Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1976
Indice degli avvenimenti importanti nel 1976
Agosto 1976 Esce nelle librerie l'opera di Goffredo Fofi «Il teatro di Totò» (Più-Libri pagg. 225, lire 10.000), testo fondamentale per la conoscenza del Totò attor comico di teatro.
In molte sale cinematografiche d'Italia continuano le proiezioni dei film che hanno reso famoso Totò, non si contano dibattiti e retrospettive Si moltiplicano le iniziative.
Altri artisti ed altri temi
Totò
Articoli d'epoca, anno 1976
Totò e il teatro
Gli anni 70 e la RIscoperta di Totò
Pierpaolo Pasolini: ecco il mio Totò
Tutto Totò
Al cinema Argentina nuovo festival del grande comico
Il grande Totò è tornato, in una retrospettiva di successo al cinema Argentina. Sono già stati proiettati film come «Il medico dei pazzi», «Totò a Parigi». Oggi è in programma «Lo smemorato di Collegno» e, nei prossimi giorni «Totò, Peppino e la banda degli onesti», «Totò a colori», «Totò e il coraggio», «Gli onorevoli», «Un turco napoletano», «La patente» e «Operazione San Gennaro». Si tratta, dunque, di una panoramica che spazia dal primi agli ultimi film del popolare attore napoletano.
Totò, che è scomparso nel 1967, dopo cinquant'anni di lavoro sulle scene e sui set cinematografici, era nato ad Avezzano (1) nel 1898. Aveva sposato Diana Roliani (2), da cui si era separato nel 1939 e poi si era unito a Franca Faldini. Da Diana Roliani aveva avuto una figlia, Liliana.
Il frasario, i gesti, le espressioni delle umanissime farse di Totò hanno fatto ridere gli italiani per decenni. Per sua stessa ammissione il principe Antonio De Curtis Gagliardi Ducas Comnen (il riconoscimento di questo titolo, l’attore non lo aveva avuto con una sfarzosa investitura, ma in una anonima aula della Pretura dopo interminabili udienze, diatribe di avvocati e cavilli giudiziari), non aveva nulla in comune con Totò: «E' un villano — diceva — quando parla agita le mani, fa versacci veste in maniera ridicola». A Totò piacevano le donne formose, il principe amava le donne sofisticate e un po' evanescenti.
Di Totò oggi conosciamo soprattutto i film, sono moltissimi (ne ha girati 106), ma i primi successi li colse sul palcoscenico del varietà. Recitare, più che un’arte, per lui, ad un certo momento, era diventato ragione di vita. E non abbandonò il lavoro neanche quando, nel 1956, la sua vista si indebolì talmente da permettergli appena di distinguere i contorni delle cose. Un amico, Mario Castellani, gli leggeva e gli rileggeva i copioni, che lui non poteva decifrare, finché non li imparava a memoria. Quello che aveva da scrivere lo dettava a Franca Faldini.
Dopo la morte c‘è stata una riscoperta dell'attore, si è parlato di una «charlottizzazione» dell'attore. Ma Totò, al di là di ogni riscoperta critica è sempre stato grande attore per il suo pubblico, per quanti hanno riso e ridono delle sue interpretazioni. Da buon napoletano, dentro di sé era sempre pieno di cose che voleva donare e, in fondo, anche di contraddizioni. Una volta disse: «Ho l'impressione che la gente non sappia niente di me. Al pubblico ho offerto sempre una maschera. Gli piace ed io gliela offro, ma vorrei dargli ancora di più, non so cosa».
NOTE
(1) Totò nacque a Napoli il 15 febbraio 1898;
(2) La moglie si chiamava Diana Bandini Rogliani
Stefano Di Stefano, «Corriere della Sera», 3 luglio 1976
Sulla scena burattino in frac
Al contrario di Petrolini, che si piaceva molto, Totò concepì, verso la fine della vita, una sorta di risentimento verso se stesso. «Totò non mi piace», dichiarò a un intervistatore pressante, «mi diverte, ma non mi piace». E del resto nemmeno Charlot piaceva più a Charlie Chaplin. Per Totò la ricerca delle identità era già totalmente esaurita nel titolo di Principe di Bisanzio, mentre il suo personaggio, malconcio e goffo, ancora si arrabattava nella equivoca arte di arrangiarsi, manichino burattinesco di piccolo borghese che tende tutt'al più a divenir medio e grande, ma non certo aristocratico. La frattura tra miseria e nobiltà era però, a ben guardare, il grande tema del teatro napoletano, e Totò non vi si è mai sottratto: i nobili da lui rappresentati sono sempre stati sciocchi, blesi e futili, mentre i miseri hanno sempre avuto la superba affascinante crudele furbizia della fame: quella aggressiva ricerca del cibo che rendeva dei tutto simile l'ometto ebreo con le scarpacce beffarde sbarcato a New York e il pulcinello in frac e bombetta approdato da un basso napoletano agli sventramenti della Roma Imperiale, cioè da San Giovanni Decollato a Fermo con le mani.
Il ritratto cinematografico di Totò, dopo il suo intenso revival degli ultimi anni, è il più completo possibile, basta girare le sale e di una grande città. Ma ora gustosamente lo possiamo arricchire di raffinate fonti scorrendo il libro che il più fedele tra i devoti, Goffredo Fofi offre col titolo provocante «Il teatro di Totò» (Più-Libri pagg. 225, lire 10.000). Vi sono raccolti i testi dei copioni passati in censura tra gli anni 1942 e 1946, per essere recitati nell’avanspettacolo e nella rivista. Teatro, nel senso tradizionale della parola, Totò non lo ha fatto mai. Non ha mai tentato di recitare Molière (qualche regista ha provato a fargli apprendere le battute dell'Avaro ma ne è è venuto fuori tutt’altro), e solo al cinema ha accettato Scarpetta o Eduardo o Pirandello. Ha rifiutato la tentazione dell’attore colto, forse per accentuare il distacco tra l'uomo e la maschera, che doveva essere il più possibile volgare, cialtrona, ribalda e scurrile, cioè lontana e astratta.
Quanto a scurrilità questi copioni non sono davvero reticenti. «Deh, lasciami andare sui prati a bisciare», recitava Totò Tarzan nel '38, ma l’equivoco fonetico sulla «biscia» lo si può sentire ancora al teatrino di Pulcinella. Totò portava infatti sui palcoscenici delle periferie annaspanti nella volgarità del regime una voglia di aggressività verbale, di sessualità guardona, di doppi sensi oltraggiosi. Non si può parlare mai di satira, in questi canovacci che inizialmente nascono tradizione della scena napoletana (il come scroccare un pranzo all'osteria) e poi si indirizzano verso gli oggetti di dileggio ammessi dalla presunta virilità del regime, come «Il gagà e la gagarella», del 1942.
Sono questi gli anni dell'incontro di Totò con Anna Magnani e con la vena di versificazione qualunquistica in cui fu rigoglioso Michele Galdieri.
Il cinema ci ha restituito molti di questi testi talvolta irresistibili come «L'onorevole in vagone letto» (con Isa Barzizza e Mario Castellani). Della Magnani non abbiamo nulla, eccetto un patetico delizioso sketch restaurato in «Risate gioia» di Mario Monicelli. Dobbiamo dunque affidarci alla scrupolosa filologia di Fofi, cercando di ricostruire con gli occhi del ricordo (quando si ha la fortuna di serbarlo), o con la fantasia non solo l’immagine della grande maschera insostituibile, ma anche il ritratto meno confortante di una italietta forse un po' troppo dura a morire.
Tommaso Chiaretti, «Repubblica», 3 agosto 1976
Un personaggio che si modellava sulle vecchie maschere della commedia dell'arte
Goffredo Fofi (a cura di) IL TEATRO DI TOTO' Più Libri, Milano. 225 pagine, 10.000 lire
Il cinema di Totò si può vedere tutti i giorni. Dopo la morte, il grande comico napoletano conosce una fortuna di critica che da vivo ha sempre, invano, sperato. Ma quanti ricordano il suo teatro? Bisogna ricercare nella fascia di pubblico oltre i cinquant'anni per trovare persone che abbiano applaudito sulla scena Antonio de Curtis, in arte Totò. Cappelluccio sghembo appena appoggiato sulla testa, marsina, calzoni alti sopra la caviglia, un gilet scovato tra gli stracci: il personaggio di Totò si modellava sulle vecchie maschere del teatro dell'arte.
I pulcinella napoletani gli avevano fatto scuola. Testo e autori avevano una funzione del tutto marginale. Nello sketch della «Massaggiatrice», dalla rivista Dei due chi sarà? del 1937, si trovano riuniti il signor Anguilla (Totò), l'amico Capitone e la signorina Sardella. Il comico dopo le presentazioni conclude: «Andiamocene tutti e tre al mercato del pesce». Chi può divertirsi oggi a questa sciocca freddura se la immagina distaccata dalla mimica di Totò che accompagnava la frase, a gesti allusivi delle mani, al rotare surrealistico degli occhi, piegandosi forse in avanti con la mossa disarticolata del burattino di legno. La risata scoppiava spontanea: una reazione meccanica ai lazzi della «maschera», al segno espressivo che essa rappresentava, non già ai contenuti della battuta, il cinema aumentò la potenza comunicativa di Totò.
Il primo e primissimo piano hanno consentito di fissare le immagini di un volto e di una figura che parevano disegnati dai pennelli di un futurista attraverso il filtro del surrealismo. Da questa maschera scaturiva la critica di una società piccolo borghese anchilosata nei suoi modelli disumanizzati. Totò era lo sberleffo più eloquente ed elementare contro la cultura della piccola borghesia fascistizzante. La sua comicità «proletaria» e «sottoproletaria», come molti l'hanno definita, nasceva forse soltanto da un esercizio tecnico affinato nelle piazze, nei quartieri e nei teatrini della vecchia Napoli dominata dalla tradizione dei pulcinella. Le ambizioni sociali e le opinioni politiche del «principe» di Bisanzio non hanno forse mai coinciso con i giudizi della critica, né quando lo reputava un volgare guitto al servizio dell'industria cinematografica, né oggi che lo ritiene un simbolo della rabbia proletaria. Il cinema ci ha conservato un Totò congelato nella ripetizione infinita dell'immagine fissa. Il teatro offriva il Totò più autentico, quello dell'improvvisazione, al contatto diretto con gli umori del pubblico in sala.
Ma questo ricco patrimonio di espressività è ovviamente, e irrimediabilmente, perduto. Goffredo Fofi, primo e profondo studioso del fenomeno Totò, ha cercato di ridurre la perdita pubblicando i testi più significativi del teatro portato sulle scene d'Italia dal comico napoletano, prima che fosse completamente assorbito dagli allettanti guadagni del cinema. Si tratta di una raccolta di numerosi sketch, dalla «Scampagnata» alla «Balia», dagli «Uomini a nolo» a «Un salotto a Capri» fino al celebre «Onorevole in vagone Ietto»: gli anni quelli compresi tra il 1932 e il 1946. Sono brani tratti da tutte le più importanti riviste di Totò: Accadde una notte che,.Se fossi un Don Giovanni, Quando meno te l'aspetti, Che ti sei messo in testa, C'era una volta il mondo. Gli autori sono notissimi ai frequentatori del teatro di rivista di quegli anni: Bel Ami, Galdieri, ma in gran parte lo stesso Totò. Un libro importante che mancava (come molti altri: pensiamo a Macario, Rascel, Sordi, Tognazzi, per fare soltanto alcuni esempi) nel povero panorama degli studi sul remico italiano. Peccato. Accanto ai testi mancano soltanto gli occhi rotanti e il mento assurdo della maschera di Totò.
Sandro Casazza, «La Stampa», 4 settembre 1976
Ci sono due buone ragioni questa sera per sintonizzarci con l’emittente televisiva di Capodistria. Alle 21.35 va infatti in onda «Totò terzo uomo» in cui il principe De Curtis ha come partner una bellona degli anni cinquanta, la maggiorata Franca Marzi, la cui carrozzeria all'epoca era oggetto dì entusiastici apprezzamenti.
Il film è firmato da Mario Mattoli, uno dei più prolifici artefici di quelle satirette all'italiana piene di mariuoli, di stracci e di letti con testate di ferro. Per gli spettatori italiani, e sono tanti, che ancora non riescono ad abituarsi alla mancanza di Totò dieci anni dopo la sua morte, l'occasione è di quelle da segnare sul calendario. Anche se Totò ebbe nella primavera di tre anni fa un lungo omaggio da parte della televisione italiana che mandò in onda otto suoi film, compreso il famoso «Uccellacci» di Pasolini che doveva assicurare al comico partenopeo una piccola nicchia nella galleria del cinema d'impegno.
Il film di stasera appartiene a quella commedia degli equivoci che, rispettando una tradizione del teatro all'antica italiano, piaceva tanto al defunto attore. «Totò terzo uomo» racconta infatti le vicissitudini di tre gemelli che in un piccolo paese si battono per la costruzione di un nuovo penitenziario. Tra il fratello sindaco, austero, rigido, egoista e il gemello spregiudicato e leggero, li gemello Totò s’inserisce con le sue trovate geniali e pacificatrici. Per l'occasione si rivedono Aroldo Tieri, Carlo Campanini e la sullodata Franca Marzi.
La serata televisiva doveva essere completata da un secondo film interpretato da Totò, «Sua eccellenza si fermo a mangiare». Lo aveva annunciato tele-Montecarlo che però, constatata la concomitanza con Capodistria, ha deciso di modificare il programma della serata: alle 21.10 andrà infatti in onda l'avventuroso «Alla conquista dell'Arkansas» con Mario Adori e Fulvia Fianco. Ma hanno un senso oggi queste riproposte dei film di Totò, sempre frequenti?
E' abbastanza noto che il Totò degli ultimi tempi era il primo a non amare il suo personaggio più clamorosamente popolare. Non gli piaceva la sua faccia lunga e triste, la sua deformità suscitatrice di risate, la sua superficialità ridanciana. «Quando ascolto storie divertenti — aveva detto in una delle ultime interviste a Maurizio Chierici — io mi limito a sorridere, un pò per educazione e un po’ per non assomigliare a Totò. Resto sempre il principe De Curtis, un gentiluomo. Invece Totò è un villano: quando parla agita le mani, strizza l'occhio. Avete mai notato come veste? Ridicolo. Il principe invece è compassato, riservato, il suo sarto ha l'ordine di vestirlo di scuro, disdegnando la moda: un taglio classico, non vistoso».
Che Totò fosse un vero signore lo conferma anche Franca Marzi che oggi dirige con suo marito Franco Festucci un'azienda vinicola, e che non perde un film del suo ex compagno di lavoro, a costo di andare a rivederselo nel cinema di periferia. «Era un gran signore, anche quando si metteva a corteggiare le sue partner — racconta la Marzi —, e capiva al volo quando proprio non c’era niente da fare. Con la sua classe, del resto, si poteva anche sorvolare sul fatto che un Adone, Totò proprio non lo era!»,
R. S., «Corriere della Sera», 9 settembre 1976
«L'Unità», 9 settembre 1976
«L'Unità», 25 settembre 1976
«L'Unità», 14 novembre 1976
A breve distanza dalla programmazione del celebre film di Jullen Duvivier Il bandito detta Casbah (ovvero Pepè le Mokò) dedicato al suo indimenticabile, recentemente scomparso, interprete Jean Gabin, ci pare curioso che la Rete 1 abbia voluto inserire in cartellone questa settimana (e precisamente mercoledì 8 dicembre, alle 14) Totò le Mokò, affettuosa satira del precedente che il buon Totò realizzò nel 1949 con la regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Ci preme segnalare questa singolare iniziativa perché Totò le Mokò è forse il film che più ha contribuito al rilancio postumo, presso i giovani, del grande attore napoletano, cosi come Il bandito della Casbah, fu il film che diede maggiore notorietà in vita a Jean Gabin, facendo di lui il corrispettivo mito europeo del Bogart americano. La storia del cinema insegna che da un buon film si può ricavare un'altrettanto valida parodia mentre, quando il modello è scadente, la burla è spesso dìsastrosa.
Totò le Mokò è un esemplare illuminante della prima casistica, perché vi si accetta lo scherzo fino in fondo, calando nel panni del nuovo bandito della Casbah un «pazzariello» napoletano (Totò, appunto) che paga lo scotto delle sue aspirazioni di «capobanda» con la forzata attività gangsteristica: la qualifica e una buffa omonimia traggono, infatti, in inganno i veri banditi della Casbah alla ricerca di un leader dopo la morte — solo presunta — di Pepè. Come in una pochade (aleggia la figura del grande commediografo napoletano Scarpetta, che dal vaudeville francese attinse ispirazione e stile) l'equivoco si protrae in una catena di invenzioni, cui dà linfa a sua volta la creatività spontanea di Totò, il suo surrealismo plebeo forse unico al mondo. O forse comune a tutti i napoletani.
d.g., «L'Unità», 14 dicembre 1976
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