Diana: subito dopo avermi conosciuto, Totò mi disse: «signorina, vorrei sposarla»
Prima parte
La vedova del grande attore ha scritto di suo pugno per "Gente" la storia della sua vita - Parte 1 - Diana Rogliani, che fu la moglie dell'indimenticabile comico e che da lui ebbe una figlia, ha deciso di scrivere i momenti più belli e più tristi della sua storia d’amore - «Avevo 16 anni quando mi fu presentato: lui, appena mi vide, chiese la mia mano» - «In un primo momento rimasi confusa, poi il pensiero di lui iniziò a ossessionarmi» - «Per andare a vivere con Totò scappai di casa»
Roma, dicembre 1990
Tutte le volte che alla TV viene trasmesso un film di Totò, e la cosa capita sempre più spesso, il mio posto è lì, davanti al video. Quei film li conosco a memoria, ma ogni volta li rivedo per riassaporare, attimo per attimo, l’emozione che mi viene procurata da quel volto che mi è stato così caro. Quella voce, quei gesti che, per anni, hanno fatto parte della mia vita. Perché Totò è stato mio marito. Ed è stato il padre di mia figlia. E ancora oggi mi inorgoglisco all'idea che quest'attore impareggiabile sia ancora tanto amato dagli italiani ventitré anni dopo la sua scomparsa. Per questo mi fa piacere raccontare per Gente la storia del nostro grande amore, che ha il sapore di una favola d’altri tempi.
Per cominciare, però, devo parlare di me. Dunque: io avevo soltanto nove anni, nel 1924, quando morì mio padre, un generale dell’esercito italiano. Vivevamo a Firenze e mia madre, affranta da quel lutto che faceva ricadere sulle sue spalle ogni responsabilità, preferì che io, la più piccola tra due figlie, continuassi gli studi in un collegio per signorine di buona famiglia, il Demidoff. Dai dieci ai quindici anni trascorsi inverni molto malinconici in quell’austero palazzo sul Lungarno. Oltre alle materie scolastiche, ci venivano insegnate l’arte del cucito, del ricamo, il buon portamento e le buone maniere. Ogni anno, d’estate, andavo a trascorrere le vacanze in famiglia, nella nostra bella casa di via Lambertesca, a un tiro di schioppo da Palazzo Vecchio. Quell’estate del 1931 c’era a Firenze anche mia sorella, che era sposata con un attore di prosa, Raniero De Censo. Lei era in attesa di un bimbo. Fu proprio mia sorella a propormi, una sera di fine agosto, di andare a teatro con lei e suo marito. Io non avevo abiti adatti e così lei me ne prestò uno dei suoi, con il corpino di voile bianco e la gonna a ruota, su cui spuntavano dei mazzetti di fiori. Per l’occasione tolsi le calze bianche di cotone e indossai sandali di camoscio marrone con un accenno di tacco.
Prendendoci sottobraccio mio cognato ci disse: «Vi porterò a vedere uno spettacolo di varietà che sta spopolando: Le follie estive. Ne è protagonista Totò, un attore fantastico». Giunti al botteghino del teatro, mio cognato scrisse un biglietto in cui annunciava la nostra presenza e Io fece recapitare a Totò in camerino. Pochi minuti dopo lui ci raggiunse nel foyer. Ricordo ancora che io ero voltata a guardare il cartellone pubblicitario dello spettacolo quando mio cognato, prendendomi per un braccio, mi presentò: «Questa è Diana, la sorellina di mia moglie». Mi trovai davanti a Totò. Quel che mi colpì subito di lui fu il magnetismo del suo sguardo. Per un istante che mi sembrò eterno mi sentii fissata dai suoi occhi nerissimi. Stringendomi la mano Totò rimase come assorto, ebbi la sensazione che seguisse un suo pensiero lontano. Subito dopo ci accompagnò in un palco centralissimo, di solito riservato al questore. Lo precedevo lungo le scale e mentre salivo sentivo così prepotente la forza dei suoi occhi su di me che inciampai per il disagio. «Signorina si è fatta male?», mi disse cortesemente, aiutandomi a rialzarmi. Dopo averci fatto accomodare si congedò, augurandoci buon divertimento. Io mi sentivo elettrizzata come non mai, guardavo gli abiti e i gioielli delle signore dei palchi attigui, i musicisti intenti ad accordare gli strumenti, tutto mi sembrava nuovo e affascinante in quella magica serata. Era il 28 agosto 1931.
Mezz’ora dopo il nostro arrivo sentimmo bussare discretamente alla porta. Era un cameriere recante un grande vassoio sul quale c’era di tutto: due bricchi in argento con tè e caffè, bibite, dolci, tartine, biscotti e liquori. «Da parte del signor Totò», disse il cameriere. Passarono ancora pochi minuti e udimmo di nuovo bussare alla porta. Era una maschera, che disse a mio cognato: «Il signor Totò chiede se lei può raggiungerlo in camerino». Il marito di mia sorella si assentò per una quindicina di minuti. Al suo ritorno, riprendendo posto, mi sussurrò: «Diana, hai trovato marito!». «Ma che cosa dici?», intervenne mia sorella. «Proprio così cara, tua sorella è stata chiesta in moglie da Totò». Io non dissi una sola parola. Rimasi muta, interdetta, come se quel discorso non riguardasse me. Mio cognato ci riferì allora che Totò gli aveva appena detto: «Chi è quella ragazza? Tua cognata? Ebbene, io voglio sposarla perché è la donna che io ho sempre sognato di incontrare». Mio cognato aveva risposto: «Ma come, se l’hai intravista appena!». E Totò: «Guarda che non ho dubbi, non posso sbagliarmi, io voglio che diventi mia moglie».
«Io ho detto a Totò», continuò mio cognato «che eri giovanissima, ma lui non mi è sembrato scoraggiato dalla tua età». Io rimasi interdetta. Cominciò lo spettacolo e pensai solo a divertirmi. Ricordo che la prima macchietta aveva per titolo Cristoforo Colombo, Totò uscì con un pantalone attillato che gli arrivava fin sotto le ginocchia, dei calzettoni a rigoni e una feluca messa di sghimbescio, si trascinava dietro su un carrettino una barchetta di legno assoluta-mente ridicola. Restò solo sulla scena per oltre un’ora, ridemmo tutti fino alle lacrime. Nel finale il pubblico in piedi batteva le mani con un calore forsennato. Quell’uomo aveva stregato la platea, e anche me... completamente. Dopo lo spettacolo Totò ci aspettava in camerino. Era un ambiente angusto, nel quale non era possibile sostare in più di due persone. Lui mi invitò a entrare chiamandomi attraverso la porta aperta. Era seduto davanti allo specchio e si toglieva il cerone dal viso con gesti misuratamente abituali.
UN TAVOLO APPARTATO
«Signorina», mi chiese «lei non ha mai pensato a sposarsi?». «Oh, che cosa dice? No davvero», risposi. Attraverso lo specchio Io vidi ridere divertito, poi aggiunse: «Ci pensi da ora. Pensi a me, mi creda, sarei un buon marito. Comunque, per ora mi accontenti accettando il mio invito a cena, unitamente a sua sorella e al mio caro amico Raniero».
Pochi minuti dopo salivamo su una comoda carrozza, diretti al ristorante. Totò aiutò cavallerescamente a salire prima mia sorella, che era in attesa del suo primo figlio, poi afferrò me per i fianchi issandomi sul predellino. E lo fece con evidente compiacimento indugiando con le mani attorno alla mia vita più del necessario. Nell’elegantissimo ristorante ci fecero accomodare in un tavolo un po' appartato. Durante la cena Totò continuò a fare di tanto in tanto domande su di me, sui miei studi, sulla vita che conducevo. Al termine di quella magnifica serata ci salutammo con una semplice stretta di mano, mentre lui e mio cognato Raniero si accordarono per vedersi l’indomani mattina, nell’albergo in cui lui soggiornava.
Durante quel successivo incontro Totò ribadì l’intenzione di chiedermi in moglie, si disse deciso a incontrare mia madre per dimostrare la serietà delle sue intenzioni. Ebbe un attimo di sgomento quando seppe che non avevo ancora compiuto 16 anni. «La credevo un po’ più grande», disse «ma questo non cambia le cose, se devo aspettare lo farò. L’importante è sapere che c’è un impegno da ambedue le parti». Quello stesso giorno mi arrivò a casa una splendida corbeille di roselline rosse. Nascoste tra i rami dei fiori c’erano due scatole di cioccolatini e un biglietto: ”Le invio ciò che più le somiglia, augurandole di conservare sempre la freschezza che hanno oggi questi fiori”.
In casa mia quel giorno scoppiò un piccolo putiferio. Mia madre, appena seppe di quella proposta, s’infuriò: «La prima volta che esce, a soli 16 anni, già si vuole fidanzare, e per giunta con un attore di varietà!». Mia sorella mi prese in disparte e mi chiese: «Diana, è evidente che per il momento la mamma è contraria alle nozze. Ma tu cosa ne pensi? Ci hai riflettuto?». «Io non so se sono pronta per il matrimonio», risposi «ma so che per quell’uomo sento una grande attrazione. Stanotte non ho fatto che pensarci. Certo sono molto confusa». A mio cognato non rimase che andare a riferire a Totò la situazione. Visto che l’attore rimaneva a Firenze ancora per qualche giorno, si misero d'accordo che ci saremmo rivisti prima della sua partenza. Ci incontrammo infatti per bere un tè all'aperto la settimana successiva. Mia sorella e suo marito discretamente si allontanarono per qualche minuto permettendoci di parlare in libertà. «Senti Diana», disse Totò, passando a darmi del tu «tu sei molto, molto giovane e tua madre è contraria, ma al di là di queste cose io vorrei sapere ciò che pensi tu. Se credi di potermi amare, di poter diventare davvero mia moglie».
Io sentivo le mie gambe tremare per l’emozione, ma la voce mi uscì tranquilla. «Vedi Totò», spiegai con ingenuità «io non saprei dire se sono innamorata di te, quel che è certo è il fatto che avrei voglia di vederti, di starti vicino». Lui mi disse: «Io devo ripartire domani, andrò prima a Montecatini con il mio spettacolo, poi a Roma. Ti scriverò, ti manderò il mio indirizzo. Ma sappi che io sarò sempre disponibile nei tuoi confronti come in questo momento».
Quando ci salutammo sentii crescere in me un irrazionale terrore. Mi sembrava che non l’avrei mai più rivisto. Ero convinta che una volta partito Totò si sarebbe dimenticato di me.
Più i giorni passavano e più aumentava la mia inquietudine, il pensiero di quell’uomo era diventato martellante, più di un’ossessione; non l’avevo mai baciato eppure mi sentivo legata a lui a doppio filo, mi sembrava che nessun uomo mi sarebbe più interessato al di fuori di lui. Dopo dieci giorni di penosa incertezza ricevetti una sua lettera, in cui ribadiva la fondatezza dei suoi sentimenti e mi indicava il suo indirizzo, quello di un albergo al centro di Roma. Terminava con una bellissima frase: "Il mio amore è pronto ad avvolgerti come un prodigo mantello in cui ti sentirai al caldo, protetta dalle intemperie della vita, per sempre”.
Più si avvicinava il 15 ottobre, cioè il giorno in cui sarei dovuta rientrare in collegio, e più aumentava il mio malessere. Mi sembrava di essere sul punto di entrare in prigione, mi sentivo angosciata, persa, non facevo altro che piangere. Coglievo negli occhi dei miei lo sgomento per quel mio totale cambiamento. Mi confidai con mia sorella: «Io sto veramente male», le dissi «vorrei scappare via, l’unica cosa che conta per me in questo momento è poterlo rivedere». Mia madre non mi rimproverava, cercava di rincuorarmi con i gesti affettuosi di sempre, mi diceva: «Devi aspettare un paio d'anni, poi si vedrà».
Invece all’improvviso presi la mia decisione. Sarei scappata di casa. Preparai tutto con lucida razionalità, andai alla posta e spedii un telegramma al suo indirizzo di Roma: "Arrivo domani 11 ottobre con il diretto delle 16,30. Ti abbraccio, Diana".
La mattina successiva aspettai che la mamma uscisse alla solita ora per la spesa. Nella cartella di cuoio della scuola misi una camicia da notte, tre paia di calze, due mutandine, una gonna e due bluse. Infilai l’abitino più elegante che avevo, un completo blu di lana con la gonna a pieghe e il collettino. In testa misi il cappellino a piccola falda della divisa. Era l’unico che avevo! Presi i pochi soldi che mi servivano per il biglietto del treno e poi via, a piedi verso la stazione. Quando il primo vagone sferragliante cominciò a muoversi mi sentii al sicuro, ce l’avevo fatta!
Via via che si avvicinava Roma però aumentava la mia paura, non avevo mai viaggiato da sola, non conoscevo la città. Appena arrivata le mie paure per fortuna furono subito fugate. Lo vidi infatti per primo tra tutte le
persone che affollavano la banchina in attesa dei passeggeri. Totò indossava un impermeabile color crema e teneva un braccio dietro la schiena. Nascondeva un mazzo di fiori che mi offrì non appena scesi. Non trovai il coraggio di abbracciarlo. Cominciai a camminare al suo fianco, abbandonandomi dopo tanti timori a un sentimento di rilassante fiducia. Mi portò in un ristorantino del centro storico, ordinò per me: pasta al ragù, saltimbocca alla romana e due contorni. Mi osservava mangiare con evidente piacere, sbucciò due banane e volle che le mangiassi: «Sono sostanziose, ti fanno bene». Poi mi accompagnò nel suo albergo. Abitava all’Hotel Ginevra in via della Vite, un posticino delizioso in cui era trattato con evidente riguardo. Il portiere di cui avevo temuto lo sguardo sarcastico, mi diede un cordialissimo benvenuto e senza indugi mi accompagnò nella stanza. Totò rimase con discrezione ad aspettarmi in un salottino, fumando con aria tranquilla.
Quando ridiscesi mi chiese: «Ho notato che non hai molto con te». Risposi che avrei destato troppi sospetti uscendo di casa con la valigia. «Ho portato lo stretto necessario», dissi «il resto me lo farò spedire da mia sorella nei prossimi giorni».
«Niente affatto. Tu non hai bisogno di farti mandare niente. Credi forse che io non possa comperarti ciò che ti serve?». Sorridendo mi prese sottobraccio e aggiunse: «Ora si esce a far compere». Arrivammo a piedi in via Frattina ed entrammo in un negozio raffinatissimo di abbigliamento femminile. Ci venne subito incontro una commessa della boutique a cui Totò disse: «Dovrei acquistare degli abiti per la signorina, vorrei ci mostrasse qualcosa di adatto».
«Subito signore», gli rispose con cortesia la commessa, aggiungendo però malauguratamente: «La signorina è sua figlia?».
«No», rispose seccamente Totò. La ragazza vedendomi vestita di blu con il cappello della divisa da collegiale pensò bene di mostrarmi abiti dello stesso genere. «Guardi», intervenne lui «la signorina diventerà mia moglie, non è proprio questo il tipo di abiti che ci vuole!».
Sopraggiunse la direttrice del negozio che Io riconobbe. Mi furono fatti provare moltissimi abiti, mises da pomeriggio, splendidi tailleur da viaggio, preziosi abiti da sera. Ne scegliemmo cinque, tra cui uno rosso carminio di chiffon che mi donava moltissimo.
«Le sta d’incanto», disse la commessa «se lei esce con quest’abito indosso avrà tutti gli occhi di Roma puntati addosso!». Ma Totò non era contento. Uscendo dal negozio mi disse: «Diana, quell’abito rosso io te l’ho comperato, ma tu dovrai indossarlo soltanto per me, in camera, non voglio che tu esca con quel vestito». Pensavo scherzasse, ma non avrei tardato ad accorgermi che invece era terribilmente serio. In quello stesso pomeriggio mi portò in un’elegante pelletteria, dove scelse per me sei paia di scarpe e altrettante borsette assortite. Poi mi accompagnò da una modista dove ordinammo, un gran numero di cappelli. Io ero confusa, mi sembrava che avesse speso per me una fortuna, mi sentivo sinceramente a disagio.
ACCENTO FRANCESE
Lui invece era euforico, quando rientrammo in albergo molti pacchi erano già arrivati. Li aprì con aria festante e scelse per portarmi con sé a teatro un abito azzurro pervinca, scarpe e borsa bluette. Mi lasciò a disposizione la camera perché mi preparassi e lui scese ad aspettarmi nella hall. Il Teatro Bernini non era molto distante dall’albergo, ci arrivammo passeggiando. Nel tragitto mi fece un discorso dal tono serio: «Diana, io devo chiederti un solo favore. Per farmi felice, tu non hai che da assecondare questo mio desiderio. Questa sera e tutte le sere che seguiranno tu non devi assoluta-mente rivolgere la parola a nessuno, capisci? Proprio a nessuno e se qualcuno la rivolge a te devi mostrarti infastidita e non rispondere». Lì per lì non diedi molto peso a quel discorso: ero talmente felice, non avevo occhi che per lui, non desideravo altro che stragli vicina. Giunti in teatro si preparò e mi accompagnò sul palcoscenico, sistemandomi personalmente in un angolino alla sua destra. Mentre ero lì seduta presa dalla magìa della sua esibizione sentii alle mie spalle una voce maschile che mi fece trasalire. Era un ragazzo e parlava con uno spiccato accento francese: «Signorina lei chi è?», mi chiese «non l’ho mai vista qui!». «Sono un'amica del signor Totò», risposi preoccupata di giustificare la mia presenza «sono entrata con lui». «Pensavo che fosse anche lei un’attrice, è così carina», aggiunse ridendo. Avevamo scambiato poche battute, ma Totò con la coda dell’occhio aveva notato ogni cosa. «Aspettatemi torno subito», disse rivolto al pubblico come se si trattasse di una pausa prevista dal copione. Si avvicinò e con un tono rabbioso che non ammetteva repliche mi disse: «Vai immediatamente nel mio camerino!». «Con te», aggiunse guardando il suo collega «parlerò più tardi».
Alla fine dello spettacolo Totò mi raggiunse in camerino. Era letteralmente furioso: «Mi sembrava di essere stato chiaro con te», disse «invece ecco che, appena ti lascio, ti metti a dar spago al primo venuto».
Non dissi nulla. Restai seduta in un angolo, frastornata dalla sua reazione. Più tardi, in un ristorante, Totò mi disse con dolcezza: «Sono stato brusco ma credimi, non sopporto l’idea che gli uomini ti possano molestare. Sei cosi giovane, io ho anche il dovere di difenderti».
«Ora ti parlerò chiaramente e con il cuore in mano. Accanto a me tu sarai felice, credimi. Non ti mancherà nulla, né da un punto di vista affettivo né materiale, lo ti amo immensamente e saprò regalarti grandi emozioni e serenità. Assecondare ogni tuo desiderio sarà un mio impegno incessante. Una sola cosa devi sapere, ora. Con me vivrai in una gabbia dorata, perché io conosco la mia natura: so di essere geloso delle cose che mi sono care e tu saresti la più cara tra tutte le mie cose. Se accetti di vivere con me ti fai carico di un grande impegno: quello di vivere secondo la mia logica e i miei desideri». Era l’una dopo mezzanotte quando rientrammo in albergo dove trovammo una non lieta sorpresa. Dalla questura di Roma era giunto un fonogramma dove il signor Antonio de Curtis, cioè Totò, veniva invitato a presentarsi l’indomani per comunicazioni della massima urgenza.
Totò, che aveva capito perfettamente che quelle comunicazioni riguardavano la mia fuga, non sembrò dare troppo peso alla cosa perché non voleva farmi preoccupare. Salimmo nella sua bella stanza dove avremmo trascorso la notte.
E’ facile indovinare le mie paure di quel momento: mi trovavo a Roma in piena notte, in una camera d’albergo con un uomo che aveva trentatré anni, più del doppio della mia età. E’ vero, sentivo di amarlo, ma era talmente ardua la scelta che avevo fatto, mi sentivo stranissima: un curioso nodo alla gola mi impediva di parlare. Totò si rivelò in quel frangente un uomo eccezionale. Seppe rassicurarmi con le parole giuste, tanto che rinfrancata andai in bagno a spogliarmi. ”Che stupida", pensai "ho portato con me una camicia da notte da bambina con i fiorellini, e adesso che figura ci faccio?”.
Alla fine mi decisi a uscire e trovai ad attendermi un uomo adorante. Dormimmo insieme nello stesso letto, senza che accadesse subito la cosa che tanto temevo.
Totò mi accarezzò, mi baciò con dolcezza. Mi vegliò con la tenerezza con cui si assiste al sonno di un bambino, tanto che svegliandomi al mattino lo trovai che mi sorreggeva la testa, sdraiato accanto a me. Aveva negli occhi lo stupore con cui si guardano le cose che ci sembra un sogno possedere. «Vedi Diana», mi disse «se io ti avessi amata stanotte sarebbe stato solo un atto di forza. Sono sicuro che non ti sarebbe piaciuto. Invece voglio che sia tu a decidere, mi cercherai tu stessa quando ti sentirai pronta. E vedrai che sarà bellissimo».
«GUARDANDO I SUOI FILM LO SENTO ANCORA VICINO» «Ventitrè anni dopo la sua morte», dice la Rogliani «noto con piacere che il mito di Totò non si è spento. La TV trasmette sempre più spesso i suoi film e io non me ne perdo uno. Guardando il suo viso, riascoltando la sua voce, seguendo le sue inimitabili interpretazioni, mi pare di averlo ancora vicino, come ai tempi del nostro grande amore. E mi commuovo all’idea che ancora oggi Totò sia tanto amato dagli italiani. Ma l’ha meritato, perché era un uomo straordinario. Quando lo conobbi mi affascinò subito, non tanto perché lui era già un attore molto popolare, ma per la sua galanteria, per l’eleganza e per il senso di protezione che riusciva a darmi».
Dopo un'abbondante colazione, quella prima mattina, ci recammo al posto di polizia, dove Totò era atteso dal questore in persona: il dottor Cifariello, napoletano come lui e suo amico da molti anni. «Totò», esordì subito «ma che cosa mi combini? Ringrazia il Cielo che il fonogramma della questura di Firenze è giunto a me, che ti conosco e ti considero un uonio rispettabile».
«Questa è la ragazza?», chiese rivolgendosi a me con un sorriso. «Allora ti posso comprendere. Però la comunicazione pervenutami parla chiaro: la madre ha sporto denuncia e la signorina è minorenne».
«Non è che io abbia rapito la ragazza», rispose Totò «lei è venuta da me di sua spontanea volontà. Posso ripetere davanti a te e davanti a chiunque altro che intendo sposarla. Lo farei anche subito. Vorrei poter parlare con la mamma di Diana, per rassicurarla». «Bene se le cose stanno così», disse il questore «non preoccupatevi. Farò io stesso un fonogramma di risposta e parlerò se necessario al telefono con sua madre, signorina. Vedrete che sistemeremo ogni cosa».
Uscimmo da lì rasserenati. Cominciava praticamente quel giorno la nostra vita insieme.
Diana Rogliani,«Gente», anno XXXV, n.1, 10 gennaio 1991
Diana Rogliani, (Testo raccolto da Marilù Simoneschi - Prima parte) «Gente», anno XXXV, n.1, 10 gennaio 1991 |