Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1940


Rassegna Stampa 1940


Indice della rassegna stampa dei film per l'anno 1940

San Giovanni decollato (Distribuzione 10 dicembre 1940)


Totò

Articoli d'epoca, anno 1940

Articoli d'epoca - 1940-1949
30 Nov 2020

Varietà: Totò al «Valle»

Varietà: Totò al «Valle» Da qual prodigioso burattinaio sìa stato costruito questo curioso fantoccio animato, tutto sàpido dì lazzi e sberleffi che hanno il mordente della satira, dotato di una maschera comica ridotta a pelle, nervi ed osso, ma…
Nino Capriati, «Film», anno III, n.19, 11 maggio 1940
783
Articoli d'epoca - 1940-1949
30 Gen 2023

I pensieri di Totò

I pensieri di Totò Cercherò di riferire con la massima precisione i discorsi ed i pensieri di questo grande mimo napoletano da me registrati in casa sua, Viale Parioli, 41, la sera del 19 agosto. Totò aveva un bellissimo vestilo color tortora, le…
Cesare Zavattini, «Scenario», anno IX, n.9, settembre 1940
310
Articoli d'epoca - 1940-1949
30 Nov 2020

Si gira «San Giovanni decollato»: resoconto della «piattata»

Si gira «San Giovanni decollato»: resoconto della «piattata» Abbiamo scritto della «piattata» a non di una «piattata», poiché negli ambienti cinematografici la piattata è una sola: quella del «San Giovanni Decollato ». Amleto Palermi ha compiuto il…
Argo, «Film», anno III, n.42, 19 ottobre 1940
1248
Articoli d'epoca - 1940-1949
01 Dic 2020

Totò e sua figlia

Totò e sua figlia La figlia di Totò si chiama Liliana, ha sette anni. Non farà l'attrice, dice Totò con fermezza. Ma questa bambina ha la forza innocente della natura: ha provato per ischerzo una scena con il padre durante una pausa e subito Amleto…
C. D'Antoni, «Film», anno III, n.43, 26 ottobre 1940
2521
Articoli d'epoca - 1940-1949
30 Nov 2020

La comicità di Totò

Silvano Castellani, «Film», anno III, n.47, 23 novembre 1940
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La Compagnia Totò, nella sua nuova formazione, che sarebbe cioè la più... vecchia, quella che con Clely Fiamma ecc. diede di sé più convincente prova, sta compiendo un giro in A.O.I. per conto dell'I.C.A.O. Lo spettacolo ha avuto ovunque lieto esito ed il giro si prolungherà oltre il periodo stabilito.

«Film» 27 gennaio 1940


Una notizia che ha anche un valore sentimentale: si stanno riattando e riattrezzando i vecchi stabilimenti della « Fert » di Torino. Sentimentale, perchè quegli stabilimenti hanno tenuto virtualmente a battesimo il cinema Italiano. Essi appartengono dunque alla storia della nostra cinematografia. E' Liborio Capitani un produttore di cui non sentivamo parlare da tempo, che presiede alla riorganizzazione di quegli studi. I lavori sono già in corso: una completa, nuovissima attrezzatura Western, moderne macchine da ripresa, un parco lampade del modello più recente saranno pronti per la prossima primavera. La nuova « Fert » inizierà la sua attività in letizia: due film con Macario e due film con Totò.

«Il Messaggero», 11 febbraio 1940


1940 02 02 La Stampa Annullamento matrimonioRoma, 1 febbraio.

La nostra Alta Corte d'Appello, con recente sentenza ha reso esecutivo in Italia il giudicato del Tribunale del Protettorato germanico col quale è italo annullato il matrimonio del noto artista di varietà marchese Antonio De Curtis Gagliardi, in arte Totò, con la signora Diana B. L.

Il matrimonio, celebrato In Italia qualche anno fa, su richiesta del marchese De Curtis venne annullato dal Tribunale del Protettorato germanico per vizio di consenso. Il De Curtis richiedeva alla nostra Corte d'Appello la delibazione della sentenza straniera.

La Corte, nella sua sentenza, afferma che alla delibazione non può ostare la circostanza che il tribunale straniero abbia giudicato in materia di un matrimonio concluso in Italia, poiché la Convenzione internazionale esistente attribuisce in modo speciale tale facoltà ai Tribunali del due Stati contraenti. Premessa la inammissibilità dell'esame del merito della questione, la Corte ha aderito alle deduzioni del De Curtis, dichiarando esecutiva ed efficace nel Regno d'Italia la sentenza straniera.

«La Stampa» 2 febbraio 1940


La Compagnia Totò continua l'espletamento dei suoi impegni in A.O.I. E' ora ad Addis Abeba scritturata dalI'I.C.A.O.

«Film» 28 febbraio 1940


La Compagnia Totò, reduce da una lunghissima permanenza in A. O. I. dove è stata festeggiatissima, ha portato qualche variazione al suo elenco artistico, includendo la danzatrice Bea Egervary e la cantante Anna Wongi, e riprendendo Olive Fried e Gemma Moroni. Sarà a Roma, in avanspettacolo, dal 20 maggio al 9 giugno al Brancaccio e dal 10 al 23 giugno al Savoia. Al Brancaccio, prima di Totò, avremo Dezan e Bluette Navarrini.

«Film», 20 aprile 1940


ALVALLE mercoledi sera debutto della Compagnia di Fantasie Comiche, formata dall'organizzazione musicale Epifani con Totò, la Vary, Olivia Fried, Anna Vongi, il Balletto "Europa" con la nuova edizione della rivista: "L'ultimo Tarzan". [...]

«Il Messaggero» 29 aprile 1940


1940 05 04 Il Messaggero Tra moglie marito la suocera e il dito L

«Il Messaggero» 4 maggio 1940


1940 05 11 Film Tournee AOI Tra moglie e marito L

«Film» 11 maggio 1940


1940 05 11 Film Toto al Valle Tra moglie e marito L

Da qual prodigioso burattinaio sìa stato costruito questo curioso fantoccio animato, tutto sàpido dì lazzi e sberleffi che hanno il mordente della satira, dotato di una maschera comica ridotta a pelle, nervi ed osso, ma talmente espressiva da sembrar creata di un artefice strambo, desideroso di realizzare plasticamente la quintessenza del l'espressione pura; questo pupazzo disarticolato nella inarmonica e caricaturale figura fisica, al punto di sovvertire le più elementari leggi anatomiche, non sappiamo. Certo ci sembra oggi la figura più significativa del teatro di rivista italiano: qualche cosa di mezzo fra il mimo, la marionetta, il macchiettista ed il vecchio e glorioso Pulcinella del Teatro San Carlino, fusi in un tipo nuovo, modernamente paradossale, che forse tutti li rammenta, ma da tutti si distingue.

Totò è tornato al Valle, dopo un lungo e — ci dicono — trionfale periodo di permanenza in A. O. I., con la Compagnia rinverdita di nuovi elementi, presentando una spassosa rivista di cui egli stesso è l'autore, Tra moglie e marito, la suocera e il dito.

Tutto l'intreccio è nella narrazione dei guai che il disgraziato Getullio Indivia, pur avendo vinto alla Lotteria di Tripoli una bella valigia zeppa di milioni, subisce per colpa di tre indemoniate arpie: moglie, cognata e suocera, fino ad essere costretto a fingersi pazzo furioso, per riacquistare così l'autorità coniugale. Motivo — come si vede — non peregrino, ma svolto e soprattutto interpretato da Totò con arguta sensibilità e coloriti contrasti comici, ottimamente coadiuvato da Passarelli, attore intelligente che sa valersi di una recitazione naturalmente efficace.

Passiamo in rapida rassegna lo stuolo delle avvenenti soubrette: bellissima Olivia Fried, che ha guadagnato in fascino femminile quanto ha perduto in abbondanza di forme (ed ha perduto molto). Ci è sembrata in deciso miglioramento, come donna e come artista, Bea Vary, più che come subretta ci è piaciuta nel suo vecchio ruolo di maliziosa ed abile ballerina. Apparve squisitamente elegante quando ravvivò la sua bionda grazia, con una festosa acconciatura spagnola, anche se aveva prima deluso i suoi ammiratori, indossando una lugubre e modesta marsina a maglia nera. Anna Vongi fisicamente possiede il fascino esotico di una statuina giapponese, fascino che ella accresce e quasi esaspera con le malizie di una sapiente truccatura. Artisticamente, possiede pregevoli mezzi vocali. Vorremmo in lei un maggior senso di misura, vorremmo che evitasse le inutili note sopracute, le gigionesche ed arbitrarie cadenze e fiorettature, specie là dove il compositore non si è mai sognato di scriverle.

La giovane Vongi ha un notevole temperamento interpretativo ed abbiamo fiducia nelle sue istintive qualità che deve sorvegliare e potenziare naturalmente, senza) stemperarle in una soprastruttura artificiosa.

Le due prime danzatrici, Elias Cappellini e Janka, partecipando al coro delle ragazze, ma esibendosi poi separatamente, la prima in una suggestiva danza orientale, e la seconda in una orgiastica cucaracha, hanno fatto il possibile per convincerci di quanto sia più facile essere delle leggiadre soliste, quando il dèmone della danza invade corpo ed anima, che non modeste ballerine di fila, disciplinate ed attente. E ci sono perfettamente riuscite.

Allestimento scenico e costumi, sufficientemente decorosi. L’orchestra del Maestro Frustaci ha avuto lievi indecisioni, nel difficile compito di seguire le geniali improvvisazioni comico-musicali di Totò e le meno genali fantasie di qualche cantante, che divideva i tempi così, alla buona, senza preccuparsi troppo degli aurei insegnamenti che Pasquale Bona impartisce nel suo Metodo di solfeggio.

Nino Capriati, «Film», 11 maggio 1940


Corre insistente voce che la compagnia Totò, gestita dal comm. Epifani, sia stata rilevata dall'editore Cesarino Bixio, il quale avrebbe anche intenzione di far girare al noto comico napoletano alcuni film.

«Film», 25 maggio 1940


AL BRANCACCIO Totò, il re dei comici, proseguendo nella serie dei grandi successi che accompagnano i suoi spettacoli, presenterà stasera la nuova rivista «90... fa la paura», fantasia grottesca da molti quadri e moltissime scene comiche. Avrà a fianco l'Anna Vongi, Olivia Freid, Bea Vary, Gemma Moroni, Elena Sollazzo, Janka, Passarelli, gli altri ed il Balletto Europa. Orchestra diretta da P. Frustaci.

«Il Messaggero», 27 maggio 1940


1940 07 13 La Gazzetta del Popolo Spettacolo beneficenza intro

Roma, 12 luglio, notte

Nel cortile d’ingresso dell’Ospedale Militare del Celio, addobbato con festoni e bandiere, si era radunata gran parte dei feriti giunti nei giorni scorsi dal Fronte occidentale; e questo solo fatto di essere fuori dalle corsie, all’aperto, dimostra l’eccellente stato della loro salute, il rapido risanamento cui le amorose cure del medici e delle infermiere hanno avviato questi reduci segnati nella carne dalle cruente stimmate della combattuta vittoria.

Erano seduti a semicerchio dinanzi a un palco improvvisato nella notte, sul quale doveva svolgersi uno spettacolo teatrale. La rappresentazione, la prima del genere, era stata quasi improvvisata sotto gli auspici del Ministero per la Cultura Popolare, d’accordo con l’Opera Nazionale Dopolavoro e le Federazioni nazionali degli industriali dello spettacolo e del lavoratori dello spettacolo. Ma anche così affrettatamente disposta è risultata di pieno gradimento del valorosi ospiti del Celio che hanno sentito e riconosciuto in questa gentile iniziativa un altro di quei segni di attenzione affettuosa da cui si sentono, ogni giorno circondati.

Allo spettacolo hanno spontaneamente preso parte diversi artisti di varietà, le signorine Battistini e Bertini del Centro sperimentale di musica e danza, che hanno cantato alcune canzoni di attualità, Guido Riccioli e Nanda Primavera, che si sono presentati in alcuni numeri del loro repertorio; i fratelli De Rege i quali hanno eseguito diversi del loro più divertenti scherzi comici, e il popolare Totò che, coadiuvato dalla Sollazzo, dalla Melldoni, dalla Grumbaum, dal Panchetti, dal Gigante, dal Menoni e dal Collier! ha recitato una esilarante farsa.

In un intervallo le artiste hanno distribuito sigarette ai feriti. Allo spettacolo assistevano numerosi invitati fra cui. accompagnato dal Direttore della Sanità Militare e dal Direttore dell’Ospedale, il Sottosegretario alla Guerra generale Soddu, il quale, dopo avere rivolto un fraterno e affettuoso saluto al feriti, si é lungamente intrattenuto con essi.

«La Gazzetta del Popolo», 13 luglio 1940


Un'interessante contesa giudiziaria ha messo in questi giorni a rumore gli ambienti teatrali napoletani. Il notissimo impresario Aulicino, che per tre anni aveva scritturato, alla paga giornaliera di lire mille, Il comico Totò, con l'obbligo di recitare in rivista, versandogli inoltre seimila lire di anticipo, ha citato il Marchese Antonio De Curtis (Totò) per inadempienza contrattuale, essendosi questi impegnato successivamente con la Capitani Film di Roma. L'Aulicino richiede la penale di centomila lire prevista dal contratto e la restituzione dell’anticipo versato. Totò sostiene invece che la parte avversa ha perduto ogni suo diritto per non avere avanzato in tempo utile presso l'Ufficio di collocamento di Roma la richiesta di disponibilità per poter stipulare regolarmente il contratto di assunzione.

C., «Film», 27 luglio 1940


Per delega del Ministero della Cultura Popolare, l’Opera Nazionale Dopolavoro ha costituito due formazioni teatrali per le Forze Armate. Una ha già debuttato in Sicilia con notevole successo. E' composta 4 seguenti artisti: Trio Bonos, Eduardo Scavignus con le sue otto fantasiste, che prescnta un numero di canto, ballo ed attrazione musicale, l'Orchestra Prat, il comico Sforza, la Floveri, Grazia Nori e l'illusionista l’Idiota misterioso.

La seconda, che avrà anche la durata di circa un mese, dopo uno spettacolo d’eccezione per le truppe del Presidio di Roma, che per la diligente attività organizzativa dell’Ufficio Collocamento Operetta Rivista e Varietà della Federazione Lavoratori dello Spettacolo, ha avuto anche l’adesione di Totò, Maddalena, Clely Fiamma, Passarelli e dei Fratelli De Rege, riunisce: il gruppo comico Amendola, il Balletto Rivas, l'orchestra Lacalamita, Fulvio Pazzaglia e Tiola Silenzi ed i cascatori comici Vitali e Corvey, oltre l’illusionista D Anselmi.

«Film», 10 agosto 1940


1940 09 21 Film Festival Venezia L

I "divi" tornano da Venezia dopo aver assistito alla "Settimana cinematografica italo-tedesca". Ecco Elli Parvo, Paola Barbara, Totò e Leda Gloria, sorridenti al saluto degli ammiratori. Nell'altro finestirno si intravede Amleto Palermi, indifferente a tanta contentezza.

«Film», 21 settembre 1940


Il fatto più nuovo della settimana: Totò si è offeso mortalmente perchè un giornalista ha scritto di lui: comicità da clown. «Clown in inglese vuol dire pagliaccio», ha protestato allungando il collo.

«Tempo», 10 ottobre 1940


1940 10 12 Film Liborio Capitani San Giovanni decollato intro

Oggi l'inchiesta sulla produzione ci porta negli uffici della «Capitani Film». La Società ha tradizioni elettissime e, dopo due anni di sosta, è tornata al lavoro con un complesso di realizzazioni che la pongono nettamente all'avanguardia dell'industria cinematografica nazionale.

Abbiamo subito avuto la rivelazione di un lavoro serio, silenzioso, ordinato. Gente che sta a tavolino, diligentemente, e quasi in umiltà; e annota e trascrive cifre in colonna e conti che tornano fino al centesimo, perchè cosi vuole la regola prima della Casa. Ci ritroviamo in uno stanzone dal soffitto basso, disadorno e un po' triste, con una lampada ad ogni tavolo. La prima impressione è quella di entrare nello studio di un notaio e non in quello di un produttore cinematografico.

Liborio Capitani ha legato il suo nome ad imprese industriali di eccezionale fortuna. Chi lo conosce ne ha potuto apprezzare le schiette abitudini di lavoro e di vita, l'ingegno pronto, le accortezze sagaci. Capitani è nato per costruire e ha sempre costruito, spesso con coraggioso istinto, sempre con pazienza e tenacia, su fondamenta sicure. Viene dalla gavetta. Ha fatto tutto da sè. Ha maneggiato i ruvidi strumenti dell’artigiano. Ha imparato che la fortuna si conquisa solunto con un lavoro continuo e faticato. Non ha mai cercato avventure, ha sempre misurato i suoi passi. Ha fatto il «produttore» con una chiarezza e un'onestà senza pari. E di tutto ciò il buon Capitani ha ben ragione di sentirsi orgoglioso.

***

Troviamo al tavolo da lavoro, e proprio in quello stanzone che sembra più lo studio di un notaio che non quello di un produttore, l'avv. Giuseppe Sylos, di Capitani antico e fedelissimo collaboratore.

E‘, in questi giorni, intento all'ultima fatica: la direzione della produzione di San Giovanni decollato, il film che Palermi dirige con l'aiuto di Giorgio Bianchi e del quale vogliamo occuparci ampiamente in un prossimo numero. Sylos è un uomo ordinato e scrupoloso; e segue da anni la buona norma della Casa: lavorare in silenzio e con serietà. E' lui che a ricorda, premurosamente, le tappe del fortunato cammino di Capitani.

L'inizio dell'attività avvenne nel 1932, con Cercasi modelli (interpreti Elsa Merlini e Nino Besozzi) e in Una notte con te in edizione italiana e tedesca. L'anno seguente La canzone del sole (con Lauri Volpi, De Sica e Melnati) ebbe vasta fortuna e fu venduto in tutto il mondo e persino in Cina e nel Siam.

Con Elsa Merini, Capitani produsse tutti quegli altri film che, sulla scia della Segretaria privata ne rinnovarono, allora, in varia misura la rinomanza. Cosi Paprika, Lisetta, Melodramma; é cosi quella Ginevra degli Almieri che vide il primo debutto del nostro maggiore attore cinematografico, Amedeo Nazzari.

Il caso Haller, nel 1933, segnò il debutto cinematografico di Marta Abba che più tardi con l'interpretazione di Teresa Confalonieri doveva fare ottenere alla «Capitani» l'ambitissima «Coppa Mussolini 1934» Ricordiamo inoltre fra gli altri, Impiegata di papà e Porto (con Elsa De Giorgi) e quel delizioso Re Burlone che fu magistralmente interpretato da Armando Falconi e che fece debuttare una delle nostre attrici di più vibrante temperamento, Luisa Ferida.

Un primato indiscusso spetta a Capitani in materia di film comici, il succeso popolare che ebbero i film del grande Angelo Musco fu addirittura sbalorditivo e su quel successo poggiò la produzioni «Capitani» negli anni 1934-1937. L'eredità dello zio buonanima, L'aria del continente, Re di denari, Lo smemorato, Pensaci Giacomino, Gatta ci cova e Il feroce Saladino, film che per la prima volta ci fece ammirare il dolcissimo volto di Alida Valli.

Sotto l'insegna della più festosa comicità, si affermarono, infine, Felicita Colombo (con Falconi e la Galli) e Gli ultimi giorni di Pompei (con Viarisio)

***

Dopo due anni di riposo, Capitani è attualmente alla ribalta con un gruppo di film in tutto degni della sua tradizione. Un film ricco di colore, movimentato nella vicenda e suggestivo nel suo significato è stato Il Cavaliere di Kruja, primo film italiano girato in Albania e che è stato presentato alla recente manifestazione di Venezia e, in questi giorni, felicemente accolto dal pubblico italiano.

Ed ecco che, ancora una volta, Capitani viene incontro (con ben quattro film di nuovissima avventura comica) al popolare favore, presentando le ultime interpretazioni di Macario e di Totò.

Di Il pirata sono io, che Mario Mattoli ha mirabilmente diretto, ci siamo già diffusamente occupati su queste colonne riferendone le interessanti fasi di lavorazione. Mario Mattoli ha, inoltre, ormai ultimato il montaggio di Non me lo dire, il secondo film interpretato quest'anno da Macario, accanto a quella graziossima attrice che è Silvana Jachino e a Vanda Osiri che inizia con questo film la sua carriera di diva cinematografica.

Circa la presente attività produttrice abbiamo raccolto le notizie più promettenti. Due film esilaranti di brio, e dì gustoso sapore lanceranno a bandiere spiegate Totò. Il primo sarà San Giovanni decollato (tratto dalla nota commedia di Martoglio) e in esso Totò, idolo del pubblico delle Riviste e del Varietà otterrà finalmente la sua squillante affermazione cinematografica. Amleto Palermi — che di attori se ne intende, e come! — ci ha parlato di lui con affettuoso entusiasmo mettendone in evidenza l'estroso talento e l'originalissima personalità.

Il secondo film di Totò sarà mesto in cantiere appena ultimato San Giovanni decollato, sarà diretto da Camillo Mastrocinque e s'intitolerà, a quanto c'informano. L'allegro fantasma.

Minimo, «Film», 12 ottobre 1940


1940 10 19 Film Quando meno te l aspetti L

Sempre a Cinecittà, e precisamente nel padiglione cinefonico, continuano le riprese del nuovo brillantissimo film della produzione Capitani San Giovanni decollato, affidato all’interpretazione di Totò, Titina De Filippo, Bella Starace Sainati, Mari) Siletti, Augusto Di Giovanni, Silvana Jachi. no, Osvaldo Genazzani e Franco Coop. Amleto Palermi si è assunto la regia di questo brillantissimo film della Capitani che sarà distribuito sugli schermi italiani dall'Enic.

«Film» 19 ottobre 1940


1940 11 02 Film L allegro fantasma L

«Film» 2 novembre 1940


1940 11 02 Film Toto intro

Vi amo, Totò, e lasciate pertanto che io vi racconti la trama del mio ultimo romanzo. La protagonista è una bellissima giovinetta, ignara delle brutture della vita. Abita in una soffitta di Corso Vinzaglio, lavora e sogna. Ma il destino ordisce la sua perfida trama. Improvvisamente voi, Totò, sgusciate nella stanza. Un sussulto, un grido. Sul vostro volto aristocratico la fanciulla decifra le stimmate del vizio e del libertinaggio più sfrenato. Che fare? Prima che riusciate soltanto a sfiorarla, l'infelice salta sul davanzale e grida:

— Indietro! Vi riconosco, infame! Siete il seduttore di Rina, l'angelo delle Alpi, e di Maria, la sartina di Corso Oporto! Ma non tutte le ciambelle riescono col buco! Sono povera, ma onesta, e preferisco la morte al disonore!

Brevi ma tragici istanti trascorrono... Invano voi, Totò, le sussurrate che avrà pellicce, carrozze, gioielli ed applausi al Brancaccio... Pallida ma decisa, ella vi risponde:

— No! Fate ancora un passo, Totò (marchese Antonio De Curtis), ed io mi lascerò cadere nel vuoto!

Un gemito, un tonfo sordo. Come avrete intuito, amico mio, la illibata fanciulla è la nostra cinematografia, con la quale vi saluto.

Carolina Invernizio e, per c.c. Giuseppe Marotta

«Film», 2 novembre 1940


Si sono ormai concluse le riprese del "San Giovanni decollato". Questa nuova edizione cinematografica della celebre commedia di Nino Martoglio, tanta più attesa in quanto è affidata alla interpretazione di un attore dal singolarissimo temperamento quale Totò, ha raccolto un complesso di attori comici di grandi risorse e di tecniche di provato valore. Interpreti di San Giovanni decollato, oltre a Totò, sono: Titina De Filippo, Bella Starace Sainati, Silvana Jachino. Franco Coop, Osvaldo Genazzani, Augusto Di Giovanni, Maso Marcellini, Mario Siletti. Eduardo Passarelli, Peppino Villani, Gorella Gori, Giacomo Almirante, Enrico Petacci, Renato Guantoni, Oreste Bilancia, Raffaele Balsamo, ecc.

«Film» 9 novembre 1940


Ad ogni suo apparire il pubblico rideva e la risata nasceva piena e si propagava irresponsabile e contagiosa; [...] bastava un semplice atteggiamento, un’espressione qualsiasi del protagonista a suscitare lo scoppio del più generale e felice ottimismo; la prima rivelazione delle indiscutibili virtù comiche di Totò attore cinematografico.

Silvano Castellani, Comicità di Totò, «Film», n. 47, 23 novembre 1940


1940 12 23 Il Messaggero Quando meno te l aspetti intro

Domani sera, vigilia di Natale alle ore 21, la Compagnia delle Grandi riviste Totò con Anna Magnani e tutto l'eccezionale complesso artistico, presenterà la nuovissima rivista di Michele Galdieri: «Quando meno te l'aspetti». Prenotazioni al numero 40-910.

«Il Messaggero», 23 dicembre 1940


1940 12 26 Il Messaggero Quando meno te l aspetti intro

Il Quattro Fontane s'è riaperto ieri con uno spettacolo divertente e festoso. Una nuova rivista di Michele Galdieri, nella quale lo spirito è felicemente alternato con motivi musicali e coreografici. Quando meno te l'aspttti appartiene al genere fortunato degli spettacoli di Galdieri. Numerosi quadri sono di natura parodistica e satirica, e da questo punto di vista sono certamente i più gustosi dello spettacolo. Allusioni abbastanza trasparenti ad avvenimenti del mondo cinematografico sono state accolte dal più vivo consenso del numeroso pubblico. Naturalmente anche in questa rivista non mancano i rituali sacrifici alla Signora dalle camelie; cosi come non manca il quadro d’ispirazione letteraria, con toni comico-morale-crepuscolari. Ma il tutto è sapientemente combinato, dosato e agitato prima dell'uso, cosi che il pubblico ha riso largamente s'è riempito gli occhi di luci e muliebri esibizioni e gli orecchi di allietanti musichette. Gaidieri ha il segreto di questo genere di riviste, di cui il motivo dominante è tratto dalla vita di ogni giorno osservata attraverso le lenti di un buon senso allegro e disinteressato Ed ecco perchè i quadri apertamente farseschi e parodistici sono più apprezzati dalla platea di quelli volutamente satirici e moraleggianti.

Totò in uno spettacolo che non si reggeva solo sulle sue spalle, ha avuto modo di mettere in miglior luce la sua personalità di mimo e di comico di gran razza. Il suo apparire è stato sempre salutato da ilarità istintiva, ogni sue mossa, anche le più classiche e stereotipate, è apparsa irresistibile. Anna Magnani, entrata festosamente in scena attraversando la platea, ha dominato numerosi quadri, ha ottenuto il più vivo successo personale. Ella ha recitato e cantato con finezza e brio, soprattutto ha spiegato il suo seducente estro parodistico.

Un ottimo complesso artistico ha fiancheggiato Totò e Anna Magnani. Vera Worth. Paola Orlova, Paola Paola. Minnie Eva, Castefiani. Merryfield Harry Fiest hanno cantato e danzalo a meraviglia. Lia Origoni, bruna e malinconica s'è fatta applaudire con le sue canzoni. Massimo Ungaretti è apparsa più volte sotto molteplici cesti; e nel finale — un'indovinata rievocazione di antiche operette — fu visto addirittura in tenuta d miliardario. Applausi a non finire agli interpreti all’autore. Da stasera avranno inizio repliche

Vice, «Il Messaggero», 26 dicembre 1940


SAN GIOVANNI DECOLLATO

Distribuzione: 10 dicembre 1940

San_Giovanni_decollato

Qui la rassegna stampa e la scheda completa del film


Altri artisti

Articoli d'epoca, anno 1940

1940 02 06 Il Piccolo delle ore diciotto Guglielmo Inglese

«Il Piccolo delle ore diciotto», 6 febbraio 1940


1940 03 14 Tempo Aldo Fabrizi intro

La quotazione di Fabrizi cresce di mese in mese. Ieri sera al Principe i romani rivolevano il tramviere, ormai famoso, ma il nostro comico preferì misurarsi con un pezzo nuovo, Il vetturino. Senza pietà, secondo il solito, ci parlò di un cavallo che stava su con un treppiede, povero cavallo, e alla fine lo vedemmo decomporsi come nei sogni, crollare con un gran rumore d’ossa secche. Chiuse l'applauditissimo spettacolo Il venditore sulla pubblica piazza di penne stilografiche tema classico che Fabrizi rinfresca con una violenza inaudita. Ogni tanto l'imbonitura gli finiva in un gargarismo, le parole si scioglievano in strani versi con una sensualità veramente barocca : la gioia del parlare, dell’oratoria per l’oratoria latente in ciascuno di noi.

«Vede come Dubout» mi ha detto il disegnatore Onorato parlando di lui. Giusto, nel suo «numero» le persone sono stipate, si attorcigliano, le dita di Paolo finiscono nella bocca di Antonio, tutti si pestano i piedi si pungono i fianchi e il sudore cola amarissimo da quelle facce borghesi poco cordiali. Il giorno del giudizio universale verrà con una musichetta leggera di sfondo — prego, maestro — e i reprobi si ammasseranno sotto il solleone in una sconfinata piattaforma di tram : li carci li carci...

Fabrizi non ha il cuore molto tenero, è sempre severo o intimidatorio, analitico. Certamente staccava la coda alle lucertole. Se nell’orchestra sente un rumore insolito domanda al clarinetto: «ti è caduta la dentiera?». Non vorrei fare del colore scrivendo che il suo umorismo si accende davanti ai quadri murali, l’uomo spaccato, anatomia. Può dunque difficilmente scivolare nel sentimento — o perde la sua nota — perchè il prossimo gli appare con una grinta che interessa soprattutto il medico e il moralista. La sua faccia stessa, così cinema, mobile — quando canta Lulù non sei più tu — subisce la sua immaginazione : gli occhi hanno il morbo di Basedoff e la mascella diventa un primo piano crudo e enorme.

Sotto il suo grasso cova il serpente. Di tutti i comici italiani mi sembra il meno leggiadro e il più sarcastico, un osservatore con i nervi un po’ scossi. Anche quando è a tavola e divora l’abbacchio e assimila trionfalmente ogni tanto fa una smorfia, qualche cosa non gli va. Vede un difetto, o vorrebbe trovarlo. Non litigherò mai con lui, egli saprebbe umiliarmi scoprendomi mancanze che io stesso non ho mai avuto il coraggio di risentire.

A me pare strano oltre tutto che l’Autore e l’esecutore del ferocissimo Decio, il gagà del Quadraro abbia il telefono. Chiamate 763-728 e vi risponderà proprio Fabrizi.

Cesare Zavattini, «Tempo», 14 marzo 1940


1940 04 06 Film Cesare Zavattini intro

Appena a conoscenza del latto che Cesare Zavattini, lasciato l'albergo nel quale alloggiava s'era trovata una abitazione in Roma, siamo andati alla ricerca dell’autore di «Parliamo tanto di me» per indurlo appunto a parlare moltissimo di sè e dei suoi progetti.

— Un uomo che abita in un albergo è sempre più o meno « di passaggio », — abbiamo detto. — Il fatto che tu abbia cercato un alloggio più stabile lascia pensare che la tua intenzione è quella di fissarti a Roma. E' cosi?

— Esattamente. — Ha confermato Zavattini. — A Roma c’è molto lavoro e ce ne sarà sempre di più visto che rindu8tria cinematografica è decisamente entrata nella sua fase ascensionale. Sono sicuro che questo è il momento migliore per chi ha qualcosa di bugno da dire o da fare nel fertile campo del cinema.

hai già dimostrato d’avere molto di nuovo da dire, — abbiamo osservato. — E non da oggi.Zavattini ha sorriso.

— Ecco, — ha detto, — sono lieto di constatare che finalmente i produttori hanno cominciato a capire l’opportunità di servirsi dell’umorismo italiano. (Ma di servirsene con misura, come ha già dotto « Film » tre settimane fa). Questo coso io lo ho sostenute da anni, o i fatti mi hanno dato ragione. Ma in questo campo siamo appena agli inizi.

— Quello che c’interessa conoscere ora sono i tuoi progetti, lo tue intenzioni — abbiamo detto. Zavattini ci ha guardato un po' in tralice.

— Mi si attribuiscono mollissime intenzioni. — ha detto. — Intenzioni che in parte ho o in gran parte non mi sogno d'avere...

— Non potresti esprimerti in un linguaggio meno diplomatico? Si dice che tu voglia...

— Appunto. — Zavattini ci ha interrotto rapidamente. — Si dicono molte cose sul conto mio. Si dico che io ho guadagnato somme favoloso vendendo soggetti. Si dice anche che io sono pigro, ma questo non è vero. Se mi alzo tardi, è solo perchè vado a letto tardissimo, e vado a letto tardissimo perchè lavoro molto.

— Sarebbe indiscreto chiederti a che cosa lavori? Si parla con una corta insistenza di un tuo film che...

Por la seconda volta Zavattini ci ha interrotto sviando il discorso; evidentemente egli non desiderava parlare del suo lavoro. Perchè poi? Glielo abbiamo chiesto.

— Oggi come oggi non posso dire nulla, anzi, preferisco non dire nulla: ogni indiscrezione potrebbe nuocere al piano che sto elaborando e che non è ancora perfettamente a punto. Effettivamente, ho delle intenzioni molto serio e dei progetti d'una certa importanza, non solo dal lato artistico ma anello da quello commerciale. Ma è prematuro parlarne.

— Abbiamo capito: tu stai preparando una di quelle sorprese...

— Non esageriamo, — ha osservato con molta calma Zavattini. — Quello che è certo è che lo sto lavorando con molta passione anche se può sembrare, dalle apparenze, il contrario. Ma c'è una cosa della quale bisogna tener conto per seguire il mio programma: io non ho fretta. Tra le virtù quella che più mi è familiare è la pazienza, ma una pazienza, intendiamoci, positiva, oculata, attiva. La fretta guasta molte delle migliori iniziative, e ne abbiamo esempi quotidiani, specialmente nel campo del cinema. Per questo io non mi agito, non mi lascio prendere dalla febbre e dall'impazienza di concludere. Non solo, ma dirò di più, io non mi faccio nemmeno vedere. E credo che questo sia ancora il sistema migliore per lavorare in pace e produrre meglio.

Guardiamo Zavattini che, sotto l'apparente placidità, nasconde un fuoco di idee e di iniziative. Il suo tavolo ingombro di libri, di foglietti sui quali pochi appunti tracciati in fretta hanno fermato delle idee, dei pensieri, dei temi e dei progetti. Appeso al muro un foglio sul quale sono tracciate delle righe attira la nostra attenzione. E’ una sorta di scadenzario degli impegni che Zavattini ha verso giornali e riviste a cui collabora. «Non ha fretta ed è ordinato», ci vien fatto di pensare, un piccolo ma importante ammonimento per quanti lavorano, oggi, per il cinema.

Vitt., «Film», 6 aprile 1940


1940 04 11 Tempo Renato Rascel intro

Che pena quando ci si mette a tavolino per giudicare. Le difficoltà non sono più grandi davanti a Goethe, mettiamo, che a Renato Rascel: calmatevi, voglio dire da un punto di vista morale. I dubbi si moltiplicano per gemmazione : sono onesto, non mi lascio sedurre da un’immagine più che dalla verità, un aggettivo può sopire la mia coscienza? Mio zio diceva in proposito: ubbie. Ma si ammalò gravemente proprio per l’uso smodato di questo vocabolo.

Ho rivisto ieri Renato Rascel, sempre più esiguo in un vestito nero sempre più grande, e sono ancora tra il si e il no, temo di apprezzare in lui ciò che potrebbe essere invece di quello che è; ricava il massimo dai suoi mezzi limitatissimi e io subisco l’incanto della sua pochezza, senza voce senza recitazione senza spirito improvvisatore. Ci sentiamo tutti madri davanti a Renato Rascel che canta le filastrocche con i modi di un bambino tardivo e solitario. Nello stesso tempo viene il sospetto sia caduto un po’ di polline sul piccolo uomo debole di petto quando interrompe il canto per gettarsi nel ballo, innocente e ardito come la nostra infanzia davanti ai precipizi. Questo picchiatello dovrebbe svolazzare tra i fiori, e non uscire dalla scena con quel «passo» antico e impersonale che abbiamo visto mille volte, da Gillo Dorfles in avanti : è una mortificazione da cui torniamo a dubitare collocando Rascel nel purgatorio.

Lo rivedrò fra un anno: non mi basterà più il canto della zanzara tubercolotica ma vorrò un insieme di atti e di parole rigorosamente sulla linea del momento prediletto senza concedere il minimo intervento negli altri movimenti della rivista ; il palcoscenico è troppo grande per lui se esorbita dal ruolo di fissato nel declamare le mediocri parafrasi dei versi di Ragazzoni. E se vuol sapere che cosa intendiamo per evasione, nel paesaggio del suo mondo vuoto, una conchiglia, ma forse con echi remoti di fughe e di salti nell’orizzonte — una conchiglia ascoltata da un tenero orecchio — segua il ragazzo della fisarmonica in Bassifondi di Renoir : vale la pellicola quando corre vola con le note portate dalla fisarmonica; alzatosi di colpo, entra tra i cespugli sfiora l’erba i ruscelli come l’aria. Il nostro Renato vi riscontrerà se medesimo ingrandito nel sogno del suo minuto creativo.

Cesare Zavattini, «Tempo», 11 aprile 1940


1940 05 11 Il Piccolo delle ore diciotto Carlo Micheluzzi intro

«Il Piccolo delle ore diciotto», 11 maggio 1940


1940 06 01 Film Riccardo Billi intro

Vi sono attori che conquistano fama ed agiatezza solo attraverso un lungo travaglio spirituale ed artistico, imponendo a poco a poco la loro personalità alle platee indiffidenti e distratte, obbligati quasi a svolgere un sottile lavoro di persuasione, più che di penetrazione. Altri invece, cui la Dea bendata offre il sorriso di una bocca procace e piena di promesse, riescono ad impadronirsi subito delle simpatie del pubblico, sino dai primi debutti, sconvolgendo previsioni e calcoli, anche dei più esperti topi di palcoscenico. Il loro nome comincia a destare interesse, circola di bocca in bocca, si insinua e rimane : in brevissimo tempo, «tutta la città ne parla».

Riccardo Billi appartiene alla seconda schiera. Intendiamoci : è un fortunato, ma non è solamente un fortunato. Oggi egli rappresenta una carta sicura del nostro teatro di rivista e varietà, uno di quegli elementi di cui la critica togata scrive: «artista geniale, multiforme e versatile, il beniamino del pubblico... » Ed altre frisi lusinghiere.

Billi ha raggiunto una notevole maturità artistica, ma è rimasto studente, nello spirito e nell'anima. Egli porta sulla scena la stessa esuberanza giovanile ed il medesimo entusiasmo di allora, di quando — appena diciottenne — abbandonò improvvisamente gli studi al liceo artistico e, da un’esibizione dilettantistica in una festa delle matricole, balzò sul palcoscenico della Casina delle Rose, iniziando la sua carriera di professionista.

I Numi tutelari della piccola lirica gli furono benevoli : in poco tempo ebbe il nome in grande ed in rosso sul manifesto. Aveva raggiunto il Nirvana, il massimo delle aspirazioni cui tutti gli artisti, maschi e femmine, tendono a costo di qualsiasi sacrifìcio. Billi è un attore indubbiamente personalissimo. Non è «sobrio e corretto». Annzi... ignora ad esempio la suggestione sottile del mezzotono, o forse, più che ignorarla, la disdegna.

1940 06 01 Film Riccardo Billi f1

Infatti possiede a dovizia qualità e mezzi dittici e li sperpera con la prodigalità di un alchimista, possessore di una inesauribile formula per fabbricare l’oro. Recita, canta, balla, imita strumenti musicali, attori, cani, gatti, papere... Una sola imitazione di animali non gli è ancora riuscita bene e lo confessa lealmente: la sardina sott’olio. Insieme alla moglie Liana Billi che gli è non solo intelligente compagna d’arte nei ruoli comici, ma guida affettuosa (e talvolta severa), ha creato gustosamente parodistici. E’ fotogenicco, ma non se ne vanta. Lo ha dimostrato per lui il simpatico Rubagalline del film Fanfulla da Lodi. Non racconta storie di caccia rossa, pur avendo lavorato recentemente in A.O.I. Prodigio di buon gusto. Anzi, di ritorno dai successi africani fece vedere a Via Veneto od al Bar del Barberini, con casco coloniale e stivaloni gialli. Prodigio di continenza.

Ha voce potente, squillante, ben timbrata... Avrebbe potuto essere Otello, Radames, Manrico. Con ammirevole delicatezza verso Giovanni Martinelli e Beniamino Gigli, si è limitato a cantare la parodia del tenore di forza, in varietà, presentando una succosa concezione comica del duetto del primo atto della Lucia, c quella del tenore di grazia in una scanzonata, argutissima interpretazione di Come è delizioso andar sulla carrozzella.

Luigi Bonelli lo volle al Maggio Fiorentino, cantastorie nella esumazione de La Strega, commedia dello speziale Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (1503-1583) come insegnano i buoni manuali di letteratura. Ebbe un successo personalissimo, ma Riccardo Billi abbandonò la prosa c tentò la rivista a grande spettacolo,: con il fortunato giro artistico de Il vedovo allegro di Bassano.

Gli telegrafarono riconoscenti Ermete Zacconi, Ruggero Ruggeri ed il rag. Grottesi, direttore artistico della «Filodrammatica Eleonora Duse» di Casalpusterlengo.

Ha un carattere strano. Sussurra talvolta agli amici battute, apparentemente d amaro umorismo. Questa frase al vetriolo è sua: .

— Far cadere una donna?... Niente di più facile. Non sono necessari i fiori d’arancio. Bastano le bucce.

Poi aggiunge sottovoce;

— Gli aranci sono arrivati quasi i quattro lire il chilo!..

Morale : Far cadete una donna è sempre una spesa!

Questo è Billi. Umorista, pur rimanendo semplice, buon figliolo, carattere franco romano, appassionato del suo lavoro. Classico tipo di capocomico sgobbone e coscenzioso, innamorato del suo pubblico, cui vorrebbe dare sempre di più, sempre di meglio, nemmeno accorgendosi di offrirgli quotidianamente già molto.

Nino Capriati, «Film», 1 giugno 1940


1940 06 06 Tempo Nuto Navarrini intro

Navarrini ragiona con le più lodevoli intenzioni, anche in questo senso è molto milanese. Gli si perdona volentieri l'automobile color crema e il soprabito di gran pelo perché restano nei limiti dei giovanili errori: a sessantanni Navarrini avrà ancora le debolezze che Jouvet riassume in quel fazzoletto cascante dal taschino del memorabile attore Saint-Granier.

Cesare Zavattini, «Tempo», anno IV, n.54, 6 giugno 1940


1940 06 15 Film Arturo Bragaglia intro

Arturo Bragaglia, fratello del regista Carlo, e del famoso «corago» Anton Giulio, è l'autore delle fotografie di moltissimi film che si girano a Cinecittà. La piccola firma o il contrassegno timbrato «Foto Bragaglia - Cinecittà» che avete visto stampigliato su migliaia di fotografie o riprodotto sotto alle fototipie dei giornali, vuol dire che altrettante volte un obiettivo è stato messo a fuoco da un ometto tutto nervi, quasi calvo, occhi a palla e voce chioccia: Arturo Bragaglia. Questo ometto ha del resto un suo già vastissimo pubblico, perchè, oltre ad essere provetto fotografo, è anche personalissimo attore. Per lo schermo egli infatti ha creato una serie di riuscite macchiette, che hanno sempre avuto un autentico successo. Certamente tutti ricordano Lulù, il «giovane» di studio del comm. Larussi (Falconi) in «Documento» di Mario Camerini. E tutti ricordano il direttore di tabarin nel film di Macario «Imputato, alzatevi !» e la sua impassibilità nel ricevere tòrte in faccia. Ricordano il marconista di «100.000 dollari» e, quando il film sarà pioiettato, ricorderanno il servo spaurito di Paolo Viero e di Enrico Viarisio ne «Il capitano degli Ussari».

Macchiette, figure comiche tratteggiate con grande facilità, personaggi di sicura presa sul pubblico, caratterizzati da un tic nervoso all’occhio, da un modo curioso di arricciarsi il baffo, o da una leggera e appena accennata balbuzie. Bragaglia attore fa decisamente concorrenza a Bragaglia fotografo per molta gente dell'industria cinematografica. Ma francamente, io che conosco a fondo le sue possibilità nell’uno e nell'altro campo, sarei contrariato un giorno nel sapere che Bragaglia ha abbandonato definitivamente la fotografia per darsi al cinema militante.

La fotografia è il suo pane e la sua speranza segreta: chissà che pensa di fare un giorno con la sua diabolica macchinetta, con le sue lastre al bromuro, con i suoi schermi, le sue bacinelle corrose dagli acidi che tingono di marrone le unghie, lui die nella sua vita di fotografo ha creato un genere assolutamente personale, come le fotografie in movimento, o quelle futuriste, se non addiritura le cosidette fotografie «spiritiche».

— Le fotografie spiritiche — mi dice Arturo — hanno avuto un enorme successo specialmente in Inghilterra e in America. I circoli spiritici di Londra e di New York me le pagavano bene e con sollecitudine e a me non mancavano certo le idee. Qualche volta pregavo i mici fratelli di posarmi come medium, se non addirittura come ectoplasma. Uno di essi, Carlo, si era anzi specializzato in questo ramo, coadiuvato da una signorina che faceva la giornalista. da mia sorella e da altri parenti. Erano fotografie fatte in famiglia come in famiglia nacque la passione comune per la fotografia, fin da quando tutti avevamo i calzoni corti. La prima macchinetta era una vera scatola: noi passavamo le notti a sviluppare gli ingrandimenti delle fotografie fatte agli amici. Tutto gratis. A quell'epoca c'era un fotografo rispettabile ed era Eugenio Fontana :" aveva un gabinetto a Piazza Colonna sopra Egidi. Mio padre era curatore di un fallimento: c'era una casa ricca, piena di oggetti e fra questi anche una bella macchina fotografica, cavalletto lungo, di legno giallo e una serie di obiettivi. Pensò di regalarla ai suoi figli, lo ero il meccanico di casa e a me venne affidata. Anton Giulio stava tutto il giorno al Palatino accanto a Boni, maniaco di archeologia.

1940 06 15 Film Arturo Bragaglia f1

Riconosco tutti i personaggi che Bragaglia ha finora interpretato sullo schermo: come Lulù ha strizzato l’occhio, quando mi ha parlato della passione per l’archeologia di suo fratello Anton Giulio, come il marconista di «100.000 dollari» mi ha guardato sospettoso nel parlarmi della sua prima macchina fotografica.

— Fu proprio con quella macchina che iniziai la mia vera carriera di fotografo, abbandonando il liceo Terenzio Mamiani, il latino e la filosofia, per i volti delle attrici famose d'un tempo: la Menichelli, la Bertini, la Borelli, Hespcria... Divenni il fotografo delle attrici e degli attori, nel mio studio di Via Condotti passarono i nomi che facevano impazzire le folle, interpretando il ruolo di una contessa la cui villa è il Museo Borghese. Ero introdotto nell'ambiente: dal mio studio venni trascinato nella produzione dei filtri, nei teatri di vetro di un tempo, fra le attrici che si attaccavano alle tende e i giovani baroni che si chiamavano Bonnard, Collo, Serena e che avevano gli occhi pesti di bistro. Cominciai a fare le serie fotografiche : il primo film fu «Sole» di Blasetti. Da allora, pur mantenendo il mio studio per il ritratto d'arte, non mi stancai di girare da un teatro di posa all’altro, a fare serie per i film, sempre più in fretto, sempre più rapidamente, tanto che oggi quasi non dico piu «Fermi ! Fatto», ma rubo un'espressione curiosa nella brevissima frazione di tempo che gli obiettivi mettono a mia disposizione.

Mi guarda ancora Come Lulù e ancora strizza l’occhio e sorride: ma nel suo sguardo leggo una leggera malinconia... Tempi lontani, una vecchia macchina a cassetta, di legno giallo, il fratello con un lenzuolo addosso a fare l'ectoplasma.., Tempi lontani.

B.L. Randone, «Film», 15 giugno 1940


1940 07 27 Film Elli Parvo intro

Non faccio per dire, ma «Film» ce l'ha già il suo cantore patentato, addetto all'unzione dello stelle fisse, delle comete, degli asteroidi di Cinelandia: «Film» dispone di un poeta coi controfiocchi, Diego Calcagno, che prodiga incensi a tutte le brave ragazze che gli capitano sotto, improvvisando strambotti curiosi e sgangherati che mi fanno ricordare la nostra musa veterana di zona di guerra.

Era una notte placida:
la luna sorgea silente
e a me faceva male un dente.
Un'ombra si staccò dal muro.
Oh, ciel, che veggo!

(E all'aspirantino novizio, al quale imponevamo di declamare questo pezzo, i «veci» — forse presentendo un attacco aereo — gridavano in coro, profeticamente; — Stukas!). Dunque, vista l’inopportunità di mettermi anch'io, come brillante secondo, sotto il verone col liuto ad armacollo, mi sono dovuto scegliere un altro ruolo: e mi sono permesso di scherzare con le dive che sono scese indegnamente fino a me. Mal me ne incolse. Mentre quel furbo di Calcagno, ci scommetto, riesce a scroccarsi degli incerti con le .sue faticho pindariche, io non mi sono fin qui buscato che un supremo disprezzo. Dio mio, che mi è mai uscito dalla penna?

Fatto sta che, dopo avermi sorriso, a pubblicazione avvenuta dell'articolo, tante illustri attrici non mi hanno nemmeno degnato di una semplice telefonata: e poiché è da escludersi che questo voltafaccia sia da attribuirsi — ohibò — a difetto di educazione, bisogna dedurre ch'io riesco sempre a dispiacere a questo benedette donne. Sta scritto lassù. Venuta la volta di Elli Parvo, ho pensato se non fosse meglio sfornare, anziché un pezzo burlesco e sfottitorio, una bella poesia scalcagnata. Non é poi tanto difficile:

Elli Parvo, sapore di caffellatte
s'infila le ciabatte
dal Kadirè
a sale sul canapè
così,
come sale la luna in tassì.

(L'importante è che non ci si capisca un accidente). Ma è più forte di me: con la poesia e con la galanteria, io non ce la faccio. E anche questa malcapitata Elli Parvo deve prendermi come sono. Prevedo che, uno di questi giorni, con quegli occhi all'acido nitrico e quella bocca aggressiva, ella mi attenderà sul portone di casa.

Elli Parvo si presenta decisa col passo cesareo della sua prepotente femminilità. Indossa un abito torrido come la sua natura: blu, cromato sul petto da una larga fettuccia di seta vermiglia, che le conferisco un’apparenza di crocerossina di compagnia della morte. Siede con l’aria di non trovarsi a suo agio in una vasta e accogliente poltrona: preferirebbe forse la groppa di un tarpano tartaro. Sorrido: e il volto si sdoppia, giacché il largo sorriso non supera i pomelli e gli occhi conservano quel piglio estatico e grifagno di feticcio indù : i denti serrati hanno pur sempre una voglia di mordere. Dà il senso di una forza elementare, di un prodotto di cava, di uno energia tellurica. Giro con prudenza l'interruttore per stabilire il contatto, quasi col more di una scarica elettrica.

— Che mi dite della cartiera cinematografica?

— Bella carriera! Piena di delusioni...

— Come! Se proprio in questi tempi siete stata assunta tra le stelle di prima grandezza!

Elli accenna una smorfia.

— La strada è ripida, piena di svolte e d'imboscate. Non sono sempre le qualità che contano no i criteri artistici che prevalgono. Intorno all'osso di una parte, si accaniscono sempre dieci concorrenti. La prescelta è troppo spesso la prediletta. Le necessità del film, l'amore all’opera da creare, passano in secondo piano...

L'avevo udita altre volte questa storia che il film serve, prima di tutto, al regista o al produttore per coltivare certi nepotismi. Ricordando alcuni recenti polpettoni, penso se essi non siano stati insaccati per offrire una parte importante alla pupilla esigente. Ognuno ha il proprio cavallo di battaglia che viene portato regolarmente ai nastri qualunque sia il genere della corsa. Ci sono, é vero, le cosiddette esigenze artistiche: ma chi si cura di queste quisquilie? Gli afferri sono affari, anche se di cuore.

— Come vi é venuta questa matta idea di darvi al cinema?

— La prospettiva di figurare in una parte, agli occhi di tanto pubblico, lusinga sempre la vanità femminile. Si pensa di andare per il mondo sulle ali della fama, di far echeggiare il proprio nome ai quattro angoli dell’universo, di coniare la nostra immagine nella memoria dell'umanità. La prospettiva esalta e seduce. Un giorno, mi si propone di interpretare una parte, al Cine Guf. Lo spiraglio socchiuso mi si prospetta come uri grande varco spalancato in uno sbarramento. Greta Garbo, Marléne Dietrich, Myrna Loy, sono fritte. Mi sento in grado di Interpretare parti michelangiolesche. Giro il mio primo film con la persuasione di aver posto una pietra miliare nel cinematografo. Alla prima visione in pubblico, sona invitati tutti gli amici e conoscenti: mi metto in prima fila a giudicare me stessa. Doccia fredda. Io, che rite-nevo di aver monopolizzato l'obbiettlvo. mi ritrovo in un piccolo scorcio, semplice comparsa. Rimango mortificatissima e giuro che, come Roma non ebbe quelle di Scipione, il Cinema non avrà le mie ossa. Ma quel primo modesto esperimento ha sortito l'effetto di felini qualificare fotogenica dagli esperti. Altre proposte più ragguardevoli mi vengono offèrte. Chi resiste in tal momento? Comincia cosi il film della mia vita cinematografica, che si sgrana da «Gli uomini, che mascalzoni)» attraverso «Arditi civili» (Il primo film in cui figuro come protagonista) fino a «La donna perduta»...

— Siete finita male. E... quale parte preferite?

— Ciò non ha importanza. Ha solo importanza la classifica in cui il regista inamida il nostro tipo. Io sono stata decretata «tipo di donna fatale»: e se non c'è una parte di donna fatale non se ne parla.

Io mi sono sempre rappresentato questo tipo di mammifero nella donna dalla bocca a purgativo, dalle palpebre a mezz'asta sugli occhi semispenti dall'andatura spossata, dalla voco d'oltre tomba. Invece, capperi, questa Elli Parvo é un pezzo di ragazza fiorente e ridente come un papavero, piglio spedito, senza imballaggio, tira che non c'è papà. Mi viene il dubbio che questi mascalzoni di registri me la confezionino per lo schermo in tutt altro modo. Il cinema è un diabolico laboratorio in cui lì ricavano una sirena dalla donna cannone o un'otèra da un girarrosto.

— Voi, donna fatale? — mi scappa detto.

Elli Parvo considera il mio stupore come un'opinione di inefficienza e mi spara addosso un'occhiata bruciante. Mi rialzo prima del limite e cambio precipitosamente argomento.

— Che progetti avete per l'avvenire? Elli Parvo nasconde senza dubbio, nel settore cinematografico, delle ambizionii superbe. Infatti rimbecca senza esitare:

— Ho rintenzione di prendere marito e di mettere al mondo venti figli. Ecco il mio sogno.

(Bisogna ricordare che nel film «Gatta ci cova» Elli Parvo sosteneva strenuamente che era stata resa madre di due gemelli da un semplice bacio. Capirete che, per lei, venti figli sono una miseria).

— Ma questo non è un sogno: è un incubol — protesto.

— Leggete il «Messaggero» voi?

— Ahimè, sì.

— Ebbene, presto leggerete nel «Messaggero» questo annuncio: «Diva con piccola dote cerca signore stimabile scopo matrimonio».

— Se non aveste tante esigenze, mi offrirei io. Io sarei il tipo del marito modello.

— Voi!

— Quello del marito modello è un vizio atavico della mia famiglia. Pensate cho un mio antenato, a novant'annl, adempiva ancora i propri doveri verso sua moglie.

— Eh, via!

— Eh la tradiva. Ma ditemi una cosa di nessuna importanza: a quanto ammonterebbe questa dote?

— Indovinate.

— Così così?

— Di più!

— Il doppio?

— Oh, allora é troppo! Facciamo cinquantamila.

— Si tratterebbe forse di franchi?

— Oh, no. Di lire.

Poiché non riusciamo a metterci d'accordo su questa dote, cambio un'altra volta registro.

— Non avete nessun altro film da fare, presentemente?

— Sono in trattative. Forse farò anche, tra breve, un film in lingua tedesca.

— Brava: e la lingua, chi ce la mette?

— Io. Parlo la lingua tedesca come l'Italiana. Ho già fatto «Mia moglie si diverte» nelle due versioni.

— Siete dunque a doppio uso, come le ex-stoffe inglesi: una specie di asse cinematografico Roma-Berlino.

Chiacchierando con una bella figliola, non è mai male tentare un piccolo sondaggio nelle acque strettamente territoriali:

— Il cinema pare non vi lusinghi più: qual è allora la vostra attuale passione? — insinuo.

Elli Parvo si accende di una luce nostalgica e patetica: esita a sfornare questa confidenza: alla fine, a bassa voce, si lascia indurre. Via, non lo dirò a nessuno.

— La mia attuale passione — mormora — è rappresentata dal gioco dal calcio.

— Tò.

— Giustappunto. Ma anche il lì le cose non vanno.

— Ahimè!

— Perchè, per esempio, i portieri delle due squadre avversarie hanno entrambi la stessa maglia nera? Ciò provoca spiacevoli equivoci. Vi racconto un fatto. Io sono tifosa della «Roma». Mi recai ad assistere ad una partita infuocata. Uno dei due portieri, da me giudicato quello della squadra ospitata, incassò due magnifici palloni. Io mi sgolavo, entusiasta, ad applaudire. Non capivo perchè il pubblico mi guardasse in cagnesco. Cercai d'informarmi. Perdinci, quel portiere che aveva lasciato passare con olimpionica disinvoltura quei due superbi palloni nella propria rete, era invece proprio quello della «Roma». Ma come potevo distinguere, se i due guardiani non avevano alcuno speciale contrassegno?

— Avete ragione da vendere. Pare impossibile che, finora, nessuno ci abbia pensato. (I portieri, che mascalzoni)

L'intervista è bruscamente interrotta da un tragico incidente. Elli Parvo scopre d’un tratto che furtivamente, senza alcun preavviso, una calza si sta sfilando: ella balza in piedi inviperita e starnazza qua e là per la stanza con l’aria di cercale un'arma. No, cerca solamente il pentolino della colla per impone un ferrmo a quella emorragia serica. Nel parapiglia, quella gamba infinitamente spirituale trova modo di mettersi in luce. C è sempre chi ci pensa.

— Lasciatemi scappare, primi che questo guaio diventi irreparabile. Ve la immaginate una diva con una calza sfilata?

— Mi fate pensare a quel maresciallo di Francia al quale, nell'atto di balzare sul palafreno dinanzi all'esercito schierato, scoppiarono in pieno i pantoloni.

La potenza del raffronto la mette decisamente in fuga.

— Arrivederci!

Senonchè, il giorno seguente, Elli Parvo fece nuovamente capolino, d’improvviso, nel mio ufficio:

— Scusatemi. Ho un pentimento.

— Voi? Impossibile.

— Impossibile, ma vero. Vi prego di non parlare, nel vostro articolo, di quei venti figli; sono troppi.

— Ma voi li fate a colpo d'occhio! E poi, bisogna aderire in qualche modo alla campagna demografica.

— Allora, facciamo dodici. Una piccola dozzina.

— Bè, facciamo pure.

— Mi raccomando, non scherzale troppo su questo argomento. Non sia come sempre, imperdonabile!

— Riferirò tutto con una misura accademica. Vi tratterò con tutto l'incenso dovuto ad una stella di prima grandezza. Parola d'onore.

Ora, se non mi richiamano d urgenza sotto le armi, arrischio di giocarmi la pelle. Il meno che mi possa capitare è che Elli Parvo non mi saluti più e che, come le sue colleghe, parlando di me, mi collochi tra i più illustri malfattori vissuti dall’epoca delle palafitte ai nostri giorni. Che farci? Maktub! Sta scritto.

Carlo Salsa, «Film», 27 luglio 1940


1940 08 31 Oggi Ettore Petrolini Raffaele Viviani intro

Ettore Petrolini, come c’informa suo figlio nella prefazione a certi scritti postumi dell’attore, fu detto : «una fontana di Roma», e questa ci pare una definizione molto bella a patto di non pensare alle culturali fontane di Respighi e di tener presente, invece, una di quelle fontanelle rionali fatte con un mascherone di stucco ma dall’umore inesauribible e dalle origini-che si perdono nella toponomastica medievale. Di un mascherone (il naso e la bazza avrebbero finito, col tempo, per incontrarsi, sotto lo sguardo patetico dei buonissimi occhi) Petrolini aveva l’aspetto : ma noi soprattutto vogliamo ricordarlo come l’unico attore che sia stato capace di superare l’orticello del dialetto e di esprimere gli aspetti buffi della sua mirabolante epoca con un linguaggio nuovo, «curioso» e un gusto preciso che gli veniva da una tradizione istintiva.

Senza saperlo era un «lacerbiano» e allegramente passò gran parte dell’esistenza a osservare gli usi e costumi della sua generazione e a circondarli di sospetto presso un pubblico che si faceva man mano più avvertito. Sicché, alla fine, più di tutti ad apprezzarlo, furono quelli che lui aveva un tempo preso di mira, cioè gli intellettuali (veri o falsi, come si fa a distinguerli di colpo?) e i buoni borghesi : destino, questo, inevitabile per ogni autore satirico.

Petrolini venne fuori al tempo della guerra di Tripoli, cioè in piena reazione al neo-romanticismo. Il secolo diciannovesimo traballava sotto un cumulo di abitudini e a un desiderio di vita fervida non corrispondeva una uguale condizione di libertà mentale. L’attore, nel suo campo, in maniera non meno efficace di quanto facevano i letterati nel loro, sfiorava col ridicolo, per la prima volta, idee incrollabili e secolari, dava colpi maestri al cattivo gusto, all’esibizionismo, all’aria viziata. Il pubblico prima s’indignò, poi cominciò a ridere. Parecchi idoletti cominciarono, da un giorno all’altro, a trovarsi senza piedistallo : gli «scherzi» di Petrolini rarefacevano la buona fede che, soltanto, permette il vivere indisturbato di certi fenomeni sociali. La società cambiava pelle e Petrolini indicava i brani prossimi a cadere. Di conseguenza, p. es., gli scrittori non ebbero più il crampo degli scrittori, le donne fatali finirono nelle caricature, le «grandi» attrici vennero riportate ad una più umile misura di sé stesse; scomparvero, per qualche tempo, i conferenzieri, gli spaccamonti e i calamai agli occhi.

Tutto ciò che non doveva essere più preso sul serio si trovò in difficoltà, una folla di snobs rimase scoperta e immobilizzata dal ridicolo, l’umorismo prese strade nuove, insegnò a sorridere e a «prendere in giro». In fondo a Petrolini, più che un Pulcinella, c’era un Teofastro o un Tackeray che si serviva di ogni mezzo per illustrare i vizi inutili dei suoi contemporanei. Far girare su un fonografo i dischi di Petrolini, equivale a ritrovare un mondo perduto di cui ci dimentichiamo spesso l’esistenza. Usufruendo l’esperienza dei futuristi fa sapere ai poetini del millenovecentododici che anche il suo animo è pieno di cose inespresse, p. es. «desiderio di morire, salamini e caffelatte».

Perché non credere che l’ondata dei viveur* del dopoguerra fu rovinata in parte dalla ferocia dei suoi ritornelli? Il suo giovane gaudente si alzava dopo una notte «d’orgia» e implorava : «Nina - prestami la cocaina - ché la prendo a colazione - pensando a Gastone» : dove si vede che l’idea del prestito» e della «colazione» mischiata alle pratiche viziose finiva per ridicolizzare queste irreparabilmente. La satira petroliniana era indulgente e comprensiva, romana e cattolica, perciò si riscattava.

La sua disposizione a spingere il gioco agli estremi doveva creare il «petrolinismo» degli imitatori che credevano il gioco molto facile. Ma il nostro attore aveva un fondo di malinconia classica cui appoggiarsi e quanto sembrava in lui superficiale c incosciente veniva invece dalle sagge radici romanesche e dalla placidissima convinzione dell’inutilità d’ogni cosa. I suoi aforismi elementari, che tagliano il nodo c scoprono l'autodidatta, ce lo mostrano come il primo innocente esemplare di «scettico blu». (e L’uomo è un pacco postale che la levatrice spedisce al becchino». «Fortunato l’attore cui nessuno ha insegnato a recitare perché cosi, non sapendo recitare, reciterà benissimo»).

Petrolini morì in un appartamento di una casa «razionale» di pessimo gusto, con un cipresso che gli svettava proprio davanti alle finestre. Non amava quei tipi, scomparsi e poi riapparsi sotto altre vesti, che sfoggiano il gran vocabolario e si compiacciono d'ascoltarsi : perciò li utilizzava. In tutte le sue commedie c’è il personaggio che parla «pulito» e dice parole difficili. «Vacuo», «urge», «incongruo». Persino lo sciagurato Chicchignola, venditore ambulante, dice alla moglie : «Ti turba il dialogo?» * Dialoghiamo!». Il pubblico gli era riconoscente.

Appunto di Chicchignola la compagnia comica diretta da Raffaele Viviani ha ripreso le gesta sul palco-scenico dell’Eliseo, in questi giorni. Come può, pensavamo, il sentimentale e appassionato comm. Viviani entrare in panni così diversi da quelli «macchiettistici» che usa portare di solito sulla scena? Bisogna dire che i nostri dubbi sull’incompatibilità tra intelligenza e istinto sono stati risolti dalla buona volontà dell’attore napoletano. Viviani ha mostrato di capire Petrolini, ha lasciato intatta la tessitura del personaggio, il suo strabiliante linguaggio, la sua calma da finto tonto. Chicchignola è tornato a rivivere davanti a noi, dopo parecchi anni, con tutta l’evidenza necessaria.

Dopo i tre atti, che narrano la storia di un povero disprezzato, che si scopre alla fine per una persona di gran cuore e intelligenza (un motivo caro a Petrolini, certamente autobiografico), Viviani è ritornato sé stesso, recitando alcune macchiette napoletane. Ed ha finito con una sua poesia, composta in occasione della visita del Re a Napoli, che comincia con questo formidabile verso : «E permesso salutarLa? Benvenuta, Maestà!...».

Ennio Flaiano, «Oggi», 31 ottobre 1940


1940 09 21 Tempo Miseria e nobilta Raffaele Viviani intro

C'era un sipario — al Teatro S. Carlino — dipinto da Giuseppe Cammarano, che rappresentava una compagnia di comici napoletani condotti ad Apollo da una Musa. La scritta che illustrava tale ardita allegoria era la seguente:

Ad Apollo, Talia con volto lieto
le maschere presenta del Sebeto.

Laddove si vedeva il Musagete accogliere con sguardo contegnoso la coorte pulcinellesca che, per nulla intimorita dalle inedite visioni del Parnaso, pareva volesse aggiungere alla presentazione una definitiva presa di possesso: Hic manebimus optime.

Il vecchio sipario fu tolto da Eduardo Scarpetta, quando nel 1880 egli rinnovò il S. Carlino. Ma la visione di quella allegoria, con i quattro allampanati guittacci parte cipi alle mense di Zeus dovette imprimere certo al suo subcoscieute una spinta segreta, se otto anni dopo, il motivo dominante di « Miseria e nobiltà » resta lo stesso: proletari alla scalata della musa olimpica, battaglia di forchette.

Eduardo Scarpetta poteva parlare con la stessa competenza sia della miseria che della nobiltà. A sentire i termini della sua prima apparizione nella farsa « Feliciello Sciosciammocca mariuolo de na pizza » c'è già da antivedere in nuce la estetica tra affamata e furiosa che animerà Sciosciammocca negli anni seguenti, con un seguito di variazioni gastriche ed esofagee da fare invidia ai più famosi esegeti dell'appetito. da Tucklite a Rabelais, da Teofilo Folengo a Fabio Tombari.

Per diciassette lire l'esordiente attore aveva firmato con l'impresario del S. Carlino un contratto dove sobbligava a «...ballare, sfondare, volare, fornirsi di basso vestiario all’oltremontana, tingersi il volto, esser sospeso in aria e cantare nei cori ».

Ma a forza di descrivere miseria, Scarpetta aveva intuito la scorciatoia dell'Olimpo. E dopo appena dieci anni ria quel contratto i bilanci del suo repertorio divennero tanto grassi che « ...lo si vide capitare alle prove e alle recite del San Carlino in una elegante carrozza privata c si seppe che Sciosciammocca si faceva fabbricare un palazzo ». Sono parole corrucciate di Salvatore di Giacomo. Ma Scarpetta facendo — come suol dirsi — manichetto al corruccio, liquidò in due stagioni l'allora esorbitante bilancio di trentamila lire ed entrò con fermo e deciso passo nell’Olimpo dei Borghesi.

Non gli mancarono le lotte. Lo accusavano di avere soppresse le maschere per lasciarsi tentare dalla Musa discinta del vaudeville e i critici dei giornali partenopei auspicavano resipiscenze campanilistiche. Le lotte tra Hennequin e Pappo divennero il fatto del giorno. La città si divise in nuovi guelfi e ghibellini. Il 24 Gennaio 1881 il grande rivale di Scarpetta parve segnare un trionfo recitando: « Na mazziata morale fatta da Pulcinella a Sciosciammocca, ovvero l'apoteosi della maschera napoletana. »

Ma fu vittoria di Pirro. Scarpetta aveva dalla sua il nuovo secolo, col salvacondotto della mondanità incipiente. Mentre apparivano all'orizzonte i cavalli di Andrea Sperelli e i levrieri di Elena Muti, il povero Pulcinella — ultimo cireneo — spariva — col suo fagottino di stracci — da questa valle di lacrime.

E, al pulcinellicida, vennero il plauso dei pubblici di tutta Italia, le lodi dei principali centri della Penisola, l'onorificenza del Governo, che nominò Scarpetta, su proposta del Ministro della Pubblica Istruzione, Cavaliere della Corona d'Italia. La Compagnia di Viviani ha dato di « Miseria e nobiltà » una riesumazione ironica e stilizzata. Come a dire Pergolesi trascritto da Strawinski.

«Tempo», 21 settembre 1940


1940 10 03 Tempo Nino Taranto intro

Ho conosciuto in privato Nino Taranto, a tavola, dopo lo spettacolo. Eravamo nella casa di un amico. Non conosco una persona più normale di lui: tutti i suoi colleghi hanno qualche tic, Taranto sta quieto e composto, anche nel parlare, educato come il giorno della prima comunione...

Cesare Zavattini, «Tempo», anno IV, n.71, 3 ottobre 1940


1940 10 05 Film Laura Adani intro

«Laura Adani, capocomica». E' un bel dire, non lo si può discutere. Fa piacere vedere una cosi giovane attrice tanto sicura di sò da impiantare, di punto in bianco una compagnia di complesso, con un bel repertorio, con intendimenti elevati. E' proprio una delle nuove compagnie sulle quali il mondo teatrale, ha più gii occhi puntati (basta ascoltare i colleghi — o, meglio, le colleghe — quando stanne tra loro per rendersi conto di quanto la Adani faccia parlare di sé). Ma per il gran bene che le si vuole, a questo dannino, ora tenero come un passerotto ora scattante come un gattopardo, bisogna proprio dire : «Addio, cara Lalla nostra». Già, il lettore non lo sa o non se lo ricorda, ma Laura Adani sarebbe la «Lalla», e non solo per gli amici intimi, ma per tutti (cosi come Falconi è «Armando» o il «signor Armando» e mai il è commendator Falconi»), compagni, colleghi, amici, giornalisti. La Lalla pareva non dividere le giornate in ventiquattr'ore, ma in tanti momenti di gioia da distribuire a chi le chiedeva cinque minuti di ascolto e di comprensione. La Lalla aveva, si, i suoi pensieri, studiava tutta la notte, provava tutto il giorno, recitava tutta la sera, aveva da spicciare sarte, parrucchieri, modiste, calzolai, pellicciai, ma la Lalla cera per tutti. Adesso è finita la cuccagna. Addio, Lalla! Adesso la Lalla è proprio la Adani, anzi la signorina Adani (ma chi sarà quel disgraziato che si prenderà la briga, per primo, di trattarla con tanto sussiego? Noi, certo no), la titolare e la padrona assoluta (— Senza soci, — precisa sempre lei) della «Compagnia di Laura Adani».

— Dov’è la Lalla? — chiedono gli amici fedeli.

— La signorina è al Ministero, — risponda Guido Riva, suo impeccabile amministratore.

— Dov'è la Lalla? — chiede il giornalista di passaggio.

— La signorina è in Federazione — risponde un altro dei suoi innumerevoli amici-segretari (in fondo, questo volontariato alla segreteria di Laura Adani ò un modo come un altro per rubarle con la forza tutti i cinque minuti di libertà che le rimangono tra un'udienza, un colloquio, un appuntamento e l'altro).

1940 10 05 Film Laura Adani f1

V'è forse una sola creatura al mondo che abbia ancora il bene di avvicinare la Lalla: Mio. Da Mio la Adani non vuol farsi vedere capocomico. A Mio abbiamo affidato la Lalla, quella tale Lalla dei tempi passati (che torneranno, perbacco, quando la compagnia si scioglierà per meritato riposo) che per tanti anni ci è stata amica e adesso non esiste più per noi. Mio ha l'incarico di tener vivi quegli istanti di spensieratezza che accendono gli occhi della sua padrona come due fuochi d'artificio. Mio ha avute, inoltre, da tutti noi l'ordine perentorio di sacrificarsi con qualche piccola «bua» (la puntura di una vespa, il codino stretto nell'uscio, il postumo di un'iniezione anticimurrica) perchè la padrona sia obbligata a trovare il tempo di sfogare un po’ di tenerezza. Mio (scusate, ci siamo dimenticati di dirvelo) sembra ancora una pecora, ma prima della riunione della compagnia sembrerà un leone perchè è un cane, un cane barbone al quale fra un mese e mezzo sarà tosato il manto di rlccetti neri e saranno pettinati due bellissimi baffi da commendatore.

Prima, quando la neo-capocomioa era ancora allo stadio «lettura di copioni». un po' di Lalla era rimasta per noi: magari solo al telefono, magari solo di sera sulla terrazza di qualche amico o a pranzo da «Nino». Del resto, era sempre possibile discorrere di una commedia nuova e trovare cosi la scusa per cui la sua coscienza sarebbe stata a posto. Adesso per scritturare la Galletti o la Pescatori, por passare la parte alla Verdirosi, per consegnare i copioni a Cortese o per discutere con Scelzo non serviamo a nulla. E allora? Allora si ricorro agli strattagemmi più strani: le si telefona alle due di notte per dirle di correre da noi al più presto possibile perchè abbiamo sottomano certi figurini sbalorditivi e se non viene subito... La si avverte che un traduttore dì nostra conoscenza avrebbe da sottoporle una commedia interessantissima, una commedia che, è strano a dirsi, non potrà leggere che lui, perchè lui solo può decifrare la propria calligrafia (la traduzione, naturalmente, è dattiloscritta...); e, poi, alla fine del primo atto, sul più bello della vicenda, la si prega di avere tanta pazienza, perchè gli altri due non sono ancora a posto e bisognerà che ripassi fra qualche giorno; intanto si può fare quattro chiacchiere... Naturalmente (io avete già capito) gli altri due atti le saranno somministrati uno per volta, cosi ci entra la chiacchieratina..., benché fossero tutti o tre pronti fino dalla prima sera. E la Adani ci cascherà, facendo finta di credere alle nostre fandonie, perchè c'è in lei la Lalla che ha tanto desiderio, se la Adani glielo consente, di trovato una scusa di lavoro per stare qualche ora con un gruppo di vecchi amici o di fare un po' di baldoria.

Ma, poi, quando le si è messo il sale sulla coda e ci si illude di poterla tirar fuori da questi benedetti discorsi di attori, di repertorio, di registi, di scenografi di poterle ricordare lo stello, la luna, il tramonto di Stresa e l'ascensore di Amalfi, ecco che, per una abilissima dissolvenza, gli scaruffati capelli della Lalla tornano ad essere i ravviatissimi boccoli della Adami e salta fuori la capocomica che toma a contarsi sulle dita le commedie del suo repertorio e il programma del suo lavoro nell'immediato presente, nell'immediato futuro, nel lontano avvenire. L'altra sera, siccome Mio era a dormire e non c'era proprio modo di «smontarla», l'abbiamo lasciata snocciolare la lunga lista del suo repertorio:

— Ne sono tanto orgogliosa — diceva —; perchè non volete sapere quante belle commedie sono riuscita a mettere insieme a forza di leggere e rileggere copioni di oggi, di ieri e dell'altro ieri?
— Certo che vogliamo saperlo tanto più che siccome fino a marzo noi romani non avremo nè la Adoni, nè la Lalla, è meglio potercela almeno immaginare alla ribalta.

1940 10 05 Film Laura Adani f2

— Ho tre belle riprese italiane: «Frutto acerbo» di Bracco; «Il fiore sotto gli occhi» di Fausto Maria Martini; «Le vergini» di Praga; tra quelle estere, oltre, s'intende, la mia «Signora delle camelie» «Candida» di Show, «Casa di bambole» di Ibsen, «Un mese in campagna» di Turghenlev, «Anima allegra» di Quintero.

— E di moderno?

— Una commedia di Gherardi della quale ancora non conosco il titolo; «Piovuta dal cielo» di Folgore. «Edizione straordinaria» di Gaspar Boni; e, se i suoi indaffaratissimi autori (ma quanto lavoro hanno questi benedetti autori) me la finiranno in tempo, un'altra bella novità, ma è cosi importante e cosi eccezionale che non ne voglio rivelare, per ora, le generalità. Se saranno rose, fioriranno...

— E di estero?

— Una divertente commedia tedesca: «Le quattro associate». E una commedia americana alla quale tengo mollo e che mi diverte oltremodo di mettere in scena: «Una famiglia di Filadelfia» di Philip Barry.

Forse se non avessimo udito questa sfilza di titoli, non ci saremmo resi conto della sua fatica e solo adesso, crudeli che siamo!, abbiamo una grande comprensione per questo donnino. dal volto cosi infantile e dalla volontà così matura, che coraggiosamente si dibatte tra autori, attori, registi, scenografi e figurinisti. Ormai, fino all'estate ventura, la sua mente dovrà continuamente dividersi in due scompartimenti-stagno : quello dell’attrice e quello dell'industriale; arte da un lato e affari dall'altro.

— Chi sta al di fuori di tutto, chi ci vede soltanto in palcoscenico, noi donne capocomiche, pare ci prenda in giro quando viene in camerino ad esclamare: «Che bella vita, questa! Tutta dedita all’arte, senza pensieri vostri, presa dal personaggio, dalla vostra interpretazione». Non si accorgono, questi spettatori entusiasti e affettuosi ma tanto incomprensivi, che noi capocomiche dobbiamo avere un po' lo spirito della madre di una grande famiglia: tanti figli da vestire, da nutrire, a difendere, da accontentare, senza mai potere, neppure per un istante, concederci il lusso di un «fate voi!».

Se non sapessimo con tanta certezza che le spalle di Laura Adani sono costruite su fili d’acciaio e che la sua forza è tale che neppure un'ora di chiacchiere può distoglierla un istante dal suo preciso dovere, ci dovremmo buttare al suoi piedi per implorare perdono, perdono per chi ha voluto, anche in un siffatto groviglio di preoccupazioni, di responsabilità, di progetti, di desideri, di attese e di speranze, chiedere alla cara Lalla, alla Lalla spensierata di una volta, di soffocare per un istante la indaffaratissima signorina Adani di oggi.

Paola Ojetti, «Film», 5 ottobre 1940


1940 10 12 Film Andreina Pagnani intro

1940 10 12 Film Andreina Pagnani f1Si può dire che Andreina Gentili Pagnani è comparsa alla luce della ribalta in vesti di attrice solo nel 1927, al teatro Nazionale di Roma, in occasione del fugace ritorno alle scene di Tina di Lorenzo. Era una recita di beneficenza, e si rappresentava il Ventaglio di Goldoni. Pochi si accorsero allora di Andreina, che veniva dalle filodrammatiche: e mi sembra, oggi, che la soavissima giovinetta romana fosse lì, sulle scene del Nazionale, non per partecipare alla serata goldoniana ma per raccogliere materialmente l'eredità artistica e fisica di Tina cui singolarmente rassomigliava : la sua bellezza, la sua fragranza, la sua voce d'oro, la sua grazia, il suo naso aristocratico ricordavano infatti con insistenza la grande Tina. Era l'inverno, e Tina tramontava definitivamente sulle scene, avvolta in una luce portentosa: mentre Andreina sorgeva, come un arcobaleno su un cielo di pioggia.

Tre anni dopo, Gian Capo, dovendo formare la compagnia del «Teatro d'arte di Milano», si ricordò di lei e la volle prima attrice. Così Andreina iniziava la sua carriera stabile tornando a Goldoni, come Moglie saggia, e dando subito la misura delle sue grandi possibilità artistiche coll’interpretare figure di donna le più contrastanti in commedie difficilissime: quali La vita è bella, Ma Costanza si comporta bene? Il Borghese romantico, La corte dèi miracoli.

Da quel lontano 15 febbraio 1929 ad oggi, per Andreina Pagnani è stato un succedersi, un inseguirsi di vittorie: prim’attrice in tutte le compagnie più importanti (fino a quella del «Teatro Eliseo», che ora ha lasciato per formare un complesso di cui sarà capocomica) è stata inoltre chiamata per rappresentazioni di carattere eccezionale: come quelle del Mercanti di Venezia, del Bugiardo, del Ventaglio, della Bottega del caffè, di Sant’Oliva, dell'Aminta, dei Giganti della montagna, di Francesca da Rimini. Sarebbe lungo elencare le altre commedie di repertorio nelle quali si sono particolarmente rivelate le sue doti di squisita sensibilità scenica (sa, come poche, il valore delle pause), di naturalezza istintiva, di intuito vigilante, di spontaneità recitativa. Certo, sopravanza tutte le interpretazioni quella di Sant'Oliva, che resta indimenticabile ed, insuperabile per l'immediatezza, il trasporto e l’effusione con cui ella compose e rivisse quel personaggio che sembrava tutt'un palpito della sua anima.

***

Andreina Pagnani può esser definita l’ape regina del teatro di prosa italiano: indubbiamente è la più innocua e la più remissiva delle nostre attrici. Soltanto con occhio superficiale o malevolo, si può vedere in lei la donna fatta per la pacifica vita borghese: qualcuno ha detto che la Pagnani è un’attrice borghese anche nello spirito e si è lasciato in tal modo ingannare dalla sua calma esteriore, dalla sua aria flemmatica, dalla sua impassibile indifferenza, dalla sua prudente pigrizia.

E' tutta qui, all'opposto, la personalità della Pagnani: in questo atteggiamento schivo di ogni preziosismo, in questa magica stanchezza, molle e struggente com’è quella che prende nei giorni di colma estate. La stessa massa soffice dei suoi capelli impastati di sole le pesa voluttuosamente sul collo e sulle spalle; la stessa sua voce morbida e pastosa, tiepida e suadente, che «ricama» ogni commedia da lei recitata, è piena di languore (altrettanto è del suo volto); lo stesso suo corpo snodato ed il suo incedere molle sembrano materiati di abbandono. Andreina è una donna fatta per smarrirsi; la sua bellezza è sempre in uno stato di grazia: sembra d’alabastro, pallida e trasparente nella sua soavità morbida e luminosa; quasi fiamma senza colore, incima e silenziosa, nella sua interezza fisica che si sfinisce estatica: e, se il paragone non fosse stato già trovato per altra attrice e lei non avesse interpretato una certa commedia di Benelli, direi che Andreina è proprio una orchidea umana.

***

Con tutte queste qualità di attrice eccezionale e di donna adorabile, Andreina Pagnani è stata ripudiata, o dimenticata dal cinematografo: da quel cinematografo che fino ad oggi si è nutrito di teatro: per i soggetti, per gli attori, per le voci. (Delle attrici straniere la Pagnani ha doppiato la Shearer, — alla quale si avvicina molto e non solo fisicamente —, la Reiner, la Dietrich, la Wieck, la Balin, etc.).

La colpa non è della Pagnani, bensì dei film (Acqua cheta, Il presidente della Ba-Ce-Cre-Mi, La maestrina, Il serpente a sonagli) che le hanno fatto interpretare film a carattere comico sentimentale o di vecchio sapore romantico, senza alcun rilievo interpretativo e con una pessima ripresa fotografica.

Sono passati sei anni dall'ultimo suo film e c’è chi, per quella disgraziata eredità, dubita ancora della sua fotogenia; c’è chi dice che la Pagnani non è capace di costruire un personaggio cinematografico. Costoro, adesso, son ciechi e per di più non sanno che solo in teatro il personaggio va costruito dall’attore o dall'attrice, mentre nel cinema va costruito dal regista, inquadratura per inquadratura. Anche la più grande attrice, affidata alla direzione di un mediocre regista, fallirà la prova: gli esempi sono infiniti.

Ho visto alla «Scalera» un recentissimo provino della Pagnani, girato dall’operatore Ubaldo Arata: è un provino normale, improvvisato quasi, più una semplice prova di luci che uno studio di inquadrature o di espressioni e di atteggiamenti particolari. Ebbene, debbo confessare che mi sono sorpreso delle grandi e ignorate possibilità cinematografiche della Pagnani : il suo volto oblungo, che è plasticamente dei più armoniosi ed equilibrati, acquista ancor più in luminosità: l’incavo delle sue guance, che sembrano infoscate e turbate dal peccato come quelle di Marlène, ha un'ombreggiatura morbidissima che termina fin sulle molli labbra come in una conca riposante: la forte linea del suo mento deciso e lo slancio del suo collo reggono il profilo imperioso e lo valorizzano (non bisogna aver mai paura di mettere in evidenza le tipiche fattezze di un'attrice che servono, poi, a determinare il carattere del personaggio) : in fine le sue pupille, verdi ed azzurre insieme, s’immergono e s'annegano nel grande ovale dell'occhio dando al suo sguardo una profondità ed un senso di smarrimento incantevoli. Queste sono tutte qualità e particolarità precipuamente cinematografiche, che vanno studiate saggiate e sfruttate fotograficamente come richiedono l’attrice e la eventuale parte. Andreina non ha un volto classico e neanche un volto moderno, anzi non è una donna moderna se non per quel romanticismo che è rimasto ancor oggi nell'animo femminile come un fiore appassito, e lei ne è una appassionata rappresentante. Il volto di Andreina è settecentesco e, per complemento, anche ottocentesco: lei stessa cerca sempre di incorniciarlo all’antica, nel modo di ravviarsi i capelli con frequenti ondulazioni, con volute, con boccoli che richiamano ora le parrucche incipriate, ora le voluminose acconciature fine secolo. Non è superfluo ricordare la sua predilezione per Goldoni, o per gli autori dell'Ottocento e del primo Novecento post-romantici. Come temperamento, Andreina è, infatti, per tre quarti romantica, e questo s’intravvede anche dalla abituale espressione del suo volto malinconico e soave. In Carità mondana di G. Antona-Traversi, ella sembra scesa proprio da un quadro del Boldini, uno dei più vaporosi, e come un sospiro allora vien spontaneo di dire: «Andreina, dolce sogno!».

Francesco Càllari, «Film», 12 ottobre 1940


1940 11 24 Il Solco Fascista Compagnia Maresca«Il Solco Fascista», 24 novembre 1940 - Compagnia Maresca

1940 12 03 Il Solco Fascista Navarrini Bluette«Il Solco Fascista», 3 dicembre 1940 - Compagnia Navarrini Bluette