Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1964



Indice degli avvenimenti importanti nel 1964

Dal 13 al 19 giugno 1964 al Teatro Sistina di Roma si svolge il Festival dell'Avanspettacolo. Padrini d'eccezione saranno Totò e Sofia Loren.

1 luglio 1964 Liliana de Curtis si separa dal marito Gianni Buffardi

Agosto 1964 Esce nelle sale cinematografiche il film di montaggio "Risate all'italiana" - Totò appare in alcune sequenze dei film "La cambiale" e "Totò a Parigi"

30 dicembre 1964 Un'altra condanna penale per Marziano II di Lavarello, contendente del titolo di Imperatore di Bisanzio ad Antonio De Curtis, già condannato in precedenti gradi di giudizio, ancora recidivo.

Indice della rassegna stampa dei film per il 1964

Totò contro il pirata nero Distribuzione: 25 marzo 1964

Che fine ha fatto Totò baby? Distribuzione: 26 giugno 1964

Le belle famiglie Distribuzione: 16 dicembre 1964

Altri artisti ed altri temi


Totò

Articoli d'epoca, anno 1964

26 Giu 2014

Totò, il principe che amava gli animali

Totò, il principe che amava gli animali Un cane idrofobo fu seviziato e ucciso per aver morso un bambino. Tre o quattro ragazzacci gli spaccarono la testa a pietrate e poi lo gettarono nel Tevere con le zampe legate. Io piansi per quella povera…
Daniele Palmesi - Federico Clemente
13553
05 Giu 2015

Dox, il poliziotto del principe de Curtis

Dox, il poliziotto del principe de Curtis Antonio de Curtis ebbe anche cani “suoi” (ammesso che non considerasse propri tutti i “trovatelli” che faceva personalmente curare, ospitare ed accudire). Accolse infatti nel suo canile i due cani poliziotto…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
7837
08 Gen 2016

L'Ospizio dei Trovatelli

L'Ospizio dei Trovatelli I cani sono come bambini muti, patiscono, hanno memoria, sentimento, nostalgia, ma non possono piagnucolarti le loro sofferenze come un accattone che dicendo, Ho fame o Mi hanno fatto questo e questo, trova sempre un santo…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
14425

Vorrei sposare Franca in chiesa

Vorrei sposare Franca in chiesa Totò ha chiesto al tribunale della Sacra Rota di annullare il suo matrimonio con Diana Rogliani Sereno, che fallì dopo pochi mesi nel 1935: desidera che Franca Faldini possa ora diventare la principessa De Curtis e…
Maurizio Cherici, «Oggi», anno XX, n.38, 17 settembre 1964
1163

Totò a scatola chiusa

Totò a scatola chiusa Da quarant'anni il principe napoletano è il maggior «produttore» di comicità sul mercato dello spettacolo • Con il suo marchio di fabbrica qualsiasi filmetto rende milioni Roma, settembre. Antonio De Curtis, sessantasette anni,…
Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 20 settembre 1964
300
07 Apr 2014

Che fine ha fatto Totò baby? (1964)

Che fine ha fatto Totò baby? Lei è vedovo di moglie? Colgo l’occasione per farle le mie congratulazioni!Totò Baby Inizio riprese: aprile 1964, Stabilimenti Titanus, RomaAutorizzazione censura e distribuzione: 26 giugno 1964 - Incasso lire…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
9506
07 Apr 2014

Le belle famiglie (1964)

Le belle famiglie (Episodio: Amare è un po' morire) Pronto, chi parla? L'obitorio? Ma che obitorio d'Egitto, ma chi l'ha chiamata, scusi, abbia pazienza! Avrò sbagliato numero...Filiberto Comanducci Inizio riprese: agosto 1964 , Studi Cinecittà,…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
6935
07 Apr 2014

Totò contro il pirata nero (1964)

Totò contro il pirata nero Capitano, icchè la fa, la concilia?Josè/Mario Petri Inizio riprese: gennaio 1964, Stabilimenti Interstudio, RomaAutorizzazione censura e distribuzione: 25 marzo 1964 - Incasso lire 295.718.000 - Spettatori 1.227.046 Titolo…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
4691
10 Apr 2014

Risate all'italiana (1964)

RISATE ALL'ITALIANA (1964) Titolo originale Risate all'italianaPaese di produzione Italia - Anno 1964 - Durata 92 min - Colore B/N - Audio sonoro - Genere Commedia, film di montaggio - Regia Camillo Mastrocinque, registi vari - Sceneggiatura…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
4427


TOTO' CONTRO IL PIRATA NERO

Distribuzione: 25 marzo 1964

Qui la rassegna stampa e la scheda completa del film



CHE FINE HA FATTO TOTO' BABY?

Distribuzione: 26 giugno 1964

Qui la rassegna stampa e la scheda completa del film


Singolare e in un certo senso sconcertante è sempre stata la presenza di Totò nel cinema italiano. Si contano sulle dita, anche nel repertorio internazionale, attori comici che dispongano di un complesso somatico inconfondibilmente tipicizzato, tale da fissare da solo un personaggio e, per riflesso, un particolare schema di situazioni. Keaton rimane forse in questo senso l’esempio più calzante, altri grandi comici, a cominciare dallo stesso Chaplin o dai fratelli Marx, essendo stati costretti a fabbricare il loro personaggio con additivi di trucco.

Totò è Totò: è fisicamente lui e nient’altro. Quel viso lungo e tagliente a cui una bizzarra angolatura della mascella dà quasi una dimensionalità geometrica, quell’occhio vagamente a pesce dove la maligna arcuazione delle sopracciglia fa gioco e contrasto con la flaccida malinconia delle palpebre a borsa, quella figura smilza, mingherlina e puntata in cui gesti e movimenti hanno sempre una potenziale snodatura burattinesca, è già un vivente gag per se stesso. Oltre ciò un eccellente attore. Si direbbe: un tipo come questo avrebbe dovuto (se non formare addirittura oggetto di una produzione a sé) per lo meno essere adoperato solamente in cose confacenti alle sue qualità e alla sua classe. Invece, non so se per colpa sua, salvo rari casi, come quando Rossellini lo pigliò per "Dov'è la libertà", o Monicelli per "I soliti ignoti" - e mettiamoci pure se volete "Guardie e ladri" - generalmente fu destino di Totò essere sprecato nella confezione di modeste e scurrili farsette. Per cui non è da stupire se, logorato alla lunga da tanto mal uso, il personaggio Totò abbia finito alla lunga per perdere il suo originale e surreale mordente.

Per questo è dovere del cronista servizievole registrare l’ultimo suo film. "Il comandante", regista Paolo Heusch su soggetto di Sonego, smistato anch'esso nello stock della stagione bassa. E non tanto perché il film rappresenti uno sviluppo e una valorizzazione degli elementi specifici del personaggio Totò, ma perché offre all’attore la possibilità di costruire e condurre un carattere completo attraverso un’azione teatralmente coerente. [...] Siamo ancora nella onesta, casalinga commedia borghese di carattere. Però "Il comandante" è un film piacevolmente sceneggiato, Andreina Pagnani dà garbo e credibilità al tipo della signora distinta trafficante di dubbie antichità attraverso aderenze mondane. Ma soprattutto Totò delinea un personaggio amabile e godibilissimo, e lo porta con estemporanea e misurata lepidezza, perfettamente dosata tra paradosso e verità.

Il comandante, Il comandante... Voi direte: che diavolo. ma non è generale? Sicuro, nel testo del film è un generale, e tutti lo chiamano generale. Ma poi si capisce che forse per via del famoso vilipendio (non si sa mai) hanno preferito non metterlo nel titolo. Cara, inguaribile, eterna Italia della foglia di fico.

Filippo Sacchi, «Epoca», anno XV, n.720, 12 luglio 1964


Nizza, lunedi sera

Totò ha trascorso qui alcuni giorni di riposo con la bella moglie e il suo cane prediletto, Pepe, un barboncino nero. «Monsignore» è stato oggetto delle più reverenziali cure da parte del personale del Negresco (dove ritorna frequentemente). La repubblica di De Gaulle ha grande considerazione per i veri nobili. Ora, come tutti sanno, il principe Angelo Focas Flavio Ducas Commeno de Curtis discende, direttamente dall'ultimo imperatore di Bisanzio. Ma Totò, attore comico, dalla celebre bazza, dall'occhio malinconico e dai gesti brevi non si dà arie. Il grande pubblico di Francia lo conosce per il film di Mario Monicelli «I soliti ignoti» di cui l'interprete è Gassman che non lascia mai la scena, e dove Totò fa una parte di cinque minuti, ma indimenticabile: quella, di un vecchio gangster in pensione che insegna agli aspiranti svaligiatori l'arte di aprire le casseforti. Questa lezione è un capolavoro di comicità. Ai giornalisti che l'hanno assediato Totò ha detto con quel suo sorriso un po' sbilenco: «Ho girato 104 film in ventisei anni, ma come avrei potuto immaginare nel 1938 quando ho girato il primo che sarei stato condannato a far ridere il mio prossimo fino alla fine dei miei giorni! E' un luogo comune dire che gli attori comici sono fondamentalmente malinconici, ma per me è vero».

Poi aggiunge con accento napoletano: «In realtà, io pagliaccio non sono. Ma ogni volta che ho tentato di uscire dal mio personaggio è stato un fiasco. Il pubblico non mi riconosce e mi fa il broncio. E pensare che i miei volevano diventassi ufficiale di marina. Mi vedete con questa grinta portare la uniforme bianca e il berretto gallonato d'oro». E' molto atteso qui il suo ultimo film, parodia di «Chi ha ucciso Baby Jane?». Totò fa l'imitazione di Bette Davis. Domani l'attore parte per Madrid dove parteciperà a due comproduzioni italo-spagnole: «Devo lavorare molto, dice con lieve ironia, perché devo mantenere duecentosette bocche: la mia, quelle di mia moglie e mia figlia poi, a Roma, ho creato un rifugio per i cani abbandonati, ne ho duecentoquattro e hanno buon appetito». Prima di lasciare Nizza ha comperato «Le memorie di Charlie Chaplin» e chissà che non gli venga voglia di .scrivere le site: com'è noto, Totò è compositore di poesie napoletane e la sua ultima raccolta uscirà a giorni.

Maria Rossi, «Stampa Sera», 12-13 ottobre 1964 - «L'Ospizio dei trovatelli»


«La Stampa», 2 luglio 1964 - Separazione Liliana de Curtis - Gianni Buffardi «Liliana la figlia prediletta»


«La Stampa», 5 agosto 1964 - «I film di montaggio - Risate all'italiana»


Da quarant'anni il principe napoletano è il maggior «produttore» di comicità sul mercato dello spettacolo • Con il suo marchio di fabbrica qualsiasi filmetto rende milioni

Roma, settembre.

Antonio De Curtis, sessantasette anni, principe, napoletano, può considerarsi il maggior produttore di comicità sul mercato. dello spettacolo italiano. Vende a scatola chiusa. Il fatto si è che la comicità è diventata un bene di largo consumo popolare, sempre più prezioso e ghiotto, da assimilare con avidità, come una droga per uccidere l'angoscia contemporanea. Si tratta di una qualità di merce di cui il principe De Curtis è raffinato intenditore e imbattibile spacciatore. La sua invenzione-capolavoro si chiama Totò. Sono quarantanni che la maschera di Totò fabbrica ilarità e milioni: ilarità per milioni di italiani, milioni a palate per Antonio De Curtis. Si può affermare che la macchina ha raggiunto un grado di rendimento perfetto. Non fallisce colpo. Totò è un affare sicuro, un investimento ad altissimo reddito, una fonte inesauribile di ricchezza e di divertimento. Totò a colori, brutto film senza ambizioni, guadagnò un miliardo di dieci anni fa. Cambiano i gusti degli spettatori, i modelli della comicità, gli idoli della moda: non cambia Totò e fa successo. In questi giorni sta lavorando al suo centocinque-simo film. E' un primato che non potrà essere battuto facilmente, conveniamone.

L'orgoglio del principe

Si capisce che Totò costituisce l'orgoglio, la ragione di vita, la costante preoccupazione del principe De Curtis. Totò è un miscuglio di virtù e di difetti nel quale l'italiano di media cultura e di media età riconosce, le proprie virtù e i propri difetti. Totò conosce gli impulsi e gli scatti comuni all'italiano che si sente soffocare dalla regola, che vorrebbe concedersi una pazza evasione, spezzare il cerchio ferreo delle abitudini, delle mortificazioni, delle convenzioni. Totò interpreta un’idea anarchica, folle e impossibile della vita. Totò reagisce alla meccanicità degli atti quotidiani con una esasperazione grottesca, assurda della meccanicità

«Gesù, quante cose significa 'sto benedetto Totò»: serrandosi la vestaglia, il principe Antonio De Curtis sorride con persuasione. Ecco, la battuta gli è servita ad alleggerire l’imbarazzo della conversazione. Accende una sigaretta. La vestaglia è rossa e fa contrasto col pallore del viso, attento ed arguto. Porta gli occhiali neri, soffre alla vista. E’ un omino scarno, nervoso, cortesissimo. Dietro la cortesia si maschera una timidezza di natura. La timidezza è frutto d'una melanconia senza fondo. «Lo sa che in privato non sono capace nemmeno di raccontare una barzelletta?». Sono le tre del pomeriggio. Le abitudini del principe-attore sono rigide e immutabili da decenni: lo aiutano, cosi, a sopportare un ritmo di lavoro assai sostenuto. Pochi attori, anche fra i più anziani, sanno risparmiarsi come Totò. Una vita di disciplina, veramente. Appartata, casalinga, normale: la giornata di un funzionario di banca.

Sul tavolo spicca la copertina colorata di un volumetto di poesie: 'A livella. Poesie in dialetto napoletano. Già, perchè Antonio De Curtis è poeta nei ritagli di tempo che riesce a rubare a Totò. Il volumetto comparirà nelle librerie fra poche settimane. La poesia di apertura parla di morte e di fantasmi, di differenze sociali e di rassegnazione nell’eternità. In fondo al salotto, troneggia un pianoforte. La musica è l’altra evasione del principe-attore. Le sue canzoni sono sentimentali, genere melodico, di ispirazione romantica. «Le compongo col fischio» dice e sorride, ancora. Dopo che il maestro ha tradotto il motivo in note, lui si dedica al testo. La sera, in genere, quando Totò è andato a dormire.

Antonio De Curtis abita un appartamento ai piedi dei Parioli, che nulla vieterebbe di definire principesco: una fuga di stanze sontuose, di specchi, di quadri d’autore, di mobili raffinati. Qui. Antonio De Curtis vive un’esistenza di squisito tenore borghese e matura le trovate, gli sberleffi di Totò contro la regola, la disciplina, la mortificazione quotidiana.

Una chiave per spiegare il successo di Totò attraverso i decenni e le guerre e i capovolgimenti sociali potrebbe essere questo rapporto singolare fra la maschera comica e il principe-inventore. Un rapporto nel quale Totò ruba a De Curtis gli stimoli e le ribellioni dell'uomo comune e nel quale De Curtis risolve, affrancandosene, i complessi e le frustrazioni della società a cui appartiene. C’è nella identificazione fra Totò e il principe De Curtis una sorgente vitale, misteriosa, di umori beffardi e di presupposti comici: è possibile che da questo nodo scaturisca la carica che alimenta la maschera più popolare in Italia, la fabbrica di ilarità e di ricchezza.

Solo una maschera

Si è scritto che a Totò è mancato un regista che sapesse utilizzarne l’esperienza e l’ispirazione per un’opera d’arte e si è scomodato il nome di Federico Fellini, si è sottolineato il merito di Totò nel rifiutare le furberie, i trucchi fregoliani con i quali gli altri attori comici si ingegnano di divertire il pubblico, si è rimpianto che Totò abbia un po’ dissipato le sue straordinarie risorse: il principe Antonio De Curtis accetta il discorso con appena un’ombra di risentimento.

Dice cose sacrosante, che Totò è una maschera e non un attore-personaggio: ciò significa che Totò non può che interpretare se stesso, mentre qualsiasi regista di nome pretenderebbe di rivestirlo dei panni di personaggi immaginari, pretenderebbe di piegarlo a una diversa dimensione umana. Un regista con intenzioni artistiche si sforzerebbe di impossessarsi di Totò e Totò non vuole perchè non ci crede più, ormai. «D'altronde, è ancora da scoprire se esiste in Italia un regista che sappia raccontare storie comiche» conclude Antonio De Curtis.

Una soluzione ci sarebbe e sarebbe che Totò dirigesse se stesso: Totò regista di Totò in un film rispettoso della maschera comica. Certo, sarebbe l'unica soluzione ragionevole. Charlot non s’è fidato sempre di Charlie Chaplin e soltanto di Charlie Chaplin? «Sì, ma io non saprei accettare responsabilità così pesanti» dice Antonio De Curtis. Onesto fino all’autolesionismo, dal momento che sarebbe in grado di trovare credito per qualsiasi avventura che recasse il marchio dì fabbrica Totò.

Il quale, come regista, un'idea tecnica l’avrebbe per migliorare il prodotto: «Vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare: dopo averlo scomposto in teatro di posa, lo ricomporrei in montaggio». L.’idea gli è sorta sulla scorta delle esperienze personali, dovendo sempre interpretare film che lo costringono a inventare le battute davanti alla macchina da presa, «al caldo dei riflettori, già recitando», sul filo di uno scarno canovaccio scritto in poche cartelle e da Totò accettato magari con mesi e mesi di anticipo.

«Sul canovaccio — racconta — io ricamo, improvvisandole giorno per giorno, le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara quale è la intonazione che ha maggiore effetto, quale dev'essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c’è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l’attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata». Siamo andati lontano: cinema artigianale, cinema-industria, preventivi, preparazione tecnica, lavoro di tavolino: tutto un discorso che sollecita il principe De Curtis alla polemica. «I produttori sono semplici appaltatori di film, i capitali non sai mai'come arrivano sul set: questo è il guaio del cinema italiano» conclude.

Quando Totò apparve per la prima volta sullo schermo, era il '37. Il film si intitolava Fermo con le mani. Totò era già una maschera nazionale della comicità. Aveva mosso i primi passi a Napoli in spettacoli dialettali all'aperto: «Dove si recitava a soggetto, rinnovando sera dietro sera il mito della commedia dell’arte». Quarant’anni, insomma, che Totò è costretto all'improvvisazione, cinema o non cinema: una carriera ben faticata, bisogna riconoscerlo.

Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 20 settembre 1964


LE BELLE FAMIGLIE

Distribuzione: 16 dicembre 1964

Qui la rassegna stampa e la scheda completa del film


Roma 29 dicembre, notte.

Il pretore dottor Scutari, della prima sezione penale, ha condannato a tre mesi di reclusione. senza i benefìci di legge perchè recidivo, Marziano Lavarello. ritenuto colpevole di falsa identità personale. Secondo l’accusa. Lavarello, in un documento, si era attribuito, tra l'altro, il nome di Lascaris, che spetta al principe Antonio De Curtis, in arte Totò, e che dimostra la discendenza dell'artista da un imperatore di Bisanzio.

Nell'aprile del 1959, Lavarello si presentò alla signora Anna Milano, vedova di Nicola Memagna Paleologo, discendente da un’antica dinastia bizantina e imparentata col ramo degli Obranovich. che regnarono in Grecia e che al momento della loro esautorazione si videro confiscare il loro ingente patrimonio: Lavarello. dicendosi cugino del defunto, si fece consegnare dalla signora alcuni documenti per intraprendere una causa dinanzi alla corte internazionale di giustizia dell’Aja al fine di rientrare in possesso dei beni degli Obranovich.

Per intraprendere l’azione, Lavarello nominò un ministro plenipotenziario che lo doveva rappresentare all'Aja, e firmò la ratifica della nomina col nome di Marziano II Lavarello Lascaris Paleologo Basileo di Costantinopoli.

«La Stampa», 30 dicembre 1964 - «Marziano II Imperatore di Bisanzio (?)»

 


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«Radiocorriere TV», 11 gennaio 1964 - «Addio a Titina De Filippo, addio a Napoli»


E' morta a Roma, il 26 dicembre 1963, Titina (Annunziala) De Filippo, sorella di Eduardo e di Peppino, Era nata a Napoli il 4 agosto 1898, due anni prima di Eduardo e cinque di Peppino. Era moglie detrattore Pietro Carloni e madre di Augusto, che non ha seguito la carriera dei genitori, dedicandosi invece al giornalismo. Figli d'arte, i tre fratelli De Filippo crebbero in palcoscenico, come si dice, prima nella Compagnia di Eduardo Scarpetta e poi in quella di Vincenzino Scarpetta suo figlio. In quest'ultima compagnia, rispettivamente, nel 1916, Titina era prima attrice giovane ed Eduardo secondo brillante. I loro primi esperimenti di iniziative personali furono le piccole riviste ed i teatri popolari. Titina De Filippo, aveva abbandonato le scene nel 1953, costretta da una grave forma cardiaca, per la quale ha vissuto in continuo tremore, per sé ed i suoi cari, dieci anni.

Francesco Bernardelli, «Il Dramma», gennaio 1964 - «Addio a Titina De Filippo, addio a Napoli»


Mimmina Quirico, «La Domenica del Corriere», 31 maggio 1964


«Gazzetta di Mantova», 9 luglio 1964


«La Stampa», 25 luglio 1964 - La morte di Gildo Bocci


La conoscete? Certo. E’ Gisella Sofio, la "Svanitella’’ di Carosello. Ma non sapete tutto: mentre vi strappa una risata, sogna di rubarvi una lacrima come attrice drammatica

Vera Spinelli, «Noi donne», 1964


Maria Maffei, «Noi donne», 1964 - Giuletta Masina

1964 01 Noi Donne Titina De Filippo intro

Aggeo Savioli, «Noi donne», gennaio 1964 - «Addio a Titina De Filippo, addio a Napoli»


A sessantun anni di età Giuseppe Marotta è spirato in un soffio mentre assisteva alla televisione

Eligio Possenti, «La Domenica del Corriere», 31 maggio 1964


Rodolfo De Angelis, «La Domenica del Corriere», 31 maggio 1964


«La Stampa», 29 ottobre 1964 - La morte di Claudio Ermelli


...con i suoi sketch, i suoi inimitabili personaggi femminili. La simpatica attrice, che sta ottenendo un vivo successo a Roma nella sua commedia “Questa qui, quello là”, ci ha messo a disposizione un copione dal quale abbiamo pescato alcuni brani spassosi che prendono maliziosamente in giro i difetti delle donne. Leggendoli trascorrerete un’ora di buonumore

«Noi donne», dicembre 1964 - Franca Valeri


1964 Mario Mattoli 1964 Za Bum intro

«Radiocorriere TV», 1964 - Mario Mattoli


Il comico piemontese ha riesumato la sua rivista più fortunata del primo dopoguerra per riproporla agli spettatori come alternativa alla commedia musicale - «Febbre Azzurra ’65» naviga col vento in poppa al teatro Sistina di Roma

Roma, 21 settembre.

E' facile indovinare che Macario non vede l'oro di portare le sue «donnine» a Milano. Non che i rormani ne siano rimasti indifferenti, intendiamoci: c’è una Paola Penni che più svestita di cosi non si potrebbe immaginare e tutto lo spettacolo è una festa per eli sguardi maschili. Però, il milanese ha fama d’essere un pubblico ancor più predisposto al mito delle «donnine». Cosi pare a Macario che quest'anno ha riesumato la sua rivista forse più fortunata del primo dopoguerra, Febbre Azzurra, per riproporla agli spettatori degli anni sessanta come alternativa alla commedia musicale

Bisogna convenire che ci voleva molto coraggio. Ci voleva anche molta fede in se stessi. Fede e coraggio che il commendator Erminio Macario ha da vendere. S’è gettato nell’impresa con slanciò di debuttante. Ha puntato sullo spettacolo, come impresario, tutte le sue risorse finanziarie. Un giorno, ha convocato la moglie e i figli Mimmo che stravede per Breckt e Alberto che fa della pittura astrattista e ha detto: «Qui, cari miei, se ci va male saremo costretti a venderci i mobili di casa». Macario è un marito e un padre esemplare Non si può dire che non avesse coscienza del rischio che correva.

Salto all'indietro

E' un ritorno alle orìgini piuttosto singolare. Per un sacco di ragioni che si prestano a una verifica dei gusti vent’anni dopo. Febbre Azzurra '65 sta navigando col vento in poppa nel tempio romano della commedia musicale, il teatro Sistina, gestito da quei santoni del teatro leggero che rispondono al nome di Giovannini e Garinei.

Che significa questo? Da qualsiasi parte lo giri, il problema, non riesci a spiegare il buon esito del salto all’indietro se si tiene in secondo piano la personalità del comico piemontese. Piaccia o non piaccia allo spettatore 1964 che Macario continui a far uso del riccioletto sulla fronte e del rossetto sui pomelli alla stregua dei tradizionali clowns di circo equestre. Rimane il fatto che soltanto lui ha avvertito ch'era venuto il momento di reagire alla moda e che soltanto lui poteva correre l'avventura. Col riccioletto birichino e i pomelli rossi e tutto quanto compone la maschera Macario. Perciò meritava di vincere.

Che Erminio Macario conosca alla perfezione l’impiego dei suoi mezzi espressivi («Una volta facevo tanti tipi, ho enucleato quello adatto alla mia faccia e al mio temperamento, oggi rappresento un personaggio senza età: perchè io sono Arlecchino come Totò è Pulcinella. sono la grazia mista alla furberia»), che Macario sappia fiutare a distanza gli umori del pubblico («In fondo non è molto esigente, vuol solo distrarsi e dimenticare: un tempo si lasciava sorprendere e ne godeva, oggi vuoi essere aggredito e poi è contento ugualmente»), che ricorra con freddo calcolo al fascino delle «donnine» per dare una cornice alla sua comicità («Ci vogliono, ci vogliono. sono la gioia degli occhi: la femminilità è nell'aria che respiriamo, nella vita quotidiana, e io sulla scena ne sono goloso come di una primizia prelibata e mi capiscono tutti, uomini e donne, senza complicità volgari»). che dietro le quinte imponga una disciplina spietata, che non perda mai d'occhio gli incassi serali («Mica lavoriamo per beneficenza, dopotutto»), che tenga se stesso in una considerazione senza limiti («Non ho avuto maestri, io, eppure ho saputo studiarmi e amministrarmi»), che dietro quel faccione tondo da cuore allegro nasconda ambizione e volontà di granito: che Erminio Macaco sia tutto questo non deve stupire. E' questo e altro, ad ogni modo.

E’ un uomo casalingo, un buon borghese alla, maniera di Totò. E* puntiglioso, mordace («Ci stiamo autodistruggendo con i premi che riceviamo o non riceviamo»). E' geloso del successo (giustamente, direi), pensa a Shaw. aspetta che Fellini lo convochi sul set, ha la battuta sempre sulla lingua, è un improvvisatore formidabile. Non fa professione di umiltà ma è intelligente e spregiudicato abbastanza per ammetterlo. Poi, è un giudice spietato della comicità altrui.

«Sono trent’anni che faccio ridere gli italiani : col riccioletto in palcoscenico e sullo schermo con le mie avventure di balordo vagabondo. Sono trent’anni che piaccio a grandi e piccoli, a uomini e donne. Presunzione, la mia? Si fa presto a dire. Li ho inventati io. sulla scena del teatro leggero italiano, i bisticci di parole, i riflessi ritardati, le dissociazioni nelle proposizioni, l’inconclusione dei discorsi. Veniva da me, Dapporto, quand’ era in avanspettacolo, a chiedere le barzellette. A Tognazzi gli ho fatto fare io tre riviste, agli inizi della sua carriera. Quanti non hanno preso qualcosa dal mio personaggio?».

La stima per Totò

L’unico di fronte al quale il commendator Macario sarebbe disposto a togliersi il cappello (per un riconoscimento alla pari, sia chiaro) è il principe Antonio De Curtis. Ne parla con tono professionale d’intenditore: che, però, non gli impedisce di rivendicare a sè un altro merito. Quello di aver consentito a Totò di sostituirlo come protagonista di Madama Follia nel 1927, procurandogli cosi i galloni di comico nazionale.

Vent’anni di vita italiana dentro la parentesi di due riviste di Erminio Macario: da una parte una guerra che sta per concludersi e dall'altra parte una democrazia che si prepara a festeggiare la maggiore età. Vent’anni che si annullano nell’oscurità della platea di fronte a uno stuolo di «donnine»: il riccioletto e gli sberleffi e le mossette di Macario, eccoli li sul palcoscenico, stimolo di ilarità, efficienti, immutabili. sorgente di un divertimento che pare irridere alle leggi del tempo.

1945, 17 marzo, sabato: primavera romana, una triste primavera. Stanotte hanno svaligiato diciotto negozi e rastrellato quasi trecento «segnorine». Circola voce che a Stoccolma siano cominciati i sondaggi di pace. Distrutta dalle bombe l’autostrada Colonia-Francoforte. La guerra uccide al nord. Roma si stordisce nel clima precario di libertà e di fame. Danzica in fiamme. E’ annunciata una distribuzione di vino. La morte di Lloyd George. Si ordina il sequestro dei beni di Arturo Bocchini. Giuseppe Bottai ricercato dalla polizia. L'epurazione tiene migliaia di romani nell’angoscia. Consiglio dei ministri per approvare un aumento delle tariffe postali. I quotidiani costeranno tre lire, a partire dalla prossima settimana. Quattro bande armate spadroneggiano al Salario. De Sica e Stoppa alle Arti in Catene, al Savoia Soffia So' di Giovannini e Garinei. Chiusa una farmacia al Tritone diventata covo di neofascisti. E' scappato il generale Mario Roatta. lo cercano dappertutto, viene denunciata la moglie per favoreggiamento. Al cinema: Carmen e Le tre ragazze in gamba crescono. Gli sciuscià hanno spogliato un negro ubriaco. Sgominata la gang degli «Uomini mascherati», ladruncoli di borgata. Gli americani a Coblenza. Attività di pattuglie sul fronte italiano. Che ne sarà di Mussolini? Arrestata la banda dell’«Abbacchietto». E’ un sabato qualunque, un giorno come tanti. Al teatro Valle debutto della compagnia di Erminio Macario con lo spettacolo: Febbre Azzurra. Sconto in piccionaia per i militari.

L'impianto di Febbre Azzurra '65 è il medesimo: solo una spolveratina al dialogo («Un paio di battute sull’attualità, Ippolito, Trabucchi, tanto per tenere i piedi nel nostro tempo»), una limata al linguaggio («A quell’epoca si diceva che ho escogitato, oggi il verbo risulterebbe ampolloso»). una riverniciatina agli spartiti («I temi sono rimasti, abbiamo ri-maneggiato le arie con gusto contemporaneo: un milione e mezzo di spese, però che meraviglia») e nient’altro. Eppure il gioco è riuscito: la maschera Macario ha funzionato a meraviglia, malgrado le rughe.

Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 23 settembre 1964


Sulla scena egli si muove in una dimensione di mitezza, di vaga rassegnazione, interpretando nelle sue filastrocche lo scoramento dell'uomo comune - Nella vita invece è tenace, ambizioso e duro anche con se stesso

Roma, ottobre.

Quando si cominciò a parlare di Renato Rascel sui giornali e nel mondo dello spettacolo, andava di moda una comicità a senso unico. Divertivano gli italiani le battute gonfie di allusioni volgari. I comici di palcoscenico non andavano per il sottile. Erano tempi di grossolane euforie. Stavamo per assalire la Abissini*. Eravamo convinti di appartenere a una razza privilegiata, che metteva paura al mondo intero. Battaglia del grano, battaglia demografica, battaglia per il posto al sole: era un continuo incitamento alle affermazioni vitalistiche. Il gallismo dei gerarchi era favorito dalla propaganda di regime. Quello che faceva ridere la massa degli spettatori era un umorismo da caserma. L'avanspettacolo viveva la sua stagione d oro. Bussava alla porta del nazionalismo il momento che le ballerine avrebbero portato in passerella, senza timore di apparire ridicole, Faccetta nera. Mentre il comico avrebbe irriso alla deboscia demoplutocratica e guerrafondaia. Tutti «pappagalli» di strada, a patto di preferire la camicia nera.

Comicità atipica

Accadde a Genova, un sabato fascista del 1935. Minuto, spaurito, famelico, comparve Renato Rascel sulla scena del Politeama. Indossava un vestitone nero con taschino e fazzoletto sulla spalla: «Il mio primo lusso anticonformista». Con faccia compunta, muovendosi come una trottola impazzita, cantò Chiudo gli occhi e penso a te: anticipazione dilettantistica delle filastrocche assurde, favoleggianti, surrealistiche, che successivamente avrebbero procurato a Rascel la simpatia e la approvazione degli intellettuali più spregiudicati. Chiudo gli occhi e penso a te era una autentica sciocchezza, dal punto di vista musicale e poetico. Tuttavia, la reazione del Politeama fu istantanea e sbalorditiva: una baraonda di risate e di applausi. Segno che la gente era già disponibile a una nuova comicità.

La conferma Rascel la ebbe poche settimane dopo a Bologna, teatro Medica, «Allora, in varietà, il mestiere del comico era reso più difficile dalla sommarietà delle coreografie e non era assistito dai testi: il palcoscenico diventava una specie di ring, tl salvavi se avevi le ossa dure» racconta l’attore. Fortunatamente, la maggioranza del pubblico era formata da studenti. Furono assai lesti a cogliere la novità delle canzoni sceme, della filastrocca grottesca, delle ironie crepuscolari. I loro applausi convinsero Rascel di aver trovato il filone giusto.

Nella galleria dei personaggi che sanno far ridere gli italiani è giusto collocare Renato Rascel sopra un piedistallo particolare. Costituisce un caso a parte. Perchè il suo umorismo non trova corrispondenza in alcun modulo tradizionale. E’ una comicità atipica. Il prodotto di una elaborazione lenta e difficile. Un modello di ironia piccoloborghese, dalle radici letterarie, che si traduce in una comicità trasversale. «Che nasce dagli atteggiamenti prima che dalle parole» dice il piccoletto. C’è un po’ di favola, nelle sue caratterizzazioni. Una eco di surrealismo. C’è anche una grazia zavattiniana (Pazzo d’amore), c’è una malinconia gogoliana (Il cappotto): due film che sono stati capiti meglio dalla critica che dal pubblico.

Da tutti questi elementi impastati insieme dall’esperienza e ben dosati dall’intelligenza scaturisce una figura esemplare di antieroe abituato a muoversi In una dimensione di mitezza, di vaga rassegnazione alle prevaricazioni mitologiche. E* stato osservato che nella vena umoristica di Rascel scorrono gocce di poesia. Certo è che egli è l’unico degli attori comici italiani che sappia rivolgersi agli uomini e alle donne e ni bambini: la sua specialità è una comicità per famiglia, pure se impepata di quegli ingredienti piccanti di cui fa largo consumo il teatro leggero.

Esordi giovanissimo. Figlio di piccola gente, gli mancavano mezzi e istruzione. Aveva il teatro nel sangue. In quale direzione muoversi, però? Le tentò tutte, le strade del successo, ritrovandosi ogni volta al punto di partenza. Batterista, ballerino di tango argentino, dicitore, fantasista, clown di circo equestre. Si, erano attività che gli davano da mangiare ma per l'attore tascabile era più importante vincere l’amarezza di non riuscire a infilare il rettilineo.

Nel ’33 era ancora alle prese con gli esperimenti. Li interruppe per recitare Sigismondo a Milano in Il cavallino bianco, dove mise a frutto tutti i suoi sforzi di ricerca e di caratterizzazione e dove guadagnò il primo attestato di benemerenza: quattro righe di Renato Simoni sulle colonne di questo giornale. Poi, fu risucchiato dal varietà. Vale a dire, ritornò al ring.

Partita vinta

Genova, Bologna, Chiudo gli occhi e penso a te, No il cuore tenero: finalmente il personaggio Rascel muove i primi passi, sognando la rivista e il cinematografo. Il benessere, cioè, il successo nazionale. E’ un uomo tenace, ambizioso, duro con se stesso quanto appare bonario nei panni dei suoi bislacchi antieroi. Il ghiaccio è rotto, si va stabilendo una intesa fra lui e il pubblico stufo dell’umorismo da caserma. Le filastrocche di Rascel riflettono il dubbio, lo scoramento dell’uomo comune.

Ormai, scricchiola il regime. Si fa cupo l’orizzonte politico. La guerra, i bombardamenti, il razionamento, il coprifuoco, le persecuzioni: il dramma nazionale precipita In sequenze agghiaccianti. Il pappagallismo in camicia nera è diventato roba per umorismo nero. E’ un umorismo che non piace all’italiano degli anni quaranta. Quando viene l’8 settembre, a Rascel tocca filarsela se non vuole finire al nord. La carriera del piccoletto è interrotta. Addio, sogni di gloria.

«Ripresi a lavorare con la stagione 1945 a Milano, teatro Mediolanum, con una rivista tutta mia». Finalmente. Viva fra diavolo era il titolo. Rascel provava senza fretta perchè gli mancava la primadonna. Aveva bisogno di una attrice non di una soubrette. Era un copione difficile, c’era tanta elettricità nell’aria, bisognava dominare qualunque reazione del pubblico: il gusto per la satira era andato perduto. Una sera, l'attore capitò al Nuovo. Recitava la compagnia di Ruggero Ruggerì. Lilla Brignone era in gran forma. Rascel le si presentò in camerino e le propose di fare rivista. Lui non aveva un nome famoso ma si sentiva sicuro del fatto suo. «E perchè no?» rispose la Brignone. Viva fra diavolo andò in scena il mese successivo. L’autorità dell’attrice in passerella salvò lo spettacolo. Renato Rascel ebbe partita vinta.

Gli piace, oggi, ripercorrere con la memoria la lunga strada del successo. Si sente un uomo arrivato. «Ho ricavato dal mestiere più incerto, difficile, le soddisfazioni che ho voluto». E* ricco, molto ricco. Abita in cima a Monte Mario un attico panoramico. Lo studio è arredato come la cabina di una nave di lusso perchè «quando lavoro amo pensare di divertirmi»: la cuccetta soffice, le finestre tonde come oblò e ninnoli preziosi dappertutto. Indossa una maglietta rossa. Ha i pomelli infervorati, gli occhi ammiccanti, i capelli stirati sulla fronte. Dà gli ordini ai camerieri attraverso il telefono Interno.

Dice: «Sono stato il primo a rappresentare in Italia una commedia musicale: Attanasio, cavallo vanesio. Sono stato il primo a sperimentare gli effetti del teatrino da camera: Senza rete, Un dito nell'occhio arrivarono con anni di ritardo. Dopo Arrivederci Roma, mi sarebbe stato lecito trasformarmi in un professionista della canzone: non ho voluto, perchè il mio mondo è il palcoscenico, perchè la musica e un hobby». Dice, ancora: «Il mio personaggio ha seguito una evoluzione costante, ha sempre evitato di cristallizzarsi In un modello di successo, l’ho condannato a trasformarsi».

Quest'anno presenterà al pubblico un nuovo spettacolo di Giovannini e Garinei e assicura che sarà qualcosa di sorprendente. «Stiamo provando a tutto ritmo»: lui, Delia Scala e i coristi. Non vi saranno altri attori, difatti. Le girls e i boys, lui, li definisce coristi. «Sarà uno spettacolo di satira attuale nel quale si vedrà un Rascel in nuova edizione»: lo afferma il piccoletto, conviene dargli credito.

Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 8 ottobre 1964


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