Presentazione del libro di Alberto Anile «Totò proibito»

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ALCUNE BATTUTE CENSURATE

TOTÒ E CAROLINA «Il suicidio è roba da ricchi, il suicidio è un lusso, e noi questo lusso non ce lo possiamo permettere, hai capito?... Siamo gente povera».

SIAMO UOMINI O CAPORALI «Il governo, questi ministri!... Fisicamente non rispondono, sono brutti... Brutte espressioni, brutti visi...».

LA LEGGE È LEGGE «Ma certo, io conosco un sacco di persone, personaggi importantissimi, pezzi grossi, pezzi piccoli, pezzi medi, pezzettini così, figurati che conosco il cognato di un cugino di un portiere di un cardinale, eh!». 

TOTÒ, PEPPINO E LA DOLCE VITA «Noi siamo trecento. Capisco, occupare, collocare trecento persone è una cosa un po'... un po' impossibile, io direi. Eccellenza, facciamo così, pensiamo a me solamente, gli altri 299 aspettino, sono giovani! Possono aspettare, campa cavallo mio che l'erba cresce! Dico bene, Eccellenza?»


Toto Censura

Totò, il governo e le forbici della censura

Sesso e politica gli argomenti tabù. E' uscito un libro-documento sulla campagna di sospetti e persecuzioni che colpì l'attore negli anni '50. «Si tagli!»: così sparirono le gag del Principe della risata. E De Gasperi diventò Bartali

«Si tagli!»: così sparirono le gag del Principe della risata, e De Gasperi diventò Bartali

Ercole Pappalardo, impiegato statale con famiglia numerosa rischia il licenziamento: l’odioso superiore ha scoperto che non ha la licenza elementare. Se non passa l'esame perderà il posto. Così, eccolo presentarsi alla commissione. Gli domandano di nominare un pachiderma, lui resta muto. Il presidente compassionevole gli mima una proboscide. Pappalardo s'illumina e risponde: «De Gasperi!» pensando al gran naso del presidente del Consiglio. Italia 1952: la gag contenuta nella sceneggiatura del film Totò e i re di Roma, scritta da Mario Monicelli e Steno che firmano anche la regia. non arriverà mai sullo schermo. Gli spettatori udranno invece, come risposta, «Bartali!».

da «Totò, Peppino e... la dolce vita»
Totò: «Qui guardati intorno, sono tutti Proci!»
Peppino: «Eh, me ne so' accorto»
Totò: «Oggi essere Procio è un titolo d'onore, lo, per esempio, se fossi in te, dato che ci hai anche il fisico, modestamente, fatti Procio!»

Non fu quello il solo intervento riservato dalla censura al film, che a più di un anno dall’inizio delle riprese uscirà fortemente mutilato e cambiato. Il punto più scabroso per i censori era il suicidio dell'impiegato che spera, dall'Aldilà, di mandare i numeri del lotto alla moglie. Produttori e registi dovranno accettare di far passare la storia per un sogno; il Paradiso, poi. diviene l’Olimpo e il dialogo fra il defunto Pappalardo e l’Onnipotente («chi più truffa più è rispettato. chi più mena più ha ragione, e gli imbroglioni i mascalzoni i delinquenti i farabutti sono quelli che comandano») viene cassato per intervento dello stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Un anno dopo il già tartassato Guardie e ladri (Steno e Monicelli: l'immagine di Fabrizi, agente di Ps che fraternizza con un ladruncolo sembra inaccettabile) comincia nei confronti di Totò una campagna di sospetti e di persecuzioni. Che si appunteranno su due temi: il sesso e la politica (che comprende non solo le battute su onorevoli e ministri, ma anche la rappresentazione comica o troppo umana delle forze dell'ordine, dei magistrati ecc. ). « In realtà — dice Alberto Anile, autore di Totò proibito che esce in questi giorni da Lindau — l’offesa al comune senso del pudore serve spesso da paravento per più decisi interventi su temi propriamente politici. Un esempio: di Sua eccellenza si fermò a mangiare, un tardo film di Mattoli, 1961, che già si doveva chiamare E il ministro si fermò a mangiare, viene molto tagliata la visita che Totò, finto medico del Duce, fa alla contadinotta opulenta. Ma intanto scompaiono tutte le battute sui ministri ladri («Se è ministro, per forza!»)». Così, ne I tre ladri (1954) si taglia Simone Simon discinta sul letto, ma parte anche la scena finale di giudici e poliziotti che si tuffano a raccogliere i soldi lanciati dal ladro impunito. Di Totò all'inferno, 1955, si alleggerisce la scena della seduzione di Fulvia Franco ma cade anche la battuta del diavolo: «E' un onorevole, dallo in pasto agli elettori». E nello stesso anno Siamo uomini o caporali viene sforbiciato sia nelle immagini di «signore nude, indossatrici semisvestite» ma anche di frasi come: «questi ministri (...) sono brutti, brutte espressioni brutti visi»; o anche: «si stava meglio quando si stava peggio».

da «La legge è legge»
Totò: «lo conosco un sacco di persone, personaggi importantissimi, pezzi grossi, pezzi piccoli, pezzi medi, pezzettini così, figurati che conosco il cognato del cugino di un portiere di un cardinale, eh!»
(Il cardinale diventerà sacrestano)

Contenuta già nella legge del 1923, la censura è assunta dall'Italia repubblicana senza grosse modifiche rispetto a quel testo. Ma in più entra in uso la prassi, per i produttori, di consegnare le sceneggiature già prima dell'inizio delle riprese. Questo dovrebbe consentire ai funzionari di indicare subito eventuali cambiamenti, ed evitare la bocciatura a film ultimato. Il cinema e lo spettacolo, in assenza di un ministero, fanno capo alla presidenza del Consiglio e, per delega, al sottosegretario Giulio Andreotti riveste questo ruolo nei governi De Gasperi dal 1947 al '53. Lavora alla rinascita della cinematografia nazionale («dobbiamo incoraggiare una produzione sana, moralissima e nello stesso tempo attraente»), anche se il suo nome resterà legato ai «panni sporchi» che il neorealismo, e De Sica in particolare, avevano secondo lui il torto di esporre in pubblico. I primi guai. Totò e i suoi film li passano sotto Andreotti: di certo, per i censori il comico surreale e burattino che si cala nei problemi sociali della ricostruzione non va bene. Totò non è, non è mai stato di sinistra: però—si ragiona così nelle commissioni censura—certi registi (Monicelli) e certe tematiche populiste possono trasformarlo in una pericolosa arma di critica al governo. Così, quando dopo varie traversie i film ottengono il nulla osta, sono spesso bollati con il divieto ai minori di 16 anni (e contemporaneamente dal giudizio «Escluso» del Centro Cattolico Cinematografico).

da «Sua Eccellenza si fermò a mangiare»
Totò (mentre sta visitando una bella contadina): «Sì, io più ti guardo e più mi convinco che tu sei opulenta.
In questi casi io consiglio sempre di mettersi a letto»
(Taglio dalla sceneggiatura)

Il culmine dell'accanimento si registra nel ’54, per Totò e Carolina di Mario Monicelli. La strana coppia formata dal poliziotto buono e dalla ragazza incinta scappala di casa eccita i più efferati interventi che. dopo un anno e mezzo di battaglie, audizioni, polemiche, arriverà nelle sale con oltre venti minuti in meno e un’infinità di cambiamenti nelle parti parlate. Di questo film, il caso monstre dei nostri anni ’50, si era occupato Tatti Sanguineti che nel 1999 presentò a Venezia i risultati delle sue ricerche. «Faceva parte del progetto "Italia Taglia" nato due anni prima» spiega Sanguineti. «Una esplorazione sulla censura in Italia, una ricostruzione della storia proibita del cinema italiano. Che oggi, dopo una interruzione. può riprendere grazie a un nuovo finanziamento ministeriale».

Il ’54 però vede un cambiamento di ruoli. Quell'anno al posto di Andreotti subentra Oscar Luigi Scalfaro, certo meno addentro alle cose del cinema. E che forse, insinua Alberto Anile. aveva ancora il dente avvelenato con Totò. Tutto per via della lettera all'Avanti che il comico mandò dopo l'episodio (1950) della signora Toussan, apostrofata dall’onorevole De come "donna disonesta" perché in un locale pubblico esponeva spalle e braccia scoperte. Sfidato a duello dal padre e dal marito della donna, Scalfaro si rifiutò in nome del «sentimento cristiano». E il principe Antonio Focas Comneno De Curtis, in quella lettera, gli impartì una lezione di cavalleria.

Dal '54 al ‘62, anno della nuova legge sul cinema (che introduce due divieti ai minori di 14 e di 18 anni, e apre le commissioni di censura ai rappresentanti delle categorie dello spettacolo), i guai di Totò si moltiplicano. Si creano problemi per I soliti ignoti (titolo originario, bocciato, Le madame), per I due marescialli, per Chi si ferma è perduto. Prevedibili difficoltà incontra Arrangiatevi! girato in una ex casa chiusa. Ma l’episodio più bizzarro tocca a Totò Peppino e la dolce vita (1961) che sconta, insieme, gli ultimi rigori della vecchia legge e le vendette dei censori che nulla avevano potuto fare contro il film di Fellini. Cadono fotogrammi di feste, si cancellano battute sui ministri che deviano l'autostrada per contentare i propri elettori, si cassano allusioni alle «polverine», i giochi di parole con i Proci. Insomma, un'ecatombe.

Totò, ormai quasi cieco del tutto, assillato dalle tasse, si appresta a girare le cose più alte della sua carriera: con Pasolini fa Uccellacci uccellini e i due episodi Il mondo visto dalla luna e Cosa sono le nuvole. Potrebbe accomiatarsi sereno, se non fosse per l’ultimo spregio che viene dalla Rai-Tv che. nel fargli confezionare gli episodi di un TuttoTotò (1967), torna a vessarlo con assurdi tagli e rigidissime censure. E pensare che lui sulla televisione aveva sempre avuto dei sospetti, almeno da quando, 1958, durante una puntata del Musichiere, gli era scappato un «Viva Lauro!» che gli costò un lungo ostracismo. Conservatore, aristocratico, monarchico e qualunquista si era trovato a far la parte del sovversivo per troppi anni. Oramai, era veramente tempo di chiudere.

Ranieri Polese, «Corriere della Sera», 28 gennaio 2005


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Totò, non tutta la censura vien per nuocere

I film del geniale comico seviziati dai tagli. Ma qualche volta è stato un bene

«Frasi offensive della morale e della pubblica decenza», «offesa al decoro e al prestigio dei funzionari e degli agenti di forza pubblica», «gravemente offensivo del sentimento religioso». E poi: «situazioni e battute improntate a una volgarità alquanto smaccata», addirittura «scene e sequenze che possono turbare il normale sviluppo dell'età evolutiva». In definitiva: «è innegabile il cattivo gusto, la grossolanità, la estrema scabrosità». Vilipendio. Blasfemia. Dio perdoni. Non è uno scherzo. Sono le vere osservazioni, nero su bianco, della vera censura che mezzo secolo fa, anno più anno meno, flagellava senza pietà i film di Totò. Una «storia puntigliosa e grottesca dei rapporti tra il principe De Curtis e la censura» è ricostruita da Alberto Anile in Totò proibito (Lindau, pp. 231, Euro 18,50), un libro molto piacevole e documentato, con una quantità di informazioni anche sull'uomo e sulla sua arte.

Gli occhiuti custodi dell'ordine stabilito, e della moralità di facciata, imponevano tagli e aggiustamenti, e quando non bastava calavano la mannaia, commercialmente devastante, del divieto ai minori (di 16, poi, dopo la nuova legge sul cinema del 1962, di 14 o 18 anni). «Malthusiani del cinema», li definiva Cesare Zavattini, osservando che «l'intolleranza sta sospingendo gli artisti lontano dalla partecipazione alla storia in atto del nostro paese». Accadde anche Totò, almeno in parte. Perché nel dima di normalizzazione post '48 ogni attentato all'ottimismo ufficiale riusciva politicamente sospetto, e anche il comico più popolare del momento era bene lasciasse perdere certi temi «molesti», come la penuria di abitazioni o la miseria diffusa, a cui era sospinto dai registi della nuova generazione.

Ma, proprio per questo: è poi così sicuro che le tremebonde sollecitudini censorie, tra una sforbiciata alla scollatura troppo generosa e un'altra alla battuta intollerabilmente audace, non sortissero pure, alla fine, qualche paradossale effetto benefico, depurando la vena eversiva e surreale del comico da certa farragine (neo)realistica? Ovviamente, si tratta di scegliere: se Totò sia «soltanto» un attore - un grande attore - della sua epoca, o non piuttosto un geniale dinamitardo che si è assunto il meritorio compito di far saltare le nostre certezze, polverizzare le convenzioni, scardinare le realtà consolidate e lo stesso linguaggio, restituendoci alla fluidità problematica della vita. Da questo punto di vista, forse, anche la «grottesca» vicenda della censura può essere riconsiderata, al di là della scontata deprecazione.

Il caso più noto riguarda un film girato alla fine del '53 da Mario Monicelli, Totò e Carolina. Qui il Nostro è un agente di P.S. che deve ricondurre al paesello natio una giovane disperata, improvvisata prostituta e aspirante suicida, presa durante una retata. Ma non sono le tematiche dell'amore mercenario a cadere sotto la lente d'ingrandimento degli zelanti funzionari di Palazzo Balestra, sede della Commissione di censura: in un'Italia scossa dalle polemiche sul caso Montesi, dal massacro poliziesco dei manifestanti di Mussomeli, dall' uccisione in carcere di Gaspare Pisciotta, dall'arresto di Giovanni Guareschi in seguito alla querela di De Gasperi, dall'arresto del critico cinematografico Guido Aristarco per vilipendio delle Forze Armate, la preoccupazione principale dì Scelba - già ministro dell'Interno, presidente del Consiglio dal febbraio '54 al giugno '55 - è quella di tutelare sempre e comunque l'onorabilità dei suoi celerini evitando ogni possibile rappresentazione men che positiva. Anche così si spiega l'accanimento senza precedenti verso il film, la cui protagonista ricorda un po' troppo la povera Wilma Montesi (con il rischio di evocare le polemiche sul ruolo avuto nella vicenda processuale dal capo del governo) e in cui Totò porta in scena un poliziotto non proprio «tutto d'un pezzo».

E' la vendetta del paese ufficiale con chi si è intestardito a scherzare con il fuoco: tanto più evidente in quanto altri film non meno «scollacciati» (per l'epoca), ma meno scottanti politicamente, ottengono senza problemi il nulla osta. Dopo una travagliata vicenda durante oltre un anno, tra primo e secondo grado, ricorsi rimaneggiamenti tentativi di accordo, il 2 marzo 1955 Totò e Carolina arriva finalmente nelle sale. Ma non è più quel che si voleva all'inizio. Una risposta della ragazza, «sono abituata a mangiare quello che avanza ai padroni» è diventata un meno politicamente impegnativo «mangiavo quello che mi davano»; dell'osservazione di Totò che «il suicidio è roba da ricchi» non resta traoda; il canto Bandiera rossa intonato da un gruppo di lavoratori è stato sostituito con il vecchio inno partigiano Di qua e di là dal Piave; un anziano comunista che grida «Abbasso i padroni» diventa un socialista che grida «Viva l'amore! Viva la libertà!».

Certo il film ha perso efficacia polemica: ma, anche senza questi aggiustamenti, sarebbe rimasto uno dei più comicamente infelici nella produzione di Totò. Lo stesso Monicelli, in seguito, si pentirà di avergli fatto indossare la camicia di forza del neorealismo. È davvero quello il Totò più autentico, quello che d parla ancora oggi, che d fa ridere, e ci fa pensare?

Da una pellicola all'altra, le preoccupazioni dei censori si moltiplicano. E i film si trasformano, tra la preventiva consegna della sceneggiatura all'Ufficio centrale per la cinematografia, presso la Presidenza del Consiglio, e i diversi interventi censori, più o meno istituzionali. In Totò, Peppino e la dolce vita, diretto da Sergio Corbucci alla fine del 1960, cadono le battute sui droga-party e sui piani regolatori «accomodati», la satira del sindacalista che pensa agli interessi propri, : i giochi di parole su una «preghiera di raccomandazione fatta in un luogo di preghiera». In Totò e  i re di Roma (Steno e Monicelli, 1952) si  attenua la caricatura della burocrazia romana e del travettismo, scompaiono gli accenni scettici alla Patria, il «De Gasperi!» scappato di  bocca al comico come esempio di proboscidato viene sostituito da «Bartali!» (battuta ridoppiata da una voce palesemente diversa). L'ambiente ministeriale di Chi si ferma è perduto (Corbucci, 1961), per non offendere nessuno, diventa un fantomatico Ente Nazionale Trasporti. E si modificano i titoli: per non indurre troppo facili accostamenti al presente, nonostante la collocazione ai tempi del fascio, E il mìnistro si fermò a mangiare diventa Sua eccellenza si fermò a mangiare (Mattoli, 1961); Le madame, come venivano chiamati i poliziotti nel gergo della malavita, diventa I soliti ignoti (Monicelli, 1958); mentre del film I due marescialli (Corbucci, 1961) si conserva soltanto il titolo e tutta la trama viene completamente stravolta.

E poi: aggiunte posticce di commentini moraleggianti, voci fuori campo per riassumere qualche cosa che in scena non si vede (più), decine e centinaia di metri di pellicola eliminati, fino al taglio del totale inizialmente dichiarato. Tutti volevano dire la loro: l'inflessibile capo divisione Annibale Scicluna, il direttore generale dello Spettacolo Nicola De Pirro, ex squadrista, i sottosegretari allo Spettacolo Giulio Andreotti e in seguito Oscar Luigi Scalfaro, prelati di varia levatura, per il tramite del Centro cattolico cinematografico, comitati vari di benpensanti, in un caso perfino i profughi istriani, offesi per una parte marginale di Arrangiatevi (Bolognini, 1959). Pressati dalle sollecitazioni esterne, i film di Totò diventano un'opera aperta, in cui il Genio comico fatica a farsi strada. Ma alla fine viene fuori dalla prova, vincente e più puro. Almeno nel suo caso, e certo non sempre, non tutta la censura vien per nuocere.

Per una sorta di eterogenesi dei fini, assieme a gag che dovevano risultare irresistibili e che purtroppo possiamo soltanto immaginare, come la giaculatoria in latino maccheronico di Totò, Peppino e la dolce vita («Prego vobiscum eccellenzia vostra prò sistemazione mea, ora pro nobis»), sotto i colpi della censura cade anche, altrove, qualche pistolotto intrìso di un patetismo di maniera. Citiamo soltanto un caso, da Totò e i re di Roma (Steno e Monicelli, 1952); «chi più truffa più è rispettato, chi più mena, più ha ragione, e gh imbroglioni, i mascalzoni, i delinquenti, i farabutti sono quelli che comandano e i poveracci come me devono sempre abbozzare». Onestamente, possiamo dire di averci perso qualcosa? Ripensando a certe tirate che invece sono rimaste, per esempio in Dov'è la libertà...? (Rossellini, 1954) o Siamo uomini o caporali (Mastrocìnque, 1955), viene quasi da rimpiangere che i censori abbiano tenuto le forbici a posto.

Maurizio Assalto, «La Stampa», 17 febbraio 2005


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Le disavventure di Totò nel mondo della censura: vietato scherzare con santi e vigili del fuoco

«I pompieri di Viggiù», «Guardie e ladri», «Totò e Carolina»: non c'è film del principe De Curbs che non sia stato osteggiato e spesso massacrato dalla censura. La celebre sostituzione del nome di De Gasperi con quello di Bartali in una battuta su un celebrità nasuta è solo la punta dell'iceberg. Atterrisce la mole di documenti raccolti da Anile: biglietti con suggerimenti di Andreotti, carteggi tra untuosi funzionari ministeriali (spesso ex fascisti) e produttori esasperati. Nell'Italia degli anni '40 e '50 esisteva anche una censura preventiva sulle sceneggiature; e non solo non era lecito scherzare coi santi, ma anche con i poliziotti, i vigili del fuoco e gli impiegati statali. Uno splendido lavoro, quello di Anile: perché ricostruisce un'epoca non sempre scomparsa; e mentre spiega le ragioni dell’accanimento contro Totò, ne ricostruisce l'anima fescennina e irriverente.

TOTÒ PROIBITO, Anile, Lindau, pp. 234, euro 18,50

Alberto Pezzotta, «Corriere della Sera», 8 aprile 2005


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2005 04 18 L Unita Censura Libro Anile intro

Le recenti censure, più o meno governative, ai nostri comici più bravi non rappresentano nulla di nuovo, ma, certo, segnano un ritorno ad anni addietro, quando, nell'Italietta democristiana della prima fase della nostra storia repubblicana, ci si accaniva con incredibile acribia contro film che oggi considereremmo assolutamente innocui. Come, ad esempio, quelli di Totò. Il quale si chiedeva: «Se a un comico tolgono la possibilità di fare la satira, che gli resta?». Totò non fu mai politicamente schierato, ma probabilmente una certa dimensione «eversiva» era insita nella sua stessa comicità. Ed era questo a dar fastidio e a preoccupare. Lo sostiene Alberto Anile nel volume Totò proibito (Lindau, pp. 240, euro 18,50), che documenta la vasta vicenda censoria della quale il principe de Curtis si trovò a essere, suo malgrado, protagonista.

Il sesso e la politica erano i due ambiti privilegiati di questi tagli, anche se, in realtà, spesso si colpiva una scena per eliminarne un'altra ad essa collegata. La censura preventiva sui film, regolamentata da un regio decreto del 1923 voluto da Mussolini e fatto proprio dalla legislazione repubblicana, era compito della presidenza del consiglio e, per delega, di sottosegretari che rispondevano a nomi come Giulio Andreotti prima e Oscar Luigi Scalfaro poi. Solerti funzionari che rispondevano al governo (e al Vaticano) non si facevano scrupoli a interpretare le normative vigenti con il massimo rigore.

Guardie e ladri (1951) veniva colpito perché non piaceva questa immagine del poliziotto che fraternizzava con il piccolo malvivente. In Totò e i re di Roma (1952) un'allusione al «nasone» dell'allora capo del governo Alcide De Gasperi fu sostituita con un'altra a Bartali. In Totò all'inferno e in Siamo uomini o caporali (entrambi del 1955) venivano eliminate le battute che alludevano a ministri ritratti in maniera non proprio lusinghiera. Ma le due pellicole più massacrate dalla censura saranno Totò e Carolina (1955), che uscirà, dopo due anni di audizioni e polemiche, con ben venti minuti in meno di «girato», e poi Totò, Peppino e la dolce vita (1961), parodia del capolavoro felliniano, dove vengono eliminate, tra l'altro, allusioni a certe «polverine» e giochi di parole sui «Proci».

Queste vere e proprie campagne moralizzatrici riguardavano soprattutto gli aspetti dai quali si sarebbero potuti intravedere i «panni sporchi» di casa nostra. A questo proposito Andreotti si era lamentato, anche per la migliore produzione cinematografica del Neorealismo, che quei film offrivano un 'immagine negativa dell'Italia. Meglio, dunque, evitare riferimenti troppo espliciti alla miseria, alle difficoltà, alla disperazione delle persone, per offrire invece un quadro edulcorato. È evidente che un film come Totò cerca casa (1949), che affrontava una problematica molto sentita come la carenza di alloggi, metteva il governo in imbarazzo più che i seni, le natiche o le scollature delle attricette e i tagli a questi ultimi aspetti spesso non erano altro che un pretesto.

Roberto Carnero, «L'Unità», 18 aprile 2005



Riferimenti e bibliografie:

Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:

  • Ranieri Polese, «Corriere della Sera», 28 gennaio 2005
  • Maurizio Assalto, «La Stampa», 17 febbraio 2005
  • Alberto Pezzotta, «Corriere della Sera», 8 aprile 2005
  • Roberto Carnero, «L'Unità», 18 aprile 2005