L'enigma Totò
Principe del Sacro Romano Impero e plebeo del Rione Sanità. Divo adorato dalle platee teatrali e cinematografiche, ma selvaggiamente sfruttato dai meccanismi commerciali. Uomo di irresistibile comicità, eppure pervaso da un’invincibile senso di sconfitta. Totò è stato tutto questo: un impasto di contraddizioni. A cent’anni dalla nascita, ricostruiamo la storia di uno dei protagonisti dello spettacolo italiano.
Sono qui pro tempore.
Chi era Totò fuori dalla scena? Quali segreti conservava? E quali rapporti correvano tra l’elegante signore semicieco che viveva ai Parioli e il clown con la mascella deragliata che giocava vertiginosamente con le parole? Per tutta la vita Totò tentò disperatamente di scindere i suoi due poli, il Comico e il Principe. Nel tentativo di non identificarsi con il personaggio che lo aveva salvato dalla fame...
Totò era un uomo fondamentalmente triste e insoddisfatto. In una intervista, forse l’ultima, confessò il suo rammarico «per non aver fatto nulla di buono» in tanti anni di teatro, di cinema: «avrei potuto diventare un attore internazionale perché credo di avere vis comica naturale, ma chiudo in fallimento. Sono uno sconfitto».
Peppino Marotta scrisse che il più grande nemico di Totò era Totò stesso, rimproverandogli di aver interpretato troppi film «sciocchi e commerciali». Invero in poche delle 104 pellicole da lui interpretate, Totò riesce a dare tutta la misura del suo talento, grande, immenso, ma per il gran pubblico che si è divertito (e continua) ai suoi lazzi, applaudendo indiscriminatamente Fifa e Arena e Uccellacci e Uccellini, questo contava (e conta) poco.
Una volta che l’avevo incontrato grazie alla cortesia di Gian Luigi Rondi, il primo grande critico di cinema a scoprire la genialità dell’attore, Totò mi disse: «Noi attori siamo come l'oste quando entra un cliente: prego si accomodi, comandi. Il pubblico bisogna servirlo». Amava la vita ma si considerava di passaggio: «Sono qui pro tempore», soleva ripetere. Nel segno della contraddizione (tratto comune a non pochi attori di successo) sembrava non prendersi troppo sul serio. Proprio due mesi prima della sua morte (il 15 aprile del 1967), ricevendo il Nastro d’Argento come migliore attore protagonista dell’anno in Uccellacci e Uccellini, disse di non ritenersi affatto «un grande attore» bensì solo un comico che sapeva far ridere. In quella occasione apparve curvo e smagrito, invecchiato; dietro le lenti affumicate il suo sguardo era quasi spento, eppure riuscì una volta ancora a rallegrare il pubblico con una sola battuta: la cerimonia si svolgeva a Firenze e lui: «Ovvia», disse, toscaneggiando di maniera.
Non era un uomo vanitoso eppure teneva morbosamente al suo titolo di Principe. Gli chiesero di «portarsi deputato» ma declinò con garbo l'offerta. Il partito che lo voleva in lista gli domandò se almeno avesse potuto contare sul voto. Rispose con calcolato distacco: «Ma voi dimenticate che un Sovrano non vota». Forse fu, quella, l’unica volta in cui ostentò il suo «lignaggio imperiale». (Durante le riprese d’un film, alla sarta di scena che lo chiamava «Principe», disse che per carità, non era il caso... «Siamo tutti lavoratori, se mai, se proprio ci tenete, chiamatemi semplicemente “Altezza”...»).
Totò era nato a Napoli il 15 di febbraio del 1898 (e infatti celebriamo il centenario della sua nascita) da Giuseppe de Curtis e da Anna Capitani. Il padre, un poveraccio, apparteneva a uno dei più illustri casati del mondo ma al giovine de Curtis dell’antichissima gloria non era rimasta neppure la sicurezza del blasone. Tant’è vero che, per riconquistarlo, quando era già il «famoso Totò», dovette condurre una lunga battaglia giudiziaria. Infine gli venne riconosciuto, in un’aula di pretura, il titolo di Sua Altezza Reale Antonio Maria Giuseppe de Curtis Gagliardi Griffo Focas Comneno, ultimo erede dell’Impero latino di Oriente. Reagì, felice, alla sentenza con una sola parola da comico: «Poffarbacco».
«Poffarbacco», ecco: quella fu l’ultima contaminavo poiché tutta la vita di Totò, ricco e famoso, lo vide impegnarsi, non sempre con successo, nel tentativo di scindere il Comico dal Principe. Tra codesti due poli: Totò - il Principe, si scaricava la «tensione» dell'uomo che cercava pateticamente di non identificarsi col personaggio che lo aveva salvato da una fame antica. La fame del Rione Sanità, povero tra i più poveri quartieri di Napoli. E in quel rione che Totò comincia a far ridere la gente: era un «normale guaglione», com’egli stesso raccontava, senonché, crescendo, il suo mento prese a deformarsi sino a diventare una «scucchia aguzza e amara», la sua Maschera.
«Come aprivo bocca, qualsiasi cosa dicessi con quella bazza che parlava per conto suo, facendo da muto contrappunto grottesco alle mie parole, chiunque mi ascoltasse scoppiava in una gran risata». Certo, Totò soffrì a lungo per la sua «deformità» («Quante lacrime non abbiamo mischiato insieme io e mia madre») finché non si convinse che far ridere la gente «era una cosa bella assai». I suoi volevano, «poffarbacco», ch’egli facesse l’ufficiale di marina ma lui aveva già preso la sua decisione: interruppe gli studi mettendosi a recitare nel Teatro Orfeo, piccolo e fetiente, epperò affollato d’un pubblico che non ammetteva di sprecare i soldi del biglietto. «I miei cercavano di ostacolarmi in tutti i modi, ma quando cominciarono a entrare i primi denari in casa, si misero quieti».
Il suo primo «numero» è 'A marionetta, straordinaria creazione del grande comico napoletano De Marco, reinventata con estro metafisico, condita di scurrilità aristofanesche. Poi vennero le «macchiette», i personaggi grotteschi e patetici, ingenui e lazzaroni che, negli anni, dall’avanspettacolo alla rivista, e nelle troppe pellicole cinematografiche, avrebbero rallegrato un Paese intero, l’Italia, più incline all’autocompiangimento che all’allegria. Con il successo cresceva la «tensione» di cui ho detto fra l'aristocratica riservatezza e la tragicomica aggressività di un uomo che definiva l’altro se stesso «la mia controfigura».
Tanto la sua vita artistica fu clamorosa e grottesca fino al surreale, tanto la sua vita privata fu sommessa e discreta. Pochi sapevano del suo matrimonio, breve e fallito, con la signora Diana Rogliani. pochissimi sapevano d'una sua intima, lacerante (perché mai obliata) tragedia. Il 18 di dicembre del 1929, Totò recitava al «Nuovo» di Napoli assieme a Titina de Filippo, quando conobbe Liliana Castagnola, celebrata cantante di «musica leggera». Disdegnando i più ricchi ammiratori. Liliana, «occhi e capelli neri, corpo stupendo», si innamorò del giovine comico magro e povero. Fu una «avventura d’amore e morte», davvero, conclusasi il 4 di marzo 1940, quando la cantante si uccise dopo aver spedito a Totò un ultimo messaggio e la sua fotografìa: «Totò. un tuo bacio è tutto».
Liliana Castagnola riposa nella tomba di famiglia del Principe de Curtis, accanto a Massimiliano, il figlio morto in tenera età, avuto dalla sua seconda moglie, Franca Faldini. Questa brava attrice, gaia e fedele, innamorata, e la figlia Liliana, nata dal primo matrimonio, erano «la parte più importante della mia vicenda umana», Totò viveva ai Parioli, un quartiere romano di agiati borghesi, in una vasta casa silenziosa dove l’unica nota stonata era una moquette gialla, in acceso contrasto coi quadri degli antenati e i bei mobili di antiquariato, molti dei quali acquistati da un celeberrimo antiquario di Parigi. (Ogni tanto Totò prendeva il vagone letto - aveva paura dell’aereo -, e andava a Parigi a sorbire un café-filtre, lui che amava la napolitana tazzulilla ’e café). Da un triste inverno del 1957, grosso modo dieci anni prima della morte, Totò era quasi del tutto privo della vista: nessuno vedendolo agitarsi sullo schermo secondo «una meccanica rituale di gesti irripetibili», ch’era, poi, l’essenza della sua comicità popolaresca e tuttavia metafisica, avrebbe mai potuto immaginarlo. Gli innumerevoli ammiratori dell’interprete di Guardie e ladri (proprio in questi giorni esce a Mosca un remake russo del film interpretato con Fabrizi), Napoli milionaria, I soliti ignoti, Uccellacci e Uccellini, stentavano a riconoscere Totò in quel signore di giusta statura, vestito di scuro, gli occhiali neri come quelli del Sor Capanna, che parlando sottovoce passeggiava, guidato per mano dalla giovine moglie (1), per i viali di Villa Borghese in quel tempo bordati di petunie non di siringhe. Totò divideva scrupolosamente la sua esistenza tra gli studi cinematografici e la casa ai Parioli, fra il lavoro e la famiglia. In palcoscenico, sul set era allegro, cordiale e ironico; recitava improvvisando per la gioia sbalordita dei compagni di scena, dei tecnici, del regista. In casa suonava la chitarra, componeva canzoni romantiche (chi non conosce Malafemmina?), scriveva versi. Pesanti cortine nere lo proteggevano dalla luce del giorno che feriva impietosamente i suoi poveri occhi lisi, ma nel teatro di posa riusciva a sopportare i riflettori.
Voleva, si sforzò di essere diverso da se stesso ma. in realtà, il Principe e l’Attore, il Poeta e il Comico altro non erano se non due «aspetti» della sua personalità napoletana, della sua avventura esistenziale.
Due o tre giorni prima della sua morte (o il giorno stesso, non so bene) uscì un «microsolco» con una delle sue più intense poesie, forse la più bella, la più valida: ’A Livella (ch’è, poi, la Morte).
Ormai per me il trapasso è 'na pazziella;
è nu passaggio dal sonoro al muto.
«Specchio della Stampa», n.108, 14 febbraio 1998
Hanno detto di lui
«Questo comico, che pure avrebbe possibilità e capacità di rinnovarsi, non esita davanti al fastidio della ripetizione.
E continua a compiacersi della sboccata platealità. Se si ride? Certamente, ma a condizione di vergognarsi, talvolta, di aver riso». ARTURO LANOCITA, Il Nuovo Corriere della Sera, 9 aprile 1952
«L’Imperatore di Capri è ancora una grossa e incondita farsa dove il mimo squaderna nel vuoto i suoi lazzi e le sue freddure: più che un film, una divulgazione fotografica del suo più recente e fortunato repertorio teatrale». VICE, La Nuova Stampa, 3 gennaio 195
«Barzellette sceneggiate anche ne Gli Onorevoli di Sergio Corbucci, cavalcata mica tanto amena nel sottobosco della politica italiana, con attori di prestigio internazionale come Totò, De Filippo, Chiari, Cervi, la Valeri, umiliati in un repertorio polveroso e di basso conio, afflitti da una sceneggiatura e da un dialogo capaci di suscitare una profonda, invincibile malinconia...». ONORATO ORSINI, La Notte, 20 febbraio 1964
«È buona parte del nostro mondo rivistaiolo che in questa occasione si è trasferito sullo schermo, offrendo il destro a Totò di spadroneggiarvi con la limitata varietà delle sue maschere, che pur ammirevoli nella loro comicità e precisione, non una volta riescono tuttavia a cogliere un motivo profondamente umano». GIGI MICHELOTTI, Nuovo Gazzetta del Popolo, 25 novembre 1948.
«Totò prodiga tutte le risorse della sua acidula e marionettistica buffoneria, però, con questo secondo saggio, mi pare egli abbia confermato i limiti delle sue possibilità cinematografiche». FILIPPO SACCHI, Corriere della Ser
«Totò è un’anomalia della natura, una sfinge, una chimera. Ha più occhi, naso, mento e tic di quindici napoletani epilettici messi insieme [... ]. Senza dimenticare inoltre che questo mostro ha eclissato con la sua sola presenza attori della statura di Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi, e dello stesso Orson Weiles». ROBERT BENAYOUN, Positif, 1957
NINO TARANTO «Era una furia umana, non ti dava mai tregua. Per stargli dietro eri costretto a una continua tensione, perché inventava continuamente. Non solo non rispettava i copioni, ma neppure gli accordi che prendevamo prima di girare la scena». |
FRANCA FALDINI «Totò non si riteneva né un uomo né un attore eccezionale. Penso che se fosse stato conscio della sua "unicità” si sarebbe amministrato meglio». «Si dice che la sua comicità è funebre e squallida. Pensiamo che lo sia quando, introdotta a forza nel contesto di una qualsiasi orrenda commediola all'italiana, è costretta a comunicare qualche cosa». |
PIER PAOLO PASOLINI «La sua lingua è stata una specie di mimesi del dialetto o del modo di parlare del meridionale emigrato in una città burocratica come Roma. Ecco allora gli inserti di lingua burocratica, di lingua militaresca, dei vari gerghi del parlare comune». |
ERMINIO MACARIO «Andammo, il capocomico e io, al "Varietà Apollo” in piazza del Duomo a vedere questo Totò. Fu subito scritturato per sostituirmi. Da quella sera divenne ufficialmente comico di rivista». |
ISA BARZIZZA «Nella vita privata era molto gentile ma molto schivo, non dava confidenza. Prima dello spettacolo non parlava con nessuno, stava chiuso in camerino. Poi, nel momento in cui metteva piede in palcoscenico, si accendeva...». |
«Specchio della Stampa», n.108, 14 febbraio 1998 |
Riferimenti e bibliografie:
- Foto Federico Patellani
NOTE
(1) Totò e Franca Faldini non si sono mai sposati, né con rito civile né con rito religioso, come più volte confermato dalla stessa Faldini.