Ditta "Totò & C."
Che debutti, ognun lo dice; quando sia, nessun lo sa. Chi? Totò.
Questa di Totò e della sua famosa compagnia sta diventando davvero la leggenda dell’araba fenice. Ma, al confronto, la fenice può andare a nascondersi. Però, che Totò ci sia è un fatto. Lo può constatare chiunque passi, non prima delle cinque del pomeriggio, nelle vicinanze dell’Albergo Francia. A un certo momento, la porta a vetri si apre: esce la bazza di Totò. S’interrompe il traffico. Poi, dopo un quarto d’ora, esce lui. M’han detto che il ragazzo addetto all’ascensore s’è buscato un cicchettaccio dal portiere, perchè, con la scusa di essere repubblicano e figlio di repubblicani, si rifiutava di chiamare Totò col titolo di «Altezza». E’ stato lo stesso Totò a intercedere per lui, dicendo che, in fondo, a lui non glie ne importava niente. Sarà.
Romagnoli disse: «Tre volte», poi, rivoltosi al mazziere fece segno con le dita che voleva due carte. Il mazziere gliele diede. Romagnoli socchiuse un occhio, e fece scorrere le carte lentamente, denudandone solo un angolo, con la perizia di un giocatore consumato. Dissimulò un moto istintivo di dispetto. La Vivi Gioi che aspettava, insieme a Vera Worth, non era entrata. C'era invece, con la Vera, la Clelia Matania. Romagnoli, ad ogni buon conto, s’affrettò a rilanciare. Però pensò malinconicamente che se gli fosse entrata la regina di quadri (cioè, di denari) Anna Magnani, avrebbe fatto scala reale, invece di un semplice seppur ragguardevole colore.
(Che storia è questa? Non avevo detto che Romagnoli aveva chiesto due carte? Be', e poi? Era partito con tre di colore. Che pignoli!). Nel mazzetto delle carte non distribuite, la regina Anna sospirò e si disse: «Forse era meglio entrare». «Ad ogni modo — pensò Romagnoli — ci ho anche un poker, di scorta: un poker d'autori».
Già, ci si con messi in quattro: Garinei, Giovannini, Nelli e Mangini. Dice quella lingua pestifera di Vera Worth che l'hanno fatto apposta per poter meglio giocare a scaricabarile, nel caso (ferro!) che non tutto andasse perfettamente. (Non è vero. Non è di Vera Worth. Ma è degna di lei). Pare che Clelia Matania abbia voluto, per contratto, che l’impresa Romagnoli mettesse a sua disposizione il massaggiatore dell’Inter (o quello del Mllan, senza preferenze) per rimetterla in sesto, dopo l’estenuante fatica di tre ore di sbracciamene e contorcimenti.
Già, corre voce che quando la simpatica Clelia ebbe deciso di entrare in arte, non frequentò, come tante altre, una scuola di recitazione. Si recò, sotto mentite spoglie maschili, al corpo dei vigili urbani, e grazie ad una raccomandazione di Peppino Somma, console della repubblica partenopea, fu assunta nel battaglione allievi. Studiò con passione fin quando non ebbe sviscerato ogni segreto in merito alla direzione del traffico urbano. Poi montò in palcoscenico, e ci fece vedere quello che aveva imparato. Divertentissimo.
Vera Worth, la donna che ogni mattina sostituisce la ginnastica svedese con tre ore di allenamento alla malignità (malignità con flessione del busto, malignità con braccia in alto, malignità con roteazioni del capo), quando ha saputo che c’era in compagnia anche la Matania, ha fatto salti di gioia. Le ho chiesto perchè fosse così contenta. «Avrò un successo enorme», ha risposto. «Dopo un terremoto di quel genere, il pubblico mi troverà meravigliosamente riposante. Uscirò con grazia, porterò a spasso con grazia un bel vestito, dimenticherò con regolare grazia la parte, mi metterò a sorridere con grazia per farmi perdonare. E mi applaudiranno». Voce di Vera: «Questa è una malignità bell’e buona». Ha ragione. Non è vero che dimentichi la parte. Non la sa.
Irene Stuart mi fa pensare a una di quelle strade alle quali, subito dopo la liberazione, senza neanche attendere l'autorizzazione dell'Ufficio Toponomastico del Comune, cambiarono il nome. Già, prima, quando gli inglesi erano «l’odiato nemico» (be’, ma chi ha detto che ora ci siano amici?) si faceva chiamare Irene d’Astrea. Allora diremo: Via Irene Stuart (già Irene d’Astrea). danzatrice, 1920 - ...
Non aprirà bocca, la bella Irene. Tutto quel che avrà da dire, lo dirà coi piedi. Le parole con la punta, l’interpunzione coi tacchi. Ma... che debùttino ognun dice: quando, poi, nessun lo sa...
Mario Casalbore, «Film», anno X, n.10, 8 marzo 1947
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Mario Casalbore, «Film», anno X, n.10, 8 marzo 1947 |