Totò venticinque anni dopo la sua scomparsa - Rassegna Stampa

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Totò nel venticinquennale della sua scomparsa

Mio padre Totò

Elena Oddino, «Gioia», anno LV, n.17, 27 aprile 1992 (Foto Pascuttini/Neri)
Mio padre Totò Liliana De Curtis, l’unica figlia, ricorda il celebre attore scomparso 25 anni fa.…
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1992 04 14 Corriere della Sera Liliana Revival Toto TV Cinema intro

Si sentiva prigioniero di brutti film: neanche lui capiva che erano il «brodo» ideale Un fenomeno analizzato all’eccesso ma è sul video che si tramanda il suo genio

Com’erano brutti i film di Totò negli anni 50, le cosiddette «totoate» predilette dal volgo e aborrite dai critici. «S’intendeva per "totoata" — spiega Vittorio Pallotti, biografo del Principe — un film da girare in poche settimane, con l’impegno di un numero abbastanza limitato di milioni e con la certezza di un introito ragguardevole: in un’epoca in cui lo spettatore spendeva 300 lire, ”Totò a colori” del '51 incassò un miliardo netto».

Le «totoate» erano tanto brutte che non piacevano neppure al loro animatore. Lui ne parlava come di una galera, di una calamità che gli era caduta addosso: deplorava la fragilità dei copioni, l’inconsistenza dei personaggi, il menefreghismo del registi, l'avidità dei produttori.

Molti anni dopo, quando Totò diventò un fenomeno culturale e studiosi serissimi cominciarono a chiedergli udienza, il nostro fu drastico nel dichiarare che sul quasi cento film da lui interpretati ne salvava sì e no dieci. Questo avaro bilancio s'intonava alle tradizionali doglianze di noi scribi d’epoca, che a ogni «Totò al Giro d’Italia» o «Totò Tarzan» riprendevamo il solito ritornello del genio sprecato. Senza capire, né noi né lui, che il vero destino di Totò era quello di cuocersi nel suo brodo, il brodo delle «totoate».

003 I due marescialli

Me lo ricordo a Urbino nel ’65, sul set di «La mandragola», già anziano, provato, mezzo cieco: sarebbe morto di lì a poco, il 15 aprile 1967, esattamente un quarto di secolo fa. Nel saio di fra' Timoteo era lusingato di recitare Machiavelli, lui che aveva esordito bambino nel battaglione dei «pazzarielli» e si era affermato facendo le imitazioni del contorsionista Gustavo De Marco: e proprio come veterano dell’avanspettacolo era fiero di venir diretto dal sapientissimo Alberto Lattuada, di cui spiava l’approvazione con l'ansia di un debuttante. Questo Totò del crepuscolo, ormai votato alle consacrazioni culturali, fece ancora in tempo a entrare nella cerchia di Pasolini, grato e sbigottito di tanto onore.

Di Totò si scrive molto: saggi, libri, tesi di laurea. Ne ha abbozzato un profilo esemplare la sua ultima compagna Franca Faldini, un polemista della forza di Goffredo Fofi ne ha fatto il vessillo della rivolta antineorealista, il professor Orio Caldiron gli ha dedicato una meticolosa monografia, un archeologo minimalista come Vincenzo Mollica si prodiga a rispolverarne certi aspetti inediti. Ma Totò e vivo soprattutto grazie alla tv, che si è impadronita delle «totoate» e le trasmette a getto continuo sul canali pubblici e privati.

Se ci fosse dato di volare come Superman, in una sera qualsiasi sopra una qualsiasi città, dalle finestre socchiuse ci arriverebbe frequente il suono delle risate in famiglia davanti al video; o quello, ancora più prezioso, degli spettatori emarginati per vecchiaia o avverse congiunture di vita, di cui Totò allevia la solitudine; e perfino, se hanno Infranto l’obbligo di andare a letto, il riso fresco del bambini.

Solo noi, critici canuti, continuiamo a guardare quei film della nostra giovinezza con una smorfia di scontento, ripetendoci per coerenza: com’erano brutti... Ma poi ci incuriosisce, al di là della frenetica presenza del protagonista, il gioco di squadra degli attori di fianco, in un intrecciarsi di battute e di effetti tra Peppino De Filippo e Carlo Campanini, Aroldo Tieri e Luigi Pavese, Ave Ninchi e Armando Migliari, Mario Castellani e Galeazzo Benti. Sono metà di mille, tutti divertenti, come fare a nominarli?

E ci rendiamo conto che in realtà le «totoate» furono la passerella finale della commedia dell'arte: o vogliamo chiamarla arte della commedia? Una squadracela di campionissimi della recitazione, al cui confronto le odierne formazioni dei film comici. piene di scoloriti figuranti doppiati, fanno una ben squallida figura. Sicché, sulla medaglia alla memoria imperitura di Antonio De Curtis possiamo tranquillamente incidere la dedica: all’ultimo grande capocomico della pellicola.

Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 14 aprile 1992


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Liliana De Curtis, figlia del principe Totò, si sente finalmente soddisfatta, ripagata: «Tutti si stanno preparando a celebrare il 25mo anniversario della morte di papà con grande affetto». Il Premio Fabriano, il Premio De Curtis, una piazza a Castellammare, uno special su Raiuno in due puntate a cura di Renzo Arbore, l'annullo delle poste per la ricorrenza, e perfino una medaglia creata dalla Zecca di Stato che sarà presentata il 23 a Ferrara: «Da una parte il volto di Totò, dall’altra la bombetta e la firma. Ma la cosa curiosa è che mio padre si era già fatto da solo una medaglia d’oro, da regalare agli amici».

E, dopo i bellissimi dischi con fascicolo di Vincenzo Mollica, ci sarà presto un nuovo libro (sempre Mondadori), «Totò a prescindere», in cui la figlia, con Matilde Amorosi, ha raccolto episodi e curiosità che riguardano la vita del famoso genitore, con prefazione di Fellini.

«Se "Totò mio padre", ora tradotto anche in Russia, era un libro scritto da una figlia nell’ottica amorosa di famiglia, questo, di tradizione orale, è una carrellata di aneddoti che coinvolge amici e colleghi che hanno raccontato gag e sketch della vita reale».

Seguendo e inseguendo artisti di quelle luci del varietà, l’autrice ha raccolto curiosità di vecchia data protette da un talento inimitabile: «Ho intervistato Croccolo, che mi ha raccontato la straordinaria storia della pernacchia, mentre la Masina rimpiange il film che non è mai riuscita a fare con mio padre. E poi ancora parlano Galeazzo Benti, la "spalla" Dino Valdi, Mario Di Gilio (con lui nell’ultima rivista "A prescindere’'), Bolognini che lo diresse in "Arrangiatevi !" e Giacomo Rondinella».

Fellini, da parte sua, va in flash-back e racconta come, per caso, mancando Rossellini, lo diresse lui, un giorno di tanti anni fa, in una scena di «Dov’è la libertà?».

«Ma l’aneddoto più bello e commovente è quello di Nunzio Gallo. Quando mio padre iniziò a non vederci, ci fu un vecchio attore che si offrì di regalargli il proprio occhio. Gallo accettò di procurare un incontro. Mio padre naturalmente rifiutò e disse al benefattore: "Non parliamone neppure, magari poi ci roviniamo entrambi, mentre io voglio che tu resti col tuo occhio a vedere le persone cui vuoi bene"».

Cosa vuol dire, signora De Curtis, commemorare Totò? «Fare una bella festa, una rimpatriata di amici, qualcosa che non sembri affatto una commemorazione. Perché Totò non è proprio scomparso, è sempre più presente tra noi».

Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 14 aprile 1992


1992 04 15 La Stampa Celebrazioni Venticinquennale intro

«Totò moriva il mattino del 17 aprile quando Antonio de Curtis, in arte Totò, uscì con i piedi in avanti dalla sua casa dei Parioli a Roma e si avviò per strade e raccordi di autostrade e piazze nereggianti di gente dolente per raccogliere quell'ultimo assordante applauso nella chiesa di S. Maria del Carmine a Napoli - dovette divertirsi e commuoversi fino alle lacrime allo spettacolo pirandelliano che gli si snodava dietro».

A ricordare quel funerale di 25 anni fa (Totò morì il 15 aprile 1967) è Franca Faldini, la sua ultima compagna, che si sofferma a tratteggiare, con tocco sapido e linguaggio colorito, i presenti alla cerimonia funebre: lei stessa, la «vedova biblica», e poi «due frastornati nipoti adolescenti; una figlia giustamente in lacrime, fiancheggiata da un solerte ex marito che mai gli era stato troppo congeniale e da un sollecito accompagnatore ufficioso di cui il padre ignorava persino l'esistenza; una ex moglie che, risposatasi civilmente con qualcun altro più di tre lustri prima per poi di nuovo separarsi, presenziava in gramaglie strette, accasciata e sorretta per le braccia...».

Insomma una scena «pirandelliana», degna di una di quelle sequenze esilaranti e grottesche che punteggiano i moltissimi film interpretati da Totò. Una scena che inquadra, come una fotografia-ricordo, non tanto l'uomo Totò nei suoi rapporti familiari e sociali, quanto piuttosto il personaggio Totò, o meglio la «maschera» Totò, come ancora di recente ha voluto definirlo Dario Fo nel suo libro Totò. Manuale dell'attor comico, a cura di Liborio Termine (ed. Aleph 1991).

1955 Questa e la vita BG

Perché Totò era e rimane una «maschera», di cui si possono cogliere le mille sfaccettature, i ricami e le variazioni sul tema fondamentale della sua natura napoletana, negli infiniti sketch che costellano i suoi cento film (ne ha interpretati per l'esattezza 99). «Considero Totò - scrive Fo - il grande Arlecchino del Novecento; e dell'Arlecchino delle origini egli ha saputo ripetere la versatilità, la disponibilità a far tutto, diventare tutto». Di qui la frammentarietà e la ripetitività della sua presenza sullo schermo, il bisogno di agire sul set libero dalle costrizioni della sceneggiatura e della regia, la necessità di iterare i gesti, le mosse, le parole, gli sguardi, e da questa iterazione far scaturire il comico. Ma di qui anche la modernità della sua arte, fuori della tradizione cinematografica del film chiuso, rifinito, ben fatto, spettacolarmente bello. Un'arte del frammento, dell'improvvisazione, antischematica per eccellenza, antiestetica e provocatoria».

Al di là della «maschera», del richiamo alla commedia dell'arte, del teatro popolare e dell'avanspettacolo - che pure costituiscono la base della formazione artistica di Totò - c'è nella sua recitazione, o meglio nella costruzione dei suoi personaggi, sempre uguali e sempre diversi, un che di pirandelliano, di ambiguo, di contraddittorio, persino di assurdo, che supera i confini entro i quali agisce Arlecchino e si pone come metro di giudizio dell'uomo e della società.

Questo pirandellismo della comicità di Totò lo si è visto proprio in questi giorni, al Museo Nazionale del Cinema di Torino, quando è stato ripresentato un film raro, non più in circolazione da molti anni, che a Pirandello si anni fa richiama esplicitamente. E' L'uomo, la bestia e la virtù, diretto nel 1953 da Steno, con Totò nella parte dell'«uomo», Orson Welles in quella della «bestia» e Viviane Romance in quella della «virtù». Un film che si distacca dai molti altri interpretati dall'attore non soltanto per una migliore cura formale e un ben costruito intreccio drammatico, ma soprattutto per un progressivo spostamento dalla maschera di Arlecchino al personaggio pirandelliano.

Il professore Paolino del film, un insegnante di scuola media in un piccolo paese della costa amalfitana, amante segreto di Viviane Romance, moglie trascurata del capitano di marina Orson Welles, è ben più di una macchietta napoletana, di una figurina del folklore locale, del comprimario di una commedia boccaccesca. E' il personaggio demoniaco, appunto pirandelliano, di un dramma che mette in scena le ipocrisie umane, le convenzioni sociali, i risvolti perbenisti e piccolo-borghesi della vita quotidiana, e se ne fa beffe. Un personaggio tutto interno allo spettacolo di questa miseria morale, con le sue meschinità e cattiverie, e tuttavia esterno al gioco delle parti, quasi osservatore distaccato dei mali altrui.

E' strano che un film come L'uomo, la bestia e la virtù, sia stato trascurato allora dalla critica o severamente giudicato (come la maggior parte degli altri film di Totò). Strano che ancora di recente uno studioso attento come Francesco Càllari, nel suo monumentale Pirandello ed il cinema (Marsilio, 1991), abbia potuto scrivere: «L'apologo di Pirandello è diventato un mero pretesto, un presuntuoso arbitrio per un film goffo e volgare, esagitatamente farsesco (invece che grottesco), triviale, macchiettistico, banalmente rivistaiuolo, pieno d'umori grossolanamente e grassamente ridanciani fino a rasentare la pornografia».

Ma forse questo giudizio «grottesco» non fa che ricalcare, a molti anni di distanza, l'opinione critica negativa che ha sempre accompagnato i film di Totò: corrivi, «rivistaiuoli», nei quali la sua genuina arte comica si andava guastando per colpa di registi e sceneggiatori e produttori anch'essi corrivi e rivistaiuoli. Alcune rare eccezioni, come Napoli milionaria di Eduardo, Guardie e ladri di Steno e Monicelli, Dov'è la libertà?, di Rossellini, L'oro di Napoli di De Sica, I soliti ignoti di Monicelli, non erano altro che la conferma della regola.

Poi venne Pasolini ed il suo Uccellacci e uccellini, nel 1966, un anno prima che Totò morisse. E allora si parlò di una rivelazione, quasi che finalmente Pasolini fosse riuscito a fare con l'attore quello che gli altri registi non erano riusciti: estrarre dal suo mestiere fin troppo collaudato e persino logoro le gemme della sua primigenia e originale vis comica. Fu probabilmente un errore critico. Non già perché il Totò di Pasolini non fosse riuscito, ma perché era, appunto, il Totò di Pasolini, un personaggio tutto interno alla poetica pasoliniana. Mentre a saper guardare e riguardare i suoi cento film, vi si scopre la vera natura di un'arte comica che, nell'apparente semplicità e nella evidente ripetitività, possiede la forza grottesca e luciferina, ambigua e paradossale di Pirandello.

Gianni Rondolino, «La Stampa», 15 aprile 1992


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«La Repubblica», 15 aprile 1992 - Intervista a Dario Fo


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Venticinque anni fa, il 15 aprile del 1967, moriva Totò . Ai suoi funerali, la bara sormontata da una bombetta fu accompagnata da una folla di spettatori, che piangevano dopo avere riso per decenni alle sue battute. Poi vende l'oblio, quello che lui stesso, nelle ultime interviste, auspicava, se non altro per i suoi film, tra i quali ne salvava «sì e no una decina» punto Ma negli anni 70 inizio una riscoperta che prosegue ancora oggi. nacque il mito, al quale oggi rendiamo omaggio ricordando anche un episodio che poteva essere e non fu: la partecipazione a Miracolo a Milano di De Sica.

Un'aurea regola del giornalismo, enunciata in prima pagina di Billy Wilder, ordina di non iniziare mai un articolo con i due punti e di non finirlo mai con una virgola. Sante parole, ma parlando di Totò bisognerebbe trasgredirle. Seguendo le sue indicazioni nella famosa scena di Totò Peppino e la malafemmina, dovremmo mettere un punto, due punti, un punto e virgola e via dicendo. Il buon senso impersonato da Peppino insorgerebbe: troppa roba. E' un po' la sensazione del Peppino che è in noi, di fronte a queste due pagine sui venticinque anni della morte del Genio: troppa roba. Ma il Totò che è in noi (siamo tutti un po' Totò e un po' Peppino) risponde baldanzoso: Ma sì abbondantis in abbondandum, che non dicano che siamo tirati. Quindi, ricordiamo punto ricordiamo che Totò è morto da 5 lustri, non da duemila anni come Diocleziano (e comunque lui direbbe: «come passa il tempo»…), ricordiamo, ridiamo, pensiamo, sfruculiamo. una cosa sola evitiamola: non celebriamo. Lui risponderebbe: me ne frego. Sfruculiamo in ordine sparso, seminando ricordi «a prescindere», senza pensare troppo a quei venticinque anni.

Ad esempio: quali sono le date che, davvero contano? Il 1967 della morte, il 1898 della nascita? O non piuttosto le due date che ricorda uno sceneggiatore di oggi, David Grieco? Il '68 in cui ci fu… il '68, e il '72 in cui Totò nacque per non morire mai più, come Nosferatu, per mordere alla gola con le sue battute tutti coloro che, in quegli anni, si prendevano troppo sul serio. O magari le date che riguardano uno sceneggiatore di ieri, e che sceneggiatore, Cesare Zavattini? Nel 1940 Zavattini intervista Totò, nel 1941 Totò gli risponde per lettera, E da questo breve scambio di battute la nostra memoria viene rinfrescata, e riscopriamo che i due avevano «pensato» assieme un soggetto, «Totò il buono», che nel 1943 divenne l'omonimo romanzo di Zavattini e nel 1951 «Miracolo a Milano», il film di De Sica. Un film celeberrimo, amatissimo in tutto il mondo, citato a manbassa dei cineasti di tutte le generazioni (fino allo Spielberg di E.T., nella scena in cui il piccolo extraterrestre fa volare le biciclette dei bambini). Ma, nonostante questo amore - che condividiamo - è difficile rinunciare a chiedersi cosa sarebbe stato «Miracolo a Milano», se Totò l'avesse interpretato come sognava e sperava.

Insomma, son due belle storie, con delle belle date da giocarsi al Lotto 2 punti 68,70 40,40, 41,51. Delle date che, nella loro totale casualità, ci debbono ammonire che l'attore vive sempre nel presente, «in data odierna». Come dice Totò nella scena suddetta. Già, le due scene punto due tormentoni tipici del teatro napoletano (ricordate la famosa lettura ad alta voce della lettera in «Natale in casa Cupiello» di Eduardo?), due «marchi di fabbrica», perché siamo convinti che simili scene andrebbero imparate a memoria, come una volta si imparavano le poesie. Avrete visto queste due sequenze milioni e milioni di volte, e la loro «lettura» non sarà mai divertente quanto la «visione». Però la memoria, la «protezione» come fossero beni culturali (e forse non lo sono?) è importante. Perché anche se i giornali scrivono (e scrivono, già 5 anni fa, per il ventennale, scrissero tantissimo), anche se i critici pensano, anche se la TV manda in onda, noi delle brigate Totò siamo sempre in clandestinità. È una tradizione orale che avrebbe bisogno di punti fermi. Di un archivio Totò gemello dell'archivio Zavattini che ci ha dato la lettera. Il trionfo della videocassetta ha fatto molto ma molto resta ancora da fare punto bisogna mettere nero su bianco, diffondere Totò, preservarne l'unicità. Carta penna e calamaio, insomma punto sia pure senza nulla a pretendere, come diceva Peppino. E con punto, due punti, punto e virgola.

Alberto Crespi, «L’Unità», 15 aprile 1992


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ROMA.

Totò in tv e Totò a fumetti. Non sono due titoli (tra gli oltre cento, girati dal grande attore) ma due particolari omaggi, il primo glielo rende la tv, per mano di uno dei suoi più geniali protagonisti ed autori: Renzo Arbore. Il popolare Renzo sta infatti preparando un programma dedicato a Totò, su cui però non si sbilancia. «Sarà di una o due puntate - ha dichiarato in un'intervista a Il Messaggero - ma non dico una sillaba, una vocale, una parola. Le orecchie reste sono in agguato. Appena apro bocca mi rubano l'idea. Mi sono stancato di fornire materiale agli altri. Per il comico napoletano nutro grande ammirazione un genio della comicità, ma non solo punto Totò era un artista straordinario.»

Il secondo, particolarissimo omaggio (e anche qualcosa di più) glielo aveva dedicato, nel 1966, Pier Paolo Pasolini. Il poeta e regista lo aveva voluto con sé nel film Uccellacci e uccellini e poi nell'episodio «La terra vista dalla luna», contenuto nel film Le streghe, accanto a Ninetto Davoli e a Silvana Mangano. Ebbene, lo stesso Pasolini, invece di una sceneggiatura, per quell'episodio, disegnò un vero e proprio fumetto, molto più di uno scarno storyboard: una serie di poeticissime tavole a colori. Ora quelle tavole, conservate al gabinetto Viesseux di Firenze, sono state pubblicate sull'ultimo numero della rivista Il Grifo, accompagnate dalla trascrizione dei dialoghi dell'episodio e da uno scritto di Pasolini, contenuto nel libro Le regole di un'illusione, Edito dal fondo Pier Paolo Pasolini. In quello scritto, che ricorda la genesi e le intenzioni di quel film, scriveva, tra l'altro, il regista: «originariamente Volevo fare una serie di episodi, tutti con Totò, che formassero un film. Quando Totò morì, l'idea cadde. Il modello non potevano essere che le prime comiche di Chaplin». Quale miglior complimento per il grande Totò?

Re. P., «L’Unità», 15 aprile 1992


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«L’Unità», 15 aprile 1992


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«L’Unità», 15 aprile 1992


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Marco Travaglio, «La Gazzetta del Popolo», 26 aprile 1992


1992 08 10 Corriere della Sera Toto venticinquennale

Questo è l’anno di Totò. Venticinque anni fa moriva a Roma l’attore, più amato d’Italia.

Era la sera del 15 aprile 1967 quando, dopo aver cenato con la figlia, la moglie e la suocera, fu colpito dall'attacco. Arrivò solo a dire: -Sto per morire... portatemi a Napoli». Tre giorni dopo Totò era già tra i morti della sua gente, nel cimitero di Poggioreale dove la lapide col suo nome era pronta da molti anni, con una semplice epigrafe da lui stesso voluta: Totò e la data di nascita; mancava solo quella della morte che fu aggiunta quel giorno. I funerali si svolsero a Roma tra la dolente partecipazione di una folla che per due giorni era sfilata davanti al feretro su cui la vedova volle mettere la famosa bombetta che, insieme a quella di Charlot, fa ormai parte della storia del cinema.

La bara giunse a Napoli nelle prime ore del pomeriggio di martedì 18: centoventimila persone si erano assiepate nelle piazze e nelle vie adiacenti alla chiesa del Carmine riempiendo tutti i quartieri vicini, fino alla ferrovia. Il traffico era stato bloccato per quattro ore. Quando il carro funebre spuntò si udirono timidi battimani, pianti, grida disperate. Accadde il caos. La chiesa era stipata in maniera inverosimile. Dalla folla straripante si levò una voce. Era quella di Nino Taranto che, tra i singhiozzi, arrivò a dire: «Totò, Napoli ti ha fatto l’ultimo "esaurito"». Si soffocava: molti svenirono. Arrivarono una cinquantina di agenti con manganelli e solo allora fu possibile aprire un varco al feretro e iniziare l'ufficio funebre.

Intanto dall’esterno la calca continuava a premere. Alla fine della cerimonia la polizia impedì che la bara uscisse da dove era entrata: sarebbe stato estremamente pericoloso. Uscì da una porta segreta della sacrestia e, scortata dalle camionette della «Mobile», raggiunse Poggioreale, a sirene spiegate. In quel pomeriggio ci furono sedici feriti, tredici contusi, quattordici borsaioli arrestati e diciotto persone derubate del portafoglio. C’era tutto il popolo di Napoli, senza distinzione di ceti, una grande mescolanza: nobili e borghesi; gentiluomini e guappi; scugnizzi e cadetti della Nunziatella (la scuola militare); preti, ladri e camorristi; sante donne in preghiera e puttane pallide, senza trucco e col velo nero in testa; insomma il ventre di Napoli.

Da ragazzo, figlio illegittimo di una giovane donna del popolo e di un nobile, non aveva voglia di frequentare la scuola. Appena il maestro voltava gli occhi, andava in strada a godersi lo spettacolo della gente. Era tale la passione per la vita degli altri che la madre lo chiamava «lo spione» e gli diceva: «Totò studia, così da grande puoi fare il questurino». Gli piaceva fare il «pazzariello», che è quella maschera napoletana vestita in modo bizzarro. Quando poteva si recava nel teatri di varietà per godersi con entusiasmo i comici che improvvisavano battute e gestì. Tornato a casa si ingegnava per ore e ore di imitarli. Cominciò a recitare nelle -periodiche», spettacolini per famiglia di commedianti chiamati per divertire gli ospiti.

A vent'anni Totò decise di saltare il fosso e si recò a Roma. Lo presero al teatro Jovinelli dove cominciò la sua vera carriera. Divenne presto un attore di successo. In più piaceva alle donne. Una bella e fatale cantante che si chiamava Liliana Castagnolo, che faceva strage di cuori, provò anche con Totò; ma fu lei a bruciarsi le ali e a perdere la testa. Gelosa e tirannica metteva in croce l’ultima sua preda che cominciava a dare segni di noia. E quando si accorse che la passione stava per finire si uccise. Totò ne restò sconvolto e l'ombra di quel drammatico evento l'ha perseguitato per tutta la vita, sellandola con un velo di incancellabile malinconia. Più tardi, quando, sposatosi alla prima moglie Diana Rogliani, gli nacque una figlia, volle che la bambina portasse il nome di Liliana.

A Milano Totò arrivò alla metà degli Anni Trenta e vi arrivò in vagone letto. Fu un viaggio allucinante. Lo raccontava lui stesso. Quando sali in treno e si accorse che gli era stata assegnata la cabina con il numero tredici non volle entrarci. Superstiziosissimo com'era. chiamò il controllore per il cambio di posto, ma non c’era nessuno scompartimento libero. Il treno si era già mosso. Totò non ebbe pace finché non riuscì a svitare la targhetta con il numero fatale dall’uscio.

Il debutto al «Trianon», in corso Vittorio Emanuele. tra il '36 e il ’37 andò benissimo. Il comico napoletano furoreggiava. In proposito ho alcuni ricordi: fù in quegli anni che vidi Totò per la prima volta. Zavattini, che mi teneva come un ragazzo di bottega desideroso com’ero di imparare il mestiere di giornalista. mi portava con sé al teatro tutte le sere, in piedi, con il solo biglietto d’ingresso: la poltrona costava troppo. Ci mettevamo al lato sinistro della sala quasi sotto il proscenio. La compagnia era un miscuglio di guitti e di ballerine di fila. Però quando appariva Totò il teatro esplodeva. Zavattini mi spingeva in avanti, fino sotto alla ribalta. Diceva: «È grande!». Applaudivamo come due della claque. I gesti di Totò, le sue parole suscitavano continue risate. Quella capacità tutta sua di far roteare il collo sul busto rigido, di snodare braccia e gambe, 1 suol sketch, le sue frasi celebri.

A fine spettacolo correvamo al Savini ad aggregarci agli amici: Quasimodo, Carrleri, Gatto, Cantatore, Sinisgalli, Marotta. Dopo la «Scala» entravano i Pirelli, i Falck, l Borletti, i padroni del potere industriale di Milano. Si toglievano paletot e sciarpa bianca al guardaroba e passando vicino al nostro tavolo accennavano a un impercettibile saluto.

Era stato pubblicato quell’anno, 1937, sempre da Bompiani, il secondo libro di Zavattini: «I poveri sono matti». Zavattini aveva pensato di farlo avere a Totò. «Che ne dici — mi chiese —, gli mando una copia? Gliela vuoi portare tu?» E come un «pony express» ante litteram mi spedì dal grande comico. Totò alloggiava all'albergo Plaza, nelle vicinanze del Duomo; Zavattini mi aspettava sul sagrato. «Il principe ha messo la sveglia per l'una» mi disse il portiere pregandomi di ritornare a quell’ora. Totò mi ricevette ancora a letto. Gli detti il libro. -Ah, Zavattini! — disse — Zavattini, dov’è». Ero frastornato di trovarmi dì fronte a lui. Totò mi fece sedere. -Cosa volete bere?». «Niente, grazie». «Come niente?». Per liberarmi da quella insistenza mi scappò di dire: «Un’aranciata». Il colloquio si avviò, o meglio il soliloquio di Totò continuò. Lui parlava, io ascoltavo. «Zavattini verrà una sera a teatro? Vorrei conoscerlo». Non gli dissi che ci andavamo tutte le sere. «E già — continuò Totò —, noi siamo il varietà. Da noi i professori non vengono. Non abbiamo la critica del "Corriere", solo poche righe piccole piccole». Il mio mutismo e il mio disagio dovettero colpirlo perché all'improvviso mi disse: «E voi non parlate?» continuai a star zitto. «Dite a Zavattini che l’aspetto». Rimasi da lui quasi un’ora, ricordo che mi raccontò di aver cominciato guadagnando due soldi per sera, di aver recitato in una baracca di piazza Risorgimento in una compagnia di guitti, facendo l'attore comico ne «La cieca di Sorrento».

Nell’«Archivio Zavattini» ho trovato un articolo che l'autore di «Parliamo tanto di me» scrisse su Totò prima della guerra, il primo lungo articolo, quasi un saggio, che praticamente lo scopriva, segnalandolo all’attenzione della critica ufficiale, fino a quel momento distratta. Da allora, nella cronaca teatrale dei giornali, Totò passò dal corpo sei al corpo sette: segno dell’avanzamento di grado. Intanto, Zavattini ogni sera portava qualcuno a vedere Totò: Quasimodo, Canteri, Repaci. Ad uno ad uno intruppava tutti i letterati e gli artisti che erano su piazza: Campigli, De Chirico, Marino Marini, Carrà. Non ricordo bene se fu De Chirico o Campigli, sicuramente uno dei due, che a fine spettacolo disse: «Se l'America ha Charlot, noi abbiamo Totò».

L’incontro fra Totò e Zavattini segnò una svolta se non nella vita sicuramente nel pensiero e nelle ambizioni del comico napoletano. Totò fu folgorato dalla poetica di Zavattini. E quando lo scrittore gli raccontò una sua fantasia, che avrebbe voluto tradurre in film, l’attore ne rimase così affascinato da confessare che gli sarebbe piaciuto interpretarlo. Ma l’idea, per molte ragioni, restò un sogno. Perduta la speranza, Totò, in una lettera del 1941, prese il coraggio a due mani e scrisse a Zavattini: «Chiunque lo interpreti, ti domando, un altro favore: di darti una mano quando lo sceneggerai... Tu sai che su quella linea non mi mancano le idee e le trovate efficaci, tu sai che toccandomi sui tasti giusti io so inventare oltre che interpretare. Ti ripeto, questo lo farai se vorrai e se potrai... Io sono lieto insomma di mettermi a tua disposizione con quel tanto di fantasia e di poesia che tu mi hai riconosciuto da molti anni...».

Solo anni dopo, quel film fù realizzato da De Sica: è «Miracolo a Milano», tratto dal libro di Zavattini «Totò il buono» che parte dal nome del grande comico per sviluppare una favola tipicamente zavattiniana.

Ma a quel film, fra i più belli, Totò non prese parte. Fu una grande occasione mancata, ma il cinema è sempre stata una macchina imprevedibile.

Gaetano Afeltra, «Corriere della Sera», 10 agosto 1992


Varie testate giornalistiche, aprile-dicembre 1992

Riferimenti e bibliografie:

  • Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 14 aprile 1992
  • Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 14 aprile 1992
  • Gianni Rondolino, «La Stampa», 15 aprile 1992
  • Alberto Crespi, «L’Unità», 15 aprile 1992
  • Re. P., «L’Unità», 15 aprile 1992
  • Gaetano Afeltra, «Corriere della Sera», 10 agosto 1992