Il mio Totò, pessimista comico
Il mio Totò, pessimista comico. «Uno ha da mori' per essere compreso», diceva con ironia»
A venticinque anni dalla scomparsa, Franca Faldini racconta la sua vita con il celebre attore. «Come la Magnani, si formò nell’avanspettacolo: una grande scuola» ricorda colei che fu per quindici anni la sua compagna. «Le sue gag erano irripetibili. Per genio satirico e spirito anarcoide poteva conquistare anche il pubblico della Patagonia»
«E' vero che Totò era un uomo triste?» «Si, abbastanza. Era un pessimista, un uomo sfiduciato della vita. Doveva trovare sempre qualche motivo per tormentarsi. E motivi ne aveva tanti, sua infanzia e la sua giovinezza tragiche. Fino a circa 24 anni non aveva una identità. Era Antonio Clemente figlio di padre ignoto. Poi il fatto che non si piaceva come attore cinematografico».
Non si piaceva perché nel cinema non veniva utilizzato secondo il suo talento?
«Quando usciva dalle proiezioni dei suoi film era sempre insoddisfatto. Si lamentava per come aveva recitato, per i soggetti, per i registi e soprattutto per i produttori. Un giorno mi disse: In questo paese bellissimo uno ha da morì per per essere compreso». Me lo disse in Francia, dove andavamo di tanto in tanto. Quando fu dato a Parigi Totò Sceicco non non rideva nessuno. Lui voleva fare film con pochi dialoghi e qualche gag, ma i produttori non gli davano retta. Con la sua vis comica avrrebbe potuto conquistare anche il pubblico della Patagonia».
Dicono che fosse morbosamente geloso. E’ vero?
«Era un uomo della sua generazione, ossia un po' possessivo, ma non mi fece mai delle scenate. Soltanto una volta si mostrò un po’ geloso, ma in maniera signorile. Era il 1955, andato a Parigi. Sul treno un signore mi guardava con insistenza. "Lei fa il pittore?”, gli chiese. "No”, gli rispose. "Fa il fotografo?". "No". "Guarda la signora con tale insistenza che ho pensato volesse ritrarla", gli disse. E tutto finì con un sorriso».
Chi racconta queste cose è Franca Faldini, la donna che visse con Totò dal 1952 sino al 1967, anno della morte dell'attore. Gli era accanto quando il comico disse ai tre medici che lo curavano: «Chi è che mi ha sparato questa fucilata al cuore? Adesso basta, lasciatemi morire».
«Il pomeriggio precedente alla sua morte», ricorda la Faldini, «Totò accusò un lieve disturbo, ma il giorno dopo tutto sembrava andare per il meglio».
I responsi del cardiogramma e degli altri esami erano ottimi. Non aveva mai sofferto di cuore, anzi aveva un cuore perfetto, come dicevano i medici, pur se fumava tre pacchetti di Turmak bianche e beveva dodici e tredici caffè al giorno. Verso le 20,30, mentre gli davo una minestrina e parlavamo dei progetti per la prossima estate, emise un urlo agghiacciante, come se gli si fosse squarciato il petto. Da quel momento fu un susseguirsi di attacchi tremendi, per tutta la notte. Ma non voglio rievocare quei momenti. Ogni essere umano ha diritto alla discrezione».
La Faldini era entrata nella vita di Totò tramite una foto. Al rientro a Roma da Los Angeles, dove aveva interpretato per la Paramount, con la quale aveva un contratto, Al largo della marina, accanto a Dean Martin, Jerry Lewis, Corinne Calvet e Marion Davis, il settimanale Oggi le aveva dedicato la copertina. L'attore l'aveva notata e le aveva mandato dapprima dei fiori e poi le aveva telefonato, invitandola ad uscire. Lei si era schermita, ma qualche tempo dopo si erano incontrati ad un pranzo in casa di una amica del comico.
«Fui colta da stupore: un altro essere, assolutamente diverso dal personaggio pubblico, dall’attore che avevo conosciuto in teatro o nel cinema: timidissimo, discreto, gentile, elegante, un signore», ricorda la Faldini. «Da quel giorno si avviò tra noi un dialogo bellissimo: ci dicevamo tutto, con una fiducia totale. Io ero di padre ebreo e di madre ariana, come si diceva allora e come racconto nel mio libro Insieme nel buio, lui un emarginato per nascila o per destino. In seguito lavorai in alcuni dei suoi film, come Totò e le donne, Dove la libertà?, L 'uomo, la bestia e la virtù, Un turco napoletano. Per un puro caso fui accanto a lui anche nella rivista A prescindere. Ma io ero completamente negata come attrice. Erano altre le cose che ci accomunavano».
Qual'era il segreto del suo fascino, oltre la doppia personalità, le differenze abissali fra l'attore e l'uomo?
«Il suo essere lui, nel suo insieme, nella sua realtà ontologica, per così dire. Non era bellissimo, ma aveva un fascino straordinario, tale da sedurre qualsiasi donna. Infatti mi sedusse. Io avevo 21 anni, lui 54. Era generosissimo. Dava a piene mani. Ogni giorno, sotto casa, in via dei Monti Parioli 4, quando usciva, si raccoglieva una specie di Corte dei Miracoli. Una mattina lesse sul Messaggero che un tizio aveva rubato per erigere una lapide alla figlia. Ne affidò la difesa all'avvocato Eugenio De Si mone e quando uscì dal carcere gli mandò, attraverso lo stesso legale, del danaro per i primi bisogni. Ma quello stesso giorno De Simone si ritrovò senza la borsa».
Oltre che all’infanzia infelice, questo senso di solidarietà sociale era dovuto anche a motivi spirituali, o religiosi?
«Credeva in Dio, ma non era praticante. Andava a messa soltanto a Natale. La sua religiosità era di genere superstizioso. Era devoto, devotissimo di Sant'Antonio di Padova. Ne portava sempre il santino con sé. Gli chiedeva favori di ogni sorta, e se non li otteneva, lo "puniva" girandolo con la faccia contro il muro».
A venticinque anni dalla morte, come lo rivede?
«Come uomo ho già detto. Era un malato immaginario, ma reagiva alle difficoltà reali con grande forza. Dal 1957 era diventato quasi completamente cieco, al punto che non uscivamo quasi più, ma affrontava il suo stato con filosofia. Come attore, è assolutamente irripetibile: per talento comico, genio satirico, spirito anarcoide. Proveniva, come la Magnani, da quella che non esito a definire una delle più grandi scuole del mondo: l'avanspettacolo.
Costanzo Costantini, «Il Messaggero», 5 maggio 1992
Costanzo Costantini, «Il Messaggero», 5 maggio 1992 |