Totò vent'anni dopo la sua scomparsa - Rassegna stampa
Totò nel ventennale della sua scomparsa
«Principe, parli come bada». Ricordo di Totò a vent'anni dalla sua scomparsa
Franca Faldini: «Sono passati vent'anni e Totò è sempre fra noi»
Vieni avanti, Totò
Dominatore incontrastato l'attore napoletano morto vent'anni fa. Spezzoni di film, sketch, interviste: un viaggio con Sergio Corbucci fra i re dell'umorismo. Comincia domani su Raitre «Ridere all'italiana» - Dominatore incontrastato l'attore napoletano morto 20 anni fa - Spezzoni di film, sketch, interviste: un viaggio con Sergio Corbucci fra i re dell'umorismo
ROMA
Nuova serie di Raitre in partenza domani alle 20,30 per cinque puntate fino a maggio: titolo «Ridere all'italiana», ovvero il come il quando e il perché della risata. Ideato e realizzato dal duo Orio Caldiron e Matilde Hochkofler, «Ridere all'italiana» è una cosa anomala: spezzoni di film italiani alternati ad interviste ai protagonisti, interventi di intellettuali montati con sequenze di scenette, il tutto legato e cucito insieme da Sergio Corbucci in veste di presentatore, provocatore, filo conduttore di questo viaggio all'interno e all'esterno della risata.
I comici che hanno fatto grande la commedia all'italiana ci sono tutti: il più citato comunque è Toto, primo a trasportare nel cinema tempi e giochi dell'avanspettacolo, insuperabile trait d'union tra il popolaresco e il raffinato, modello di attore che sa essere maschera senza perdere umanità. La trasmissione è anche un modo di ricordare Antonio De Curtis a vent'anni dalla scomparsa: Totò morì il 15 aprile del 1967.
Nel programma si passano in rassegna tutti i possibili motivi di riso: dalla scivolata sulla buccia di banana al gioco di parole, dalla sostituzione di persona ai doppi sensi erotici. La serie si apre con una citazione da Il nome della rosa, al riso — dice il vecchio Jorge da Burgos — è un vento diabolico che deforma il volto e rende gli uomini simili a scimmie». Ma Sean Connery risponde: «Le scimmie non ridono. Il riso è proprio dell'uomo». La prima puntata, Vieni avanti, cretino, è dedicata alla risata nell'avanspettacolo: sullo schermo spezzoni di film di Dapporto, Macario, De Sica, Anna Magnani, Petrolini; in studio a riderne e far ridere Rosalia Maggio e Marisa Laurito.
si. ro., «La Stampa», 5 aprile 1987
Com'era grande Totò
A vent'anni dalla morte del popolare attore, la televisione si prepara a ricordarlo, aiutata dalle testimonianze di tanti amici e colleghi
Mercoledì 15 aprile sono vent'anni dalla morte di Totò. Come lo ricorda la TV? Lo ricorda con non troppa riconoscenza se si pensa che questo attore questa maschera questa marionetta che fu Totò e stato in questi vent'anni quasi continuamente presente sul piccolo schermo. Rassegne, spezzoni, esemplari sparse partecipazioni, repliche a getto continuo hanno popolato la programmazione di tutte le reti pubbliche e private. Paradossalmente la debolezza di tante pellicole bistrattate dalla critica il loro essere un collage di scenette e di improvvisate gag mimiche ne ha fatto una forza dei nostro attuale modo di consumare tv che e appunto spezzettato estemporaneo «diffuso» Totò come un po' tutta la commedia all italiana ha la sconclusionata virtù di essere adatto ai nostri difetti elettronici. Il suo cinema è sopravvissuto al buio magico e al respiro collettivo della sala per resuscitare con infinita energia vitale nel piccolo scherzo. Ed eccola lì la mossetta tanto improvvisata e tanto studiata che ora viene rubata anche dalla pubblicità e che come la bombetta di Chaplin o la gonna plissettata di Marilyn e diventata una delle chiavi visive del nostro tempo.
Perciò la tv avrebbe potuto fare più di quel che ha fatto finora rubando a man bassa dal grande repertorio di Totò. Invece mercoledì 15 aprile troviamo per ora più che veri palinsesti solo uno speciale in seconda serata programmato da Canale 5 (ore 22,30) realizzato da Maurizio Costanzo e Franca Faldini con il titolo «Totò 20 anni dopo».
Franca Faldini è stata la compagna degli ultimi quindici anni di vita di Totò, colei alla quale è stato in certo senso consegnato il mito del grande comico e che lo ha custodito in questi anni con dignitosa e intelligente cura attraverso testimonianze scritte e a voce. Mercoledì sera con l'aiuto intrigante e partecipe di Costanzo sentiremo ancora i suoi ricordi che ci accompagneranno nel rivedere immagmi dell'artista al lavoro. Un artista al quale gli ultimi anni hanno finalmente attribuito il riconoscimento dei critici pentiti e di quelli dissociati da sempre da tutte le sottovalutazioni che amareggiarono Totò in vita. Anche se la sua coscienza di artista non doveva esserne poi troppo turbata sostenuta com'era dalla totale comunicazione col pubblico
Il Totò di Maurizio Costanzo non ha invece bisogno di risarcimenti è il Totò uomo amato da amici e colleghi, estranei e donne. Si, anche le donne hanno sempre amato Totò. Lo dicono nel talk show televisivo veri testimoni, come Dante Maggio e Vittorio Caprioli garanti affettuosi di una memoria privata completata anche dalla chiacchierata Silvana Pampanini da sempre sospettata di essere la «Malafemmena» alla quale Totò dedicò la bellissima canzone. Lei la Pampanini rifiuta questo titolo di demerito e porta come prove a discarico alcune poesie inedite che «Il principe» le dedicò e che vengono lette al pubblico da Vittorio Caprioli. Tra gli altri ospiti di Costanzo ai quali è affidato il compito di testimoniare su Totò ci sono anche Ninetto Davoli ed Elena Giusti e c'è alla fine lo stesso Costanzo che intervistò il grande comico negli ultimi anni di vita, quando era ormai quasi cieco. L'intento dichiarato di Costanzo (e del regista Paolo Pietrangeli) è quello di far conoscere Totò come fu davvero anche al pubblico più giovane che lo ha sempre visto come appariva nel film. Un sottoproletario affamato e cinico che nella vita era un principe generoso (e ci teneva moltissimo!).
Maria Novella Oppo, «L'Unità», 11 aprile 1987
Attore d'avanguardia e di consumo, genio surreale in film dozzinali, personaggio sottovalutato e mito troppo amato. Vent'anni fa moriva Antonio de Curtis
Totò 20 anni dopo. Potrebbe essere il titolo di una sua parodia letteraria(tipo i due orfanelli, il monaco di Monza), se non fossi il segno che il tempo passa maledettamente in fretta. Vicino alla morte Totò aveva previsto, Con il pessimismo che lo distingueva, che di lui sarebbe rimasto poco o niente. fossi stato un falegname, diceva, almeno lascia un tavolo, qualcosa di solido. ma un attore, Un comico? Del suo centinaio di film ne salvava sì e no cinque. aveva la sensazione che il cinema lo avesse tradito. E invece la sua gloria, in questo ventennio, non ha fatto che crescere. grazie ai revival, alle antologie, alla televisione, ai libri. Grazie soprattutto al vuoto che si è spalancato Quando è venuto a mancare Lui, il principe dei nostri comici, il più geniale è libero dei nostri attori, anche di cinema.
Paradossalmente era stato meno difficile intuire la sua forza quando ancora non si era scatenata sullo schermo. Umberto Barbaro la inquadrò fin dal 1933. Achille Campanile scrisse per lui il soggetto di Animali pazzi che uscì nel 1939, e Zavattini negli anni di guerra, quello di Totò e il buono, che più tardi si fece col titolo di Miracolo a Milano, ma senza Totò.
Tuttavia la critica del tempo, quando nel 1940 apparve San Giovanni Decollato da una commedia siciliana di Nino Martoglio, trasferita senza fatica a Napoli, insisteva sulla necessità di proseguire su questa strada: umanizzare da marionetta surreale che era stato e continuava a essere Totò in teatro, per adeguarla alle presunte leggi della narrazione cinematografica. Ma per citare un referente appropriato e allora già conosciuta in Italia, si dimenticava che in America i Fratelli Marx non si erano Curati di alcuna legge e avevano fatto carriera sfruttando anche nel film l'eccentricità anarchica, La mimica lunare e le parole dell'assurdo.
C'era anche un esempio tedesco ma questo non lo conosceva nemmeno Karl Valentin, il comico bavarese prediletto da Brecht, non meno disarticolato e snodabile, non meno sottoproletario (anche in veste piccolo Borghese) di Totò. la sua riscoperta negli anni 70 ha portato in Germania ad analoghe conclusioni critiche. Però Valentina aveva saputo essere anche autore di se stesso, come Chaplin e Keaton, o come più tardi da te. Totò invece si è sempre rifiutato: diceva per pigrizia ed era Forse per umiltà. o forse, più esattamente, per il giusto orgoglio di sentirsi interamente realizzato come attore, come marionetta, come maschera della commedia dell'arte. Nel dopoguerra esploso il suo grande successo Popolare.
Attorno al 1950 i suoi tre, cinque perfino otto film annuali si assestarono regolarmente alla testa degli incassi, mentre certi capolavori del Neorealismo tenevano il fanalino di coda. Quei film erano quasi sempre brutti, raffazzonati, qualunquisti, ma Totò era quasi sempre sublime, svettava su di essi quale Angelo sterminatore e faceva ridere tutti, critici compresi, i quali salvavano lui ma, in genere, si lamentavano che il suo talento fosse così sprecato e gli raccomandavano soggetti, registi e produttori più seri; e quando Eduardo gli fece fare l'indimenticabile finto morto in Napoli milionaria, tornarono a sottolineare che quella era l'unica via percorribile. Ma non era vero. Il discorso sembrava sensato ma trascurava l'essenziale, Totò. Cioè che Totò non può essere ingabbiato, regolamentato, irregimentato. Siamo uomini o Caporali?
Tale il dilemma amletico di un film del ‘55, non per niente scritto (e fu un'eccezione) da lui. E i caporali, in questo caso, possono essere anche coloro che pensano di umanizzare lo depredando lo della sua umanità primigenia, unica. La sua comicità è estemporanea, imprevedibile, eversiva, il suo genio inventivo non ha bisogno di un copione rigido e anzi lo soffre. Totò basta sè stesso ed è lui l'autore dei film diretti dai suoi registi abituali - Mattoli, Mastrocinque, Corbucci - che almeno un merito ebbero, quello di lasciarlo andare come un cavallo pazzo, di non mettergli mai le briglie al collo, senza museruola sul suo viso asimmetrico e sgangherato, sulla sua parlantina vorace e lussuriosa.
Oggi, a distanza di tempo e con la possibilità di scegliere fior da fiore, di antologizzare il Totò più frenetico e scattante, il più fantasioso e astratto, si capisce assai meglio come la sua arte inimitabile (e che non ha mai imitato nessuno) trascenda miseri schermi e la matrice conservatrice dei suoi film più corrivi, per strigliare l'Italia partendo non dall'alto di Una predica moralistica, ma dal basso di una condizione esistenziale storica, con l'insensatezza disperata e creativa che viene dal ventre di Napoli, con la cattiveria e la dignità che escono da ingiustizie così antiche da sembrare eterne.
Totò ha pure avuto registi egregi, da Edoardo a Rossellini (Dov'è la libertà), da De Sica (L'oro di Napoli) a Monicelli (I soliti ignoti), da Lattuada (La Mandragola) a Pasolini (Uccellacci e uccellini e gli episodi La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole? che furono, nel 1967, le sue ultime interpretazioni). Ha sempre sognato di poter avere Fellini ma Fellini ha sempre capito di non poter aggiungere niente a Totò, completo per conto suo e inafferrabile. lo stesso Pasolini, Soprattutto negli episodi, cercò di utilizzarlo riportandolo alla sua maschera perenne, colorandolo come in un teatrino di provincia. Totò rispettava molto Pasolini, ne era affascinato, e fuori cambiato con amore.
il fatto è che doveva la sua fortuna cinematografica soltanto a se stesso. Non ci sono due linee interpretative: quella dei cinque film è quella degli altri cento. Cii sbagliavamo quasi tutti e si sbagliava anche lu. Il vero, grandioso Totò è ugualmente presente nella parodia da avanspettacolo e nel dramma di appendice (Yvonne la nuit), nel primo film italiano a colori(Totò a colori, appunto) che nel 1952 raccoglieva i brani alti delle sue riviste, e nei bianconeri di origine controllata(vale a dire neo realistica) che ne facevano un personaggio a suo modo coinvolto nella polemica sociale.
Pensiamo ai film di Steno e Monicelli, che per primi, grazie a Totò, operarono il passaggio dal Neorealismo alla commedia italiana tenendo ferma la denuncia e provocando gli interventi della censura.
totò all'estero sembrava assurdo, ai tempi suoi. Lui conosceva soltanto Parigi ed è bello che proprio da Francia, in questi ultimi anni, abbia dimostrato grande effetto per lui. Ma anche la leggenda del Totò intraducibile e inesportabile va ridimensionata. nel 1957 accompagniamo Guardie e ladri in Cina e a sistema alle proiezioni di Pechino, di Shanghai e di Canton. Si può affermare che tra Italia e Cina la storia impastato legami fraterni, esistenziali. Si può dire che due popoli vessati da secolari soprusi si ritrovano amici nelle risate e nella follia. Certo è che i cinesi capivano Totò, Lo capivano alla perfezione. soprattutto a Shanghai, l'immensa Napoli dell'Asia, che aveva vissuto L'arte di arrangiarsi vitalistico nel Cupo clima coloniale. Ridevano di solidarietà e si commuovevano per l'arguzia pirotecnica di Totò ladro, di Totò affamato, di Totò padre di copiosa prove. la traduzione del film(ci hanno assicurato), era fedelissima al testo. Il rispetto era giunto al limite che Chung Yao Feng, l'attore cinese che lo doppiava, gli assomigliava fisicamente. Aveva un naso che il nostro Principe di Bisanzio avrebbe trovato sufficientemente regale.
Ugo Casiraghi, «L'Unità», 15 aprile 1987
Sarà una risata che vi seppellirà
Fu, se non ricordo male, nella primavera del 1971 che alcuni cinemetti di periferia e alcune sale «d’essai» manco si fossero passati parola cominciarono a programmare tutti i film di Totò, dai più celebrati a quelli che erano stati presto dimenticati. Bastava far capolino in quelle sale buie. E, allora fumose, e si era immediatamente travolti da un'ondata di risa e di schiamazzi a dir poco contagiosa, quasi spettacolo nello spettacolo. La gente, per dirla alla maniera del grande comico napoletano, si scompisciava, letteralmente. Ma il bello era che a ridere a crepapelle erano soprattutto quei giovani con eskimo e jeans che fino a un momento prima si erano magari scontrati con la polizia o avevano dato vita a qualche manifestazione di piazza. giovani e arrabbiati di scoprivano Totò, come ben presto servano i soldi ti notisti di costume. ed era senza dubbio una bella rivincita(anche se postuma, (ma questo è abbastanza nell'ordine delle cose) per un'artista solitamente snobbato in vita dalla critica e dalla intellighenzia in genere.
Devo dire, a onor del vero, di non aver dovuto aspettare quel revival e nemmeno l'acuta rivalutazione che di Totò fece l'anno seguente Goffredo Fofi in un libro Edito dalla Savelli per rimanere incantato dalla bravura e dalla genialità di quella straordinaria marionetta umana. Tutta la mia adolescenza è stata in bevuta dei suoi film: ne uscivano non meno di 5 o 6 all'anno, e ogni volta era una festa. La televisione ancora non esisteva e per un bambino non c'erano molte altre possibilità di passare due ore in allegria.
Totò del resto - con il suo fare il ridente, canzonatorio, con la sua vena surreale, la sua verve polemica- era naturalmente destinato a piacere più ai bambini che gli adulti, un po' come il Pinocchio di Collodi, che gli adulti accettano e vivamente consigliato o solo per il finale Almeno apparentemente consolatorio. E a piacere allo sterminato pubblico delle terze più che delle prime visioni ,Dei localini di periferia più che dei grandi centri, del sud e delle isole più che del centro nord: come mise in rilievo, Se non ricordo male, Vittorio Spinazzola nel suo cinema e pubblico. E allora che cos'è che colpisce giovani appena usciti dal 68? Quelle stesse qualità, probabilmente. ma soprattutto, forse, la scoperta del loro carattere non c'ha qualunquistico ed evasivo ma eminentemente critico e (mi si passi il termine) politico. Totò si burla sempre dei potenti, siano essi principi, onorevoli o sindaci di mezza tacca. ne veste spesso i panni, per meglio metterli alla berlina. si fa beffe della loro protervia, della loro viltà, della loro meschinità e per far questo ricorre a molti espedienti interpretativi, il più originale dei quali è forse l'uso che fa della citazione aulica in un contesto fortemente prosaico e della frase fatta per metterne in evidenza la banalità: quisquilie, pinzellacchere, tampoco, Ezia andio, parli come bada, io sono un uomo di mondo: ho fatto il militare a Cuneo, chè chè, chiamatemi onorevole, No, la mia coscienza non me lo permetterebbe mai, sono modi di dire entrati ormai nell'uso comune. Il procedimento non è forse originalissimo. Già Petrolini, ad esempio, giocava con le parole e con i costrutti verbali. Manda sua graffiante ironia era prevalentemente circoscritta all'ambito letterario: era un modo di prendersi gioco di certa letteratura classicheggiante, facendo per di più il verso - notate la sottile malizia - i futuristi. Totò va oltre: il suo bersaglio sono le soperchierie dei potenti come il falso decoro piccolo-borghese, la rispettabilità ipocrita come egoismo mascherato da virtù. insomma, la sua Vis comica e polemica, la sua dinoccolata gestualità hanno un contenuto più scopertamente, manifestamente sociale.
No, non voglio dire che Totò fosse, sia pure cripticamente, un rivoluzionario. La sua è la tipica cultura sottoproletaria, inconcepibile al di fuori di Napoli e del sottoproletariato napoletano. ma alla sua fama atavica e L'arte di arrangiarsi che ne discende, la sua rabbia di Povero Diavolo, il suo anarchismo istintivo, il suo resistere prima ancora di esistere, sono altrettanti segnali o sintomi o simboli di un malessere esistenziale e sociale e di una volontà di riscatto.
Dei suoi quasi 100 film, è vero, sono pochi quelli, artisticamente parlando, che si salvano. Anche se non sono nemmeno pochissimi, e taluni(si pensi ai tre girati da Pasolini, a cominciare dal famosissimo Uccellacci e uccellini, ma anche a Guardie e ladri di Steno e Monicelli e a I soliti ignoti dello stesso Monicelli o di Dov'è la libertà di Rossellini) sono senza alcun dubbio dei capolavori. Ma il fatto è che, a parte queste e poche altre eccezioni, nel suo caso si può veramente dire che i film siano generalmente il pretesto (letteralmente pre-testo) mentre è Totò a costituirne il testo: le sue invenzioni pirotecniche, le sue trovate, le sue macchiette i suoi aneddoti che, come scrisse Umberto Barbaro, divengono, nella sua arte, elementi di una superiore armonia.
Si può dire che solo con Pasolini (di tutti i suoi registi quello apparentemente più lontano da lui) Totò si fa docile, pur senza diventare remissivo. Pasolini ne attenua le asperità, le ribalderie, e saltando nell'umanità, portando in primo piano il lato dolce, tenero, del personaggio. Fra' Ciccillo di Uccellacci, ma anche il perfido Iago di Che cosa sono le nuvole? (in realtà una povera marionetta che ha passato tutta la vita in uno scalcinato teatrino di provincia senza avere mai avuto la possibilità di vedere, appunto, le nuvole) diventano così tue maschere tra le più memorabili della sua arte. Peccato che pochi, pochissimi abbiano visto questo breve episodio del film Capriccio all'italiana, perché il dialogo finale tra Iago e Otello (ovvero tra i due pupi che li impersonano, Totò e Ninetto) è, nella sua levità, quanto di più metafisico ci abbia dato Pasolini. tanto da farci rimpiangere un altro progetto che lo scrittore friulano non poter portare più a termine proprio per la morte improvvisa di Totò. si trattava, credo, di un altro breve episodio i Re Magi si mettono in cammino per andare a rendere omaggio a Gesù. Affrontano disagi e peripezie, Finché uno dei tre(Totò, naturalmente) si perde. Quando finalmente riuscirà a raggiungere il posto, la cerimonia è già finita da un pezzo. Stanco, deluso, si accascia al suolo. In quel preciso momento un Angelo lo vede, si china su di lui e lo porta con sé in paradiso, al suono di una musica di Mozart.
Gianni Borgna, «L'Unità», 15 aprile 1987
La maschera che cercava Pirandello
Nel 1940, già «in arte» da oltre vent'anni, all'apice della fama come attore di rivista, e in vicinanza all'uscita del suo terzo film, Totò non sognava il cinema, bensì il teatro. ma un teatro «con il coraggio del varietà». Ed esemplificava: Sei personaggi in cerca d'autore, La piccola città. E spiegava: «Questa affermazione può fare inorridire ma provate a pensare Petrolini con il genio di Pirandello». Sono questi i pensieri di Totò, appunto, contenuti in un eccezionale intervista a firma di Cesare Zavattini, a parsa allora su Scenario. Zavattini era stato, in quello stesso periodo, Uno degli sceneggiatori (e per timidezza non vuole esserne anche il regista) di San Giovanni Decollato: che, vedi caso, derivava da una commedia di Nino Martoglio (cioè del Padrino di Pirandello drammaturgo).
Totò Tuttavia, se dobbiamo dar credito Zavattini, immaginava qualcosa di ben altro dalle buone farse della tradizione meridionale, siciliana (Martoglio) o napoletana (Eduardo Scarpetta, che aveva frequentato sulla scena in gioventù, e col quale si sarebbe incontrato di nuovo sullo schermo, nel 1954, del resto assai felicemente). Dal varietà, sua prima radice, dalla rivista, che del varietà costituiva in qualche modo una sistemazione, e gli avrebbe voluto davvero prendere il volo: «nessuno si accorge che Certe sere Io combatto una battaglia violentissima: Totò contro il suo repertorio. sono momenti nei quali mi sembra di soffocare, E allora mi mi vedete spiccare un salto straordinario - vi assicuro, straordinario- e tento di arrampicarmi su per il sipario. reagisco alla consuetudine della recitazione, Direi che è un fatto fisico. Vorrei persino precipitarmi nella voragine della platea e correre sulle teste degli spettatori…».E prima, sempre Totò, parla dell'«urgenza di una regia che doni al palcoscenico dimensioni sbalorditive».
Si chiarisce così riferimento al Pirandello dei Sei personaggi, al Thorton Wilder (certo meno rivoluzionario) di Piccola città, grande benefico scandalo del teatro italiano nel 1940. Quanto Pirandello, se non correva proprio, alla lettera, sulle teste degli spettatori, di sicuro faceva esplodere bombe nei loro cervelli(come aveva scritto, con acuta puntualità, Antonio Gramsci). Le connessioni tardive, e immediate del cinematografo, fra Totò e Pirandello (ne L'uomo la bestia e la virtù, ne La patente) sono appena un pallido riflesso del legame profondo tra due personalizzare artistiche lontane quanto si voglia, eppure unite dall'intento comune di scardinare ogni regola, nella rappresentazione della vita e nella vita stessa. ma sin dal 1933, Umberto Barbaro aveva identificato in Totò, nella sua «strabocchevole ricchezza mimica», che «trascende costantemente il significato della narrazione dell'azione scenica, un mondo poetico è strano, che è suo patrimonio esclusivo, e cioè a dire quasi non formulabile in forma diversa». L'«unicità» di Totò dunque intuita per tempo, e si capisce illuso incredibile da lui fatto del proprio corpo non era solo frutto di una tecnica prodigiosa, ma tendenza a un'espressività totale, sovrumana più che surreale metafisica (questi ultimi essendo gli aggettivi molto spessi adoperati al suo riguardo).
La situazione storica e le congiunture personali fecero sì che, dalla libertà condizionata del varietà e della rivista, dove pure lascia un segno indelebile, alle gabbie sgangherate di troppi film concepiti, si direbbe, non in funzione di Totò, ma di una sua controfigura, l'«unicità» dell'artista risultasse travisata o comunque attenuata. anche le migliori prove fornite nel cinema rendono parziale giustizia al suo genio. I copioni degli spettacoli teatrali da lui interpretati delineano una lieve traccia per la memoria di chi, oggi non più giovane, abbia avuto la gioia di assistervi nel decennio '30-'40. Semmai, ora si può meglio apprezzare da vivacità ed arditezza della satira politica che in essi si esercitava, perfino nei cupi anni dell'occupazione nazista. si pensi a Che ti sei messo in testa? di Michele Galdieri, 1944, dove Totò-Aligi introduceva di frodo i versi «Io penso alle mie pecore / che hanno smesso di belare». Ma questo è già un altro discorso.
il Totò maggiore, benché per qualche verso erede di una tradizione, era nella sostanza in anticipo su un'epoca come la nostra, nella quale l'assurdo sarebbe diventato pane quotidiano. «Il riso provocato dalle deformazioni corporali e facciali di Totò» scriveva Sandro De Feo nel 1967 «sembra quasi una conferma di alcune tendenze che i nuovi teorici del comico hanno scoperto nell'anima dei nostri contemporanei una certa crudeltà distorsioni sta da camera di tortura e, in generale, un certo gusto del disarticolato, del dissociato, e, Beninteso, del insensato». E notava, De Feo, come «nel senso di queste tendenze di questi gusti» muovessero sempre più «la musica, le arti figurative e la stessa letteratura» del secolo presente. E citava, come esempi forse facili, ma largamente comprensibile, la dodecafonia e la pittura di Picasso» (è il Picasso della risata era il titolo dell'articolo). Avrebbe potuto citare egualmente, crediamo, il teatro di Pirandello, Dov'è in tema di dissociazioni, di disarticolazioni, di crudeltà da camera di tortura, gli argomenti non fanno difetto.
Ma guardate ancora il caso. Nel 1965, dopo La mandragola Machiavelliana, dove fu un memorabile Fra’ Timoteo, Alberto Lattuada aveva proposto a Totò un film da una novella di Pirandello, La cattura. E Totò era entusiasta dell'idea. Poi, come succede, non se ne fece più nulla. Ci fu invece di incontro con Pasolini. Ma anche questa è un'altra storia.
Aggeo Savioli, «L'Unità», 15 aprile 1987
Totò, comicacci e comichini
Critici e attori a vent'anni dalla sua scomparsa
Contro chi si può usare oggi Totò? Fortunatamente contro nessuno. A cent'anni dalla morte, le celebrazioni sono caute e imbarazzate: è giunto il momento di fare davvero i conti con l'attore e col personaggio, con la sua eredità e la sua presunta unicità, e tutto sembra già detto, perso in una polemica di cui non si ritrova il sapore. Totò è servito in passato ai critici per regolare certe pendenze e certi ritardi. All'indomani della morte la rivalutazione del protagonista di tanti film comici affrettati e corrivi, la rivendicazione della maschera popolare costituivano forse il solo modo per liberarsi dei tanti conformisti e virtuosamente indifferenti (non per snobismo, ma per saggezza piccolo borghese).
Poi, il culto leggermente blasfemo di Totò è stato superato dall'amore onnicomprensivo per il genere popolare e per gli stereotipi: sbalestrata, la figura dell'attore s'è trovata più in alto delle sue ambizioni, un santino incongruo, da Usare eventualmente contro i nuovi conformisti, disposti alla venerazione di Totò, ma non di Franchi e Ingrassia. D'improvviso, i rivoluzionari di Totò dovettero difendere la maschera contro il genere: non tutto ciò che e sancito dal successo si giustifica, Totò era unico e inimitabile, non ce ne saranno altri come lui, è irripetibile il rapporto di Totò con la risata arcaica e sottoproletaria (solo un principe nato illegittimo poteva).
Adesso che la critica sonnecchia e sembra aver consumato i suoi più sottili contrasti, adesso che par rifiorire un pallido formalismo, non si sa più verso chi puntare l'arma Totò. Non verso i critici, comunque, che tutt'al più si distinguono nel gioco della filmografia, quali film salvare, quali perdere, per fortuna Totò ebbe anche commercio con i grandi. Ovvio rispettare «Uccellacci e uccellini», ma il Totò più pasoliniano è negli episodi dei film-scatola, in «Che cosa sono le nuvole» di «Capriccio all'italiana», in «La terra vista dalla luna» di «Le streghe». I gesti di coraggio cominciano con Bragaglia, con Mattòli, i registi dell'abitudine. E' possibile tralasciare, raccogliendo l'essenziale, il secondo film di Totò. «Animali pazzi» del 1939. E tra i capitoli mattoliani, si dovrà dare la preferenza a «Totò sceicco». E quanto c'era di sospetto nel sobrio patetismo di «Guardie e ladri» e di «Totò e Carolina»! E vi ricordate nel rosselliniano «Dov'è la libertà» con Franca Faldini, poi compagna dell'attore e depositaria della sua memoria? Gli diceva: «Ti piacciono gli occhi miei?»
Abbandonato come arma critica, Totò è tornato alla sua maschera, finalmente libero d'esseri rivisto (la selezione imposta dai canali tv), naturalmente esposto agli attacchi dell'attualità. L'uso di spezzoni dei film di Totò, appositamente ridoppiati con frasi pubblicitarie, per gli spot d'una catena di supermercati in tv ha suscitato le proteste non solo dei più fedeli custodi della sua eredità d'attore. Ma come? Si evoca Totò per smentirlo? Gli si altera il testo quando lui non può più opporsi?
L'operazione biasimevole certo non si riscatta per le sue attenuanti, ma dimostra che Totò, mentre i critici discutevano, è diventato patrimonio comune, una maschera istituzionale da utilizzare nei discorsi ellittici degli spot, come Chaplin, Marilyn Monroe, Fred e Ginger, che però non subiscono l'onta della manomissione.
Se non più contro qualcuno, si adopera all'occorrenza Totò contro se stesso; ma c'è oggi qualcuno che usi Totò in proprio favore. Se Totò tornasse in vita come sarebbe messa a rischio la sua unicità? La fabbrica del cinema provvederebbe subito a correggere l'unicità con la continuità: negli Anni '50 e '60 Totò alternò la storia antica con la cronaca contemporanea, fu volta a volta «diabolicus», «sexy», «di notte», «Baby», «d'Arabia», frequentando nel contempo «Eva», «Cleopatra» e «i giovani d'oggi». Se tornasse, avremmo Reagan e Totaciov, Totò e i referendum, Totò e i ladri di Usl, Totoon.
Perché, verso le maschere, il gioco e di sfruttarne il forte radicamento originario, compromettendole comicamente col mondo che cambia. Così, tentano tutti l'effetto Totò i comici italiani d'oggi, salvare la faccia nelle peggiori situazioni, restare se stessi, diventare patrimonio comune, ognuno rivendicando la sua nascita. Nel Pantheon si mescolano Italia contadina, piccolo borghese, rampante e coerente arrivo, demenziale. Chissà che posto vi avranno i vecchi (il monolitico e multiforme Sordi) e quale si faranno i giovani. Chissà se a Benigni gioveranno gli avi contadini, se la pigrizia nuocerà a Troisi, se potrà trasformarsi in maschera la fissità metropolitana di Pozzetto, se qualcosa si consoliderà a simbolo nelle liquide espressioni dei mezzi televisivi. Dopo tutto, farà la differenza l'anima del comico, la qualità tempestiva delle sue doti. «Una pinzellacchera», diceva Totò.
Stefano Reggiani, «La Stampa», 15 aprile 1987
«Una moneta d’oro incastonata in un bracciale era il generoso regalo che preferiva fare Totò ed io, vedendolo al polso di qualche altra donna, scoprivo i suoi tradimenti». Queste le parole di Franca Faldini, compagna di Totò, nella seconda parte dello special di Maurizio Costanzo: «Totò 20 anni dopo», che apre la puntata di «Buona domenica», in onda alle 14 su Canale 5.
Ospiti, accanto alla Faldini, Elena Giusti, Silvana Pampanini, Dante Maggio, Ninetto Davoli e Vittorio Caprioli.
«Corriere della Sera», 19 aprile 1987
E' Totò la grande videostar di Pasqua
Lo ricordano Carrà e Costanzo.
ROMA — Pomeriggi pasquali nel nome di Totò: sia Raffaella Carrà che Maurizio Costanzo hanno preparato per oggi servizi dedicati al grande comico scomparso venti anni fa. A Domenica in, su Raduno a partire dalle 14, interverrà la figlia Liliana, arrivata dal Sud Africa per raccontare i ricordi su suo padre, mentre di Buona domenica sarà ospite la compagna dell'attore Franca Faldini. [...]
A Buona domenica, in onda su Canale 5 dalle 14 alle 20,30 (oggi senza l'intermezzo del film), sono invitati per parlare di Totò, oltre alla Faldini, Elena Giusti, Silvana Pampanini, Dante Maggio, Ninetto Davoli e Vittorio Caprioli che interpreterà alcune poesie inedite dell'attore.
f.c., «La Stampa», 19 aprile 1987
Affettuosamente Totò vent'anni dopo
Quali, nella settimana, i programmi più «pasquali», ossia improntati a quello spirito cristiano che il video, doverosamente, aveva il compito di evocare? Direi, certi programmi che sono rifluiti fra le righe, meno espliciti, nell'assunto, dei soliti Barabba (Raiuno, giovedì), Jesus Christ Superstar (sempre Raiuno, venerdì), oppure Storia ai una monaca (Canale 5, venerdì), buon prodotto confezionato dal regista Fred Zinnemann, con la diligente interpretazione di Audrey Hepburn e Peter Finch. Tutte trasmissioni, queste, che vengono puntualmente riciclate allorché la Tv deve mostrare di possedere, in magazzino, un cuore votivo. No, credo che lo spirito cristiano meglio si sia espresso in altro, più indiretto modo.
Un esempio: Maurizio Costanzo, a cui non si può certo negare una mente fertile di idee appropriate alle circostanze, ha curato per Canale 5 (martedì): Totò 20 anni dopo. Antonio De Curtis, infatti morì, a sessantanove anni, il 15 aprile 1961. Anche la Rai poteva ricordarsi di una coincidenza così opportuna; se n'è ricordato Costanzo, il quale ha firmato un toccante poemetto per immagini, in collaborazione con Franca Faldini, che è stata la compagna del grande comico negli ultimi quindici anni della sua vita.
Ci si chiederà: cosa c’era, di cristiano, in Totò? Si può rispondere: moltissimo, sia nella sua arte che nella sua esistenza. Anzitutto, e a lungo, il dolore per non essere compreso, apprezzato. Ricordo quando, nel '54, mi recai a casa dell'attore per proporgli un libro che raccogliesse i testi delle sue interpretazioni più significative, oltre che un primo tentativo di analisi critica della sua maniera di essere poeta (il progetto rifluì, in buona misura, nel mio I grandi Comici).
Con una sorprendente umiltà, Totò mi obiettò: «Ma non crede di compromettersi, occupandosi di me?» Il dolore, appunto, che spinge un uomo a sentirsi escluso nella stessa misura in cui egli sa benissimo di essere geniale. Cristiana, poi, l'arte di Totò; in questo senso, che lui precisava, alla maniera sua, nei nostri colloqui: Dio ha una sua eterna fanciullezza, guai a prenderla senza la giocosità dello spirito; Cristo è anche allegria; benché i Vangeli non sottolineino mai il suo sorriso. E, di sicuro, c'è più pietà per gli esseri in una mossa geniale di un mimo quale Totò che in una lunga litania, detta tanto per stare in pace con se stessi. [...]
Alberto Bevilacqua, «Corriere della Sera», 19 aprile 1987
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- si. ro., «La Stampa», 5 aprile 1987
- Maria Novella Oppo, «L'Unità», 11 aprile 1987
- Ugo Casiraghi, «L'Unità», 15 aprile 1987
- Gianni Borgna, «L'Unità», 15 aprile 1987
- Aggeo Savioli, «L'Unità», 15 aprile 1987
- Stefano Reggiani, «La Stampa», 15 aprile 1987
- «Corriere della Sera», 19 aprile 1987
- f.c., «La Stampa», 19 aprile 1987
- Alberto Bevilacqua, «Corriere della Sera», 19 aprile 1987