Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1968
Indice degli avvenimenti importanti nel 1968
Inizia il primo ciclo di film che la televisione dedica a Totò
Indice della rassegna stampa dei film per il 1968
Capriccio all'italiana Distribuzione anno 1968
Totò Story film di montaggio distribuito nel 1968
Altri artisti ed altri temi
Totò
Articoli d'epoca, anno 1968
Totò ritorna sul video per regalarci qualche ora di serenità
Dove sono finiti tutti i soldi di Totò?
Totò story (1968)
La vedova di Totò torna sullo schermo con un film di donne per soli uomini
Franca Faldini «gira» a Milano e a Cortina d'Ampezzo con la regia di Vittorio Caprioli - Il soggetto di «Scusi, facciamo l'amore?» è stato tradotto in inglese dalla stessa attrice - E la famiglia De Curtis? «Per me ora non esiste più»
Milano, martedì sera.
Fra non molto Milano sarà invasa da una «troupe» cinematografica, capitanata da un napoletano: Vittorio Caprioli. Si gireranno gli esterni di un film che il regista aveva in mente da molto tempo Scusi, facciamo l'amore. I! soggetto è stato scritto da Caprioli instante alla moglie, Franca Valeri, in italiano e tradotto in inglese dall'amica Franca Faldini; la coppia infatti se la cava magnificamente in francese, assai meno in inglese.
La bella vedova di Totò, avrà nel film una parte di rilievo, smentendo quanto aveva affermato: «A 36 anni suonati mi sento troppo vecchia per ricominciare la carriera di attrice, specie ai nostri giorni in cui le dive incominciano in fasce». Ma all'amico Caprioli Franca non ha avuto il coraggio di dire di no e adesso non se ne pente, anche se afferma che il suo vero lavoro non è quello dell'attrice, ma della traduttrice. «E' un'attività che mi soddisfa completamente e mi lascia libera, perché posso farlo ovunque. Adesso ho appena finito di tradurre per Longanesi A second hand life».
Abbiamo incontrato la Faldini a Milano a un ricevimento offerto per la finale di un concorso. Con una risposta azzeccata a una inchiesta la bella attrice aveva vinto un magnifico abito da sera (che ha indossato proprio a Capodanno). Le chiediamo come sono i suoi rapporti con la famiglia De Curtis. «Per me con la morte di Totò questa famiglia non esiste più. Comunque, non sono rimasta delusa, perché io' non mi aspetto mai nulla, questa è una filosofia che mi ha insegnato lui. Eppure non sono triste, anzi tutt'altro».
Del film di Caprioli parla volentieri, una pellicola con tante donne, in cui la Valeri avrà una particina. Caprioli è felice di dover passare due mesi fra Milano e Cortina d'Ampezzo, perché è un napoletano che ama il nord e a Milano ha vissuto molti anni con «I gobbi». ha sposato una milanese e qui si trova bene. Il film dovrebbe essere la versione play-boy, come lo hanno visto e capito le tante donne — tutte possessive — che lo hanno avvicinato.
I progetti cinematografici dell'attore-regista (nel prossimo film non avrà alcuna parte), finché non si mette dietro una macchina da presa, assomigliano un po' al gioco delle scatole cinesi. Una idea dà il via alla prossima e il primo soggetto non ha che una vaga parentela con quello definitivo. Caprioli li sviluppa e li scarta a seconda del suo divertimento personale. Se un'idea rischia di annoiarlo passa subito a quella successiva senza sosta.
Nedo Ivaldi, «Stampa Sera», 2 gennaio 1968
A quasi un anno dalla morte di Totò, già si paventava una riscoperta da parte della televisione della sua grande arte...
L'impareggiabile Totò commemora sè stesso
Nella sua ultima falica il grande attore s'è confermato, nonostante la banalità del testo, comico di razza senz’ombra di declino
Morto Totò, si è data la stura alle orazioni funebri, alle biografie dettagliate, alle rimembranze di ogni genere. Giusto. Ma si sa che senso di inutilità e spesso di fastidio si trascinino dietro gli encomi e i compianti d'occasione. Il migliore modo — l'unico modo — di ricordare un attore è quello (quando è tecnicamente possibile) di riascoltarlo e di rivederlo. Totò ha lasciato una valanga di pellicole, molte delle quali girate senza un discernimento, dove pareva che regista, soggettista e sceneggiatore fossero andati a gara per deprimere e impacciare anzichè esaltare le doti del grande comico. Probabilmente qualche casa di distribuzione riproporrà un certo numero di pellicole, scelte fra le valide che non mancano, e ci meravigliamo che l'iniziativa non sia stata già presa; probabilmente, quest'anno o l'anno prossimo per l'anniversario, la TV allestirà una delle consuete rassegne cinematografiche. Ma ora, subito, a pochi giorni dalla scomparsa, proprio la TV ha avuto da offrirci un documento di enorme interesse sull'estrema attività di Totò: questo show che impegnava l'attore da sei mesi e la cui fine di lavorazione ha coinciso con la sua scomparsa. [...] Ma in ogni caso resterà Totò e in noi resterà la convinzione — davanti a prove di vitalità artistica così inconfutabili — che il vecchio comico, sino all'ultimo, è stato un fuoriclasse.
Ugo Buzzolan,«Stampa Sera», 6 maggio 1967
«Gli anni 70 e la RIscoperta di Totò»
Totò un anno dopo
Totò: scomparve improvvisamente un anno fa. Tra breve la televisione riproporrà agli spettatori, in un breve ciclo, quattro dei suoi film, e precisamente: 47, morto che parla, Il coraggio, I tartassati e La banda degli onesti. Non sono le pellicole più note e popolari interpretate dal grande attore scomparso, ma quelle che molti considerano le più impegnate e nelle quali rivedremo appunto un Totò meno mimo e più rivolto ai contenuti. Sono forse i film più autentici del «comico dalla faccia tragica».
«Radiocorriere TV», aprile 1968
Torna Totò
Un ciclo di film nell'anniversario della sua scomparsa E' ritornato Totò sul video col film «Il coraggio». Morì un anno fa e venne subito commemorato con una trasmissione, «Tutto Totò», che aveva appena finito di girare.
«Corriere della Sera», 18 aprile 1968
ore 21,15 secondo
Il rimprovero più frequente (e più banale) che» taceva a Totò riguardava la sua acquiescenza nel confronti dei «testi» per i quali era richiesta la sua collaborazione di attore, Totò, c'è detto, accettava qualsiasi soggetto, qualsiasi sceneggiatura, anche i più superficiali o volgari, senza apparai temente preoccuparsi della mediocrità di risultati che. inevitabilmente, ne sarebbe venuta. Perché diciamo che il rimprovero era banale? Perché non è affare dell'attor comico occuparsi della qualità delle storie che lo hanno a protagonista (il valore della sua esperienza è strettamente personale); e Inoltre perché Totò ha ogni volta «reinventalo» i personaggi che gli sono stali affidati, costruendoli sulla misura della propria stralunata e astratta definizione di interprete. Per questo i casi di intervento nella fase preparatoria di un film sono stati, per quanto lo riguarda. molto rari. Si può citare il titolo di Siamo uomini o caporali, nato da una sua idea, oppure quello di II coraggio, il film che si vede questa sera; e con ciò si i quasi del tutto esaurito l'elenco degli esempi.
Il coraggio nasce da una coro media scritta dal fiorentino Augusto Novelli nel '14, una delle non poche che questo autore soprattutto vernacolo compose, come si dice, «In lingua». Un bozzetto semplice e bonario, però dotato di una sua immediatezza e di riscontri risentiti, talvolta polemici. con la realtà da cui prendeva le mosse. Del testo di Novelli Totò fece, com'era giusto, una cosa sua, e quindi prima di tutto contemporanea (la modernità dei suoi umori comici). Al suo personaggio — un povero diavolo che si butta a fiume, viene salvato, e pretende che il non invocato salvatore si accolli l'onere del mantenimento suo e della sua numerosa famiglia — cambiò non soltanto il nome, ma la fisionomia psicologica, facendone un verace rappresentante della napoletana (o italiana) arte di arrangiarsi.
Se tra le molte cattive pellicole che Totò ha magistralmente interpretato. Il coraggio occupa un posticino non proprio trascurabile, la ragione è questa: che in essa Totò è acida to assai vicino alla definizione del suo personaggio-tipo, un grande personaggio.
Non quello «umano» o mutuato alla realtà che molti ancora oggi considerano il suo più valido ma precisamente opposto Tra i vari modi possibili di far ridere la gente, infatti, a Totò toccava per istinto quello che si fonda sul capovolgimento dei luoghi comuni del perbenismo, del parlare corretto e del comportarsi civilmente La sua umanità non andava cercata in direzione dell'usuale, era moderna e acre, una buffoneria geniale che superficialmente potè essere considerata «minore», criticata e tartassata, e dalla quale si voleva che egli si li beresse per trasformarsi in uno dei mille attori che nella realtà cercano modelli da imitare, e non temi da stravolgere.
Era un'umanità autentica nella misura in cui autenticamente si collocava nel suo tempo (perciò nel nostro) dimostrandosi ribelle e insofferente di esso, capace di annichilire con uno sberleffo, una smorfia o una parola le false verità. L’umanità del grande clown: istinto e lucida intelligenza puntati contro le comode bugie del sentimento.
Giuseppe Sibilla, «Radiocorriere TV», aprile 1968
La fortuna di un film di Totò era spesso legata a una battuta che detta da un altro comico, non avrebbe probabilmente fatto ridere nessuno. Alcuni motti famosi del nostro attore: «A prescindere», «Siamo uomini o caporali ?» e, ne La banda degli onesti, «Portieri si nasce». Tali frasi, a volte di gusto discutibile, gli servivano per accattivarsi consenso del pubblico popolare che lo amava. Una volta assicuratasi l'attenzione degli spettatori, Totò gli imponeva delle osservazioni di aspro realismo. Si vedano, nel film presentato questa sera, le sequenze della morte del vecchio tipografo e della cerimonia della firma, che sono spia di una visione tragica della vita e che, riproposte da sole, difficilmente sarebbero state «digerite» dalle platee più rozze. Sono molti, nella lunga carriera dell'attore napoletano, i momenti di forte amarezza.
Si ricordino gli sguardi dell'accompagnatore di Yvonne la Nuit; le smorfie del padre di famiglia, costretto a sistemare i suoi in un cimitero, in Totò cerca casa; le sorprese dell'osservatore di Napoli milionaria: i silenzi di Salvatore Lojacono che, scoperte le ipocrisie del nostro mondo, preferisce cercare un pò di dignità in carcere del rosselliniano Dov'è la libertà?; le considerazioni umanistiche del piccolo imbroglione di Guardie e ladri ; le lezioni del «maestro» dei Soliti ignoti; le massime del poveraccio, lamentoso e felice, crudele e candido di idi Pasolini che, dalla vita, ha imparato un unico insegnamento; è bene badare a stare il meglio possibile; e, infine, si tenga presente tutto il personaggio di Antonio Bonocore di La banda degli onesti, disgraziato titolare di una «portineria ben avviata» che, per difendersi dalle prepotenze altri, è costretto a trasformarsi in falsario (pur continuando a sentirsi un «cittadino ligio alle leggi»).
Come il vecchio Pulcinella, Totò sembra sempre sul punto di ripeterci: «Sono vivo perché non sono morto ancora». In questa massima assurda, eppure vera, poteva esserci una grossa scoperta che approfondita avrebbe fatto di lui un grande personaggio del cinema comico, da mettere forse vicino a Charlot e a Keaton. Ma quasi non volesse saperne, quasi temesse cosi facendo di perdere l'applauso del pubblico, il nostro attore si scuoteva, riprendeva a snocciolare battute di conio assai facile, a ripetere lazzi dì precisa derivazione rivistaiola.
Insomma Totò possedeva una grande carica tragica, la stessa che rende tanto vive certe splendide figure che si intravvedono nei canovacci della commedia dell’arte. Poteva diventare una sorta di Ruzzante meridionale, e narrarci la storia dei discendenti dei nostri poveri costruttori di castelli e di cattedrali, degli eredi del nostro umile, muto passato contadino. Lo lasciò capire, più che nei film diretti da registi di indubbio temperamento artistico, in commediole minori, ma essenziali per intendere il suo personaggio, come La banda degli onesti, che è scritta da Age e Scarpelli e realizzata da Camillo Mastrocinque. Lo stesso Totò si rendeva conto di tutto ciò, e in una delle sue ultime interviste confessò: «La mia vita è un fallimento».
Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968
Totò e il calcio
Il film di ieri sera, «I tartassati» (1959, regia di Steno), non era certamente un gran film e non occorreva un acume critico particolare per qualificarlo.
«Corriere della Sera», 25 aprile 1968
Una volta tanto Totò non fa la parte del poveraccio. Ma in 47 morto che parla di inedia rischia di morire lo stesso. Il barone Antonio Peletti, il protagonista del film diretto da Carlo Ludovico Bragaglia, è avaro, avarissimo. E‘ cosi taccagno che, per risparmiare qualcosa, non da il buongiorno alla gente incontrala per strada. Lesina su tutto: sull'acqua da bere (« mezzo bicchiere è fin troppo») e sulla biada del cavalla perché, spiega. «bisogna abituarlo a non mangiare». Pretende che gli altri siano generosi con lui. Il cameriere deve servirlo gratis.
Il mendicante, che chiede l'elemosina davanti il suo palazzo, ha da pagargli l'affitto del posto occupato, e il macellaio bisogna si adatti a consegnargli, oltre alla carne, del denaro le poche volte che ha l'onore d’avere il barone come cliente, E, nonostante possegga una cassetta di gioielli e di monete d'oro, il nobile Peletti se ne va in giro agitando un "certificato di povertà".
47 morto che parla, un film ispirato a un lavoro di Petrolini «aggiornato» da Age, Scarpelli, Marchesi e Metz, è spia del metodo usato da Totò nel disegnare un carattere. L'attore napoletano, che pure aveva il gusto dell'osservazione realistica (e lo dimostrò in parecchie comiche), evita qui il «ricalco dal vero». Preferisce rafforzare le tinte, esagerare le movenze, «scatenarsi» nelle invenzioni come si è sempre fatto sulle tavole degli spettacoli popolari.
Si veda, in 47 morto che parla, che cosa sia andato a scovare nei magazzini dello studio: un cappellaccio duro, un bastone da sbattere sulle spalle dei monelli. un mantello alla Dracula, un paio di guanti che lasciano le dita in libertà. E, dentro quei panni che farebbero la gioia di un guitto, si muove su uno scenario da operetta con l'aria più naturale di questo mondo. Sa che per merito suo, il pubblico accetterà la piu smaccata convenzione teatrale, non si preoccuperà dell'assenza d’ogni verosimiglianza.
A guardare bene. Totò non sta quasi mai al gioco del verosimile, da cui altri comici sanno ricavare occasioni d'allegria Si, dietro te spalle detrattore, che certe volte appariva nelle vesti del « pazzariello » napoletano, si scorge la faccia bianca di farina, tagliata nel mezzo dalla maschera di cartone, di Pulcinella. Ma, si badi, Totò finge d'essere il diseredato cui la gran fame torce le budella o il barone che, per non spendere, si dimentica di man fruire. Povero oppure avaro, lo è per burla, per finzione. E' l'attore che, recitando la scena della fame o dell'avarizia, sa di divertire il pubblico. E' il buffone di quella nuova, spesso crudele corte che è la platea cinematografica.
Insomma, per riprendere una intuizione del critico E. F. Palmieri Totò era un miserabile o un barone da commedia; ossia, in lui un istinto realistico era stato modificato dalla consuetudine cui varietà minore che, al rozzo ma genuino umorismo contadino, preferisce le barzellette da caserma. Eppure proprio lavorando su materiali discutibili, che oggi possono sembrarci «superati», Totò riuscì a tenersi stretto il suo pubblico per decine e decine danni.
Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968
Quanti film ha fatto Totò? Quanti Fabrizi? Chi volesse conoscerne la cifra esatta non avrebbe, per abbeverarsi, altra fonte che quella rappresentata dalla curiosa categoria di appassiunati di cinema la cui occupazione consiste nel catalogare, pazientemente e quotidianamente, i titoli di tutti i film che vengono pubblicati nel mondo, l'anno di produzione, il regista, gli interpreti. Si chiamano schedatori, e annotano senza parzialità le fatiche di Godard e quelle di Giorgio Simonelli, di Greta Garbo e di Maria Grazia Buccella. Sulle loro fitte paginette, alle voci « Totò » e « Fabrizi », si trova scritto ad un certo punto: « 1959: I tartassati, regia di Steno. Altri interpreti: Louis de Funès, Kathia Caro e Luciano Marin ».
Subito dopo l'elenco prosegue, implacabile e meticoloso: non c'era spazio per ricordare che I tartassati non è stato un film esaltante, ma neppure di quelli che si è svelti a dimenticare.
Una storia dai risvolti umani un tantino traboccanti, paciosa e prevedibile nella misura in cui, per una metà almeno, e costruita sulla pelle di un interprete col cuore costantemente in mano come Fabrizi. Fabrizi nei panni del maresciallo Topponi, agente della Tributaria, incaricato di rivedere le bucce alle cartelle delle lasse del commerciante Torquato Pezzella, che è un Totò pericolosamente tentato dai vantaggi dell'evasione fiscale. La lotta tra i due antagonisti, si capisce, è portata avanti in termini di durezza che sottintendono in modo fin troppo evidente la disponibilità alla comprensione (non sono tutti e due, ciascuno per il suo verso, dei « tartassati »?), ed è complicata dagli intrighi amorosi che riguardano la generazione ignara del figli,
Niente film esaltante, e niente storia peregrina. Ma in tema di film comici, condizioni di questo genere non sono sempre sufficienti (per fortuna) a cancellare i motivi di interesse. Nei film comici ci sono, appunto, i comici: li costruiscono per loro, e loro di giorno in giorno li inventano e qualche volta perfino li salvano, almeno per quanto strettamente li riguarda. Accade per le farsacce peggiori, ed è accaduto, in parte, anche per I tartassati.
Dopo il successo di «Guardie e ladri», Totò ed Aldo Fabrizi si ritrovarono ne «I tartassati» (1959). Ecco il comico napoletano in una sequenza del film: il suo ruolo è quello di un commerciante alle prese con un agente della Tributaria
Il film costituisce perciò una buona occasione d'incontro con due delle più spiccate personalità comiche che il nostro cinema, in questo senso tanto avaro, ha prodotto. Più immediatamente avvicinabili, se vogliamo più scontate, le qualità di Fabrizi, già tutte svelate nella sua maschera: ironia e saggezza popolaresche, stupori e ripensamenti improvvisi, un modo di guardare la realtà che, oltre gli scappi della trovala buffa, dimentica spesso gli umori autentici per volgervi ad una malinconia conclusa nell'abbraccio e nella lacrimuccia (però bisognerà ricordare il parroco di Roma città aperta, che gelava le lacrime nella dignità).
Quanto a Totò, la sua comicità aveva radici diverse. Non si compiaceva di retorica e di abbandoni, ma della loro negazione, era puntuta e acre, negava i « buoni sentimenti » invece di coltivarli. Spesso s'è perduto anche lui, per errore suo, ma più di soggettisti e registi, nella ricerca del melodramma, ha compresso la libertà dei suoi estri come vergognandosene : oppure se n'è lascialo trascinare oltre il limite, cadendo nella buffoneria bécera e gratuita. Però è difficile che nel suo film più casuale non possano ritrovarsi uno sprazzo, un lampo, che lascino almeno intuire quale avrebbe potuto essere il valore di un'esperienza come la sua, se non l’avesse tanto sovente compromesso la massacrante routine della formula.
Giuseppe Sibilla, «Radiocorriere TV», aprile 1968
Ho ancora nei cassetti lettere dell'anno scorso che sparano a zero contro «Tutto Totò», la trasmissione a puntate apparsa lo scorso anno subito dopo la morte del comico. Leggo qualche frase: «La Tv non avrebbe mai dovuto permettere l'andata in onda di un programma che infanga il ricordo di un attore come Totò»; oppure: «E' mai possibile che dal video Totò non riesca a farci fare una sola, dico unr sola risata?»: e ancora: «Ci domandiamo perché la città di Napoli, in blocco, non sia insorta, ecc., ecc.». A parte il fatto che un'insurrezione generale della pur generosa comunità partenopea sarebbe stata in questo caso eccessiva, bisogna riconoscere che il ciclo era stato un fallimento.
Ora, ad un anno di distanza, ecco un'altra commemorazione. Stavolta si è ricorsi a quella grande e sicura àncora di salvezza che è il cinema e si è varato una breve rassegna composta di quattro pellicole: abbiamo visto IL CORAGGIO e I TARTASSATI nelle settimane passate: mercoledì scorso abbiamo visto LA BANDA DEGLI ONESTI e mercoledì prossimo potremo assistere a QUARANTASETTE MORTO CHE PARLA. Sono, nella sostanza, dei filmetti. Ma non vogliamo riaprire qui la questione, su cui sono stati profusi ettolitri di inchiostro, del perché Totò accettasse ì filmetti («E' lavoro» mi disse nel 1956, a Torino, durante un'intervista). Piuttosto vogliamo far rilevare un'altra cesa, che nessuno ha protestato, nessuno ha scritto lettere colleriche o accorale.
I filmetti sono piaciuti. Non hanno entusiasmato, ma sono piaciuti: in realtà sono produzioni con un sacco di limiti, però dignitose, non prive di spunti e di battute dove Totò ha modo, per lo meno, di costruire compiutamente dei personaggi che sono farseschi ma non burattineschi, ossia non privi di uri certo approfondimento psicologico, di un certo calore umano. Senza contare che nei tre film già proiettati le «spalle» di Totò si chiamavano Gino Cervi, Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo.
Ugo Buzzolan, «Stampa Sera», 4 maggio 1968
Una commedia da un film di P.P. Pasolini
Presentata dagli universitari di Parma. «Uccellacci e uccellini» ha concluso la rassegna al Gobetti - Nasce (forse) un teatro del movimento studentesco
Tranne Uccellacci e uccellini, che conviene considerare sotto un altro profilo, gli spettacoli della « Settimana universitaria teatrale » conclusasi ieri sera al Gobetti sono stati menoi importanti, e direi anche meno interessanti, dei dibattiti che li hanno accompagnati e nei quali i registi, gli attori e gli animatori dei CUT. (Centri universitari teatrali) hanno dimostrato un equilibrio, una maturità e una chiarezza di idee che non trovava riscontro in quasi tutti i loro allestimenti incerti, ruvidi e ideologicamente confusi.
E si spiega. La rapidità con cui il movimento studentesco si è sviluppato negli ultimi mesi, e gli aspetti inconsueti e imprevedibili che ha assunto, hanno preso in contropiede anche i Cut: le strutture sono apparse poco agili, o addirittura inefficienti, gli spettacoli ' sorpassati o inutili. Se ne sono resi conto per primi gli stessi promotori: nelle discussioni, niente affatto tumultuose, svoltesi in sala a sipario chiuso e proseguite sulle scale, nel foyer, per istrada, questi giovani sono stati solleciti non proprio a rinnegare le loro creature ma ad esaminarle con il necessario distacco critico.
Non solo. In un convegno tenutosi all'inizio della rassegna, dopo aver dato un giudizio negativo sul teatro italiano d'oggi ritenendo che « teatro a gestione pubblica significhi, nell'attuale sistema, teatro al servizio del potere », i rappresentanti dei Cut hanno onestamente riconosciuto i limiti della loro passata attività e hanno deciso di qualificarsi, in alternativa al teatro ufficiale, come teatro del movimento studentesco. Per discutere su questo nuovo orientamento e trarne indicazioni per il futuro, hanno infine stabilito di ritrovarsi a Perugia alla fine di maggio.
La fraseologia rivoluzionaria e l'inevitabile tributo alla moda della « contestazione globale » non riescono a nascondere un'opinione piuttosto ragionevole. Lo dimostra la crisi dello Stabile torinese che pure, a costo di darsi la zappa sui piedi, ha lodevolmente organizzato questa settimana universitaria con il concorso dell'Assessorato ai problemi della gioventù: una crisi che non è ancora risolta, e lo sarà probabilmente soltanto con un compromesso, appunto perché le intrusioni politiche, aggiungendosi alle contingenti preoccupazioni elettorali, confermano che i teatri a gestione pubblica continuano ad essere in Italia, se non proprio « al servizio del potere » (.che è un'espressione troppo grossa e abbastanza ingenua), per lo meno strumenti del sottogoverno.
Insomma, sta per nascere un teatro del movimento studentesco. Come si configurerà, ancora non lo sanno con esattezza neppure coloro che lo dovranno tenere a battesimo a Perugia. E' probabile, e anche augurabile, che sarà diverso dall'attuale teatro universitario: gli spettacoli presentati in questi giorni dal Cut di Perugia (Jacques o la sottomissione di Ionesco), di Firenze (Mistero buffo di Maiakovski e La linea di condotta di Brecht) e di Bari (Giulietta, Romeo e la peste dalla tragedia scespiriana) possono, tutt'al più, fornire qualche vaga indicazione. Non ne offre nessuna quello del Cut di Parma e, non sembri un paradosso, proprio perché è superiore agli altri, artisticamente e tecnicamente, ed è allestito da un complesso che, anche in campo internazionale, è considerato tra i migliori del genere.
Con Uccellacci e uccellini, come s'intitola la rappresentazione del regista jugoslavo Bogdan Jerkovic, il Cut parmigiano può dare dei punti anche a una compagnia professionale, ma inevitabilmente, non coglie i fermenti che agitano ora i gruppi teatrali studenteschi e che gli stessi universitari di Parma incominciano ad avvertire il bisogno di tradurre in nuove scelte. Non che Pasolini, come pure abbiamo sentito dire, sia un autore « reazionario »: qui al dubita dell'utilità di tradurre per il teatro la sceneggiatura di un film la quale, dice lo stesso Pasolini, usa un linguaggio che allude a un altro linguaggio, quello cinematografico; ma non si nega l'impegno civile, e anche la spinta rivoluzionaria, di una problematica che rimette in discussione tutte le ideologie, non escluso il marxismo.
L'operazione, oltre che ambigua, era disperata. Ma non si può non ammirare l'ingegnosità e la felicità con cui il regista ha cercato di riversare in equivalenti teatrali, o di usare come materiali scenici, le strutture di un testo concepito per lo schermo, sul quale esso ha infatti trovato la sua naturale espressione. Tranne il primo episodio, che gli spettatori del film non hanno visto: un clownesco domatore tenta invano di instillare in una aquila (simbolo del Terzo Mondo) i logori messaggi della civiltà occidentale.
Ma negli altri due episodi (la predica francescana alle classi dei falchi e dei passeri senza tuttavia che sia possibile insegnare all'una a non dilaniare l'altra; il fallimento e la miserevole fine di un corvo marxista nei suoi sforzi di costringere il piccolo borghese a una presa di coscienza), le immagini del film interpretate da Totò si sovrappongono continuamente, riuscendo spesso a sopraffarle, a quelle necessariamente più limitate che offre il palcoscenico.
Alberto Blandi, «Stampa Sera», 6 maggio 1968
La nipote di Totò cade dalla finestra
Durante un litigio col marito. La donna, 21 anni, è morente
(Dal nostro corrispondente) Napoli, 25 luglio.
La nipote dello scomparso attore napoletano, Totò, Maria Rosaria De Curtis, di 21 anni, madre di un bimbo di tre mesi, è morente all'ospedale per una caduta dal balcone. I carabinieri stanno svolgendo indagini, per stabilire se la donna è caduta o è stata spinta dal marito durante un litigio. Soccorsa in fin di vita dai vicini, è stata trasportata in un ospedale cittadino. Vi sono scarse speranze che la donna si salvi. I sanitari le hanno riscontrato la frattura della base cranica, grave stato commotivo, ferite in varie parti del corpo. Il marito, Salvatore Ramaglia, di 22 anni, si è reso irreperibile.
«Corriere della Sera», 26 luglio 1968
Altri artisti ed altri temi
Articoli d'epoca, anno 1968

Galileo fa ancora paura

«Vietato ai minori»: moralismo e sesso nel mirino dei censori
