Sanità, ci giurerei, nel quale era nato. Terra, non rione. Continente smisurato, e ferina e dolce culla di guappi ammartenati. Che vuol dire ammartenato? Viene forse dal latino «Martis natus», figliuol di Marte, cioè marziale, rissoso, manesco, superbioso? Anche lui, Totò, figliuol di Marte? Fellini non ha dubbi, ha infatti scritto che Totò è un marziano. Condivido. Un iperbolico marziano. Cioè la creatura di un pianeta un po’ disarticolato, dove, secondo immaginazione, esistono ridenti, inafferrabili figure e figurazioni: che svitabili han le membra, che deformano i fonèmi e le parole, si tramutano in fuochi di artificio, in disarmoniche musicali batterie, spingono il parlare e la parlata a estremi assurdi, sfottono le frasi fatte e sfatte, dicendo con malizia quel che ogni cretino dice per pigrizia mentale e immaginativa, e per penuria di sale espressivo.

Tutta roba da satirico marziano. Ma mi turba una domanda: ammesso e non concesso, e ovviamente a prescindere, che Totò sia venuto da Marte, siamo certi che Marte non sia la Sanità, che Marte non sia Neapoli? Perché, vedete, quella esasperazione di gesti, quelle parole deformate, quei lazzi e suoni, quello svitamento di membra, infelici membra, tutto questo è da sempre appartenuto al mondo neapolitano, ai vecchi comici dei nostri sgangherati teatrini periferici, alle nostre antiche maschere teatrali, e va bene. Ma è stato il principe Totò, a dare a tutto quel repertorio una favolosa unità stilistica, che mai ebbero i suoi predecessori, evanescenti marionette. Lui, invece, è stato ed è la marionetta più totale, e misteriosa e insieme trasparente, mai apparsa tra di noi, una marionetta che ha ballato una folle tarantella sulla tomba di Gustavo De Marco, suo umile maestro.

Ed è poi vero, come ha scritto Goffredo Fofi, che Totò ha preso quasi tutto da Pulcinella? È vero, da Pulcinella Totò ha preso tanto, anche la fame, antica fame, o per dir meglio i modi di aver fame, e certamente ricordate come, in «Miseria e nobiltà», Totò con quanta allegra disperazione si riempie occhi e tasche di maccheroni ben fumanti: grandiosa, atroce pulcinellata, che Pulcinella ha ripreso a sua volta dalla sua e nostra divorante, e divorata, affamatissima città. Destino storico? Oh, no. Il destino non c’entra. Intendo il destino metafisico. C’entrano, piuttosto, le iperboli del nostro destino storico.

E a proposito d’iperboli, una volta Totò ha detto di amare tutto ciò che è scuro, quieto, senza chiasso, e poi ha soggiunto che «la risata fa rumore». Proprio lui! Proprio lui, che di risate ha vissuto, e di risate ci ha fatto vivere, tanto è vero che qualcuno l'ha chiamato il Genio del Riso. Sono certo che Totò ha gradito e apprezzato. Ma ecco che, ora, vien fuori l'esilarante iperbole. Ed è che il piccolo camposanto, che l’ospita alla periferia della nostra apoteosica città, si chiami il Pianto. Voi capite: il Genio del Riso nel Cimitero del Pianto! Poi dice che uno si scompiscia. Ci si scompiscia sempre, nel segno dell’Iperbole.

L’ho sognato l’altra notte e gli dicevo: «Vostra Altezza mi scusi, ma vorrei chiederle se è vero quel che si dice in giro».

Mi ha interrotto: «Lei impallidisce, s’imbarazza e m’ imbarazza. Avanti, che cosa si dice in giro?».

«Si dice che Vostra Altezza Imperiale è morta esattamente vent’anni fa».

Si è quasi inalberato: «Ma mi faccia il piacere, non mi faccia ridere, sono diffamazioni, calunnie di cortigiani, poi dice che uno si butta all’estrema sinistra. Io morto? Io defunto? Ma siamo uomini o trapassati? Marziani o grandi artisti? Comici immortali o effimeri mortali?».

Luigi Compagnone, «Il Mattino», 11 aprile 1987


Il Mattino
Luigi Compagnone, «Il Mattino», 11 aprile 1987