Quale Totò?

1993-Quale-Toto

Quale Totò?


Il comico napoletano Totò (pseudonimo di Antonio de Curtis, 1898-1967) ha rappresentato uno dei fenomeni di divismo più importanti dell’intero cinema italiano.

La sua sola presenza in un film garantiva al produttore la fedeltà di una schiera di «fans» sufficiente a fare del film un successo. Ma Totò (abbastanza trascurato dagli uomini di cultura e dai critici durante la sua vita) è divenuto, nel corso degli ultimi anni, anche un «caso» per saggisti e storici del cinema. La giovane critica, che aveva vissuto l’entusiasmo della proposta dei grandi comici americani (da Keaton ai Marx Brothers), prima lungamente snobbati, si è dedicata alla «riscoperta» di questo comico italiano, di talento non poi tanto inferiore. Sono così usciti parecchi libri su di lui (fra cui vanno citati almeno Totò, l’Uomo e la maschera, di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli, 1977, e Totò, di Orio Caldiron, Gremese, 1980), sono stati approntati tre film di montaggio (Totò Story, di Gisa Radicchi Levi, 1968; Totò, une anthologie, di Jean-Louis Comolli, 1978; Supertotò, di Brando Giordani ed Emilio Ravel, 1980), e sono stati ripresentati diversi suoi vecchi film.

1906 Antonio Clemente 000 000 L

Totò nacque a Napoli in un quartiere poverissimo, figlio naturale di Anna Clemente messa incinta dal Marchese Giuseppe de Curtis, il 15 febbraio 1898. Passò un’infanzia e un’adolescenza povere e turbolente, e trovò pace soltanto nei teatrini popolari, dove cominciò a esibirsi come comico poco dopo la fine della prima guerra mondiale. Nel 1921 Giuseppe de Curtis sposò finalmente Anna Clemente, e il figlio bastardo potè assumere il cognome del padre. (La condizione di bastardo fu una delle angosce della sua vita: per lunghi anni spese milioni in ricerche araldiche, e finì per dimostrare di essere l’ultimo erede di una famiglia che risaliva addirittura all’imperatore di Bisanzio).
Totò nacque a Napoli in un quartiere poverissimo, figlio naturale di Anna Clemente messa incinta dal Marchese Giuseppe de Curtis, il 15 febbraio 1898. Passò un’infanzia e un’adolescenza povere e turbolente, e trovò pace soltanto nei teatrini popolari, dove cominciò a esibirsi come comico poco dopo la fine della prima guerra mondiale. Nel 1921 Giuseppe de Curtis sposò finalmente Anna Clemente, e il figlio bastardo potè assumere il cognome del padre. (La condizione di bastardo fu una delle angosce della sua vita: per lunghi anni spese milioni in ricerche araldiche, e finì per dimostrare di essere l’ultimo erede di una famiglia che risaliva addirittura all’imperatore di Bisanzio).

Per tutti gli anni venti e trenta la sua popolarità crebbe, ed egli diventò uno dei più amati comici del teatro di varietà. Un dramma gli accadde nel 1930: l’attrice Liliana Castagnola, innamorata di lui ma respinta, si suicidò. Più tardi, (1933) divenuto padre di una bambina, la chiamò Liliana in ricordo della Castagnola.

1925 Liliana Castagnola 200 L

Nel 1937 girò il suo primo film (Fermo con le mani! con la regia di Gero Zambuto). Durante la seconda guerra mondiale si divise fra teatro e cinema, e nel dopoguerra divenne definitivamente il beniamino del pubblico cinematografico italiano. Frattanto si era separato dalla moglie, e aveva iniziato la convivenza con Franca Faldini, giovane attrice, che sarebbe durata fino alla sua morte. Nel 1956, durante un ritorno al teatro (con la rivista A prescindere), ebbe un incidente: un’influenza trascurata gli procurò un’infezione agli occhi. Da allora Totò visse quasi cieco, ed ebbe gravi difficoltà a muoversi sul set, nonostante tenacia e professionismo lo aiutassero. Molti film di questi anni lo videro in coppia con l’attore Peppino de Filippo, napoletano come lui e portato, più che alla comicità, alla commedia di costume. Nel 1966 Totò lavora con Pier Paolo Pasolini nel lungometraggio Uccellacci e uccellini e nei cortometraggi La terra vista dalla luna e Cosa sono le nuvole?. Nel 1967, il 15 aprile, muore per crisi cardiaca nella sua casa di Roma.

Totò ha interpretato oltre centoventi film, molti dei quali sono di pessima qualità: girati in fretta, montati senza attenzione, soprattutto scritti da sceneggiatori pasticcioni e senza gusto. Rari i film fatti con registi di qualche valore (Monicelli, Lattuada, Pasolini), cui vanno aggiunti i film diretti da Mario Mattòli, una curiosa figura di impresario teatrale-regista cinematografico che aveva molta stima per l’arte di Totò e gli garantiva una mise en scene decorosa e adatta a valorizzare in pieno le sue qualità di attore. Tra i film vanno ricordati almeno: Totò al Giro d’Italia (1948), Totò cerca casa (1949), Totòtarzan ( 1950), Totò sceicco (1950), Totò a colori (1952, primo lungometraggio a colori italiano), Totò all’inferno (1955), Siamo uomini 0 caporali? (1955), I soliti ignoti (1958), Uccellacci e uccellini (1966).

1942 Toto Lucy D Albert 001 L

Totò, dunque. Ma quale Totò? Il mimo dalle movenze sconnesse, o l’attor patetico delle commedie da tinello partenopee? Il Totò «neorealistico», quello surreale, quello del varietà?

La visione dei suoi film ripresentati, o di quelli antologizzati, o la memoria di quelli rimasti nei cassetti della distribuzione, ci dicono che tanti furono i Totò, spesso dissonanti fra loro e spesso indegni gli uni degli altri.

Totò, si disse, fu cattivo manager di se stesso perché si svendette a registi frettolosi e a produttori ignoranti, che non ne compresero l’arte. Si ribattè che, così facendo, egli si assicurava però la libertà di improvvisare a suo estro, lasciando a noi un lungo e frammentato documentario su di sé, una sorta di autobiografia artistica a brandelli.

1933 Toto 032 L

Nella sua schematicità, questa opposizione è ingannevole. Antonio de Curtis, nei fatti, fu sì un cattivo manager di Totò: ma perché sperperò la sua presenza e le sue sembianze in spettacoli e in personaggi di qualsiasi tipo, senza interessarsi che si adattassero alle sue doti più vere; e non invece, poiché trascurò il livello culturale, la confezione che avrebbero avuto gli spettacoli e i personaggi. Ognuno saprà ricordare quante volte l’attore Totò venga messo in ombra da Peppino de Filippo, quando entrambi sono impegnati in un dramma-commedia piccolo borghese: in un «genere», cioè, che era pienamente nelle corde di Peppino, ma era estraneo a Totò. Oppure si ricordi quante volte egli sia rimasto confinato in un napoletanismo cartolinesco e manierato, che limitava la sua straordinaria forza e faceva di lui un’attrazione dialettale.

Certo, anche questi ruoli davano soddisfazione ai suoi fedelissimi. Il carisma dell’uomo di spettacolo era potente anche là dove l’attore era a disagio. Ma l’autentico Totò, il Totò originale e «specifico», che va distinto con molta cura dagli altri, e sul quale veramente vale la pena di discutere, fu il comico puro, l’uomo-caricatura. In termini di quantità, una parte non grande del Totò consegnato a ventiquattro fotogrammi al secondo, e una parte grandissima, invece, del Totò consegnato alla memoria di chi si avvia oggi all’età matura e ha potuto ammirarlo almeno una volta sul palco-scenico della rivista. L’istinto comico di Totò viene affinato, nel corso di lunghi anni di teatro di varietà, dal pubblico. Il Totò dell’anteguerra e della guerra (Fermo con le mani!, il suo primo film, è del 1937) appare ancora acerbo, in confronto con quello che conquista il grosso successo tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta. Totò, classe 1898, ha a quell’epoca una cinquantina d’anni, trenta dei quali passati all’università della ribalta.

Di nascita, Totò era un piccolissimo borghese, di quella piccola borghesia meridionale che spesso si immette, senza soluzione di continuità, nel quinto stato. Di matrice piccolo borghese sarebbe stata la sua ispirazione personale (come testimoniano le poesie in volume, il soggetto del film Siamo uomini o caporali?, e anche molte interviste): sentimentale, in cerca di una «filosofia della vita», di una saggezza buon-sensaia. Il pubblico si riconosceva invece nella sua anima sottoproletaria. Fu l’esigentissimo, impietoso pubblico popolare dei teatrini della sua formazione a imporgli come modello il «comico eccentrico» Gustavo de Marco, i suoi sgambetti, le sue contorsioni, i suoi movimenti legnosi da marionetta umana; ad applaudirlo nelle caratterizzazioni d’affamato che risalivano, attraverso Pulcinella, a tutta la tradizione plebea dei «secondi zanni» della Commedia dell’Arte; a volerlo, come Pulcinella, giulivo e volgare, tutto vita e niente patetismo.

Pulcinella era, in origine, il villano. Ne portava il costume: largo blusotto bianco, pantaloni e cappellaccio a cono del medesimo colore. La maschera, di cuoio bruno e più tardi nera, simboleggiava il viso cotto dal sole. Gli zanni erano, storicamente, i villani inurbati che trovavano lavoro come servi e facchini. La Commedia dell’Arte li assorbì, e presto nacque la biforcazione: i «primi zanni» (Brighella) erano i servi furbi, i «secondi zanni» (Arlecchino) erano i servi sciocchi. Furono questi il pepe comico di ogni rappresentazione di Maschere. Anche le parole «clown» (che deriva da colonus) e «pagliaccio» (che deriva da paglia, con cui erano intrecciate le ruvide vesti dei contadini) mostrano dove risiedesse la comicità, per il pubblico popolano e popolare.

Chi vorrà, potrà addirittura risalire alle origini del teatro comico, romano o ellenico, trovando anche qui il medesimo principio: si ride del campagnolo (in subordine, del vecchio istupidito o del babbeo). Produrre comicità significa, in questo contesto, essere oggetto di dileggio. Significa sintetizzare la goffaggine, la povertà, la stupidità, almeno nella misura necessaria e sufficiente a essere più povero, goffo, stupido del pubblico a cui ci si presenta.

Il pubblico ride perché il comico si muove in maniera «stupida» e perché dice cose «stupide». Ecco gli elementi fondamentali da cui deriva l’arte di tanti creatori di risate, del circo come del teatro o del cinema: la mimica del corpo e la distorsione della parlata. Quando l’artista è grande, si dimentica che originariamente il tal gesto è «stupido», la tal battuta è «stupida», e si rimane incantati della genialità.

1955 Toto 021 L

Totò è una grande marionetta disarticolata. La sua disarticolazione è una connotazione mimica ben precisa: al pari di tutti i grandi comici egli si presenta come un alieno, come un «marziano» che non si integra nella vita terrena, e le cui movenze sono appunto non-terrene, non-umane, ma meccaniche e stralunate. Totò è un’attrazione per l’occhio. Quando inizia a muoversi, l’attenzione si fissa solo su di lui, sulla danza astratta (non-umana) delle sue membra e dei suoi lineamenti. A volta a volta, l’ilarità può nascere dal confronto-contrasto fra questo suo mondo e quello normale, oppure dalla capacità ritmica della pantomima stessa, che costruisce gradualmente un crescendo buffo e al momento opportuno assesta il tocco finale, il colpo d’ala sbellicante.

Il Totò mimo è una forma astratta. Il Totò distruttore della comunicazione verbale è un vandalo. Si faccia caso: in lui il ragionamento astratto-capzioso o la spezzatura sintattica o il massacro della lingua non sono mai un fine, sono un mezzo, per demolire le «buone» maniere, la «buona» fede, il «buon» senso.

Si distingue qui Totò da Petrolini, che non è un vandalo, ma piuttosto un autentico sovversivo. Anche Petrolini impara a distorcere la lingua facendo Pulcinella. Prende esempio, verosimilmente, dalla memoria dell’illustre Pulcinella, Antonio Petito, dei cui copioni si disse che erano «vere e proprie foreste di errori di grammatica». Ma Petrolini è solo, sulla scena. La sua «spalla» è il pubblico.

Per aggredirlo, stupirlo, sedurlo deve distruggere le sue convenzioni, che sono quelle di tutti. E allora accede trionfalmente all’assurdo o a quella regione tutta sua che è la «cretineria»; due zone dunque in cui la quotidianità non ha cittadinanza. Un esempio di assurdo: «Allora chi mi vedeva / di me s’innamorava / al seno mi stringeva. / Evviva l’alluminio!». Ed ecco un esempio di «cretineria»: «Dicono orologio... ma orologio quando è d’oro. Quando è d’argento, argentologio; quando è di nichel, nichelologio. Miope: quando sono io, miope; ma quando è un altro, suope; e quando sono loro, lorope». Petrolini, che sulla cretineria giocava come Paganini sulla quarta corda, portava le cose all’estremo recensendo il suo stesso gioco: «Ti ha piaciato? Più stupidi di così si muore!».

Teatro Varieta Ettore Petrolini 03 L

Non era tutta farina del suo sacco, come d’altronde è normale nel mondo dello spettacolo. La cretineria era già stato il cavallo di battaglia del comico francese Dranem, che per l’appunto aveva inventato i «salamini» portandone una sfilza sul palcoscenico e intonando: «J’ai aheté les saucissons / et je m’en vante...». Ma era stato Petrolini a fare della cretineria una dimensione nuova, ulteriore. Presa in sé, ogni battuta era clamorosamente imperdonabile. Ma pronunziandola, Petrolini guidava per mano lo spettatore fino all’ultima Thule dell’umana comicità: quella dell’idiozia consapevole, palesata, rivendicata. E impietosamente inflitta a chi è sgomento di oltrepassare il conformismo.

Totò a volte s’impadronisce del medesimo principio, senza peraltro giungere a questi vertici: anch’egli è capace di sfornare una battuta banalissima, ginnasiale, e di circondarla di gesti, ritmi e toni vocali, e di una certa connivenza, con lo spettatore. Accade così che molte volte il genio del comico riscatti copioni cinematografici abborracciati da umoristi di poca vena. Da una situazione, da una battuta senza sugo e capace di slittare nella sublime «cretineria» per sola virtù della sua arte scenica (chi non ricorda il felice salvataggio dell’infelice battuta «Vedi Omar quant'è bello» in Totò sceicco?).

Ma più spesso, come si diceva, Totò usa la parola a scopo vandalico. Di rado egli è solo sullo schermo. La sua «spalla» è la vittima predestinata della distruzione della logica, della sintassi e del decoro. Si pensi al famoso sketch del vagone letto (documentato da Totò a colori) e al gioco sul cognome dell’onorevole Trombetta; o all’equivoco sul termine «pronto» quando Peppino gli domanda se è pronto per l’iniezione e lui l’interpreta come una chiamata telefonica; o alle famose «bazzecole e pinzellacchere»; o agli sproloqui tipo «il funzionario fisiologicamente funziona con la metamorfosi estiva della metempsicosi». Di rado Totò trae concreto vantaggio dallo spiazzamento del suo prossimo; è abituale invece che egli si limiti a imporglisi, facendo a pezzi le sue fedi, le sue abitudini e i suoi valori. Anche qui Totò è l’alieno, che istituisce e rivendica il suo mondo di contro a quello dei più. Ma è un alieno ben identificabile nella tradizione italica: è Bertoldo, è il poveraccio fiero di esserlo e permeato della civiltà della sua fame, la cui aggressività fantasiosa è innescata dal vitalismo. «Un comico inquietante e aggressivo» scrisse Vittorio Viviani, figlio del grande Raffaele «lazzaronesco e scurrile, che esprimeva con virulenza una reazione elementare, fisica, ma tutt’affatto umana, alla civiltà della macchina... Si pensi a Tarzan, in cui il mimo rivelò un suo clima espressivo di allucinata verginità nell’imitare le bestie con l’amore stupefatto di un troglodita».

Toto a colori 10

Da parte di molti si è pensato (o scritto) a paralleli con gli altri grandi comici mondiali. Totò ha avuto la sfortuna di nascere in un paese la cui industria dello spettacolo (teatro, cinema e anche televisione) era troppo debole e troppo provinciale per offrirgli i mezzi tecnici ed economici con cui dar spazio al suo genio. Un paese la cui mentalità era tale, poi, da imbrigliarlo in pregiudizi classisti e culturalisti capaci di tarpargli le ali. Ma molto, certamente, va imputato a lui. Non ha mai avuto, degli altri grandi, il rigore e l’ambizione. Keaton, Chaplin, anche i minori come Langdon o perfino Larry Semon, hanno voluto essere demiurghi dei loro film, sottomettendo sceneggiatori, registi e quant’altri mai alle e-sigenze delle loro doti e del loro personaggio.

Totò ha avuto una sregolatezza proporzionale al suo genio. Superbo improvvisatore, ha snocciolato «soggetti» sempre nuovi di fronte alle platee e alle macchine da presa, escogitando ogni volta l’ispirazione. A chi fu simile? Degli americani, a tutti aveva poco da invidiare. La sua mimica era degna di quella di Buster Keaton o di Charlie Chaplin, la sua eversività era degna di quella di Groucho, i momenti migliori del suo nonsense affascinavano quanto quelli di uno Stan Laurei e di uno Harpo.

Ma gli americani erano parte di un disegno industriale di ben maggiori dimensioni. Puntassero o meno al mercato straniero, dovevano in ogni modo fare riferimento a un pubblico multirazziale, a un paese vasto come un continente e variegato da decine di etnìe diverse. Ciò li obbligava a spogliarsi di quella regionalità e di quella dipendenza dalla cronaca che il repertorio di Totò invece non abbandonò mai. Karl Valentin, il grande comico bavarese, anch’egli regionale e anch’egli impietoso verso la parola scritta e parlata, aveva la sua forza piuttosto nello spingere agli estremi la «normalità», che nell’imporsi come essere alieno; e la sua ispirazione non era esuberante, ma cupa e notturna. La parentela più stretta appare piuttosto quella con Cantìnflas, il pelado (poveraccio) della rivista e del cinema messicani. Tipico lumpen-proletario di Città del Messico, mezzo indio, tormentato eternamente da fame di cibo e di donna, irriducibilmente e programmaticamente all’opposizione, Cantìnflas è grande nella mimica e grandissimo nell’uso di un linguaggio incoerente che gli serve da difesa. In più occasioni, nei suoi film, egli si trova coinvolto in situazioni che non gli competono, e che gli sono destinate da un equivoco: un nodo classico, come si può facilmente ricordare, dagli intrecci destinati a Totò. (Ed è almeno divertente che i due attori abbiano calcato entrambi la plaza de toros inchinandosi, se non altro nel titolo, a Vicente Blasco Ibanez: Ni sangre ni arena per il messicano nel 1941, Fifa e arena per l’italiano nel 1948.)

Nonostante le doti di cui se detto (e altre: per esempio una voce ammirevolmente rotonda e ricca di toni), Totò fu sempre ritenuto esageratamente italiano, quindi intraducibile e inesportabile (oggi l’antologia curata da Jean-Louis Comolli e l’interesse della critica francese paiono smentire l’asserto).

Antonio de Curtis fu contento di non essere tradotto e di non essere esportato, diffidente dell’estero (varcò pochissime volte i confini), e tutto preso dai suoi sogni araldici di napoletano ex povero, erede del trono di Bisanzio; uomo timido e schivo e casalingo.

Giannalberto Bendazzi


«Quale Totò?», Giannalberto Bendazzi, «Da Angelo Musco a Massimo Troisi. Il cinema comico meridionale» (Nico Cirasola), edizioni Dedalo, 1993