«Ma se ci toccano nel nostro debole»... Non toccateli nei copione
Totò è grande — Villa è... da vendere - Belli i costumi, belle le scene
Dicono, nel titolo, Nelli e Mangini: «Ma se ci toccano nel nostro debole»... Non toccateli nei copione.
Hanno fatto il processo all’era atomica. Il pubblico, sia pure con qualche discordia in seno alla giuria, ha assolto: il processo, non l’era atomica. Perchè l’avvocato difensore era Totò. Che arringa! Se mi capitasse (ferro, al solito!) di impaniarmi in guai di carattere gudiziario, mi rivolgerò a Totò. Farà il gallinaccio, sciabolerà l’aria col mento, si disarticolerà come un fantoccio a molla: giudici e carabinieri rideranno tino ad aver gli occhi pieni di lacrime, e non mi vedranno evadere. Diranno: «Che spasso! », e mi assolveranno in contumacia.
Ma è proprio cosi brutto questo copione? No, chi vi ha mai detto ciò? È debole, ecco tutto: almeno nella prosa. C’è nel sottosuolo umorismo di buona lega, e anche originalità. Ma resta nel sottosuolo. O meglio, vien fuori allo stato grezzo: oro sepolto nella ganga. Minatori e non orefici, insomma, i Nostri. Almeno stavolta.
Via la metafora : idee brillanti, espressione modesta. In cui si vede che non solo la via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni... Anche quella delle riviste, talvolta.
Elementi del processo: da che mondo è mondo, gli effetti delle guerre — e delle paci! — son sempre gli stessi, oggi come al tempo di Troia (e Totò sta così bene, lui ch’è di nobile lignaggio, in corazza e cimiero: ricordi di un famoso e ormai lontano Orlando); e i locali misteriosamente orientaleggianti hanno sempre un loro torbido fascino; e anche i morti possono avere i loro punti di vista; e la coabitatone è un guaio, anche perchè un russo... sempre russo è. pur nei tempi della Sisal; e la democrazia... Be’ la democrazia, lasciamola stare. La maltrattano anche fuori dalle riviste.
Forse la non brillante coloritura dei dialoghi e di talune situazioni ha un’origine nella fretta. Questa rivista è stata, nella sua fattura, una vera tela di Penelope, un fare e disfare continuo. Doveva esserci, lo sapete, la Magnani; niente. Poi la Vivi Gioi. (E quello che andava bene per la regina Anna, sarebbe stato troppo impegnativo — e quindi pericoloso — per la seconda. Quindi: rifare. E il tempo stringeva). Notizie dell'ultim’ora: niente Gioi, verrà la Matania. (Via tutto: la Matania ha bisogno di roba pepata). Ma la Matania si ammala e non c'è più tempo per cercare un’altra. Bisogna arrangiarsi in famiglia. Si, ma Vera Worth ha spalle graziose per toilettes vaporose, e non per grossi pesi.
Già, sono i guai dello scrivere e riscrivere «su misura ». Ma che gli spunti fossero buoni, è dimostrato dai quadri. Rivestite delle... nudità muliebri e delle ornamentali figurazioni della coreografìa, molte idee si sono palesate felicemente espressive. E dire che quando uno non è capace di esprimersi a dovere, si dice: «Parla coi piedi». Che bei discorsi, perdiana, fanno coi piedi Gilda Marino e le prosperose figliole del balletto Tamara Beck!
Sì, perchè in fatto di coreografia siamo a cavallo. Meglio: a Dino Cavallo.
Totò: grande, incommensurabile. Una marionetta, forse, ma i fili glieli sorregge l’Arte. Strana cosa: sembra una comicità, la sua, costretta entro i limiti di un vetusto schema. Sembra, e non è. C’è nell’ormai tradizionale suo armeggio scenico, qualcosa che non invecchia mai : un senso miracoloso del ritmo comico, un viaggiare spericolato sul filo di rasoio del surrealismo, un umorismo acre che si sprigiona dalla meccanica di quel suo gestire da marionetta animata. Le sue battute sono proiettili sparati dal boccascena e fanno bersaglio sulle corde dell’ilarità. Non sbaglia la mira una volta.
Ma se Totò è un cannone, Castellani è un ottimo servente al pezzo.
In assenza di una soubrette spaccatutto, come fare? Consigliabile l’amalgama fra quattro belle donne dai differenti pregi. Eletto, fatto. Ci voleva una che avesse l’estro di una recitazione viva e densa di icasticità, e fu scelta la Matania; una che facesse agli spettatori il dono della festevolezza del suo sorriso e della sua grazia, e fu Vera Worth; una che s’ammantasse di leggiadria e di canora armonia, e fu Elena Giusti; una, infine, che unisse ai pregi di una figura scultorea, doti di danzatrice moderna provetta, e fu Irene d'Astrea (o Stuart, se più vi piace). È mancata la prima, ma le altre son venute in passerella ed hanno riversato nella platea le cornucopie del fascino.
Villa... da vendere. Roberto mio, se non ci metti un po' più di anima e di calore, non ti compera nessuno. (In rivista).
Wilma Casagrande? Chi è mai costei? Una brunetta piccante, non priva di grazia e di leggerezza. Viene dalla prosa, ma non è alla sua prima rivista. La ricordo, ai primi passi:, in Sogni d'amore. Era una promessa, sta diventando una piccola realtà. (A proposito, da Sogni d'amore è stato preso a prestito non solo la Casagrande, ma anche — un po’ nel tema e molto nello svolgimento — un quadro, che qui si chiama «Addio del passato» e lì era «Sogno di Mimì», ed è, per la squisitezza della realizzazione, il più bello, forse, dello spettacolo).
Bei costumi, diverse scene originali. Figli, gli uni e le altre, dell’estro pittorico di Vera Rossi. Un po’ di nuovo, nel mondo della rivista, non fa mai male. Deliziosi, con qualche sciccheria, gli abiti di Elena Giusti.
Mario Casalbore, «Film», anno X, n.11, 15 marzo 1947
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Mario Casalbore, «Film», anno X, n.11, 15 marzo 1947 |