Carlo Croccolo: «per anni Totò ha parlato con la mia voce»
L'attore napoletano, che è stato uno dei pochissimi amici intimi del "principe della risata”, racconta come negli ultimi anni di lavoro Totò, ormai diventato quasi completamente cieco, lo avesse scelto come doppiatore dei suoi film - «Mi aveva chiesto di mantenere questo segreto», dice Carlo Croccolo «perché nessuno nel mondo dello spettacolo sapesse quanto grave fosse la sua menomazione» - «E’ stato un grandissimo maestro nella professione ma anche nella vita»
Napoli, novembre
Carlo Croccolo era la voce di Totò, la sua voce segreta, quando il principe non vedeva più e non voleva che nessuno lo sapesse. Certo, non era solamente quello. Carlo Croccolo ha nel viso anche qualcosa del grande maestro, il profilo del naso leggermente adunco, quel modo di sorridere un po' sghembo, quello sguardo vagamente triste pur quand’è scanzonato.
C'è un po' tutta la sua amarezza in queste parole. Perché Totò, in fondo, doveva essere un uomo triste che sapeva far ridere, con la sua maschera già scolpita nel volto, disegnata inesorabilmente, come una condanna da guitto. Il più grande di tutti. Oggi Croccolo è un volto noto, un attore famoso, con un lungo passato alle spalle. Ma ci fu un periodo nella sua vita in cui fu davvero soprattutto quello, la voce di Totò, quasi un figlioccio, un confidente prezioso, l’uomo che sapeva conservare quel segreto. «Stammi vicino e non parlarne», gli diceva. «Non parlarne a nessuno. Nemmeno a me».
'Senza pietà’
Totò, il "principe della "risata" aveva cominciato a perdere la vista negli ultimi anni della sua vita, una pena che gli toglieva pure la possibilità di lavorare normalmente, perché in fase di montaggio, per esempio, non riusciva più a vedersi la bocca, per sincronizzarla con la voce.
Una pena che con il passar del tempo lo costringeva persino a muoversi con impaccio, "a brancolare nel buio”, a vergognarsi della sua sofferenza. E lui si fidava solamente di Carlo Croccolo.
«Voleva solo me. Mi diceva che i miei toni erano simili ai suoi, che avevo la pasta della voce abbastanza simile alla sua, che non avevo bisogno di fare l'imitatore, bastava che io la sforzassi leggermente e la voce era quasi identica. Be’, è vero, aveva ragione». In parte, era quasi un miracolo della natura. Due volti che rimandano vaghe somiglianze, due voci quasi identiche. Ma c’era molto Totò in questa volontà. «Perché lui alla fine si fidava di poche persone. Avevo la voce che gli piaceva e magari ero anche uno che gli piaceva. Che lui fosse ormai cieco lo sapevamo io, Corbucci e pochi altri. Mi diceva: "Devi assolutamente stare zitto", mi aveva pregato di non usare mai questa notizia. Io ho rispettato la sua volontà e solo tanti anni dopo la sua morte ne ho parlato.
Maschera scolpita
«Mi diceva: "Tu non conosci questo mondo. Nell’ambiente sono capaci di parlar male di uno se non ci sono ragioni. Figurati se c’è un appiglio, uno qualsiasi. Se lo vengono a sapere mi distruggono in un attimo, mi fanno a pezzettini. Questo è un mondo senza pietà, dammi retta, devi impararlo". Quei pochi che sapevamo mantenemmo tutti la parola. Solo nel primo decennale della sua morte si decise di rendere pubblico questo suo grande dolore».
Grande attore, grande personaggio, con tutte le sue manie, le sue fissazioni, quel nome roboante che quando qualcuno si decideva a pronunciarlo per esteso risuonava di tutta la sua gloria araldica: Antonio De Curtis Gagliardi Focas Comneno di Bisanzio. Detto Totò. Come un vecchio nobile spagnolo, dalla mimica convulsa e dalla fisionomia bizzarra, con quel mento asimmetrico e sfuggente. Capace di spiegare e di spiegarsi così, finito il lavoro, una sera qualunque: «Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l'amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita, in un teatrucolo di provincia. E la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Non si può essere un vero, autentico, comico senza aver fatto la guerra con la vita».
Ma non chiamatelo così, almeno con Carlo Croccolo: «Era nient'affatto guitto, disprezzava con aristocratico cipiglio le mezze calzette». Sarà la riconoscenza del figlioccio, sarà
il rispetto che porta l’allievo per il suo maestro. E poi, Carlo Croccolo è stato vicino a Totò proprio nel periodo suo più difficile, più duro, quando il passare degli anni e i problemi alla vista avevano ormai piegato e demoralizzato il principe.
«Non scherzava, Totò. "Un film è buono se fa ridere quando si vede, non quando si fa", continuava a ripetere. Io lo doppiai in almeno venticinque film. Agli inizi, negli interni, lui girava in presa diretta. II mio doppiaggio era necessario per le riprese esterne, perché con il traffico, la folla, il sonoro era disturbato e bisognava ridoppiare una volta pulita la scena dagli effetti. Una volta, nello stesso film, / due marescialli doppiai sia Totò che Vittorio De Sica». «Agli inizi era davvero disperato», racconta Carlo Croccolo. «Lui soffri per un distacco della retina molto grave. Stette molto male per tre mesi. Io ero andato in Canada dove avevo fatto un lavoro per lui, un doppiaggio in francese, e poi ero partito. Quando tornai, Totò era quasi un altro uomo.
«Era stato operato, aveva sperato di migliorare, e invece la sua situazione era diventata ancora più grave. Mi spiegava, se ricordo bene, che al centro non vedeva più niente. Che l'immagine che gli rimandava l’occhio aveva un buco in mezzo che si faceva sempre più grande. Lui era letteralmente distrutto, disperato. Non voleva più lavorare, anzi, mi raccontò che aveva sospeso tutti i contatti di lavoro che aveva in programma.
«Sembrava un uomo rassegnato a mettersi da parte, a lasciarsi finire. Non voleva vedere quasi nessuno, forse non ce la faceva. Questo periodo durò, credo, quattro o cinque mesi. Poco alla volta ha ripreso coraggio, fiducia, speranza, voglia di lavorare. Volle me per il doppiaggio. L’ultima volta che avevo lavorato per lui mi aveva fatto i complimenti. Era per La legge e legge, un film con Fernandel e io avevo fatto la sua voce in francese. Aveva detto che ero stato bravissimo. Per questo mi chiamò. Però, continuava a ripetermi che non dovevo fame parola assolutamente con nessuno. "Mi raccomando”, diceva. "Mi raccomando”. Lui aveva paura per l’ambiente, ma temeva anche che il suo pubblico l'abbandonasse.
«Io con lui avevo abbastanza confidenza. Sa, soltanto in pochi potevano permettersi di chiamarlo Totò. Io, i figli, Eduardo. Ma anche Eduardo, il suo segretario, quando eravamo in presenza degli altri poteva chiamarlo solamente principe, come d’altronde dovevano fare tutti.
«Era severissimo»
«Lui nei miei confronti aveva molta tenerezza. Ma era anche molto severo. Se io qualche volta arrivavo in ritardo, lui non faceva mai scenate, non alzava mai la voce. Io lo capivo subito però che s'era arrabbiato. Parlava a monosillabi, esprimeva il suo disappunto con la freddezza. Mi rispondeva con borbottii, con mugugni incomprensibili. Ce ne voleva un po' prima che gli passasse, ma mi voleva bene, s'era affezionato davvero.
«Era un uomo solo e triste, Totò, molto più grande dei suoi film. Girava un film dietro l'altro, film a basso costo e senza trama, perché aveva bisogno di guadagnare, ma gli piaceva essere circondato da persone di talento. Più erano bravi quelli che gli stavano intorno e più lui si esaltava. "Le cose belle è bello vederle col sole”, diceva sempre. Io l'avevo capito e lui mi ricambiava volendomi al suo fianco. Ma non era un gran divertimento, non credete. Era una grande fatica. Non si rideva mai. Totò era serissimo anche quando s’innamorava. Io lo vidi perdere la testa per la Pampanini, la donna per cui scrisse Malafemmina. Ma era un amore infelice.
Quando poi De Sica lo chiamò a Spaccanapoli per girare Ieri, oggi, domani, Croccolo, arrivato sul set, sentì una voce dall'alto: «Disgraziato, mi hai rubato aiciotto milioni». Scoprì così il mistero: per risparmiare, il produttore aveva dato due milioni a lui, invece che i diciotto previsti dal contratto per il doppiaggio allo stesso Vittorio De Sica.
Soprattutto in quegli anni Croccolo imparò a conoscere il maestro, i tic e le manie, le passioni, la grandezza e le debolezze di un uomo solo (uno che amava dire: «Avevo una bella casa con i genitori, la moglie, la figlia. Sono rimasto soltanto con il cane Dick»). Un uomo che la
moglie, Franca Faldini, una volta raccontò così: «S'inondava di Tabac Blond, cambiava camicie e abiti più volte al giorno, fumava ottanta sigarette e beveva una quindicina di caffè. Aborriva i ristoranti, temendone la scarsa igiene e chiamava il medico per un nonnulla.
Con Pasolini
«Gli piaceva sospettare trame alla Simenon e più volte in automobile inseguiva individui che gli erano sembrati misteriosi. Si coricava tardissimo (sempre dopo aver ispezionato per bene l'appartamento, chiudendo luci e gas) e dettava appunti, canzoni, poesie in un registratore; amava andar per mare con lo yacht Alcor, ma al primo accenno di maltempo scendeva a terra precipitosamente. Odiava i salotti degli intellettuali snob e ancor più era offeso dal modo di fare di celti ''cinematografari" arroganti che si erano arricchiti grazie alla sua genialità. Avrebbe desiderato tanto girare un film muto per-
ché voleva essere capito in tutto il mondo, ma né De Laurentiis né Ponti se la sentirono di rischiare».
Girò, però, con Pier Paolo Pasolini. «Negli ultimi tempi della sua vita», ricorda Croccolo «quando ormai era quasi compieta-mente cieco», e solo con lui, che gli aveva offerto la splendida opportunità di recitare in Uccellacci e uccellini, si sentì finalmente a suo agio e apprezzato in uno studio cinematografico. «Quando lo girò», aggiunge Croccolo «faticava moltissimo al chiuso, al buio, quasi non riusciva a muoversi perché gli occhi gli impedivano di vedere attorno a sé. Era il periodo che non saliva nemmeno più in camerino. Se faceva un film voleva la roulotte per sé, e la pretendeva anche se lavorava in teatro e quando finiva di recitare, si chiudeva dentro. Bisognava portarla, la roulotte, nei teatri per non fargli fare le scale, non farlo affaticare, perché non voleva che la gente lo vedesse brancolare, incespicare, come un povero vecchio».
Con Pasolini aveva anche altri progetti, che non riuscì, però, mai a realizzare. Erano gli ultimi tempi della sua vita. Con Carlo Croccolo scrisse un libro, che doveva diventare una commedia, un film, o un romanzo, e che invece restò sempre nei cassetti, perché Totò lasciò questo mondo e Croccolo è sempre stato troppo pigro per prendersi la briga di far conoscere il testo a qualcuno: In due si campa meglio, la storia di un padre e di un figlio che decidono di vivere insieme, combinando un mucchio di pasticci.
Grande coraggio
Di sé, Totò alla fine parlava solo per aneddoti. E ogni tanto dava qualche consiglio a questo giovanotto che aveva un po' la sua stessa voce e che lui s'era preso accanto, ma che era anche un tipetto esuberante, turbolento, che sperperò soldi e magari pure qualche anno della sua vita. E a Croccolo, Totò diceva sempre: «Ricordati che tu cerchi sempre di sapere la verità, e per sapere la verità non bisogna mai pensare a caldo, ma a freddo. Se vedi una salita dall'alto ti sembra una discesa, e se la vedi dal basso è una salita. Ma per vederla davvero bisogna tirarsi fuori. E ti accorgerai che non è né salita né discesa. E' una tendenza». E certo, in quegli anni di sodalizio fra Croccolo e Totò si creò davvero un rapporto particolare. E oggi che è così lontano la sua voce segreta non l'ha dimenticato: «Io, tante cose gli devo, perché gli sono stato vicino a lungo e ho cercato di bere da lui tutto quello che potevo. Ma una più di tutte. Vede, io ho amato questo suo enorme coraggio. E questo ho cercato di apprendere. Perché il nostro è un mestiere difficile e lo è sempre di più. Ci vuole un enorme coraggio per credere nelle cose che uno fa, per lavorare seriamente ingoiando i bocconi amari. Per tirare diritto. Pure io ho passato brutti momenti, ho dovuto lottare e sperare di farcela. Anche per questa lezione di vita, non potrò mai ringraziarlo abbastanza».
Pierangelo Rossi, «Gente», anno XXXVI, n.48, 23 novembre 1992
Pierangelo Rossi, «Gente», anno XXXVI, n.48, 23 novembre 1992 |