Jella e pinzellacchere

1990 Liliana de Curtis

1951 06 28 Settimo Giorno Toto Pampanini intro

In anteprima un capitolo di «Totò mio padre», il libro di Liliana de Curtis. Il principe della risata era certo un «uomo di mondo», ma conservava superstizioni e piccole manie. Nascoste da un cuore grande così

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È molto semplice. Che successo avrebbe avuto Ciriaco De Mita se non ci fosse stato Totò? E Aldo Biscardi? E Cava? E Arbore? Renzo Arbore riconosce con gratitudine quest’eredità nella prefazione al libro di Liliana De Curtis "Totò mio padre", che Mondadori manda in libreria in questi giorni, e di cui Europeo anticipa un capitolo qui di seguito. Comunque, una cosa è certa: questi ultimi vent'anni di cultura e culturetta italiana devono molto al principe De Curtis. E alla diffusione massiccia del suo mito, nato sì da una «riscoperta» colta (come sono brutte le «riscoperte»...), ma anche da una sempre viva e popolarissima Totò-mania centromeridionale senza la quale non sarebbe mai esistita nessuna riscoperta.

Con la circolazione ripetuta e costante delle battute e dei lazzi del principe Totò, tutte le classi (soprattutto quella medioborghese, che l’avrebbe scordato presto e ripescato come delicatezza da intenditori) si sono sentite coinvolte dal suo linguaggio e dalla sua visione della società italiana. Queste due indissolubili particolarità del personaggio Totò hanno risvegliato qualcosa di mai sopito nella coscienza popolare dei nostri connazionali: Iodio-amore per ogni forma di abuso, riuso e sopruso del linguaggio che dà vita a una naturale diffidenza italica verso chi tale linguaggio adopera. Tutto è giocato li. Il ragionier Casoria e l’onorevole Trombetta sono i nemici di Totò in quanto rappresentano un piccolo potere quotidiano che parte proprio dalla padronanza o tracotanza della lingua. La risposta del cittadino Totò è sempre stata quella di demolire questa lingua scomponendola. Nella ingenua speranza, oltre tutto, di potersene servire per un insperato passaggio sociale.

E infatti, quando cerchiamo di ricordare qualcosa di Totò, ci resta in bocca un impasto di «a prescindere», «ha da venì», «poi dicono che ti sposti a sinistra». Frasi colte al volo da una realtà italiana del dopoguerra che spiegano però esattamente il senso dell'operazione che il principe ha compiuto sul linguaggio.

Non c’è bisogno che arrivi Leo De Berardinis a dircelo, per quanto il suo "Totò, principe di Danimarca" dimostri la portata del discorso linguistico del comico a tanti anni di distanza. Ma coscientemente o meno, tutti abbiamo capito o digerito il principio di Totò, perché nessun uomo di potere è credibile o non sbeffeggiabile dopo la sua rivoluzione linguistica.

Non solo. Siamo passati oltre. Grazie alla riappropriazione del linguaggio di Totò da parte dei nostri comici più giovani, personaggi platealmente parodistici come Biscardi o De Mita risultano simpatici o comunque più vicini al baraccone dello spettacolo linguistico all'italiana che da sempre amiamo e conosciamo, anche perché la nostra comicità è sempre stata di battute e di personaggi, mai visiva e di gag. Purtroppo rimane intatta anche la carica qualunquista del Totò piccoloborghese degli anni Sessanta, quello dello sberleffo facile che non riusciva a distinguere troppo tra i bersagli che aveva di fronte.

Marco Giusti


Dopodomani è venerdì? Vi conviene di partire? Di Venere e di Marte... mah!

da Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo (1900-1984)


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Da napoletano «verace», Totò era tremendamente superstizioso. Odiava il tredici e il diciassette, a tal punto che se in treno gli capitava il posto contrassegnato da uno dei numeri incriminati, rinunciava subito al viaggio. Naturalmente evitava di partire e di prendere decisioni importanti il venerdì e il martedì e detestava il viola come la maggior parte degli attori. Inoltre sebbene amasse molto gli animali, fuggiva come la peste i gatti neri. Questa fobia gli era scoppiata dopo la morte di Liliana Castagnola che, sul punto di togliersi la vita, gli aveva scritto di averne sentito miagolare uno. Da quel giorno Totò, quando vedeva un gatto di pelo scuro, se la dava a gambe senza nemmeno accertarsi se la bestiola fosse veramente nera.

A parte queste superstizioni «classiche», mio padre aveva una terribile paura degli jettatori. La tradizione popolare vuole che, per neutralizzare i loro influssi malefici, occorra prima di tutto individuarli e in questo campo Totò era una vera autorità. Secondo lui, lo jettatore era caratterizzato anzitutto dalla forma degli occhi che, se scendevano ai lati, rappresentavano il primo campanello d’allarme. Un altro segno preoccupante poteva essere il naso all'ingiù, ossia un naso che, come diceva lui, «piscia in bocca». Se poi l’individuo in questione aveva anche il sorriso mellifluo e un fare viscido, sui suoi poteri malefici non c’erano dubbi. A questo punto si poneva il problema di esorcizzarlo e in proposito papà aveva elaborato un machiavellico piano difensivo che quasi sempre funzionava, almeno nella sua fantasia.

«Lo jettatore in fondo è un povero disgraziato, un invidioso, un frustrato che rovescia sugli altri la propria insoddisfazione» spiegava. «Tuttavia è pericoloso e allora bisogna debellarlo. Come? La prima regola è quella di non irritarlo, di dimostrargli sempre la massima cortesia. Lui vi guarda storto? E voi rispondetegli con un sorriso. Lui vi dice una frase maligna? E voi replicate: "Amico mio, quanto sei caro. Dimmi che cosa posso fare per te Lo so, è dura, ma la guerra è guerra e non si può andare troppo per il sottile. Un'altra preoccupazione importante è quella di ridurre al minimo i contatti col menagramo di turno: a volte anche una stretta di mano può essere pericolosa».

Oltre a essere superstizioso, papà aveva una serie di piccole manie che rivelano lati insospettabili del suo carattere. Ad esempio, si lucidava le scarpe da solo perché considerava indelicato affidare questo compito alla servitù. «Dev’essere scocciante pulire i contenitori dei piedi altrui» diceva. «Figuriamoci, poi, se dovessero puzzare».

C’era solo un caso in cui veniva meno a questa regola: in occasione dei suoi viaggi a Napoli, sempre piuttosto frequenti. Pur vivendo benissimo a Roma, infatti, mio padre era spesso preso dalla nostalgia della sua città: era un impulso irresistibile che lo spingeva a mettersi in macchina, magari di notte, ansioso di ritrovarsi tra la sua gente. A Napoli, una volta ogni due mesi, Totò aveva un appuntamento fisso con uno sciuscià piuttosto attempato che, avendo perso una gamba in un incidente, lucidava le scarpe per interposta persona, cioè facendo lavorare un ragazzino sotto la sua super-visione. E mio padre, contro i suoi principi, si valeva dell’opera dell'amico sciuscià che poi ricompensava con diecimila lire, una cifra astronomica per gli anni Cinquanta. Una volta, pressato dagli impegni di lavoro, papà rimase lontano da Napoli per quattro mesi e quando andò a trovare il suo lustrascarpe, lasciandogli la solita cifra, si sentì dire in tono un po’ risentito: «Principe, mi dispiace, ma dovete darmi altre diecimila lire. Voi per me rappresentate una rendita fissa e faccio conto sul vostro aiuto: se me lo fate mancare, dovete risarcirmi». Totò rifletté un attimo, poi sorrise con dolcezza e rispose: «Amico mio, hai ragione. Ho sbagliato e ti prego di scusarmi». E, tolte dal portafogli altre diecimila lire, le diede al poveruomo promettendogli che non gli avrebbe fatto mancare più la sua rendita. Avendo patito la povertà e tutte le umiliazioni che essa comporta, mio padre aveva la massima considerazione per gli umili e un rispetto persino eccessivo per i dipendenti. Ad esempio, all'ora dei pasti esigeva che i domestici venissero serviti prima di noi. «Altrimenti potrebbero credere di mangiare i nostri avanzi» spiegava.

Col suo autista, Carlo Cafiero, poi, aveva un rapporto tutto speciale, basato sulla stima e sulla fiducia nel suo senso artistico. Ogni volta che scriveva una poesia, infatti, papà gliela recitava per sentire il suo parere. Carlo era sempre sincero e se qualcosa non gli andava lo diceva apertamente, cosa che papà apprezzava moltissimo. Quando otteneva la sua approvazione, si sentiva tranquillo. uno dei ricordi più belli e strani della mia adolescenza sono le passeggiate in macchina che facevo con papà e l'autista. Mentre ci dirigevamo verso il mare, Totò recitava i suoi versi più recenti e Cafiero, intonato come la maggior parte dei napoletani, li ripeteva canticchiando in modo piacevolissimo. (...)

Un’altra accattivante stranezza di papà era il suo rapporto di amore-odio con Sant’Antonio. Il primo elemento di conflitto tra lui e il suo santo protettore era il fatto che questi lo «costringesse» a festeggiare l’onomastico il 13 giugno, data per lui infausta.

«Con tanti giorni che ci stanno in un mese proprio quello mi doveva capitare» brontolava accigliatissimo, ma poi, quando aveva bisogno di qualcosa, si rivolgeva sempre a Sant’Antonio. Teneva una sua immagine in camera da letto e se aveva un problema di qualsiasi genere si raccoglieva in preghiera chiedendogli, a suo modo, la grazia. E aveva tanta fiducia nell’intercessione del suo omonimo celeste che, se per caso restava deluso, non riusciva a trattenersi. «Sant’Antonio mio, scusami tanto, ma stavolta ti sei comportato male», brontolava alla sacra immagine e, in segno di protesta, la girava verso il muro. «Non si tratta così un tuo fedele, un vero amico come sono io». Le liti fra Totò e il santo, però, duravano poco. Dopo averlo tenuto in castigo per qualche ora, mio padre si pentiva e, sentendosi un peccatore, rimetteva a posto l’immagine mormorando: «Caro Sant’Antonio, perdonami se ti ho offeso. Non ne parliamo più: vuol dire che la grazia me la farai la prossima volta».

La religiosità di Totò, sempre al limite della superstizione, si esprimeva anche nella sua passione di collezionare santini. Immaginette sacre di ogni tipo che raffiguravano tutti i santi e i beati del calendario non mancavano mai nei suoi cassetti, tra le pagine dei libri e nelle tasche delle giacche. Spesso mi sono chiesta dove andasse a scovarle. Probabilmente visitava le chiese di nascosto. La riservatezza era un’altra caratteristica di Totò, che per nessuna ragione al mondo avrebbe reso noto le sue innumerevoli opere di bene (...). Ogni anno, a Pasqua, riempiva la macchina di uova di cioccolato e insieme al fedele Cafiero andava a Napoli per distribuirle agli scugnizzi del rione Sanità. Vederlo felice tra loro, che facevano a gara per abbracciarlo e baciarlo, era uno spettacolo straordinario. In quel momento, ne sono certa, mio padre si ritrovava in quelle creature cresciute nel bisogno. (...)

Una volta a Firenze papà incontrò Giulio Andreotti e si lamentò con lui per l’esosità del fisco italiano. Tuttavia puntualizzò che se anche in Italia fosse stato possibile detrarre dalle tasse le opere di beneficenza, come si usa in America, non l'avrebbe mai fatto. «Se mi comportassi cosi la mia generosità perderebbe ogni significato», spiegò al ministro. E fino all’ultimo giorno di vita continuò a elargire grosse somme di denaro a favore, come diceva, «degli uomini e delle bestie meno fortunati di me».

Alla sua abituale malinconia, papà alternava momenti di allegria sfrenata da scugnizzo in cui si divertiva a organizzare scherzi «da prete». In questo aveva un talento speciale. Una volta prese di mira un trasformista che usava cambiarsi in pochi secondi dietro le quinte esibendosi in personaggi sempre diversi, un po’ alla Fregoli. Lo trovava simpatico, ma non seppe resistere alla tentazione di giocargli un tiro mancino. Poco prima dello spettacolo gli inchiodò le scarpe al pavimento e gli cucì le maniche alla giacca. Il povero trasformista si arrabattava invano nel tentativo di cambiarsi l’abito, mentre il pubblico aspettava perplesso e Totò rideva fino alle lacrime. (...)

A questi scherzi puerili se ne alternavano altri costruiti con cura che avrebbero potuto dare spunto a uno sketch. Uno l’organizzò ai danni di Virgilio Riento, con la complicità di Aldo Fabrizi. Aldo era un caro amico di mio padre, che ne apprezzava la profonda onestà e l’umorismo romanesco che, a suo parere, era in perfetta sintonia con quello napoletano. (...)

Già allora Fabrizi era un cultore della buona cucina e a volte ci preparava i suoi piatti preferiti: bucatini all’amatriciana e carciofi alla giudìa. Papà li gustava con gioia, accresciuta dalla buona compagnia. Poi, quando Aldo se n’era andato, continuava a parlare di lui. «È un grande attore, una bravissima persona e sa pure cucinare», osservava. «Che si può chiedere di più a un amico?».

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La burla organizzata da mio padre e da Fabrizi ebbe come scenario Parigi, durante una breve vacanza a cui parteciparono anche la mamma e, appunto, Virgilio Riento. Eravamo negli anni Quaranta, quando la libertà sessuale era ancora un miraggio, e il soggiorno in Francia fu caratterizzato dalla viva euforia del terzetto maschile, incantato dalla spregiudicatezza delle parigine. In un locale notturno Fabrizi rimase colpito dai posteriori delle cameriere, esibiti serenamente senza veli. Chinandosi su quelle rotondità le esaminava con l’attenzione di uno scienziato che studia una cellula al microscopio. «Ma come fanno ’ste ragazze ad avere le chiappe così lisce?», domandava. «Quelle nostrane hanno sempre un foruncoletto, una piega, un neo, mentre queste son meglio delle guance di un bebè». Ringalluzzito dai culetti al vento, Virgilio manifestò il desiderio di un’avventura peccaminosa, un’evasione che spezzasse la routine dell’erotismo casereccio. Totò e Aldo si scambiarono un fulmineo sguardo d’intesa, poi gli indicarono una fascinosa bionda seduta al bar, sexy ed elegantissima in un abito aderente, coi riccioli sciolti sulle spalle. «La vedi quella?», disse Totò a Riento. «È una femmina eccezionale, una specie di centrale del sesso. Ho notizie sicure perché mi sono informato sul suo conto. Costa un po’ cara, ma ti consiglio di non badare a spese perché una notte con lei non ha prezzo».

Fabrizi annuiva gravemente e Virgilio, con la curiosità del provinciale, decise di abbordare la ragazza. E mentre usciva con lei dal locale, lanciò uno sguardo complice agli amici. La serata finì così, fra le risate di mio padre e di Aldo, che la mamma sul momento non riusciva a spiegarsi. Capì tutto il mattino dopo, quando Virgilio bussò trafelato alla porta della sua camera cercando affannosamente Totò. Papà, che era ancora a letto, gli domandò con aria sorniona: «Come andata l’avventura?».

«Non me ne parlare», esclamò Riento. «Mi e capitata una cosa terribile! Appena siamo arrivati a casa della ragazza, tra luci soffuse e champagne, siamo subito entrati in confidenza. La stringevo tra le braccia in estasi, ma quando stava per cedermi ho avuto una sorpresa orrenda: tu non ci crederai, ma quella femmina meravigliosa è un uomo! Sì, hai capito bene, ho baciato un maschio! Che schifo! Roba da rimanere scioccato per tutta la vita».

A SCUDISCIATE

Totò, divertitissimo, ostentò la massima sollecitudine e ribattè: «Virgì, capisco il tuo stato d’animo, ma non ti devi preoccupare. Per farti passare il disgusto, Aldo e io ti combineremo un altro appuntamento per stasera. Stai sicuro che stavolta avrai una donna vera». Il povero Riento, che era un ingenuo e agognava di portarsi a letto una parigina, ringraziò calorosamente e si recò fiducioso al secondo convegno.

La mattina dopo, Diana lo vide ricomparire, ancora più sconvolto. «Mi è capitato un altro guaio. Stavolta la ragazza aveva le carte in regola, ma si è presentata con gli stivali neri e un frustino. Se non la fermavo mi avrebbe scudisciato senza pietà. Per fortuna sono riuscito a scappare con i pantaloni in mano. Ma giuro che non ci riprovo più! Piuttosto di correre altri rischi sai che ti dico? Io me lo taglio!».

A quel punto Totò e Fabrizi scoprirono le carte: l’avevano mandato da una prostituta specializzata in giochi sadomasochisti. Virgilio rimase di stucco, poi, dopo un primo momento di stizza, finì col ridere insieme agli amici: «Va be’, abbiamo scherzato», disse a mo’ di conclusione, «ma io per prudenza la prossima volta vado con un’italiana».

Liliana de Curtis


Grazia
Marco Giusti - Liliana de Curtis, «L'Europeo» n.43, 26 ottobre 1990