Diana: Totò scrisse «Malafemmina» pensando a me
Terza parte
La vedova del grande attore ha scritto di suo pugno per "Gente" la storia della sua vita - Parte 3 - Diana Rogliani, che fu la moglie dell’indimenticabile comico e che da lui ebbe una figlia, ha deciso per la prima volta di ricordare i momenti più belli e più tristi della sua storia d’amore - «Quattro anni dopo il matrimonio, lui mi propose l’annullamento, pur continuando a vivere insieme» - «"Così ho la prova", mi disse "che vivi con me perché mi ami”» - «Il matrimonio fu poi annullato per la gelosia di Totò e io sposai un avvocato» - «Totò reagì scrivendo la celebre canzone "Malafemmena”»
Roma, gennaio 1991
I primi 6 mesi del 1939 li trascorremmo in Africa orientale, dove Totò ebbe un successo strabiliante. Proprio durante quel soggiorno, una sera mio marito mi domandò all’improvviso: «Diana, tu stai con me perché sei mia moglie, o perché mi ami?».
«Ma che razza di domanda è questa?», risposi meravigliata. «Comunque Io sai che del matrimonio non mi è mai importato un granché. Sei stato tu a volermi sposare, quando avevamo già una figlia di due anni».
«Ascoltami», incalzò lui «se ottenessimo l’annullamento di matrimonio, se non potessimo più considerarci sposati, tu continueresti egualmente a vivere con me?». «Ci puoi contare», risposi io dando poco peso a quel discorso strampalato. Qualche giorno dopo Totò tornò sull’argomento: «Se mi prometti che non mi lascerai», mi disse «io vorrei far annullare le nostre nozze. Così ti sentirei più legata a me. E io avrei una prova in più che vivi con me perché mi ami davvero. E poi, anche se un giorno disgraziato tu dovessi tradirmi, praticamente non mi metteresti le "corna” perché non saremmo più marito e moglie».
ERA GELOSO DI LEI Viareggio (Lucca), 1936. Totò durante le vacanze estive in Versilia tiene in braccio la figlioletta Liliana, che all’epoca aveva tre anni. L’attore napoletano era molto geloso della propria bambina, tanto che non volle nemmeno che frequentasse la scuola. Così la fece studiare privatamente, a casa sua.
Lo lasciai fare. In poco tempo ottenemmo l’annullamento, anche se tra noi non cambiò nulla. Continuammo la vita di sempre e nascondemmo a tutti, anche ai nostri genitori, la "novità".
Durante la guerra Totò si convinse a lasciarmi a casa con la bambina. Ormai era diventato pericoloso viaggiare in treno su e giù per l'Italia. Quando partiva si faceva promettere però da sua madre, che avrebbe vegliato in ogni momento su di me: «Mammà, giuratemi sui vostri defunti che non farete uscire mai Diana da sola!». Dopo molte discussioni, ogni volta riusciva a strappare a sua madre quel giuramento. Così io, per non mettere in imbarazzo mia suocera, che pure capiva quanto il figlio fosse esagerato con la sua gelosia, preferivo rimanermene tappata in casa per mesi interi. Facevo le commissioni per telefono, mandavo la cuoca al mercato a fare la spesa, e raramente uscivo sottobraccio a mio suocero da un lato e a mia suocera dall'altro per prendere una boccata d'aria.
TRIONFO' IN SPAGNA Mar Mediterraneo, 1945. Totò prende il soie sul ponte della nave che lo porta in Spagna per una lunga "tournée". «Mio marito ebbe un successo enorme», racconta la vedova. Diana Rogliani «e gli spagnoli non volevano più lasciarlo partire. Ma lui non volle saperne: amava troppo l’Italia e ne sentiva nostalgia».
Per tutti gli anni in cui vissi con Totò io non sono andata mai una sola volta dal parrucchiere. Lui sosteneva: «Quello è un modo di peccare consensualmente. E’ il movimento stesso che lo porta: quello sta lì alle tue spalle, si appoggia, ti tocca la testa, eh no cara, a me certe cose non passano sotto il naso!».
Quando ne avevo bisogno era Totò stesso a chiamare una "pettinatrice” in casa. Una volta che la solita non era disponibile e mi mandarono un uomo, Totò ebbe il coraggio di stare accanto a me perfino mentre quel ragazzo mi lavava i capelli.
Con la seconda compagna della sua vita, l'attrice Franca Faldini, visse dopo la separazione dalla moglie per quindici anni. Totò aveva perso la vista dall’occhio destro. «Negli ultimi anni, quando non ci vedeva più», racconta Diana Rogliani «Totò mi passava le mani sul viso. "Ma tu proprio non invecchi”, mi diceva. ”La tua pelle è liscia e fresca come una volta, e qui ci sono le fossette che conosco”».
Nell’immediato dopoguerra partimmo per la Spagna, noi e la bambina. In quel bellissimo Paese restammo sette mesi. Totò recitava in italiano ma riscosse un grande successo. La gente lo capiva perfettamente, il suo linguaggio era universale! Non volevano più lasciarlo partire, l’impresario gli propose il doppio del suo già alto compenso, se si fosse fermato lì per altri quattro mesi.
Ma Totò non volle saperne, perché aveva un’enorme nostalgia dell’Italia.
Nel 1936 Totò interpretò il suo primo film, "Fermo con le mani", poi, per anni non volle più sentir parlare di cinema. «Il teatro mi dà più gioia», diceva «perché è il pubblico in sala a darmi la carica». Il cinema però continuò a tentarlo con allettanti proposte e dal 1947 mio marito cominciò a girare un film dopo l’altro. All’inizio per quel genere di lavoro era molto insofferente, ma poco a poco si trovò a suo agio perché cominciò a recitare a ruota libera ignorando sistematicamente il regista e le sue indicazioni.
Totò è sempre stato credente, ma non osservante. In chiesa, ad ascoltare la Messa, andavamo una o due volte l’anno e sempre in piccole chiese poco frequentate. Aveva invece un "rapporto personale" con sant’Antonio da Padova. Del santo Totò aveva una immaginetta da cui non si separava mai. Appena arrivato in una camera d’albergo la tirava fuori dalla valigia e la appoggiava sul comodino accanto al letto. Con il santo faceva lunghi discorsi: «Sant’Antonio», diceva «non ti devi offendere se in teatro non ti posso portare, sai quello non è posto da santi, ci sono le ballerine mezzo svestite, proprio non è cosa per te. Però tienilo presente, stasera ho la "prima", mi devi stare vicino, nun te scurdà e me, non ti dimenticare di me».
LA VACANZA A CAPRI
Se qualche cosa per cui aveva richiesto l'interessamento del santo, non andava per il verso giusto allora lo rimproverava: «Sant'Antonio», gli diceva «ma allora proprio non vuoi starmi a sentire. Forse ti ho fatto qualche sgarbo, qualche ”malazione”? No, è che non m'hai ascoltato proprio. E lo sai che ti dico? Che nun te voglio vede’, duorme!, dormi». E lo girava verso il muro. Ma poco dopo, pentito, rimetteva l’immaginetta al suo posto.
Totò ha sempre avuto un fisico d’acciaio, è sempre stato bene malgrado lavorasse moltissimo, fumasse sessanta, settanta sigarette al giorno e bevesse una gran quantità di caffè. Aveva però problemi di vista. Un’estate mi disse all’improvviso: «Non vedo bene dall’occhio destro, ho come una macchia nera davanti».
Tornammo subito a Roma e consultammo uno specialista. Il professore disse genericamente: «Totò non si preoccupi non è nulla di grave, però deve venire da me in clinica per una visita più accurata».
Lui lo fissò con un’aria seria: «Professore, parliamoci chiaro, che tengo?». Il medico dovette allora dirci la verità, c’era stato un distacco di retina e occorreva intervenire subito. Fu operato d’urgenza.
L’operazione era perfettamente riuscita, ma i medici gli raccomandarono, al momento di andare a casa, un periodo di assoluto riposo. Dopo qualche giorno arrivò a casa una specchiera magnifica che Totò aveva ordinato tempo prima. La feci appoggiare sul pavimento in attesa di farla sistemare da qualcuno. Ero nella vasca da bagno quando Totò gridò: «Diana, Diana vieni subito, non ci vedo più». Aveva sollevato la pesante specchiera dorata per vederla subito a posto, e lo sforzo aveva provocato la rottura della delicata cicatrice e un nuovo versamento di sangue nell’occhio. Non ci fu nulla da fare: dal lato destro non avrebbe più visto.
«Si vede che devo scontare qualche peccato», disse lui filosoficamente. «O’ Padreterno m’ha voluto levà un occhio, ma m’ha lasciato a quest'altro, lo devo sempre ringraziare». Era un uomo che amava enormemente il sole, la luce, i colori della natura e da quel momento il rischio di una cecità completa divenne il suo terribile spauracchio.
Via via che nostra figlia Liliana cresceva, Totò riversava su di lei la stessa forma di amore misto a possesso che aveva per me. La ragazzina fece in casa anche le medie, non frequentava amiche della sua età, viveva esclusivamente in famiglia.
Nel dopoguerra Totò decise di cambiare il luogo destinato alla villeggiatura estiva. Dopo un piccolo consiglio di famiglia saltarono fuori due nomi: Capri e il Lido di Venezia. Fece allora due bigliettini che mischiò nella sua bombetta, affidando a Liliana il compito di estrarne uno a sorte. Usci quello su cui c’era scritto Capri.
Dell’isola, che pur essendo napoletano mio marito non conosceva, si innamorò subito. Allora Capri era davvero un’isola incantata. Prendevamo in affitto bellissime ville, ogni anno diverse. Di mattina uscivamo su una barchetta: io, Totò, Liliana e Dick il nostro cane lupo. Lui sceglieva uno scoglio tranquillo sul quale prendere il sole. Ma Totò si allontanava per lunghe remate. Come "piantone” restava invece Dick, che appena vedeva che qualcuno si avvicinava cominciava ad abbaiare furiosamente. Così Totò tornava subito indietro.
UNA COTTA SOLENNE
Liliana a 14 anni, malgrado noi la chiamassimo "la bambina”, era diventata una giovane donna: ben fatta, i capelli chiari e un bel faccino delicato. Quando Totò la vide quell'anno in costume si mise a gridare: «Oh! Mamma mia che paura», e corse a rifugiarsi in cabina. Io accorsi spaventata: «Totò che hai visto?». «Mia figlia, che cosa le hai messo addosso?». «Ha un costumino nuovo». «Coprila, non me la far vedere così. Le è cresciuto il petto, le si vede! Coprila, coprila, almeno per questo primo giorno, lascia che mi abitui. Non la posso più abbracciare», diceva sconsolato «ormai è una donna».
Poi si decise a uscire e rivolgendosi a Liliana: «Guagliò copriti, mettiti l’accappatoio che papà ti porta a fare il bagno al largo». Per tutta la giornata non fece che guardarla con struggente tenerezza: «Diana, ma come me l’hai fatta bella».
Qualche giorno dopo nostra figlia ci chiese il permesso di fare una passeggiata in compagnia della sua signorina. Mentre io e Totò tornavamo a casa dalla spiaggia invece la vedemmo mano nella mano con un ragazzo molto giovane. Mio marito divenne bianco in volto, appena si avvicinò Liliana scappò via terrorizzata mentre lui furibondo si rivolse al giovane: «Tu chi sei, che fai con mia figlia?». «Niente, signor Totò, non s’arrabbi io stavo solo parlando con la signorina». «Che signorina e signorina. Questa è una bambina, ha solo 14 anni e tu vattene e non ti permettere di tornare più». Arrivando a casa Totò diede alla figlia il primo schiaffo della sua vita.
Pensavamo che tutto finisse li. E invece qualche giorno dopo il ragazzo si ripresentò. Era Gianni Buffardi ed era il figliastro di Carlo Bragaglia, regista e amico di Totò che aveva sposato in seconde nozze la madre del ragazzo.
Ci rendemmo conto presto che nostra figlia aveva preso una cotta solenne, non faceva che piangere mentre Gianni passeggiava in continuazione sotto le nostre finestre. Seppure a malincuore Totò decise di permettere al ragazzo di salire in casa: «Almeno possiamo controllarli», sosteneva «altrimenti si incontreranno di nascosto».
Quel ragazzo non gli fu simpatico sin dal primo momento, non aveva che 17 anni, non lavorava ed era troppo loquace e disinvolto per i suoi gusti. Da quel momento cominciarono anche tra me e mio marito interminabili discussioni. Io da un lato cercavo di aiutare mia figlia, ma dall’altro ero dispiaciuta per l'evidente sofferenza di mio marito. A Roma le cose non migliorarono, i ragazzi continuarono a vedersi e con il trascorrere dei mesi, malgrado la loro giovane età, cominciarono anche a parlare di matrimonio. Totò non era abituato alla presenza di un altro uomo in casa, ne era chiaramente e istintivamente geloso. Se Gianni rimaneva a cena, lui si chiudeva in camera e non veniva a tavola. Il nostro futuro genero, che era di carattere espansivo, non faceva poi che peggiorare la situazione mostrandosi inconsapevolmente affettuoso anche nei miei confronti. Mi salutava abbracciandomi, mi faceva dei complimenti e questo mio marito proprio non lo sopportava.
Dopo il primo anno di fidanzamento, mia figlia cominciò a frequentare, accompagnata da me, la casa dei suoi futuri suoceri: i coniugi Bragaglia. Abitavano in uno splendido appartamento in via Margutta, sempre pieno di amici. Totò esigeva che io accompagnassi Liliana perché non l'avrebbe mai mandata da sola.
«Che cosa fate in quella casa?», mi chiedeva. «Si beve qualcosa», gli rispondevo «si fa una partita a carte, c'è sempre qualcuno piacevole da ascoltare, pittori, scultori, intellettuali». Moltissime volte lo pregavo: «Non mandarmi sempre sola, vieni qualche volta anche tu, così ti renderai conto che nessuno fa niente di male». Ma non ne voleva sapere.
«SONO UN UOMO LIBERO»
Di settimana in settimana però Totò diventava più cupo e nervoso in casa. Finché una sera che io e mia figlia rientrammo un po' più tardi, ci trovammo di fronte a un piccolo "trasloco". Totò si stava trasferendo nella stanza degli ospiti. «Mi avete abbandonato, mi avete abbandonato tutte e due», diceva e rivolto a me «non dormirò più nella tua stessa stanza».
«Ricordati», mi diceva «che se Liliana sposa quell’uomo, tu in casa sua non entrerai mai, potrà venire da noi nostra figlia, ma tu da loro non dovrai andarci».
Cominciai a rendermi conto che la vita che avevo condotto fino a quel momento mi aveva privata di ogni libertà. Ero stata felice accanto a quell’uomo, ma avevo vissuto come una donna dell’Ottocento. Proprio in quel 1950 Totò girava un film accanto a Silvana Pampanini: 47 morto che parla, di Carlo Bragaglia. Notai che per due o tre sere di seguito mio marito uscì. Mi sembrò davvero strano, perché lui era un "pantofolaio” inguaribile e di sera non usciva mai. Una mattina poi una voce anonima al telefono mi disse: «Tuo marito corteggia la Pampanini. Ieri sera l’ha portata a cena alla "Rupe Tarpea"».
Dopo due giorni lo sconosciuto tornò alla carica: «Tuo marito ha inviato alla Pampanini un mazzo di fiori in cui era nascosto un anello con brillante. E’ andato addirittura in casa dei genitori a chiedere la sua mano».
La sera stessa lo affrontai: «Totò», gli dissi «perché non sei leale? Noi non ci siamo mai nascosti niente».
Lui mi rispose seccamente: «Queste sono cose che non ti riguardano. Io sono un uomo libero. Potrei risposarmi anche subito». Mi ferì profondamente, io non avevo mai nemmeno guardato con interesse un altro uomo, non avevo mai tradito Totò neppure con il pensiero e lui era capace di tanto.
All’improvviso mi tornò in mente la battuta di un uomo fattami qualche giorno prima. La domenica precedente infatti, in casa dei Bragaglia, avevo ricevuto anch’io una specie di proposta matrimoniale. Un signore sulla cinquantina, l’avvocato Michele Tufaroli, aveva detto davanti a tutti: «Io non mi sono ancora sposato, ma lo farei: anche subito, se potessi avere in moglie una donna come la signora Diana».
LA TAZZA DI CAFFÈ
«Guardi che io potrei prenderla in parola», avevo risposto con una punta di innocente civetteria. E lui: «Se fosse vero, sarei felicissimo di farlo ora e in ogni altro momento». Per rabbia, d’impeto, risposi a Totò: «Forse qualcuno disposto a sposarmi lo troverei anch’io, anzi forse l’ho già trovato!». «E chi è?», domandò lui scuro in volto. «Un certo avvocato Tufaroli, che mi sposerebbe anche subito». Lo vidi impallidire, poi cominciò a gridare: «Allora vattene subito!».
«Me ne andrò al più tardi domani mattina», risposi seria. Passai una notte d’inferno, mi sentivo umiliata, perdente su tutta la linea. Al mattino preparai una valigia e raccolsi in un sacchetto tutti i gioielli che Totò mi aveva regalato. Prima di uscire passai nella sua stanza: «Eccoli, questi sono tuoi, ma guai a te se li vedo indosso ad un’altra, ne diventerà proprietaria mia figlia!».
Uscii di casa senza che Totò muovesse un dito per fermarmi. I giorni che seguirono furono i più brutti della mia vita. La notizia che avevo lasciato Totò si sparse rapidamente.
Io ero a casa di mia sorella, che mi aveva accolto con affetto quando mi arrivò una telefonata inaspettata. Era l'avvocato Tufaroli: «Signora, mi dispiace per quanto è accaduto, capisco che la mia proposta può giungerle inopportuna, in questo momento, ma gliela rifaccio ugualmente: io sono pronto a sposarla». Questo davvero non me lo sarei aspettato.
Fu invece mia figlia a decidere subito di sposarsi. Il padre le aveva proibito di vedermi e lei nell'atmosfera cupa di casa nostra non riusciva più a vivere. Una sera mi chiamò in lacrime: «Mammina, mi sposo domani ad Assisi. Papà ha detto che non ci sarà. Vieni almeno tu. Voglio che ci sia almeno uno dei miei genitori».
Era il 24 giugno 1951. Fu un matrimonio un po' mesto, molto diverso da quello che avevo sognato per mia figlia. Dopo le nozze di Liliana ricevetti una telefonata di Totò: «Diana», mi disse «se torni io
posso anche perdonarti, ma ti ribadisco che tu in casa di tua figlia non devi mettere piede». Il suo atteggiamento non era dunque cambiato in nulla. «Guarda Totò, che io non ho nulla da farmi perdonare e a queste condizioni a casa non torno di certo».
Quello stesso giorno l’uomo che intendeva sposarmi si fece vivo: «Diana ora devi scegliere, io voglio subito una risposta, ho avuto molta pazienza ma ora basta. Se accetti di sposarmi, oggi stesso inizio a preparare i documenti».
Non fu una decisione facile da prendere. Ero sola, non avevo denaro. Tufaroli era un uomo brillante, aveva una elevata posizione economica e si era mostrato sensibile e comprensivo, ma io sentivo di non amarlo. D’altronde cosa potevo fare? Con Totò non potevo tornare. Decisi d’impeto, chiamai Tufaroli e gli dissi di preparare le carte. Accettavo di sposarlo. Un giorno prima delle nozze, celebrate in luglio in municipio, chiamai mia figlia. Totò lo venne a sapere quando io ero già partita per Napoli in viaggio di nozze. Chiamò Liliana al telefono: «Vieni subito qui, perché sto male», gli disse piangendo. Appena la vide gli chiese: «E’ vero che tua madre si è sposata oggi?», Liliana dovette confermargli la notizia, dirgli la verità.
Totò allora cominciò a strapparsi i capelli, a urlare come un pazzo, piangendo, come un invasato: «Questo non doveva farlo, non è possibile, la mia vita se n’è andata con lei». Ancora oggi mia figlia quando ricorda quella serata non può fare a meno di star male.
Il giorno successivo Totò chiamò Giacomo Rondinella, suo amico e musicista: «Questa canzone è dedicata a Diana, aiutami a musicarla». Nasceva Malafemmena, una canzone diventata celebre.
Io e Totò ci rivedemmo per la prima volta alla nascita del nostro primo nipotino: Antonello. Provai, nel trovarmelo davanti, una indicibile emozione, mi resi conto che lo amavo ancora.
Poi ho continuato a vederlo in casa di mia figlia. Anche lui aveva trovato una nuova compagna, Franca Faldini, ma la tenerezza, l’affetto che aveva per me non erano scomparsi. Una volta alla settimana chiamava Liliana: «Vengo a prendermi una tazzulella 'e cafè. Chiama a mammà».
«E' L'UNICO UOMO CHE HO AMATO» «La mia unione con Totò, bellissima per molti anni, si incrinò quando nostra figlia Liliana ebbe il primo fidanzato», dice la Rogliani nel memoriale che pubblichiamo in queste pagine. «Totò cominciò a rodersi perché era geloso di lei e di me: voleva che la accompagnassi ovunque, ma poi si macerava perché rimaneva a casa da solo. Lui pretendeva da me la fedeltà, ma non sempre mi ricambiò con uguale moneta. Così, quando scoprii che mi tradiva con la Pampanini ci rimasi malissimo. Dopo anni di felicità la nostra unione andò in crisi e ci separammo. Però gli sono sempre rimasta affezionata perché è l’unico uomo che ho davvero amato».
L’ULTIMO BACIO
Negli ultimi anni, quando non ci vedeva più, mi passava le mani sul viso. «Ma tu proprio non invecchi», mi diceva «la tua pelle è liscia e fresca come una volta, e qui ci sono le fossette che conosco». Parlavamo per ore degli anni passati: «Ti ricordi quella volta, in teatro? Ti ricordi quell’estate a Viareggio?». Un giorno ricevetti da lui una telefonata. «Voglio vedere te e Liliana, vi voglio parlare». Ci incontrammo in casa di mia figlia, il cui matrimonio nel frattempo era miseramente fallito. «Vedi», mi disse «io ormai sono al tramonto della mia vita e ho deciso di lasciare Franca, lei è una donna giovane, una brava ragazza che potrebbe ancora sposarsi, avere dei figli. Perché dovrei continuare a sacrificarla?».
«Vorrei acquistare due appartamenti attigui. In uno andreste a vivere tu, Liliana e i suoi bambini, nell’altro ci starei io. Una cosa però mi devi promettere, che la sera verrai a tenermi compagnia! So già che tu sei una buona infermiera, ti sapresti prendere cura del fisico e del cuore di un vecchio rudere». Mi sentii salire in gola un nodo di commozione. Praticamente mi stava chiedendo di tornare a vivere insieme, come due vecchi coniugi che la vita vuole riunire prima della fine. «Vedo dai tuoi occhi che accetti questa mia proposta. Allora diamoci da fare subito, cerchiamo la casa». Nel salutarmi mi chiese: «Posso baciarti nelle fossette, come una volta?». Fu questo l’ultimo bacio tra noi. Una settimana dopo piangevo la scomparsa di quell’uomo che è stato l’unico che io abbia amato.
Diana Rogliani, «Gente», anno XXXV, n.3, 24 gennaio 1991
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Diana Rogliani, (Testo raccolto da Marilù Simoneschi - Terza parte) «Gente», anno XXXV, n.3, 24 gennaio 1991 |