Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1948
Indice degli avvenimenti importanti per l'anno 1948
Maschera d'Argento luglio 1948
Indice della rassegna stampa dei film per l'anno 1948
Fifa e arena (Distribuzione 15 novembre 1948)
Totò al Giro d'Italia (Distribuzione dicembre 1948)
Totò
Articoli d'epoca, anno 1948
Una Miss al Giro d'Italia
La rivista di Totò al Teatro Nuovo
Le Vocazioni di Totò
Pioggia di croci e commende sulla democrazia
Ha ragione Totò
Totò al Giro d'Italia: impacciati i «girini» ma ancora più impacciati i loro «divi»
Totò e il «mago di Napoli»
Fifa e arena (1948)
Totò al Giro d'Italia (1948)
Un pubblico enorme e una festosa serata. La rivista di Galdieri ha la fortuna di migliorare di quadro in quadro, cosicché il successo dello spettacolo, vivo nella prima parte, si accentua nella seconda e alla fine e, grazie anche a un quadro di pittoresco effetto, culmina in applausi fragorosi. La rivista ha un filo conduttore. Muove dal mondo di prima, che era una sorta di paradiso, e lamenta che quello di adesso è un inferno. Per quale ragione? E Plutone manda un arcidiavolo a rendersi conto di tanto guaio. L'arcidiavolo e Totò il quale sale sulla Terra per vedere dove mai si sia nascosta la felicita di un tempo. La cerca dovunque, fra volti e maschere, fra camelie e rose e grazie femminili, fra le diaboliche figurazioni di un ballo mascherato delle nazioni ahimè, l'una contro l'altra armate e tutte dimentiche dei recenti incubi e dei passati i dolori: la cerca anche fra l'aria pura di Capri dove si sbollentano i superuomini e le super donne della mondanità effemminata e ridicolamente pagana e la ricerca persino sotto i ponti dei fiumi che fluiscono in una sgargiante teoria di figuranti e di ballerine che chiude la prima parte della rivista.
Ma l'arcidiavolo Totò è instancabile: ripreso lo spettacolo non rinuncia all'impresa, va in traccia dell'inafferrabile mito fra i misteri d'Egitto, fra le rose fiorite, fra i gioielli scintillanti, tra i rimpianti dell’abolita Consulta Araldica, nei vigneti lussureggianti della locanda di Mirandolina, nel vagone letto dei rapidi; dappertutto. Non sa più dove frugare, finché la trova nell'imprevisto. Tutti questi vari motivi sono altrettanti quadri e altrettante piacevoli invenzioni coreografiche e comiche nelle quali la compagnia di Totò ha sfoggiato canti, balli e buffonerie e Totò ha esilarato con la sua comicità paradossale e disarticolata di maschera e di “clown”, facendosi continuamente applaudire suscitando frequente clamorosa ilarità. Particolari novità nella rivista non ve ne sono pure offrendo essa scenette divertenti, dialoghi arguti e quadri brillanti e diffondendo un allegria che aumenta continuamente.
[...]
e.p., «Corriere della Sera», 22 gennaio 1948
Il teatro del dopoguerra è la rivista.
Un «tutto esaurito» al Nuovo di Milano non si vedeva da molti mesi, gli spettacoli di prosa non esercitano quest’anno una attrazione che consenta loro di arrivare a tanto. A esaurire il teatro non riuscirono Ruggeri, nè la compagnia di Sarah Ferrati, nè Dina Galli. C’è riuscito Totò, con un anticipo di due giorni, per la recita della nuova rivista di Galdieri C’era una volta il mondo. E c’è riuscito, naturalmente, aumentando i prezzi. La sera della prima, il pubblico fece a pugni per conquistarsi un posto in piedi e molti dovettero rinunziare ad avvicinarsi al botteghino. Chi era andato alla Scala per la prima della Norma, data nella stessa sera, in fondo se ne rammaricava e pensava di rifarsi, come difatti fece, alla seconda rappresentazione. Altro esaurito, altre migliaia di facce sudate a osservare le quali si pensava che nel corso delle repliche sarà possibile ridurre il riscaldamento nonostante la temperatura, fuori, sia alquanto ribassata. Un concorso così imponente di pubblico oggi fa paura, perciò si spiega in teatro la presenza di tanti militi della Celere. Intervento precauzionale. Per una buona commedia ne bastano un paio, per una rivista di Totò ne occorre almeno una ventina. E poiché in platea non si verificano incidenti, si divertono anche loro.
Lo straordinario concorso del pubblico agli spettacoli di rivista, è uno dei più imponenti fenomeni di questo dopoguerra. Wanda Osiris, Macario e Totò riscuotono consensi che i migliori cantanti e i migliori attori del giorno d’oggi non saprebbero neppure immaginare. Non si dice che questi tre mimi, queste tre maschere da molti anni conosciute, senza dubbio singolari, non meritino il successo. Lo meritano, e tra l’altro se lo sono faticosamente guadagnato. Non ci si meraviglia nemmeno che tanta gente vada ad assistere ai loro spettacoli, e certo non la si rimprovera per questo. Una questione, o meglio una domanda di questo genere, non avrebbe senso se ai dramma e alla commedia il pubblico non affluisse non soltanto meno numeroso, ma anche meno attento e sempre più svogliato. Il pubblico si allontana dalla prosa, e le ragioni sono più d’una. Ma, indipendentemente dalla legittimità di queste ragioni, è anche vero che il pubblico ha eletto a suoi campioni la Osiris, Macario e Totò. E li ha eletti a motivo d’uno stato d’animo diffuso. non sempre definibile ma però evidente, nel quale la adesione a questi attori, la simpatia e la loro bravura operano soltanto in parte. Totò, Macario e Wanda Osiris sono, loro malgrado, i divi della sconfitta.
Su Totò, sulla sua acrobazia metafisica, sulle sue risate gutturali, sui suoi occhi rotanti, esiste ormai una letteratura della quale si fece capostipite, più di quindici anni fa, il candido Cesare Zavattini. Totò è un clown stupefacente. ed è un mimo di razza. Ma ciò che in lui permane di originale, in lui come in Macario era già acquisito ai tempi dei caffè-concerto. Entrambi erano allora perfetti entro limiti ben definiti. Poi venne l’ora dei grandi teatri, dei palcoscenici enormi sui quali l’uomo solo diventa piccino e si smarrisce. I fondali rozzamente dipinti non bastavano più, due compari erano pochi, miseri i quattro strumenti dell’orchestra. Per far corona a sè stessi incominciarono a congegnar spettacoli con qualche pezzo di contorno, qualche balletto e qualche congegno scenografico. Di volta in volta si è cosi arrivati ai quadri abbaglianti, allo sfarzo dei costumi, agli eserciti di ballerine. Ogni nuova rivista è come un enorme palazzo nel quale di tanto in tanto il sipario si apre sulla stanzetta dei Totò e del Macario di un tempo.
Se quella stanzetta piaccia più dei resto è difficile dire. Il conformismo è un vecchio male al quale gli autori di riviste si sono presto adattati. Ci si è adattato anche Galdieri che con la sua scioltezza romanesca, finita la guerra, era sembrato tra i meglio indicati a ridar vita al genere satirico. Poteva uscirne qualcosa di vivo e di interessante; ma i proprietari di teatri e di compagnie, si capisce, non desideravano avere i carabinieri nei corridoi tutte le sere e vedere andar all’aria le poltrone. Meglio cambiare argomenti. Le sinistre sono tabù. Dei demo-cristiani non c’era da temere, ma a lasciarli stare si può sperare che chiudano un occhio sulle nudità delle ballerine, tenendo l’altro aperto. Del liberali non ride nessuno. In queste condizioni fanno le spese della politica le Nazioni Unite, che non sono permalose; e i morti dei quali fino a ieri non si diceva niente, cosa tetra. Il pubblico ci si abbandona soddisfatto. E’ bello non aver noie, credere alle favole di cartapesta, tra un doppio senso e l’altro sentir cantare quattro blande insolenze alla faccia di Molotov. « Era ora che gli si parlasse chiaro », sembrano dire gli uomini dai cinquantanni in su che formano la metà dell’uditorio Poi aspettano la sfilata delle ballerine. le quali sono molte, giovani e giovanili, ma si riducono a cinque o sei tipi, coinè del resto la maggioranza dell’umanità femminile. Renata Negri, che viene dalla prosa, ha i tratti della scrittrice Marise Ferro. E tra le ballerine vere e proprie, almeno un paio somigliano a Maria Pezzi, disegnatrice di figurini di moda.
Raul Radice «L'Europeo», anno IV, n.5, 1 febbraio 1948
Le gambe delle ballerine piacciono al pubblico
E così il teatro di prosa continua a essere battuto dalla rivista - Ma questa ha anche attori di razza come Totò, che da quindici giorni incassa 900 mila lire per sera
«La Stampa», 18 febbraio 1948
Genova, marzo 1948
«Il Lavoro», 2 e 4 marzo 1948
All'Augustus "C'era una volta il mondo"
Con Totò si ride ma anche si pensa e quella sua indicibile faccia crivellata e sagomata secondo una pazza linea che va dal comico più evidente alla più grottesca delle caricature. Totò crea il suo personaggio e nello stesso tempo scatena la incontenibile ilarità in virtù di una ironia veramente efficace. Se poi aggiungete che i pezzi di Totò sono fiancheggiati da un complesso organico nel quale la girandola delle battute si accompagna alla ricchezza dei costumi giustificherete i grandi applausi del pubblico. Dalle composizioni sobrie ed originali del ballerino Harry Feist, alla gentilissima grazia di Isa Barzizza, Elena Giusti, Irene D’Astrea, Renata Negri, Rosetta Pedrani alla intelligente misura comica di Ennio Sammartino, Mario Castellani e Giacomo Rondinella è tutto un susseguirsi festoso e birbone di trovate, invenzioni e scherzi.
Ottimo il commento musicale guidato con elegante gusto dal maestro Nino Brero. Successo pieno e moltissimo pubblico
Vice, «Il Lavoro», 5 marzo 1948
Tramonto senza storia di molti attori
Totò è difeso dal blasone e Macario dal conto in banca
Ho visto Renée Adorée morente di tosse in un ospedale e Karl Dane, ormai cieco, chiedere l’elemosina ai passanti - Le «pillole contro il mal di mare» di un ex-declamatore di grido
Roma, maggio
I teatrini della periferia mi fanno pensare a quelle rive di mare da cud partono, varati, i bastimenti, e a cui tornano i rottami delle stesse navi dopo i naufragi. Là incominciano, molto spesso, le carriere degli attori. E là, disperatamente, qualche volta finiscono, perduti fra i frangenti: epiloghi senza storia, di cui nessuno nè si cura nè si accorge. E' in un teatrino di sobborgo che ho visto esordire Totò, cioè Sua Altezza il Principe De Curtis, in una pulcinellata che non posso ricordare senza fremere, dov’egli veniva inseguito e bastonato da tre megere in camicia da notte. E’ là che mi è apparso la prima volta Macario. Avendomi dato nell'occhio, salii la scaletta di un retroscena da romanzo giallo (figurava nell’avanspettacolo d'un cinema da due lire) e andai a trovarlo per sapere chi fosse. Mi raccontò come avesse debuttato l'anno innanzi nell'«Arzigogolo» di Sem Benelli — precisamente nella parte del carnefice — e come poi si fosse adattato a fare il comico, conservando però la vocazione per il tragico. Eccone due che non saranno mai avanzi di naufragio, che alla periferia non torneranno più.
A parte il loro valore, essi sono distesi, l’uno dal suo blasone ormai assurto al grado di Altezza Reale, l’altro da una fortuna monetaria di cui oggi si contano i milioni, copiosi quant’erano i cavurrini, venti anni fa, nella cassetta del cinema rionale. Chè poi Macario, adesso, è liberato dal demone del gioco, e non punta più nè sui cavalli degli ippodromi nè sui cavallini delle bische. Questo nobile quadrupede, in verità, non fu messo al mondo per appiedare già artisti di teatro, e ridurli a pascolare l’erba dei prati. In un miserabile «varietà» suburbano ho invece ritrovato, a Roma, un attor comico che fu uno dei pilastri dell’operetta di quarant'anni fa, al tempo di Marchetti e di Berardi, di Urbano, di Favi e di Lambiase. Non mi domandate il suo nome. E' povero. E’ vecchio. E’ spento. Non fa più ridere nessuno; e quando sono andato a visitarlo, lassù in uno squallido spogliatoio che puzzava d'orma di gatto e di sigaro spento, ha finto di riconoscermi, ma solo per farmi piacere. Ha perduto la memoria; e poiché, parlandomi, guardava dall’altra parte, ho capito che aveva perso anche la vista. Cercò di fumare: ma in tasca non trovò niente. Deposi allora un pacchetto di «Nazionali» sul tavolo; e avendoci lui, nel cercare una parrucca, messo le mani, si diede del distratto picchiandosi in testa; — Guarda un po’ dove le avevo lasciate!
***
Allora me ne offerse una, ma senza trovare gli zolfini. Misi sul tavolo anche quelli, s’infuriò, gridando che gli avevano preso la scatola piena lasciandogliene una vuota. — Tocca a te — venne a dirgli la caratterista, che aveva tre denti in bocca. Faceva la parte d’un vecchio gagà; cilindro, ghette, caramella. Spense la sigaretta, si ficcò in tasca la cicca, e saltellando entrò In scena — aveva dimenticato di salutarmi — certo, certissimo d'essere accolto dagli stessi battimani furiosi di quarant’anni fa.
Eppure l'Italia, paese disordinato ma accomodante, dove tutto si arruffa ma tutto s'aggiusta, come nelle vecchie commedie d'intrigo, in Italia, credetemi, l’attore invecchiato o decaduto non conosce la miseria come in altri paesi. Per cui da noi finisce alla periferia, cioè ci ritorna. Ma altrove è peggio. Qui seguita a vivacchiare; là s'ammazza, oppure va all’ospizio : poiché ad un certo punto lo escluderanno, lo butteranno via senza pietà, anche trattandosi della diva che fu bellissima, del commediante che fu famoso: Da noi ho assistito a delle resurrezioni ch'erano dei miracoli. L'anno scorso, qui a Roma, incontravo la povera M. con le scarpine scalcagnate; quest'anno, a Milano, l’hanno quasi portata in trionfo: teatri pieni, «corbeilles» in camerino, persino il critico Vigorelli soddisfatto. E così la mia dolce Maria tornerà in gloria, che davvero così brava e buona se lo merita. Ma in Francia! Ma in America! Vi hanno mai detto cosa succede agli attori di Hollywood, non appena la implacabile statistica di un Office denunci il calo di un incasso? Non avete visto Pranzo alle otto? O quell’altro «film» dove Fredrich March figurava, tra il burlesco e il tragico, l'improvviso tramontare di un artista celeberrimo? Io mi trovavo laggiù proprio l’anno in cui Karl Dane, cieco, cercava la carità all'angolo di Spring Avenue, e Renée Adorée moriva di tosse — e di fame — all'ospedale.
Ebbene, soltanto cinque anni prima, nella stessa Grande parata, l’una era stata l'interprete acclamata, l’altro lo Slim di cui aveva riso e parlato tutto il mondo! Lou Tallegen, intanto, portava i suoi ultimi vestiti di personaggio irresistibile al Monte di Pietà — doveva uccidersi l'anno dopo — ed io stesso vedevo coi miei occhi, in un angolo deserto del giardino pubblico di Los Angeles, la protagonista di Brodway Melody (permettetemi, anch'essa, di non nominarla) riaffibbiarsi sugli stinchi dimagrati una calzetta di cotone, dopo aver spartito le briciole d'un panino cogli anitroccoli del laghetto. Non c’è nessuno, laggiù, che raccolga chi va a terra, o sostenga chi vacilla. L'obbligo è di stare in piedi. E non sono ammesse le stampelle. Chi cade muore, e il Funeral Director se lo porta via. I vivi vanno di corsa; e non soffrono inciampi, non vogliono cadaveri fra i piedi.
***
Da noi, in Italia, sono sempre belli i tramonti del sole. E non sono desolanti, qualche volta, neppure quelli degli attori. Perchè il verbo «arrangiarsi», da noi, è nello stesso tempo la maledizione e la provvidenza della razza. In politica come in filosofia, e in caserma come in palcoscenico, in fondo tutti finiscono con l’arrangiarsi; e così, salvo le poche catastrofi come quelle di cui v’ho raccontato, so di non pochi attori che, anche decrepiti, hanno trovato il modo di tirare avanti come suggeritori, come trovarobe, come «segretari» dell’amoroso o custodi dei cagnolini delle prime donne. So di uno, già declamatore di grido, che oggi traffica... in silenziatori di motociclette; e d’un altro che campa su delle pillole «contro il mal di mare». Ecco il tramonto più bello, più placido di tutti. Naturalmente le pillole, vendute alle compagnie che vanno in America, non sortono il menomo effetto; ma chi pensa a protestare, una volta laggiù? Poi, dopo un anno, le compagnie ritornano; e chi più se ne ricorda? Ritornano i mistificati, raccontando i loro trionfi; e poiché una mistificazione scaccia l'altra, neppure si rammentano d’aver vomitato l'anima durante la traversata. E così il commercio prospera, seguita a prosperare, senza soluzione di continuità.
Silvestro De Solis, «Gazzetta del Popolo», 15 maggio 1948
Seconda settimana di grande successo del comico Totò e di repliche affollatissime con la rivista di Galdieri "C'era una volta il mondo" valorizzata da un complesso artistico di prim'ordine. Stasera alle 21 undicesima replica.
«Il Paese», 20 maggio 1948
Passa Totò tra le gambe delle ballerine come uno scarafaggio, una di quelle tornite colonne parìe sta per schiacciarlo, ma eccolo ritto come una molla incatramato nel suo fracchetto nero davanti all'orchestra, uomo- tubo, dittatore o profeta contraffatto, dai gesti di automa e dall'occhio svampito. E' un comico, forse il solo che fa ridere con cose che non fanno ridere. Il successo della sua battuta non sta nella battuta ma nel tempo scelto e impiegato per dirla: come i colpi di grancassa in orchestra. La mimica ha la parte maggiore in questo innocuo e tremendo congegno che inchioda lo spettatore alla sedia quasi nell'incubo. Paura di svegliarsi il mattino dopo con quella faccia di pesce morto, con quelle giunture a stantuffo, con quel cappello a stato inalienabile.
E allora? Allora lo spettatore, per dimenticare si frega gli occhi e riposa sulla vellutata Isa. In quel sorriso di pesco in fiore c'è tanta fiducia nella vita che ognuno ne può strappare per sé quanta ne vuole.
E' giusto che quando chiedo alla signorina Barzizza un pensiero per i lettori ella mi dica con ingenua grazia: "Ma io Pensieri non ne ho nessuno".
Chicco, «Nuova Stampa Sera», 18-19 marzo 1948
Totò e Macario «Maschere d'argento»
«L'Unità», 2 luglio 1948
Il comico Totò distribuisce croci
Un sarto torinese nominato cavaliere dal "porfirogenito della stirpe costantiniana dei Griffo Focas"
Ognuno ha la sua croce e, si sa, deve portarla con pazienza e rassegnazione. C'è, invece, chi può dare le proprie croci ad altri con gesto grandioso: e sono i maestri degli ordini cavallereschi. Ora, tra i molti ordini, quasi ignorati prima che la Repubblica eliminasse quello della Corona d'Italia, ve n’è uno - quello del Sacro Militare Angelico Ordine Costantiniano - assai curioso per la persona che ne detiene in pugno le sorti e le chiavi: S.A.S. Antonio de Curtis, o più semplicemente Totò, come è conosciuto in Italia e fuori. Sono note le vicende per cui il notissimo comico può oggi fregiarsi di tanti titoli, dopo accurate e serie ricerche nell'albero genealogico della sua famiglia. Ma si ignorava, sino a poco tempo fa, che egli fosse Gran Maestro di un ordine cavalleresco.
Il decreto di nomina, su candidissima pergamena, con la scritta in gotico (ogni parola alla prima lettera e rosso, mentre le altre sono in nero) di dice: ”noi Antonio, principe Imperiale di Bisanzio, Porfirogenito della stirpe Costantiniana dei Griffo Focas, per grazia di Dio e per diritto familiare gran maestro del Sacro Militare Angelico Ordine Costantiniano della dinastia dei Focas, decretiamo” e segue il motivo per cui il signor tal dei tali viene eletto Cavaliere o commendatore e via dicendo. Tale ventura è toccata un sarto torinese, parmense di nascita, che da 30 anni conosce e veste Totò il quale in una foto con dedica lo chiama ”mago” (dei vestiti però, tanto per intenderci); egli è stato creato ”cavaliere di grazia”. La commenda invece è toccata al direttore del Carignano, caro amico di tutti gli attori (e dei portoghesi). Le pergamene dell'investitura (regolarmente bollate da un notaio di Milano, per l'autenticazione della firma) recano al centro in alto lo stemma degli imperatori di Bisanzio con il motto che Costantino vide scritto in cielo: "In hoc signo vinces". In calce è la firma Antonio preceduta da una croce come usano i prelati. Il perché di questo segno appare misterioso. A meno che Totò non si consideri - e non del tutto a torto - il ”pontefice massimo” della risata?
«La Stampa», 10 agosto 1948
«Gazzetta del Popolo», 24 agosto 1948
La rivista non è più facile
[...] La sorte dei comici chiusi nella fissità della maschera è sempre pericolosa: bisogna che trovino modo di rinnovare se stessi o l'ambiente scenico nel quale si muovono Anche Totò, che ripete da anni la sua decina di smorfie e atteggiamenti, dovrà preoccuparsi il giorno in cui anche il pubblico nuovo che l’ha scoperto, dopo tanta faticata carriera soltanto in questo periodo, saprà a memoria il suo repertorio di mosse. Quello dei tre che dovrebbe avere meno pensieri è Taranto che sa recitare, cantare e buffoneggiare, da attore, da cantante e da mimo.
Ad ogni modo sarà interessante seguire la parabola di questi tre « assi » della rivista. Il pubblico milanese ne avrà tutte le occasioni se è vero, come si va dicendo, che quest’inverno si alterneranno, o magari si faranno la concorrenza, sulla « piazza » di Milano ben sette compagnie di riviste.
X, «Corriere della Sera», 25 settembre 1948
Rumoroso infortunio di Totò a Varese
In ritardo con le prove, annulla una rappresentazione e dinanzi al teatro succede un putiferio a stento contenuto dalla forza pubblica
Un gran putiferio ha provocato ieri sera, davanti al Teatro «Impero», la compagnia Totò, giunta a Varese lunedì per dare due rappresentazioni straordinarie della rivista di Galdieri C'era una volta il mondo; e ciò a causa della scarsa serietà dei suoi dirigenti, i quali hanno considerato il pubblico della nostra città alla stregua di un pubblico di paese. Se i varesini in un primo tempo erano rimasti lusingati per il fatto di essere stati prescelti qual i primi spettatori del debutto della nuova compagnia che a Varese doveva appunto iniziare da sua attività, in un secondo tempo e hanno dovuto convincersi che il comico napoletano i suoi compagni avevano scelto la nostra città, che vanta un passato artistico più che notevole, quale terreno di esperimenti.
Infatti, dopo che i manifesti annunciante di spettacoli per le sere di martedì e mercoledì erano apparsi sui muri da diversi giorni e dopo che fin dal lunedì sera tutti i vostri risultano prenotati al botteghino del teatro per entrambe da rappresentazione, martedì nel tardo pomeriggio i dirigenti della compagnia decisero di sospendere lo spettacolo della sera e di continuare invece le prove che erano state iniziate lunedì a mezzanotte. Sembrava in un primo tempo che dei due serate già programmate, avessero luogo ugualmente, sia pure spostate di un giorno, ma poi in serata fu deciso di dare una sola rappresentazione, al mercoledì, ritenendo validi i biglietti già venduti per martedì e di rimborsare stamani biglietti venduti per il secondo spettacolo.
[...]
Nonostante il largo schieramento di forza pubblica si produssero scene di arrembaggio o quasi, durante le quali fecero le spese i vestiti e le calze delle signore. Verso le 21 la pressione contro le vetrate si fece paurosa, a malapena contenuta dai carabinieri. Ad un dato momento, visto che le cose minacciavano di degenerare, sono entrati in funzione anche gli sfollagente ed in tal modo gli agenti ritornavano padroni della situazione facendo sgombrare la scalea di ingresso e regolando l'afflusso degli aventi diritto. Erano già quasi le 22 quando la rappresentazione poteva avere inizio alla presenza di un teatro gremitissimo. Successo, molti applausi, ma nulla di eccezionale, il solito spettacolo di rivista.
«Corriere della Sera», 18 novembre 1948
La comicissima mimica di Totò, sbizzarritasi alla Kongresshaus di Zurigo, ha riscosso un successo internazionale. Americani, olandesi, inglesi e persino gli stessi contegnosi svizzeri si sono abbandonati a un riso irrefrenabile
Nel porgere il passaporto Totò, che sino allora aveva scherzato, si fece serio e dovette « rettificare » la posizione della mascella: la foto-tessera del suo documento è contegnosa e il funzionario non lo avrebbe riconosciuto. La sorpresa, del resto, fu reciproca. Quando a Zurigo apparvero i manifesti gialli in cui spiccava a caratteri cubitali il nome, a color rosso, del comico italiano, i bravi tifosi del calcio fecero capannello incuriositi pensando che la direzione del concorso pronostici avesse bandito qualche nuova regola o qualche nuovo premio. Appresero invece che alla Kongresshaus il noto comico italiano Totò si sarebbe esibito per la prima volta a Zurigo. Zurigo, novembre 1948. Il primo incontro fra Totò e il pubblico svizzero avvenne la scorsa settimana in modo alquanto curioso. Quando Totò entrò in territorio elvetico, a Chiasso vide affissi manifesti dovunque: Toto, Toto, Toto. Mancava per la verità l’accento sull’ultima sillaba, ma quel nome sbandierato ovunque, sui muri, nelle vetrine e persino negli scompartimenti provocava un certo compiacimento nell’animo di Sua Altezza che si riteneva così popolare ancor prima del debutto. Ma fu a Zurigo, lungo la Bahnhofstrasse che Totò provò una piccola delusione quando gli dissero che la parola così somigliante al suo nome corrispondeva alla SISAL degli sportivi svizzeri. « Toto » era né più né meno che l’abbreviazione di « Totocalcio *.
Totò era preoccupato. Non sapeva esattamente con chi aveva a che fare, quali sarebbero state le reazioni della platea davanti alla sua comicità, alla sua mimica, alle sue battute. Tutto a Zurigo appariva freddo, preciso, pulito, cronometrico. Tutto questo impensieriva Totò. E l’ambiente non era né francese, né spagnolo, e tanto meno italiano. Non un estro, non uno slancio, non un entusiasmo. Totò era il Vesuvio trasferitosi, dopo diverse ore di treno, sulle sponde della Limat, un fiume grigio e senza un riflesso azzurro. Napoli era molto lontana. I tre responsabili della rivista, incappottati e infreddoliti, ci ridevano sopra sfogandosi tutti con frizzi partenopei: Remigio Paone, Michele Galdieri e Totò.
Così egli dovette affrontare questa platea e si presentò con l’aria di un pugile che sa di dover sferrare molti colpi prima di giungere al bersaglio. Quando si portò sulla passerella la prima volta vestito da arcidiavolo con un mantello viola e la bombetta in testa, la sala del Kongresshaus lo guardò stupita. Gli gli italiani presenti avevano applaudito i primi lazzi napoletani. Poi Totò cominciò a roteare gli occhi sul corpo fresco e provocante di Isa Barzizza. La prima fila cominciò a sorridere.
Allora Totò capì che il ghiaccio di quella platea era rotto. Pensò di uscire con tutte le sue trovate pulcinellesche nel giro di un’ora. Nel primo tempo il comico tirò fuori come dal cappello magico di un prestigiatore tutti i frizzi, le mosse, le trovate, le battute inventate nella sua carriera. Rievocò il Pinocchio di una rivista passata («Volumineide» di Galdieri) e apparve non più come una figuretta umana o grottesca, ma come un autentico burattino animato. Mai vista a Zurigo probabilmente sino allora una simile marionetta che terminava la sua camminata paralitica andandosi a rovesciare contro il muro. Qui le risate traboccarono oltre la prima fila e fu proprio il settore più lontano della sala, il pur educatissimo "loggione”, che chiese ad alta voce il « bis ». Totò sentì di aver nelle mani il pubblico e concesse quel « bis » con nuove mosse e con un ritmo più esasperato. Poi recitò lo scherzo comico di Capri, parlò in italiano, in francese, in napoletano, inventò una lingua strana che riassumeva due lingue e un dialetto e storpiava un po’ il tedesco. Cominciò una signora americana a dimenarsi sulla poltrona lasciando cadere la pelliccia. Poi un grosso zurighese con la figlia ruppero le convenienze di ogni formalità e risero a crepapelle, e i vicini, dapprima compostissimi, furono trascinati nei gorgo dell'ilarità. Totò ogni tanto sostava per ascoltare l’effetto di una mossa o di una battuta, aggiungeva al copione quanto gli suggeriva l’estro. La compostezza zurighese era finita dietro gli occhiali di quel critico intransigente che notava appunti su appunti ad ogni quadro. L’educazione dei turisti era rimasta sulle poltroncine. Rideva e urlava il pubblico più freddo che Totò avesse mai incontrato.
Piero Farné, «Tempo», anno X, n.49, 11 dicembre 1948