Liliana de Curtis: «la malafemmena di mio padre era...»
A ventitré anni dalla scomparsa di Totò, Malafemmena rimane una delle più belle canzoni italiane, riproposta recentemente dalla grande Mina. Mi sembra giusto, quindi, raccontare chi era veramente Malafemmena, la donna fatale che ispirò mio padre e che, come lui stesso spiegò, era cosi definita perchè crudele e inesorabile nell'infliggergli il dolore della separazione. Ebbene la musa di Totò non fu Silvana Pampanini, come si è detto per molto tempo, ma mia madre, Diana Rogliani, l’unica, credo, che papà abbia amato veramente.
Per capire fino in fondo la loro tormentata storia occorre risalire al loro primo incontro e soprattutto tenere presente il particolarissimo carattere di Totò. Per lui realtà e finzione scenica si sovrapponevano continuamente e le sue scelte di vita riflettevano spesso il surrealismo della sua arte. Giudicarlo secondo un comune criterio di giudizio sarebbe impossibile: bisogna accettarlo e giustificarlo con tutte le sue contraddizioni.
Come racconto nel libro "Totò mio padre", che ho scritto con la giornalista Matilde Amorosi, i miei genitori si incontrarono per la prima volta nell’agosto 1931, in un teatro dove lui, trentatreenne, si esibiva con successo. Lei era un'educanda di appena 16 anni e quella sera, insieme alla sorella e al cognato Raniero di Censo, usciva per la prima volta di sera. Per l’occasione aveva avuto il permesso di sciogliere le trecce nere e di indossare le calze di seta. Per mio padre vederla ed innamorarsene fu tutt’uno, al punto che, durante l'intervallo dello spettacolo, chiamò Raniero in camerino e gli disse: «Voglio sposare tua cognata».
Fu una di quelle follie tipiche del suo carattere, ma lui non la considerava tale e la motivò col fatto che Diana incarnava il suo ideale femminile e che quindi non poteva «lasciarsela scappare». Mia madre inizialmente fu disorientata dall'improvvisa passione del suo corteggiatore, ma ne rimase colpita. Infatti tra i due iniziò una tenera corrispondenza amorosa. Totò, sempre in giro per le sue tournée, scriveva lettere dolcissime tra cui una in cui diceva: «Cara, il mio amore ti avvolgerà come un caldo mantello, riparandoti dalle intemperie della vita».
Alla fine Diana capii che la vita del collegio non faceva più per lei e, avvertendo papà con un telegramma, lo raggiunse a Roma. Totò, ricorda, stava ad aspettarla alla stazione, elegantissimo, con un braccio piegato dietro la schiena per nascondere un fascio di fiori. E fu a Roma, nell’Albergo Ginevra, che il loro amore diventò completo. Papà, prima che un amante appassionato, si rivelò un delicato «maestro d’amore» per evitare traumi alla fidanzata-bambina. Quando lei, finalmente a suo agio, si tolse il camicione da educanda, Totò lo raccolse, lo baciò e lo conservò come una reliquia tra le sue cose più care.
La fuga d’amore costò a mio padre una denuncia per corruzione di minorenne da parte della mamma di Diana. Ma lui, chiamato in questura, garantì che le sue intenzioni erano serie e la questione fu archiviata. Le nozze, tuttavia, tardarono, perché mia madre era nata a Bengasi e i documenti erano irreperibili Superate le difficoltà burocratiche, il 15 aprile del '35, quando io avevo due anni, i miei genitori, nella Chiesa romana di San Lorenzo in Lucina, diventarono marito e moglie. Si amavano profondamente, ma il loro rapporto fu sempre tormentato soprattutto per la morbosa gelosia di mio padre. Basti pensare che per controllare la giovanissima moglie pretendeva che lei lo seguisse sempre in teatro, costringendola ad allattarmi dietro le quinte. Mia madre era molto bella e ogni volta che qualcuno le rivolgeva un complimento Totò ne faceva una tragedia, esprimendo il suo stato d’animo in una frase emblematica: «Diana, vorrei che tu diventassi piccola piccola per chiuderti in una scatolina e portarti sempre con me nella tasca del gilet».
La paura angosciosa delle corna spinse Totò a un gesto apparentemente pazzesco, ma in realtà consono al suo parossistico modo di amare. Nel ’39, anno a cui erroneamente i biografi di mio padre fanno risalire la separazione definitiva dei miei genitori, papà chiese ed ottenne l'annullamento del matrimonio all’estero, continuando, però, a vivere con Diana. Le spiegò la sua decisione come se fosse la cosa più normale: «Adesso che siamo tornati “signorini" sono certo che tu stai con me perché mi vuoi veramente bene e in più non rischio di essere cornuto, sorte riservata ai mariti».
La mamma amava troppo papà per contestarlo, ma certo soffrì molto di essere retrocessa dal ruolo di moglie a quello di amante. Il clima di tensione fu acuito dal mio incontro con Gianni Buffardi che in seguito avrei sposato. Papà non lo voleva come genero, mentre mia madre cercava di assecondarmi. Totò, che aveva la mentalità del patriarca, si senti spodestato dal ruolo irrinunciabile di capo famiglia e i litigi in casa diventarono all'ordine del giorno.
Fu in quel periodo, nel '47, che papà girò con Silvana Pampanini un famoso film, Quarantasette, morto che parla, restando conquistato dalla sua bellezza. Tra loro, come ha raccontato più volte l’attrice, ci fu un legame solo platonico, un «flirt» che portò a papà una ventata di giovinezza. I pettegolezzi arrivarono all'orecchio di mia madre che in quel periodo era corteggiata da un avvocato, Michele Tufaroli, come accade inevitabilmente alle mogli belle e trascurate. Fu assalita, confessa, da una folle gelosia nei confronti di Silvana e la rivelò a papà durante una lite: aveva paura di perderlo perché lui, anagraficamente libero, o meglio «signorino», avrebbe potuto sposare la Pampanini come già annunciavano i giornali.
Quella lite fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Mia madre se ne andò di casa, lasciando papà solo e disperato, al punto che, per la tensione nervosa, aveva spesso dei deliqui. In pubblico mostrava per così dire la maschera, ma tra le pareti domestiche non nascondeva il suo dolore, che diventò irreparabile quando Diana sposò Michele Tufaroli. In quel momento Totò ebbe la sensazione che il mondo gli crollasse addosso. Ignorando i suoi torti nei confronti di Diana, si senti ingiustamente tradito e per sfogare la sua delusione, scrisse Malafemmena. Silvana Pampanini può, in buona fede, aver creduto di essere lei la musa di Totò, ma mai un rapporto platonico e breve, come quello che la legò a papà, avrebbe potuto ispirare versi così accorati.
A conferma, poi, che è Diana e non Silvana la fatale Malafemmena, esiste una dedica autografa di papà che dedica la canzone a Minuzzi (1), il nomignolo che aveva inventato per la mamma. Ma c’è di più: nel '57, quando già viveva con la sua nuova compagna, Franca Faldini, e Diana si era separata dal secondo marito, mio padre le regalò i proventi dei diritti d’autore ricavati dalla sua più bella canzone, impiegandoli per comperarle una casa. Il gesto generoso, tipico del grande cuore di Totò, era il suo modo per dirle: «Diana, mi hai fatto tanto soffrire, ma anch’io ho avuto le mie colpe e ti ringrazio di avermi amato tanto».
Liliana de Curtis
NOTE
- (1) Come affermato più volte da Diana Bandini Rogliani in interviste e nelle biografie ufficiali di Totò, il soprannome a lei dedicato da Totò fu "Mizzuzina"
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Liliana de Curtis, «Radiocorriere TV», anno LXVII, n.46, 18-24 novembre 1990 |