Federico Fellini: «il mio Totò»
Per Dario Fo è l’Arlecchino del ’900, per Fellini è Pulcinella, anzi, l’Italia. In questa intervista esclusiva il regista ci offre un ritratto per parole e immagini del suo comico preferito.
L' essenza di Totò? Forse non è insondabile, come il protrarsi e il dilatarsi del mito fa supporre. Del più favoloso attor comico italiano, vero punto interrogativo di natura antropologica, Federico Fellini sa fornirci qualche traccia. Nei suoi disegni scatenati, schizzi come racconti, lo traduce in una libertà di soluzioni iconografiche. Ora è una specie di becchino cammellato, uno struzzo musicale nell’armonia del passo sospeso. Ora è un regale scarabeo, un mitologico insetto, le code nere del frac tese all’insù che simulano e riprendono la gigantesca svirgolata del mento. Ora diventa un uccellacelo, una cornacchia, un folletto la cui risata avvampa in una fetta di faccia gialla quanto l’itterizia. E l’occhio attonito, sgranato, allucinato, emerge come il solo, sorprendente segno tondo in una mappa di spigoli, luoghi aguzzi, acrobazie verticali.
Il campionario di caricature felliniane illustra l’album Totò, poesie scenette canzoni inedite (Editori del Grifo) che accompagna il terzo ed ultimo tra i cofanetti della serie d’incisioni discografiche dedicate a Totò, raccolte e curate da Vincenzo Mollica per la Cgd. Dopo il viaggio nelle canzoni composte da Totò, che hanno già meritato due cofanetti, l’antologia in uscita in questi giorni offre altre facce dello stesso prisma. È un versante, questo di Totò canzonettista e poeta, che per Fellini rappresenta «uno dei pochi lati umani, normalizzanti, da napoletano come gli altri, di una creatura extra-terrestre».
Avrei voluto dedicare a Totò un piccolo saggio cinematografico. Un ritratto in movimento, un'intervista fantastica che lo mostrasse in piedi, seduto, nudo, vestito...
Totò marziano? Un’ipotesi saporita. Federico, geniale ammiratore di alieni, la sviluppa: «Il suo fascino era spettrale, spiritistico. Aveva una potenza da messaggero dell’oltretomba, da evaso da un ospedale psichiatrico. Una carica sulfurea: quella di santi e mistici, quella dei grandi criminali. Quella di artisti come Pasolini, o come Kafka, quel volto dolcissimo e civilissimo, l’aria di qualcuno che vive assieme a qualcun’altro. Totò era straziante come un’anima del purgatorio: intrappolato. Non rammento altre figure di palco-scenico che abbiano saputo esprimere con altrettanta completezza il mistero della creatura umana».
Neanche un comico inquietante e funereo come Buster Keaton? «Keaton è una maschera che arriva dalle strips: ne conserva l’alone del gioco. Totò, quando giocava, lo faceva a livelli satanici. Rifletteva una storia eterna di miseria, fame, ignoranza, scetticismo, pessimismo, approssimazione. Totò era l’Italia».
Ha scritto Dario Fo: Totò è l’Arlecchino del Novecento. Concorda Fellini? «Non direi che Totò sia imparentato con le maschere goldoniane. Il suo cordone ombelicale, se ce n’è uno, risale a Pulcinella. Totò era il ghigno di Napoli. Il corpo suggeriva il senso di un pericolo, una minaccia imminente, una disgrazia. Snodabile, allungabile, di caucciù. Da acrobata millenario, giocoliere di piazza. Totò giocava come un Belzebù che si diverte, un dèmone che insegue la corsa dei bersaglieri, la nonna Irene che si mette a ballare».
Era un personaggio da Alice nel paese delle meraviglie. Riassumeva i caratteri degli italiani: il qualunquismo, la rassegnazione, la viltà
Irene? E chi sarebbe? «Una delle mie nonne, quella piccola. Abitava a Gambettola, il paese in cui nacque mio padre. Era una vecchiolina magrissima, con tante sottane. Grande frequentatrice della parrocchia, pareva un cipressino col mento prominente. Le accadde un fatto misterioso, se ne parlò per anni: un giorno, in paese, arriva un drappello militare preceduto da tamburini che rullano a ritmo scatenato. Nonna Irene, di solito immobile come una statuina che riceve offerte votive, solleva una delle sue trenta sottane e, come colta da raptus, agita vorticosamente le gambette rinsecchite. Forse è un can-can, forse una tarantella. Pare un Pinocchio, una marionettina pazza: come Totò. Perché Totò era così: abitato da altro, lo sconosciuto che è in noi. Con quel perpetuo sberleffo, da clown antichissimo, da atellane, da commedia dell’arte, veniva da un mondo remoto. Aveva a che fare con la morte: ce la rammentava sempre, nei sogghigni silenziosi come nelle mobilità catalettiche. Si rideva anche per esorcizzare questo sgomento».
Tanto che lei, Fellini, pensò a lui per una parte nel Viaggio di G. Mastoma, un film mai realizzato sul passaggio di un uomo dalla vita ad altre dimensioni. «Avrebbe dovuto essere una specie di Caronte, il conduttore di un carro funebre».
Vi conoscevate bene? «Ci siamo visti a più riprese negli anni. Rammento la prima volta, alla Sala Umberto di Roma, poco prima della guerra. Il suo ingresso in scena era preceduto dall’esibizione di due acrobati. Dopo il numero ci fu una lunga pausa: Totò stava arrivando, e la platea s’agitava come un mare in tempesta. Apparve dal fondo, come uno spettatore. Percorse il corridoio centrale in un fruscio di passettini a forbice, da fantasma. Sotto l’ala della bombetta mi apparvero due occhi da rondone, da ectoplasma, da bambino centenario. Teneva un cero acceso tra le mani. Fu accolto da un uragano di applausi. Approdato in palco-scenico prese a dondolarsi avanti e indietro, muto e lieve come un missirizzi, gli occhi che roteavano come le biglie di una roulette. Di colpo soffiò sulla candela, alzò la bombetta e disse «Buona Pasqua». Ma non era Pasqua. Era novembre, e la sua voce era quella di un sepolto vivo.
Poi lo diressi in una scena di Dove la libertà?, di Rossellini. Roberto s’era ammalato e io venni incaricato di concludere il film. Con Totò girai una piccola sequenza: saltava in testa all’avvocato Talarico e gli mordeva l’orecchio. Come facevamo tutti sul set, anch’io lo chiamavo principe. «Voi», mi disse lui, premiandomi col suo sguardo dolcissimo, «potete pure chiamarmi Antonio». L’investitura mi commosse. Lo rividi ancora, anni dopo, per caso, su un set. Mi pare fosse un film di Corbucci. Totò era diventato cieco. Un attore napoletano, Donzelli, doveva accompagnarlo ovunque. «Principe, lo sapete chi c’è qua?», gli chiese al mio passaggio, «il regista Ferlino che vi saluta!». E lui, rannicchiato in se stesso come un araldico pennuto, con voce fonda e sfiatata disse: «Siete diventato davvero un registone!». Girò una scena, e vidi il miracolo. Totò, quando recitava, usciva dal suo buio come riacquistando la vista».
Esiste, oggi, una maschera con la forza, il magnetismo di Totò? Benigni per esempio, potrebbe incarnare la stessa vena infantile e diavolesca? «Benigni è tutt’altro: monellesco, trasgressore. Totò non aveva bisogno di niente».
A parte rare parentesi, quella dell’ultimo Totò per esempio, il Totò diretto da Pasolini, il cinema d’autore è stato spesso accusato di averne trascurato il talento. «Che assurdità. Quante volte s’è sentito dire: peccato che Totò non abbia trovato un grande regista. Un po’ come dire: peccato che la giraffa non abbia trovato qualcuno che gli abbia saputo far fare la giraffa. Lui era un fenomeno naturale, da fotografare così com’era. Un gatto, un bradipo. L’albero di Natale. O Venezia».
Leonetta Bentivoglio, «Il Venerdi di Repubblica», n.198, 29 novembre 1991
Leonetta Bentivoglio, «Il Venerdi di Repubblica», n.198, 29 novembre 1991 - Disegni di Federico Fellini |