Totò sotto le bombe e tra i maiali
Quella volta con papà. Liliana de Curtis: sfollati in campagna, nel luglio '43.
ROMA
Sirene, sirene, sirene, l'ululato che squarcia la sera, e lacera i cuori, e li raggela. Buio di ghiaccio e di paura. Il rifugio, presto, arrivano... Uomini e donne che urlano e corrono e si accalcano. L'attesa palpitante, stretti stretti, un nodo che strozza la gola. E invece degli aerei e delle bombe, un cigolio tumultuoso, un clangore di latta. Sempre più distinto, sempre più forte, sempre più vicino, finché nel sotterraneo compare: un paladino di Francia. Con tanto di armatura, elmo e piume. Irrompe sferragliando, trascinando per mano una bambina che nella foga della corsa quasi vola al suo fianco, sollevata da terra.
Il ribaltamento comico, il capovolgimento delle attese: Totò ne era maestro (ricordate Siamo uomini o caporali?: la prima scena, sul set di un film in costume, l'annuncio solenne «L'imperatore!», gli sguardi che corrono verso la cima di una scalinata, i legionari schierati, e invece di Nerone con tunica e serto d'alloro, chi ti sbuca lassù? Ti sbuca lui, checché, lobbia in testa e giacchetta, capitato lì per sbaglio, stonando allegro «Si chiamava Dondolo...»). Ma quella volta - anno 1943, Milano bombardata dagli Alleati - Totò non aveva nessuna voglia di far ridere. Il paladino di Francia era lui, tappato a quel modo per l'Orlando curioso di Michele Galdieri. La bambina era sua figlia Liliana, che aveva allora dieci anni e stava in camerino a aspettare, quando l'allarme era suonato e il papà aveva interrotto la recita e senza perdere tempo si era avventato a prenderla di peso.
E' lei che racconta quell'episodio lontano, nel salotto della grande casa sulla Via Cassia ingombro di fotografie e di cimeli totoiani. «Quando lo riconobbero scoppiò un applauso scrosciante, liberatorio, quasi un modo per esorcizzare la paura. Molti erano spettatori fuggiti dal teatro, ci si fecero intorno. Niente gag, figuriamoci: papà era atterrito. Però nei volti della gente lo sgomento si trasformò in sorriso, un momento drammatico era diventato un'occasione di divertimento. Andò a finire che quando ci fu il segnale di cessato allarme nessuno se ne accorse, dovettero venire a tirarci fuori: "E voi che ci fate ancora qui?"».
Liliana de Curtis ha una sfuggente inconfondibile somiglianza con il grande papà. Sua madre è Diana Rogliani, conosciuta da Totò quando lei aveva 16 anni e lui 33, e sposata quattro anni dopo, nel '35, quando la bambina era già nata. Altri quattro anni e sarebbe venuto l'annullamento del matrimonio, voluto dall'attore in uno dei suoi tipici avvitamenti mentali: «Ti amo tanto che non ti voglio più come moglie. Così, se continueremo a vivere insieme, sarò certo che anche tu mi ami veramente. E, non essendo più tuo marito, non correrò il rischio di essere cornuto» (le corna, che ossessione). Ma negli anni successivi la coppia ritornata irregolare era ancora affiatata e felice, lui era l'attore più pagato del varietà e tutto sembrava andare per il meglio. Non fosse stato per la guerra.
Il capocomico Epifani ci offrì una cascina che aveva a Valmontone. Partimmo in camion, con vestiti e stoviglie, come se dovessimo star via qualche anno. Scoprimmo che proprio davanti a noi c'era una postazione militare. E un giorno dal cielo scoppiò il finimondo.
Nell'estate del '43 quel che nessuno credeva possibile accadde. Anche Roma, la città del Papa, venne a trovarsi sotto una pioggia di ferro e di fuoco. «Papà si era attrezzato con una valigia che teneva sempre pronta sotto il letto: dentro aveva sistemato un po' di vettovaglie e ogni sera, prima di andare a dormire, ci metteva acqua, pane, prosciutto, un thermos con il caffè...» (avete presente il bagaglio dei fratelli Caponi arrivati a Milano per strappare il nipote dalle grinfie della Malafemmina?). «L'allarme erano tre segnali con la sirena. Al primo lui scattava, in pochi secondi era già in piedi vestito. Abitavamo in viale Parioli, al numero 41. In pochi istanti, correndo come matti, si raggiungeva il rifugio di via Ruggero Fauro. Eravamo i primi a arrivare e gli ultimi a andare via. "Sa - diceva -, una bomba ritardataria..."».
In quei giorni drammatici i teatri erano chiusi. Rimasto senza lavoro, Totò girava Roma in bicicletta alla ricerca di cibo: «Comprava alla borsa nera, aveva i suoi giri, i suoi agganci, si arrangiava». La guerra era diventata per lui un'altra ossessione, sempre sul chi vive, sempre più teso e febbrile. «Il suo capocomico, un certo Epifani, si era offerto di metterci a disposizione una casa di campagna che aveva fuori Roma, a Valmontone. Papà aveva rifiutato, preferiva restare in città, fra le sue cose. E poi avevamo con noi i nonni, giunti qualche anno prima da Napoli: loro non si rendevano bene conto dei pericoli, non erano neppure mai venuti nel rifugio». I genitori di Totò: «Nonna Anna e nonno Peppino. Lei 120 chili, un gendarme. Lui mingherlino, d'estate tutto vestito di lino bianco, con le scarpe bianche; per strada sempre dieci passi dietro alla moglie» (due opposti, un altro topos comico: ricordate le scene di vita matrimoniale recitate da Totò con Ave Ninchi e con Titina De Filippo?).
Si giunse al 19 luglio, il giorno infernale del bombardamento che devastò San Lorenzo. «Fu tremendo. In tutta la città si sentivano le esplosioni. Quella notte stessa papà telefonò a Epifani». Il giorno successivo fu interamente occupato dai preparativi frenetici per lo sfollamento. «Naturalmente non ci fu verso di convincere i nonni: avevano i canarini, il gatto, le loro abitudini. Non vollero saperne. Papà invece dava l'impressione di uno che fosse convinto di dover stare via qualche anno. Radunammo vestiti, libri, oggetti di uso quotidiano. Anche piatti e pentole e posate e bicchieri». Sì perché Totò era un igienista fissa¬ to. «Si schifava di tutto. Al bar prendeva la tazzina del caffè con la mano sinistra, perché così, diceva, era costretto a bere dal lato dove è più raro che si siano posate le labbra altrui. Le scene ai ristoranti, poi... Il suo chiodo fisso erano i camerieri con il tovagliolo sotto l'ascella: non li sopportava, diceva che con quel pezzo di stoffa ci fanno di tutto, si asciugano il sudore, spolverano i piatti... Anche stringere le mani gli dava dei problemi, perché le mani, ci spiegava, uno se le mette dove vuole» (ricordate la gag del vagone letto, quando all'impettito onorevole Trombetta che si vuole presentare Totò concede esitante un rapido mignolo, che poi verrà esplorato con ribrezzo, annusato, agitato dal finestrino per fargli prendere aria?).
Sfollare in campagna, in casa d'altri: che dramma per il principe de Curtis, uomo di mondo, uso a vivere il suo ruolo con aristocratico contegno. Quella volta si rassegnò. «Il mattino dopo vennero a prenderci con un camion. Verso mezzogiorno fummo a Valmontone. La casa di Epifani si trovava su una strada a cinque chilometri dall'abitato. Era una cascina in mezzo ai campi, molto misera. Ci abitava la sorella del capocomico, una donna già avanti negli anni, piuttosto robusta. Noi ci sistemammo alla meglio, un po' preoccupati. Papà tagliò cono: "Meglio qua che farci ammazzare a Roma"» (avete presente Totò, Fabrizi e i giovani d'oggi, i due futuri consuoceri che si accapigliano nell'appartamento destinato ai figli, che fa - letteralmente - acqua da tutte le parti?). «Però in quella cascina c'era un fetore... Soprattutto nella camera da letto. Papà spalancò la finestra, guardò giù, ebbe un sobbalzo. "E' il recinto dei maiali - spiegò la donna -. Quello lì, il più grosso di tutti, è Micheluzzo, io ci sono affezionata. Perù portano tante mosche, e le zanzare...". Lui strabuzzò gli occhi, li strinse, trattenne il respiro. "Meglio Micheluzzo che la morte" disse, e richiuse la finestra».
La guerra, un'ossessione. Sotto il letto teneva una valigia pronta con pane, prosciutto, caffè. Nei rifugi eravamo sempre i primi a arrivare e gli ultimi a uscire.
I primi giorni servirono a distendere i nervi. «Per me la novità era un divertimento, mamma si adattava a tutto purché suo marito stesse tranquillo. Insieme andavamo in bici a fare la spesa in paese. Papà passava le giornate a leggere, leggeva moltissimo: Pirandello, Papini, Salvatore Di Giacomo. E di nascosto ascoltava Radio Londra, segnando su una carta geografica i punti via via raggiunti dagli Alleati. Lui non era solo terrorizzato dalla guerra: la odiava proprio. Faceva il tifo per gli americani». Non si trattava di una vera e propria posizione politica: l'«antifascismo» di Totò era soprattutto un giudizio morale, l'avversione a qualsiasi forma di prepotenza. Sotto ogni camicia nera, per lui, batteva un cuore di «caporale». Però cercava di tenersi alla larga dai guai, e la guerra preferiva seguirla da lontano.
Ma la guerra, non paga del danno, si era messa in testa di fargli le beffe. «Dopo qualche giorno, dall'unica casa che si trovava nei dintorni, proprio di fronte alla nostra, sentiamo un grido: "Damiani numero uno!". Ci guardiamo perplessi. Poi di nuovo: "Damiani numero due!". Non capiamo. "Damiani numero tre!". Subito dopo, una colonna di fumo nero comincia a levarsi davanti a noi, entra dalle finestre aperte, ci prende alla gola...». Che stava succedendo? Totò andò a informarsi. Seppe così che nell'edificio dall'altra parte della strada non c'erano innocui contadini, ma una postazione militare comandata da un tenente di fanteria, messa lì con un compito preciso: il triplice «Damiani» era la parola d'ordine, l'allarme scattava quando in zona venivano avvistati aerei nemici, al terzo «Damiani» scattavano i fumogeni. Lo scopo non era proteggere i campi e qualche rara cascina, confondendo la visuale ai bombardieri, ma ingannare il nemico sviandolo dal vicino paese di Colleferro, sede di una polveriera: e attirarlo dalle parti di Valmontone, facendogli credere che l'obiettivo fosse lì.
«"Ma mi faccia il piacere! esplose papà fuori di sé, con quel suo stridulo falsetto -. Ma siamo pazzi?!". Il tenente cercò di rassicurarlo offrendogli ospitalità nel rifugio scavato sotto la postazione. Per quella volta non ce ne fu bisogno, perché gli aerei sfilarono alti senza colpire. Ma lui non si tranquillizzò neanche un poco. "Dalla padella nella brace" diceva alla mamma. E dopo quella rivelazione si mise alle calcagna del tenente, passando intere giornate a parlargli, a cercare di "corromperlo" perché lasciasse stare i fumogeni, che tanto era assurdo, non serviva, Colleferro l'avrebbero preso lo stesso. Col passare del tempo diventammo amici dei soldati, noi andavamo a trovarli, loro venivano da noi. Ma non c'era niente da fare, alla fine papà tornava sempre a battere su quel tasto».
Trascorsero un paio di settimane in cui il maggiore assillo dei militari fu resistere alla battaglia di logoramento che Totò aveva scatenato nei loro confronti, lavorandoli ai fianchi, tenace e inquieto come una zanzara. Ma altre minacce alate stavano addensandosi all'orizzonte di Valmontone. «Era mezzogiorno, io stavo a letto con la febbre alta e papà aveva un diavolo per capello perché non si trovava un medico. In quel momento ricominciò. "Damiani...". Dalla casa di fronte partirono i fumogeni, in lontananza già si udiva il rumore sordo delle fortezze volanti. Bisognava raggiungere il rifugio. Papà mi prese dal letto e ci precipitammo giù. Intanto nel cielo erano sbucati un paio di caccia italiani, come dal nulla. Quando fummo in strada ci trovammo nel pieno di una battaglia aerea a bassissima quota».
Scappammo in strada, lui mi teneva per mano in mezzo ai proiettili e alle esplosioni. Ma correva stando fermo, muoveva freneticamente i piedi senza spostarsi
In seguito Totò si sarebbe divertito a mimare quello scontro impari: distendeva le braccia con piglio solenne e riproduceva il bumbum-bum delle fortezze volanti, poi stringeva le spalle, si rattrappiva tutto e faceva il pì-pì-pì-pì-pì dei caccia tricolori. Ma allora la sua reazione fu un'altra: «In strada, davanti a noi, rimbalzavano i proiettili, tutto intorno sentivamo esplodere le bombe. Lui mi teneva per mano, correndo all'impazzata. Ma non si spostava di un centimetro: muoveva le gambe freneticamente, restando inchiodato davanti alla soglia di casa» (la «corsa ferma», ricordate?). «A un'esplosione più devastante delle altre papà mi diede una spinta e mi fece andare a terra, poi si gettò anche lui e mi coprì con il suo corpo. Durò forse sette o otto minuti, ma a noi sembrò che non finisse mai. Quando la tempesta si placò raggiungemmo il rifugio, ma ormai non ce n'era più bisogno».
Rientrato in sé dopo i momenti di panico, Totò ne riuscì prontamente in un accesso d'ira. Stizzita e funesta. «Ce l'aveva con Epifani: "Quello è un pazzo, un assassino!". "Assassino! - gli urlò nel telefono della postazione militare -. Mandami subito una macchina, io qui non ci resto un minuto di più". Gli era venuta la voce rauca. Mamma cercava di calmarlo, di intercedere per il poveretto: "Non l'avrà fatto apposta...". "Ma va là, ma va là, lascia fare: assassino! Quando arrivo gli faccio vedere io! Faccio un macello!» (un modello: ricordate, ricordate?).
Così, precipitosamente, si concluse dopo meno di un mese l'esperienza dello sfollamento in campagna. Totò non uccise Epifani, perdonò il vecchio amico e continuò a lavorare con lui. Da Valmontone era tornato con una valigia un po' più piena di quando era partito. Pensava di averci rinchiuso per sempre i cattivi ricordi. Invece andrà a sbirciarvi dentro di quando in quando, negli anni successivi. Lo sappiamo dai suoi film. Avete presente?
Maurizio Assalto, «La Stampa», 14 luglio 1994
Maurizio Assalto, «La Stampa», 14 luglio 1994 |