Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1979
Indice degli avvenimenti importanti nel 1979
Febbraio 1979 La Rai dedica a Totò uno speciale ciclo che prevede la proiezione di 4 pellicole
Luglio 1979 Entusiasmo dei francesi che dalle colonne dell'"Express" e "Le Monde" riscoprono Totò.
22 agosto 1979 Muore di leptospirosi, causata da un bagno estivo nel Tevere, Gianni Buffardi, ex marito di Liliana de Curtis e ex genero di Totò
Continuano le proiezioni dei film, sia al cinema che in televisione, che hanno reso famoso Totò. Numerosi i dibattiti e le retrospettive. Si moltiplicano le iniziative.
12 ottobre 1979 La prima rete della RAI programma un ciclo di 8 film di Totò dal titolo «Otto Totò»
Altri artisti ed altri temi
Totò
Articoli d'epoca, anno 1979
Gli anni 70 e la RIscoperta di Totò
La riscoperta di Totò: ma mi faccia il piacere...
Silvana Pampanini: «Totò? È stato mio fidanzato»
Totò: «sarò grande dopo la mia morte»
Sua Altezza ed il suo doppio
Un nuovo ciclo dedicato a Totò. Sono operine fatte in serie e un po’ dimenticate
La più bella definizione di Totò l'ha data Totò stesso: «perfido e insinuante come una mosca cavallina». Possiamo aggiungere: irriverente, abnorme, paradossale, grottesco, sfrenato e famelico, burattinesco e incoerente: un volto e un corpo allucinato, oltre la gioia e il dolore, con un sapido parossismo da manichino svitato, una tragica frenesia. Tutto Totò è nella Napoli stoica e invereconda, umorale elscettica. istintiva e vitalistica, volgare e candida che della maschera di Pulcinella aveva fatto un segno di sintesi tra crudeltà e meraviglia, sberleffo e guitteria, satira e lazzo.
Della tradizione napoletana della teatralità Totò tenne buon conto; una teatralità come supporto al vivere e alla difficoltà del vivere, come ««arte di arrangiarsi», angheria e furberia, cinismo e soliloquio funereo, inventività e astrattezza surreale, senso dell’effimero e tenace attaccamento alla vita, gusto della battuta e della risata salace (in mancanza della pagnotta e del soldo), aggressività del reietto c filosofica rassegnazione. Ma Totò è solo, Totò è soltanto Totò. E' vero: egli apprese la sua clownerie nelle strade e nei vicoli, nei bassi e nei tuguri; la perfezionò, attraversando tutte le forme di spettacolo e avanspettacolo, nella rivista, nella sceneggiata, nel duetto «a spalla», nella capriola, nel cabaret, nel cinema. Ma «a prescindere» — com’egli amava dire — da Scarpetta e Petito, da De Marco e Eduardo, da Monicelli e Steno, da Mattòli e Pasolini (suoi antenati, suoi consanguinei, suoi «sponsor», suoi «direttori», suoi registi), fece del proprio corpo e della propria; maschera facciale uno stilema poetico che supera ogni influenza e somiglianza, cosi come rovescia ogni mero carattere macchiettisiico, Totò, creò una gestualità quasi astratta, asociale e atemporale, unica.
Non somigliava a nessun altro comico. Marionetta a parte, questo assoluto «clichè» è apparso inusitato e astruso, quasi fosse un immagine sconveniente e inconscia. Pochi, come lui, ebbero un senso così impellente del «doppio» (sarebbe certamente piaciuto a Artaud; a cui, almeno da giovane, Totò non poco assomigliava; ma Artaud non lo conobbe). Tale «doppio» è teatrale e vitale a un tempo, e i due termini si compenetrano così; principe de Curtis e morto di fame, capocomico lucido e mestierante allucinalo, uomo angelico e attore spregiudicato, marginale riottoso e poveraccio malinconico, artista sublime e intelletto mediocre, cittadino del cinema piccolo-borghese e arruffone sottoproletario, animo arcaico e umorista lunare (l'antitesi, si sa, è il luogo della poesia. Nell'antica retorica si chiamava «sineciosi» la successione immediata di due contrari. Ciò che si afferma e si coagula in Totò è l’ingenua gravità e l'apparente suo opposto: il guizzo comico, il riso plebeo e viscerale).
Dopo la casuale ripresa, nella primavera del 1971 (cioè a quattro anni dalla sua morte), del film Totò a colori in un cinema di Milano, sembra che il revival Totò non debba aver fine. Questa sera, la tivù gli dedica un nuovo ciclo. Si tratta di quattro operine dimenticate, fatte in serie, estratte dai centoventi e più film del comico napoletano. Ogni film con Totò è un film di Totò. Siamo certi che molti vecchi e nuovi «fans» del celebre attore si disporranno dinanzi al piccolo schermo con curiosità, per l'ennesima volta.
Giuseppe Saltini, «Il Messaggero», 2 febbraio 1979
Cinque mediocri film con un Totò sempre grande
Rete 1: comincia un ciclo sul comico napoletano. Esempi scelti fra un centinaio di titoli di cui pochi sono quelli che si salvano - «Revival» tra i giovani
A dodici anni dalla morte, la Rete 1 propone da stasera (ore 21.35) un ciclo di cinque film con Totò: il primo è Totò, Vittorio e la dottoressa di Mastrocinque (’57), seguiranno Totò a Parigi, sempre di que (’58), Totò, Èva e il pennello proibito di Steno Totò contro Maciste di Fernando Cerchio (’62) e La cambiale di Mastrocinque ('59).
Sono cinque esempi appositamente scelti, nel ventaglio di un centinaio di titoli di cui sono pochi quelli che si salvano, per dimostrare la mediocrità di un cinema cui Totò si era sempre prestato, sicuro com’era di riuscire comunque a salvare la sua personalità di attore e di maschera. Come successe poi a Franchi e Ingrassia, il suo destino (con le dovute eccezioni) fu quello di rifare il verso alle piccole mode del cinema e del costume. Ma in tutti questi film (che vantano altolocati partner) c’è sempre almeno un momento in cui l’arte di Totò, basandosi spesso su un effetto minimo (un accenno mimico, una mossa, uno sguardo), riusciva ad ottenere il massimo dei risultati.
Quando queste pellicole uscirono passarono giustamente inosservate; l’estetica del cinema le aveva già segnate a dito. Ma il pubblico seguiva unicamente il suo beniamino, era un discorso diretto, una fratellanza popolare, al di là della contingenza. Per questa ragione il revival dell'attore è scoppiato con tanta intensità una decina d’anni fa, quando, soprattutto i giovani, si innamorarono della matrice culturale della maschera, delle sue origini, della sua inesauribile vitalità.
Quello che a suo tempo fu sottovalutato diventò poi, storicizzato, un episodio di cultura. Scrive il critico francese Benayoun: «Totò è un'anomalia della natura, una sfinge, una chimera». La frase racchiude il segreto della odierna popolarità dell’attore; ecco perché, al di là dei limiti evidenti dei suoi film, Totò merita una seconda visione. In fondo questo è uno dei primi, veri «cicli» su un attore, in tv.
Maurizio Porro «Corriere della Sera», 2 febbraio 1979
Totò, ovvero se non si recita a soggetto
Un film di Camillo Mastrocinque sulla Rete uno, ore 21,35
Totò, Vittorio e la dottoressa (1957), il film di Camillo Mastrocinque che va in onda stasera sulla Rete Uno alle 21.35, è un tipico prodotto di serie C della opulenta produzione cinematografica italiana fine anni '50. La riproposta di un film simile (si tratta di uno del titoli preferiti delle TV private, in ragione del semplice fatto che costa poco noleggiarlo) da parte della RAI ci pare singolarmente interessante, per molti motivi.
Innanzitutto, il video nazionale avrà modo così di rendere omaggio al grande Totò finalmente con un film dichiaratamente mediocre, ossia uno di quei tanti copioni d’accatto che l’attore napoletano sapeva spesso trasformare in irresistibili happening umoristici, rivelando il pieno possesso della sua arte proprio quando veniva messo a dura prova. Troppo facile e ingiusto sarebbe ricordare sempre e soltanto Totò cerca casa, Dov'è la libertà o Uccellacci e uccellini.
Rivedendo Totò, Vittorio e la dottoressa si potrà, inoltre, stabilire un utile paragone fra la produzione di serie del cinema italiano di quell'epoca e quella odierna, e si può tranquillamente anticipare che il confronto risulterà impietoso per certi comici (come Pozzetto, Montesano, Bud Spencer e Terence Hill) e certi film (da Paolo Barca... a Piedone...) dei nostri giorni.
Interpretato da Totò. Vittorio De Sica e Abbe Lane, Totò, Vittorio e la dottoressa, (stessi nomi per attori, interpreti e personaggi, secondo un'usanza ormai scomparsa, che deriva dalle Maschere, anch’esse estinte, irripetibili, è una tipica commedia di costume, che narra appunto, memore dei detto «moglie e buoi dei paesi tuoi», di un arduo sodalizio matrimoniale fra un giovane avvocato partenopeo dabbene e una procace dottoressa americana. Vengono quindi ampiamente sfruttati tutti gli equivoci che possono sorgere dalla professione di lei per dare al film iniezioni di sessuofobia, sessuomania e gelosia, caratteristici ingredienti di una salsa all’italiana. Dirige l’orchestra dei quiproquo, con surreale baldanza, il buon Totò (nei panni di un lustrascarpe improvvisatosi detective), che una ne pensa e cento ne fa, mentre Vittorio De Sica incarna un nobil signore erotomane, attempato risvolto del famoso bellimbusto dell'epoca del «telefoni bianchi».
Insomma, in questo film ognuno mette se stesso con beneficio d'inventario, a cominciare da Abbe Lane (la più formosa del momento) fino al goffo e romantico Teddy Reno (l’ex «cantante confidenziale»), cosi da facilitare il compito a tutti, spettatori compresi. Paradossalmente, Totò e soci, ben prima di Godard, sapevano come, quando e perché si può fare a meno di una sceneggiatura.
«L'Unità», 02 febbraio 1979
Totò tra vero e falso
Nell‘ambito della serie che la TV dedica a Totò, questa sera si proietta (alle 21,35. Rete 1) un film di Steno, Toto, Eva e il pennello proibito, targato 1958. Oltre a Totò figurano tra gli interpreti Louis De Funès (il comico francese dalla faccia gommosa era allora un ottimo caratterista, non ancora dilatato malauguratamente alla misura di protagonista), Abbe Lane (classica bellezza dell’epoca), Mario Carotenuto e Giacomo Furia.
Totò è qui nel panni di un plttorello che deve « ritoccare» una copia della Maja desnuda di Goya per farne una « Maja in camicia », destinata a mettere a rumore i critici e il mercato d’arte per un colossale imbroglio. Memorabile è la sequenza iniziale che vede Totò dare l’ultima pennellata ad una perfetta Gioconda, usando Giacomo Furia travestito in qualità di modella. L'eterno, seducente gioco tra il Vero e il Falso (quello di F for fake di Orson Welles, per intenderci) assume nel film di Steno e Totò i caratteri di una farsa grossolana dagli accenti surreali, godibilissima a questo livello. Migliore di tanti altri film di serie B «di marca Totò», questo di Steno impronta l'nfimo al sublime, l’arte alla paccottiglia. Qualche anno dopo sarebbe successo sul serio, magari alla Biennale di Venezia.
«L'Unità», 16 febbraio 1979
Attesi a Pechino i film di Totò
A Pechino e in altre città importanti della Cina Popolare è stato «scoperto» Charlie Chaplin. Il successo di film classici del repertorio di Charlot, come «La febbre dell'oro», è stato sottolineato con interesse dalia stampa cinese che ha pubblicato fotografie di vistosi manifesti di Chaplin, esposti a Pechino, con passanti incuriositi che si fermano a osservarli. Il genere comico piace ai cinesi e nel quadro di uno scambio culturale sul piano cinematografico è data quasi per certa l’esportazione in Cina di film di Totò.
Sarà interessante, secondo gli esperti, verificare le reazioni degli spettatori cinesi davanti alla mimica del comico napoletano.
«La Stampa», 24 febbraio 1979
I francesi riscoprono Totò (e Fellini fa il coccodrillo)
Tardivo entusiasmo dell'"Express" e "Le Monde" - Il grande regista, che non lo volle mai, ha scritto un "ricordo,, impreciso
Totò fu un grido del '68 come l'immaginazione al potere. Per gli studenti che, tra manifestazioni in piazza e assemblee, andavano al cinema nel rifiuto della cultura borghese, legata da rimpianti a! neorealismo e di complicità ai temperati acidi della commedia all'italiana. Totò fu la scoperta proletaria e sottoproletaria ricca di fascino e ammiccamenti alla moda. Ma la sua semplicità di mito popolare, come Coppi e Bartali con i quali il comico ingaggiò una gara anche fisica in Totò al Giro d'Italia, non presentava gratificazione sufficiente. La marionetta, il burattino doveva decantare volgarità e sublimare in rivalutazioni culturali. Urgeva la nobilitazione. Comincia cosi pochi mesi dopo la morte, avvenuta nell'aprile '67, l'esegesi.
Si trovarono ascendenti illustri alla gestualità, alla mimica, alla comicità dirompente, aggressiva dell'attore: la commedia dell'arte, le maschere, Pulcinella, Arlecchino, e ancora più indietro fino a Plauto, ai fescennini. Libri, saggi, convegni, retrospettive, omaggi: Totò il re dell'avanspettacolo: l'Imperatore del cinema di periferia (quanti milioni allora per le sale di quartiere!) entra nei programmi sofisticati dei cineclub, consumato eucaristicamente sugli altari dell'intellettualità. La memoria di Totò sull'imitazione del primo agiografo contestatore. Goffredo Fofi, affonda in un torrente gonfio di attributi suggestivi e intimidatori, un esercizio di alte letterature: la sua maschera allenata e collaudata tra i fischi delle spietate platee suburbane, di volta in volta è definita dodecafonica, picassiana, crudele (con riferimento ad Artaud), robotica, funeraria, surreale, brechtiana, epica.
Come accettare le freddure tipo «Sono un passeggero in borghese», «Il mio orologio è un paté di Filippo», «Pesciaccio democristiano» al pesciolino rosso nell'acquario oscurante lo strip della bellona, o i giochi di parole sul «vagoli lit e il vagon qui» sulla «signora Trombetta in Bocca», appartenenti tutti alla comicità naif, plebea dei bardi borgata. Il principe di Bisanzio Antonio de Curtis, in arte Totò, nato nel rione Sanità a Napoli, entrò postumo nell'università del cinema (lui che per vezzo o per onesta autocritica lamentava sempre la propria ignoranza scolastica), ebbe un posto nell'accademia della «decima musa» accostato sfacciatamente alle divinità della risata, Charlot, Keaton. Dopo un decennio di riletture forzate su circa 120 film dell'attore brucati con devozione vorace dal nostri cinefili postsessantotteschi, In questo momento di pausa per la totofilia casalinga, ecco alzarsi il monumento di «Le Monde», l'autorevole quotidiano parigino, giunto a sancire la beatificazione internazionale del «mito Totò». Un articolo del prestigioso critico Jean de Baroncelll, unito, per sostegno, ad una voce scelta direttamente dall'Olimpo del cinema, quella di Federico Fellini.
Uno di quegli autori di «lusso», come scrisse Mario Soldati nell'elogio funebre dell'attore (Il Giorno, 17 aprile 1967), per lavorare con il quale Totò «avrebbe fatto carte false» dovendo sopportare «un'amarezza che avvelenò gli ultimi anni della sua vita». Fellini nella passione accecante per gli chapiteaux, la segatura delle piste e i pagliacci colloca anche Totò sotto la specie dei clowns. Ma forse confonde la stilizzazione comica del teatrino delle marionette e della maschera, con quella del circo, esplosiva, scoppiettante nella veste esteriore e tragica all'interno, uno spettacolo per i bimbi facili ad essere catturati dall'apparenza del dinamismo e del colore. Il contrario preciso di Totò: doloroso e grigio ritratto di miseria nell'involucro, un vulcano di energia e fantasia nel cuore, nella mente, che a intervalli regolari esplodono comunicando al mondo una mimica liberatoria forsennata e pirotecnica. La minirassegna di Parigi comprende Miseria e nobiltà, la grottesca saga degli spaghetti e della fame. Totò le Moko, San Giovanni decollato, e un'antologia di brani celebri raccolti da Jean-Louis Comolli.
Gli intellettuali francesi scoprirono Totò già molti anni fa: i primi. Frank nel libro «Cinema dell'arte» e Benayoun, probabilmente rivelarono sensibilità superiore alla nostra critica e cultura d'epoca, fatte poche eccezioni come Barbaro e Marotta celebratore partecipe di una viscerale, appassionata «napoletanitudine». Più recenti in Francia sono I saggi di Positif, dei Cahiers du Clnéma e gli articoli del settimanale Express. Il critico di Le Monde scrive che a Totò toccarono pochi registi Importanti. Cita De Sica (L'oro di Napoli). Rossellini (Dov'è la libertà), Monicelli (Guardie e ladri) e Pasolini (Uccellacci e uccellini). Trascura tra i grandi Lattuada (La mandragola), Comencinl (L'imperatore di Capri), Eduardo.
Ma Totò non aveva bisogno di autori, dietro la macchina da presa: autore era lui, e per modestia, pigrizia o paura non pensò mai di dirigersi. Gli bastava un tecnico che disciplinasse i suoi movimenti davanti all'obiettivo, il resto da professionista finissimo e smaliziato qual era lo aggiungeva lui. adattando ogni volta il personaggio agli schemi meccanici, calcolatissimi della sua maschera e delle sue mosse. Sempre, per più di cento prove cinematografiche anche nella vecchiaia stanca, cieca, spremuta, la sintesi tra l'idea, il canovaccio (anche il più ignobile), e la macchina espressiva Totò e stata perfetta. Tanti piccoli capolavori inseriti in un contesto a volte pleonastico, orchestrato magari nell'ombra, con rispetto e modestia, da solidi artigiani come Mattoli, Steno. Fu la lunga serie dei - Totò e...: Totò sceicco, Totò cerca casa, Totò cerca moglie, Totò a colori, Totò all'inferno, Totò lascia o raddoppia, Totò a Parigi, Tototruffa, ecc.: Totò era il film. Il titolo diventava l'annuncio di un appuntamento, la garanzia di un prodotto. E' il segno del successo e dell'affetto vero, grande, popolare, come accadde da noi soltanto per il Chaplin del muto: Charlot macchinista, Charlot al pattinaggio, Charlot usuraio, Charlot soldato, Charlot e...
Sandro Casazza, «Stampa Sera», 2 luglio 1979
Metti un Fellini fra Totò e i francesi
E' noto che i critici cinematografici francesi, esperti nello 'scoprire' geni in esclusiva (spesso facendo centro, vedi la rivalutazione di certo cinema americano in epoche in cui qui da noi lo si bollava ancora come «commerciale»), hanno da qualche tempo fatto fiorire presso il pubblico le radici di alcuni registi e attori italiani legati soprattutto a quella che al suoi definire la «commedia»: Sordi-Gasaman-Tognazzl-Manfredi-Vitti e Scola-Monicelli-Comencini-Risi, eccetera. Ora, in cammino a ritroso, sono arrivati a «riscoprire» Totò.
Il 28 giugno dalle «importanti» colonne del quotidiano Le Monde (in precedenza avevano già fatto il toro dovere le riviste specializzate, che toccano però il pubblico del cinefili), il critico Jean De Baroncelli traccia un ritratto esaltante del comico, collegandolo alle origini classiche della maschera di Pulcinella (che però Totò avrebbe reso più «astratta»), alla tradizione del teatro di varietà, all'improvvisazione, e al ritmo del gesto e della mimica. Si lamenta che pochi furono i veri autori di cinema che in Italia lo fecero lavorare, e cita, pur con qualche dimenticanza, i nomi benemeriti di De Sica, Rossellini, Monicelli, Pasolini.
Nella stessa pagina, lo stesso giorno, il quotidiano parigino ospita anche un autorevole intervento su Totò firmato addirittura da Federico Fellini. E' uno dei 'pezzi' che fanno parte di un libro antologico di prossima uscita nelle edizioni Einaudi, in cui saranno raccolti articoli di Fellini e interviste col regista, nel corso del tempo del dopoguerra. L'aggancio ‘giornalistico' è una rassegna di film di Totò in corso a Parigi, che comprende Miseria e Nobiltà (con la sua storica mangiata di spaghetti), Totò le Moko, San Giovanni decollato e un’antologia di pezzi famosi curata da Jean-Louis Comolli.
Com’è noto la querelle su Totò, e la sua beatificazione, scoppiò a cavallo del '68 (poco dopo la sua morte, avvenuta nell'aprile del '67), ad opera della nuova critica e dei giovani, capitanati da Goffredo Fofi che a Totò ha dedicato un bellissimo saggio pubblicato in un volume edito da Feltrinelli che comprende anche una lunga testimonianza di Franca Faldini e molti altri interventi.
La rivalutazione di Totò, ottenuta spesso rileggendo proprio i suol film meno «d'autore», cioè la maggioranza, era dettata dal rifiuto del cinema pseudo borghese della commedia all'Italiana per entrare nelle radici delle maschere e della commedia dell’arte. In questa accezione decine e decine di rassegne hanno amplificato la nuova popolarità di Totò, entrato nell'olimpo cultural-ideologico. Scoppiato il fulmine, ora, dopo dieci anni, il tuono si fa sentire presso il grosso pubblico francese.
Forse su questi «Interventi» d'oltralpe e sul pezzo di Fellini scoppieranno oltre polemiche. Sociologicamente, come scrive Fofi, Totò è a cavallo tra l'esperienza sotto proletaria e quella piccolo borghese, ma egli sostiene che sul personaggio vince sempre la maschera. Baroncelli la pensa pressoché come Fofi: e scrive che Totò vince sempre sulla mediocrità del suo cinema. La questione è quindi di dare un colpo alla maschera e un colpo al realismo e di vedere poi quale manichino resta in piedi.
Fellini nel suo scritto, supera la dialettica e, raccontando come e quando vide per la prima volta Totò in un avanspettacolo di un cinemino, 'ricatta' la contraddizione facendo ricorso alla sua personale poetica d'artista. Fellini vede Totò come una apparizione «stupefacente e misteriosa», come una «creatura di un'altra dimensione», come «un robot dal corpo disarticolato».
L'Ipotesi felliniana congloba le altre, annulla le contraddizioni portando di uno «ribellione senza memoria» e di una «libertà totale contro la legittimità della logica a delle istituzioni». In questa visuale, perfettamente legittima, Totò rappresenta infatti la contestazione totale, diventa sia Pulcinella sia il piccolo borghese martoriato da qualunque tipo di potere. Ed infatti il regista lo dipinge come l'incarnazione di tutta la caratteristiche 'italiane': la fame, la miseria, l'ignoranza, l'indifferenza piccolo borghese, etc. Dispiace solo che Fellini non l'abbia mal «usato» in un suo film: sarebbe scoppiata una scintilla che ora renderebbe inutili tutte la glorificazioni postume.
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 3 luglio 1979
Muore il produttore Buffardi per un bagno nel Tevere. Aveva bevuto acqua inquinata contenente batteri
Per salvare la vita al paziente i medici si sono prodigati al massimo sottoponendolo anche al rene artificiale - I bagni sono da tempo proibiti da un'ordinanza del Comune ma mancano i cartelli con il divieto
Per una involontaria bevuta d’acqua del Tevere è morto, a 49 anni d’età, nella clinica per le malattie infettive del Policlinico, il produttore cinematografico Gianni Buffardi, ex genero di Totò. E’ stato stroncato in poco più d’un mese da una micidiale forma di leptospirosi ittero-emorragica, un morbo poco frequente ma abbastanza conosciuto anche in tempi remoti.
Sdraiato a prendere il sole su un galleggiante del fiume il 15 luglio scorso, non resistendo più al caldo, Buffardi decise di fare un tuffo che doveva essergli fatale. Fu colto da malore, annaspò, fu soccorso e portato a riva, ma non per questo un’intera équipe dell’ospedale ha lottato, vanamente, contro la sua morte: il produttore, noto negli ambienti mondani oltreché cinematografici, è stato ucciso dal topi.
Nell'acqua ingurgitata era presente evidentemente un’alta concentrazione di batteri della famiglia delle spirochete, apportatrici anche della sifilide. Proliferando nell’organismo del topi che infestano ormai irrimediabilmente il fiume del romani, questi batteri vengono da essi eliminati attraverso le urine. Diluendosi in una grande massa d’acqua come quella portata dal Tevere, non dovrebbero solitamente essere cosi pericolosi: ma il tasso di inquinamento é giunto ad un punto tale che qualche sorsata di acqua ne contiene tanti da uccidere l’uomo più forte.
Scambiata inizialmente per epatite virale, la malattia che ha colpito Buffardi, determinando il progressivo peggioramento delle condizioni fisiche tra cui anche una semiparesi facciale, è stata successivamente classificata come la terribile leptospirosi in base alle analisi effettuate nella clinica specializzata diretta dal professore Germano Ricci. Per salvare la vita al paziente il reparto s’è prodigato allo stremo: Buffardi è stato sottoposto anche al rene artificiale dato che il morbo, devastando non solo fegato e milza ma anche i reni, ha determinato un crescente intossicamento del sangue fino al punto di provocare il coma cerebrale.
Non possedendo cani, che pure possono trasmettere la terribile malattia, non c’é dubbio che il produttore l’abbia contralta dalle acque del fiume. Nel pressi del galleggiante che era solito frequentare secondo i medici dell’ufficio d’igiene di Roma esiste evidentemente alta concentrazione di leptospire, come si chiamano i batteri incriminati. Ma la realtà é che i topi di fogna ormai spadroneggiano non solo nel fiume: una terrificante immagine apparve agli occhi del romani lo scorso inverno, quando per le piogge il livello salì e migliala di ratti cercarono scampo arrampicandosi rabbiosi lungo gli argini.
Data la situazione i bagni sono proibiti da tempo: ogni anno l’ordinanza viene rinnovata e talvolta i vigili multano i contravventori; mancano però i cartelli col divieto. Gli esperti del fiume, i flumaroli romani, sogliono nuotare stringendo in bocca una fetta di limone a titolo precauzionale. Casi di leptosplrosi sono rari, a Roma se ne registrano due o tre l’anno, per lo più dovuti al cani. Quest’anno ve ne sono stati due. Venticinque anni fa il morbo stroncò un automobilista che a causa di un incidente stradale era finito nel canale di bonifica di Terracina, lungo la via Appia.
Recentemente il fiume è staio riscoperto anche da attori, attrici, personaggi della Roma mondana, ma i proprietari del galleggianti, offrendo lusinghieri comforts fra cui massaggi orientali praticati da esperte mani filippine, sconsigliano il bagno. Sposatosi nel 1951 con Liliana De Curtis, figlia di Totò, Buffardi ebbe da lei due figli. Antonello, di 29 e Diana di 25 anni. Separatisi nel 1963, la moglie andò a vivere a Johannesburg, in Sud-Africa, dove, divorziata, ha risposato un Italiano, Sergio Anticoli e ha impiantato una boutique e un ristorante battezzato «Rugantino». Successivamente ne ha aperto un altro a Montecarlo. Il produttore, che nel cinema aveva fatto la gavetta avendo cominciato come segretario di edizione per diventare aiuto-regista, segretario di produzione, ispettore e direttore di produzione e perfino regista, per la sua esuberante personalità è stato coinvolto sia pure marginalmente in storie scabrose come lo scandalo del night romano Number One chiuso per droga e un omicidio commesso due anni fa a Tor di Valle nell’ambiente degli scommettitori clandestini.
Victor Ciuffa
Il regista del «Number One»
Laureato in filosofia Gianni Buffardi si dedicò subito al cinema, ma solo nel 1969 riuscì ad esordire come produttore: una pellicola comico-erotica, «Il monaco di Monza», interpretata da Lando Buzzanca. Dopo tre anni lo scandalo dalla droga, che segnò la fine del night Number One, fornì a Buffardi lo spunto per il film di cui fu anche regista.
La chiamano la malattia dei fiumi, un tipo di infezione che si localizza nella milza, nel fegato e nei reni provocando danni gravissimi. Il suo nomo scientifico e leptospirosi-ittero emorragica, un malanno che oltre che noi fiumi, può essere trasmosso da cani o da altri animali.
L’Infezione è causata da un microbo della stesso famiglia dello spirochele (apportatrici della sifilide) od è eliminato dai ratti attraverso le urine. I suol effetti nell'organismo umano sono quanto mai gravi. Nel caso del produttore Buffardi, a quanto pare, il microbo ha raggiunto tutti gli organi nel quali è solito annidarsi e questo ha reso le condizioni del paziente particolarmente delicate.
In un primo momento, subito dopo l'incidente, i forti disturbi avvertiti erano stati attribuiti a una grave forma di epatite virate ma ben presto i medici hanno dovuto modificare la loro diagnosi. Le condizioni del paziente si sono aggravate quasi subito al punto da costringere i sanitari e far ricorso all'applicazione del rene artificiale. Il fatto che Buffardi abbia contratto l'infezione dopo il bagno nelle acque del Tevere è ormai fuori discussione. Le autorità sanitarie che hanno seguito per dovero d'ufficio il decorso della malattia - è infatti obbligatorio per legge denunciare i casi di epatite virale e quelli di leptospirosi - hanno anche voluto stabilire se il contagio fosse stato causato da un cane o da un altro animale ma i familiari del produttore hanno escluso questa eventualità, dichiarando che il loro congiunto non ha mal posseduto cani. Il particolare è stato reso noto dall'assessore comunale alla sanità Argiuna Mazzotti, che si è appunto interessata del caso.
In merito alla vicenda, il dottor Vecchioni dell’ufficio d'igiene ha ricordato che i bagni nel Tevere sono stati da tempo proibiti proprio perché i risultati delle analisi hanno confermato costantemente un alto tasso d’inquinamento. L’ordinanza del sindaco risale infatti al 25 luglio del 1970.
Il produttore Buffardi pare comunque sia stato particolarmente sfortunato. Secondo i dati forniti dall’assessore alla Sanità, i casi di leptospirosi sono tre o quattro all’anno. Nel 1978 sono stati 3, ma non riguardavano cittadini romani ed il contagio era stato causato da cani. Quest'anno ce ne sono stati soltanto due provocati sempre da cani. Quello di Buffardi è dunque la prima drammatica dimostrazione del gravissimi effetti che l’inquinamento delle acque può provocare.
«Corriere della Sera», 23 agosto 1979
Abituato a bere, e ad offrire agli amici grandi coppe di champagne, li produttore cinematografico Gianni Buffardi è stato ucciso da qualche sorsata di lurida acqua del Tevere per aver seguito il proprio temperamento esuberante, il tenore di vita cinematografico: questo ritengono quanti lo conoscevano. Affacciandosi sulla corrente dagli argini o da un galleggiante, a nessuno vorrebbe in mente di tuffarsi nel fiume; il colore e ancor più la densità delle massa liquida sconsigliano dall'immergervi la sola punta d'un piede.
Non è solo questiono di colore, anche di odore, meglio di cattivo odore che sale dal pelo dell'acqua, dalla fanghiglia degli argini. I proprietari di galleggianti, i gestori del club sportivi dislocati sulle rive si sforzano per dare un dignitoso aspetto all'ambiente: da lontano il residuo verde delle scarpate assume aspetto e dimensioni maestose, riemergono scorci di antichi, incontaminati paesaggi, ma a distanza ravvicinata la visione è sconfortante, gli effetti stomachevoli. Gli arbusti appaiono infiorati degli schifosi residui plastici di frettolosi amori nottetempo erogati dalle passeggiatrici sul Lungotevere. D’inverno le piene li issano sul rami più alti dove restano a simboleggiare la massima degradazione ecologica e igienica della maxifogna romana.
Quello di Buffardi, raccontano i testimoni del suo tragico relax fiumarolo del 15 luglio scorso, fu più un gesto sconsiderato, che il bisogno effettivo di refrigerio. Non occorrono cartelli con divieti; non è minimamente concepibile bagnarsi nel Tevere; ci fu forse nel tuffo del produttore la componente vagamente esibizionistica propria del suo carattere. Recentemente Buffardi, oltre il galleggiante, frequentava la Casina Valadier al Pincio, ritrovo di un ambiente a cavallo fra cinema, letteratura, mondanità; anche lì lo ricordano sempre in compagnia di belle donne, ultimamente ne scortava addirittura due; ma appariva anche in mezzo a bambini, forse nipotini, verso i quali mostrava grande affetto paterno. Pure alla Casina Valadier, aperitivi, champagne, cinematografici atteggiamenti, fatua notorietà.
Il carattere e l'ambiente gli avevano procurato guai con la giustizia, sia pure facilmente conclusi. Volontariamente assurto a testimone di un costume e di un’epoca — la spensieratezza degenerata in tragedia del play boy epigoni della dolce vita proliferati nel Number One — ha avuto anche lui, come i maggiori protagonisti di quello scandalo, una fine triste, miserrima: assassinati Giuliano Carabel e la fotomodella negra Lorrayne Hoyewed; suicidi o ritenuti tali Talitha Pol e Bino Cicogna; travolto da un autobus a Londra Rodolfo Parisi; sfracellatosi in macchina contro un albero sul lungotevere Federico Martignonl; volato da un undicesimo piano a New York Franco Rapetti.
Ultimo della serie, vittima inconsapevole di una infezione trasmessa dall’inarrestabile orda di topi cittadini, il documentarista dell'allegra brigata. La vicenda ha impressionato la città proprio nel clou delle iniziative per la riscoperta, utilizzazione, valorizzazione del fiume. Non andrà sempre così, promettono gli amministratori; nel 1990, appena dieci anni, i romani potranno tornare a fare il bagno nel Tevere. «Abbiamo messo in cantiere opere fondamentali — ha assicurato l’assessore comunale all’Igiene Argiuna Mazzotti —; nei tre anni previsti saranno spesi tutti i 153 miliardi disponibili».
Gli impianti in funzione depurano già il 45 per cento dei liquami cittadini. Ciononostante il Tevere non solo riceve la cloaca massima degli antichi romani, è esso stesso una maxi-cloaca. L'imprudenza di Buffardi l'ha solo ricordato.
Victor Ciuffa, «Il Tempo», 24 agosto 1979
Macario, 77, e non li dimostra. «Sono qua» dice, e il suo «sono qua», detto naturalmente in dialetto piemontese, significa che è sempre sulla breccia, che è pronto, che è disponibile, che ha voglia di fare. Nel teatro di via Santa Teresa è in corso la sua nuova rivista Oplà, giochiamo insieme, e da domani, per cinque settimane, è in televisione tutti i giorni, salvo il sabato e la domenica, sulla rete 2, verso le 19, in Buona sera con...
Non ho mai chiesto a Macario se nella sua lunga carriera piena di successi non abbia anche provato una volta — una volta sola — l'onta dell'insuccesso, e non si sia sentito arrivare, invece di caldi applausi, dei fischi. Non credo. Posso dire che in televisione tutti i suoi programmi sono sempre stati un successo, regolarmente accolti da alti indici di gradimento.
Bisogna sottolineare che — oltre a una popolarità che lo accompagna da oltre mezzo secolo — Macario «funziona» molto bene in tv. Quella sua faccia tonda in cui esplode una inimica da commedia dell'arte sembra fatta apposta per i primi piani del video. E d'altra parte Macario accanto all'esperienza teatrale ne ha una cinematografica che se non è altrettanto densa è stata tuttavia importante e positiva.
E teatro e cinema si danno la mano in questo Buona sera con... perché Macario, affiancato dalla giovane Cristina Gazzera e da altri attori, farà un po' di tutto: monologhi, scenette, brani di spettacoli, improvvisazioni, parodie di canzoni, dialoghi con le più rappresentative statue e con i più autorevoli busti dei monumenti torinesi. E in mezzo infilerà spezzoni di film dei quali ho ripetutamente e invano richiesto da tempo una rassegna in tv. Ma si vede che la rassegna è troppo difficile da organizzare. Godiamoci allora questi spezzoni ricavati da Il pirata sono io, da Imputato alzatevi e dai suoi tre film più divertenti del dopoguerra, tutti diretti da un altro torinese, il regista Carlo Borghesio, e cioè Come persi la guerra, L'eroe della strada, Come scopersi l'America.
Questa sul video dovrebbe essere una settimana meno tragica delle solite. Qualche risata dovrebbe insinuarsi tra cattive notizie, severi dibattiti, pellicole drammatiche e sceneggiati funebri. C'è Macario, e venerdi sera sulla rete 1 parte un ciclo di film di Totò. Non è il primo ciclo di Totò (anzi, ce ne sono stati diversi) e non sarà l'ultimo, ma la miniera cui attingere è enorme: il comico napoletano ha girato più di cento film e di questi solo circa un terzo sono passati sul teleschermo. Stavolta vedremo: Animali pazzi (1939) di Carlo Ludovico Bragaglia, un'autentica rarità per gli stessi addetti ai lavori perché è il secondo film di Totò, e da moltissimi anni non è più in circolazione; Il ratto delle sabine (1945) di Bonnard, L'imperatore di Capri (1949) di Comencini, Un turco napoletano (1953) di Mattoli, Il coraggio (1955) di Paolella, Totò, Peppino e i fuorilegge di Mastrocinque, Signori si nasce (1960) di Mattoli, Totò truffa (1961) ancora di Mastrocinque.
E' un bel ciclo? Si può rispondere che è un ciclo di Totò, ossia che è composto di pellicole tagliate su misura e confezionate appositamente (e di fretta) per lui. Seguita a circolare una vecchia, falsa storiella secondo cui in vita Totò sarebbe stato snobbato, addirittura disprezzato dai critici i quali poi, versando lacrime di coccodrillo, l'avrebbero rivalutato dopo la morte anche su un piano culturale. Non è vero. Allora tutti i critici seri riconoscevano le sue straordinarie doti, ma deprecavano che venissero troppo spesso —per la frenesia di uno sfruttamento cui Totò aderiva di buon grado — sciupate o utilizzate per una minima parte in film mediocri o scadenti. Occorre mettersi li con pazienza, sopportare sequenze deboli e insulse, e aspettare la sequenza dove copione e regia smettono di dormire e danno finalmente la possibilità a Totò di tirar fuori la grandissima carica di un umorismo surreale e irripetibile.
Ugo Buzzolan, «La Stampa», 7 ottobre 1979
ROMA - A dodici anni dalla morte di Totò, la televisione lo ricorda, così come del resto ha fatto in passato, trasmettendo otto film, interpretati dal grande attore napoletano nell’arco di tempo compreso fra il 1939 e il ’61. Titolo della serie «Otto Totò». Sembrerebbe che la Rai voglia riparare un torto fatto in vita ad Antonio De Curtis di Bisanzio, in arte Totò, che nel 1967, prima di andarsene, si rivide in Tv con una certa amarezza.
A quell’epoca fu mandata in onda una serie di dieci puntate, «Tutto Totò», comprendente telefilm e show musicali. Milioni di telespettatori risero, o trascorsero, quanto meno, un’ora allegra ma, soprattutto, la sua maschera esercitò su di un pubblico eccezionalmente vasto il potere, attraverso tanti anni collaudato, di comunicare. Un potere misterioso collegato col successo, che, secondo lo stesso Totò, poteva essere identificato con un'«aureola» quella con la quale era nato il principe-attore.
«Nella mia lunga carriera -dichiarò Totò in un’intervista fattagli nel ’67 - ho vissuto tutte le esperienze nel campo dello spettacolo, dalla commedia dell’arte al varietà, all’operetta, alla rivista, al cinema, alla televisione: l’unico settore non affrontato è stato quello dell’opera lirica».
Con la sua voce grave di uomo sostanzialmente triste, solitario, scettico sulle soluzioni ottimistiche, soggiunse: «il cinema molto spesso l’ho subito con rassegnazione». Il suo «humour» straordinario, infatti, non traspare, in genere dai suoi film, che di lui, della sua maschera delle sue attività prestigiose, non offre il meglio.
Ecco l’elenco degli otti film che il pubblico è in procinto di rivedere sulla prima rete Tv, «Animali pazzi», del 1939, diretto da Carlo Lodovico Braga-glia, con Luisa Ferida: «Il ratto delle sabine», del ’45, di Mario Bonnard, con Clelia Matania e Carlo Campanini; «L’imperatore di Capri» ’49, di Luigi Comencini, con Yvonne Sanson e Marisa Merlini; «Il coraggio», del 55, diretto da Domenico Paolella, con Gino Cervi e Gianna Maria Canale: «Totò, Peppino e i fuorilegge», del ’56, di Camillo Mastrocinque, con Peppino De Filippo e Franco Interlenghi, «Signori si nasce» di Mario Mattioli, realizzato nel ’60 con Peppino De Filippo e Delia Scala; «Totò truffa '62» del ’61, di Camillo Mastrocinque, con Nino Taranto.
Il primo film della serie «Animali pazzi», va considerato «preistorico», ed è l’unica copia che resta.
«Il Piccolo di Trieste», 10 ottobre 1979
Da questa sera, una poco esauriente rassegna di film sulla Rete uno (ore 21,30)
Animali pazzi (1939) è davvero un classico. Il film ideato dal grande umorista Achille Campanile e realizzato dal ben più che artigiano regista Carlo Ludovico Bragaglia inaugura assai degnamente stasera (Rete uno, ore 21,30) un ciclo di film consacrato a Totò. Peccato che altrettanto elogio non possa attribuirsi alla rassegna nel suo complesso, otto film in tutto; Il ratto delle sabine (1945) di Mario Bonnard, con Clelia Matanla e Carlo Campanini, L’Imperatore di Capri (1949) di Luigi Comencini, con Yvonne Sanson e Marisa Merlini, Un turco napoletano (1953), di Mario Mattioli, con Isa Barsizza, Il coraggio (1955) di Domenico Paolella, con Gino Cervi e Gianna Maria Canale, Totò, Peppino e i fuorilegge (1956) di Camillo Mastrocinque, con Peppino De Filippo e Franco Interlenghi, Signori si nasce (1960) di Mario Mattoli, con Peppino De Filippo e Delia Scala, Totò-truffa '62 (1961) di Camillo Mastrocinque, con Nino Taranto.
Ma torniamo ad Animali pazzi. Sentite come ne descrive l'intreccio Achille Campanile: «E' la storia di un cavallo che impazzisce, ragion per cui bisogna ricoverarlo in un manicomio veterinario, dove naturalmente ne succedono di tutti i colori». Potrete facilmente immaginare, dunque, che razza di piroette è capace di fare Totò su un simile trampolino surrealista». Anche se, ricorda Campanile, «quei disgraziati di produttori non avevano una lira, e dovettero girare quasi tutto il film allo zoo, state certi che Totò vi si rivelerà grande animale da cinema». Un cinema non «subito con rassegnazione» come Totò usava dire per fronteggiare certo pubblico ludibrio. Un cinema prima sospirato, poi espugnato, infine assolutamente padroneggiato.
Totò veniva da lontano (c'erano una volta quei palcoscenici fetenti, dove tiravano i sorci morti e gli ortaggi, e solo in un secondo tempo vennero le gloriose ribatte che furono di Petrolini) ma questo lo sanno tutti. E’ meno risaputo, invece, il fatto che Totò, sotto sotto, ambisse a collezionare tanti «copioni di merda», pietra dello scandalo squittito dalla critica tutta, lungo l'incalzante, inarrestabile carriera cinematografica del nostro più delirante comico plebeo. D'altra parte, anche Totò, come i critici ottusi che lo bocciarono, aveva il complesso del plebeo. Però, almeno lui ne fece il sogno romantico della sua vita, spesa a rincorrere un effimero titolo nobiliare, alla stregua di un suo primissimo film, I due orfanelli di Mattoli, satira bella e buona delle Due orfanelle di Griffith. Faceva sul serio o scherzava, quando si proclamava Principe di Bisanzio? Non lo sapremo mai. Il segreto se lo è portato nella tomba, da quel campione dell'ambiguità che era.
Ricordiamoci, quindi, che Totò scelse sempre. O quasi. Certo, la sua scelta fu assai più ragionata di coloro che oggi pii rendono omaggio in TV. Prendiamo, per esempio, i famigerati film di serie B. Allora, torniamo indietro, e pensiamo che Totò seppe prendere di peso gli spettatori del varietà (aristocratici decaduti, erotomani d'accatto, gaudenti di provincia, tutti incalliti) e portarli al cinema. Fu un miracolo tecnologico. Ma affinché si verificasse questo prodigio, Totò doveva continuare a dialogare a ruota libera con il suo pubblico, senza disdegnare la volgarità e il qualunquismo. Volgarità e qualunquismo che furono certamente le indelebili cifre culturali di italietta prima fascista, poi democristiana. «Anche se dichiarava di essere qualunquista, Totò quando entrava in scena era un comico rivoluzionario per eccellenza», dice appunto di lui Roberto Benigni, il più divertente entertainer italiano degli anni 70.
Quelle scalcinate sceneggiature, per Totò significavano carta branca. Proprio in questi frangenti nudi e crudi, tra il lusco e il brusco, egli seppe far emergere i suoi traiti di assoluta distinzione, come la capacità di improvvisare, cioè di associare, quindi di inventare. E se abbiamo più volte gridato al surrealismo, rapiti dall’estasi della riscoperta di Totò in questo decennio iconoclasta, lo dobbiamo proprio a quel cimenti solo apparentemente ingrati.
Totò amava la sua arte, e poche altre cose ancora. La poesia, per esempio, che fu certamente il movente della sua unica, splendida collaborazione con un intellettuale autentico, Pier Paolo Pasolini, in Uccellacci e uccellini. Oppure la cultura napoletana, ma non quella ormai soggiogata dalle pretese antropologiche. Totò non aveva bisogna di grilli parlanti. Nelle commedie di Scarpetta (Miseria e nobiltà, Il medico dei pazzi, Un turco napoletano) allestite cinematograficamente da un regista dell'avanspettacolo, Mario Mattoli, non v'era traccia di indagine sociale, di eroi positivi. Perché c'era molto di più. C’era Napoli al centro di Napoli, e non nella periferia dell'Africa nera.
Di Totò, dunque, in questo ciclo televisivo, resta poco e niente. Una commedia di Scarpetta (Un turco napoletano), qualche intuizione surrealistica d’autore (Campanile per Animali pazzi, Comencinl per L’imperatore di Capri), e uno di quei sorprendenti «filmacci» (Totòtruffa '62) cui si accennava. Il resto è varietà di riporto, con qualche ingenuità sub hollywoodiana (Signori si nasce), oppure si tratta dì storielle edificanti (Il coraggio) che rappresentano davvero l' «anima nera» di Totò, e sono le sole parti morte della sua mirabolante filmografia.
David Grieco, «L'Unità», 12 ottobre 1979
Eroe di stracci
Totò ritorna con otto film: vanno dagli anni Quaranta agli anni Sessanta
Dopo la casuale ripresa, nella primavera del 1971 (cioè a quattro anni dalla morte dell'attore) del film «Totò a colori» in un cinemetto di Milano, sembra che il Revival Totò non accenni a finire. Questa sera, la televisione nazionale gli dedica un nuovo cielo (rete uno, ore 2130) che segue una precedente rassegna programmata appena qualche mese fa. Si tratta di otto film (qui sotto ne diamo la succinta trama), di cui almeno due piuttosto rari. Essi coprono un arco assai vasto dell'attività cinematografica dei comico napoletano. e siamo certi che vecchi e nuovi totolili li accoglieranno con grande piacere.
La comicità non ama l'opulenza: il manto maestoso si addice al dramma, mentre la farsa, come già sapeva Aristotele, predilige gli stracci. Eroe di stracci, con improbabili proiezioni e impennate nobiliari, è Totò, funambolo arguto, vitale e sapido. La sua guitteria è l'esorcismo scenico di una memoria popolare che ancora vive i tremori di un'indigenza e di una fame che si direbbe tellurica, atavica e costituzionale: la sua «maniera» è tutto un forsennato dinoccolarsi. sgambettare, svitarsi, rimbalzare. storpiarsi di un corpo di picaro che si trasforma in metafora di bisogni primari: Totò sapeva muoversi in modo meccanico e al contempo lieve: godeva di una straordinaria vis comica plebea e insieme raffinata, poteva essere insolente e astuto, oppure ingenuo e innocente, conservando comunque una grazia misteriosa e un pò funerea. Qualcosa di magico e tuttavia di estremamente concreto si sprigionava dalla sua figura, capace di occhiate furbesche e di risate allucinate, di parossistiche verbosità senza senso e di malinconiche astrusità lunari, di burattinesche irriverenze e di spettacolari capriole. Se si è tardato a riconoscervi un attcstato d'inconsueta qualità poetica, ciò è dovuto al retorico e convenzionale andazzo, vigente nel Bel Paese, per cui si è soliti attribuire lodi alla pomposa seriosità, trascurando tutto quello che, in modi assai più pertinenti, rappresenta i nostri vizi più volgari, la nostra strafottenza e uggiosa bona.
In una recentissima testimonianza, Fellini ha raccontato il suo primo incontro con Totò, il Totò più grande, il geniale animatore del teatro di rivista. Fellini lo ricorda «impalpabile come un sogno», ovvero «immobile in una rigidità catalettica»: una «creatura di un'altra dimensione», con una voce «sorda, lontana, disperata». Questa creatura ambigua nella sua delicata semplicità, asociale e eppure attratta da ideali piccolo-borghesi, fu un capocomico accorto e un mestierante angelico, un artista sublime e un arruffone clownesco, cresciuto nella tradizione della teatralità napoletana — una teatralità come supporto al vivere e alla difficoltà di vivere — Totò coniugava inventività e cinismo, gusto della battuta e della risata salace, sberleffo e caustica alterità.
Apprese la sua arte nei bassi e nei vicoli; la perfezionò attraversando tutte le forme di spettacolo e avanspettacolo, nella rivista, nella sceneggiata, nel duetto «a spalla», nel cabaret, nel cinema. Ma a prescindere — com’egli amava dire — da Scarpetta e Petito, da De Marco e Eduardo, da Monicelli e Mattòli, da Bragaglia e Steno (suoi antenati, suoi «consanguinei», suoi sponsor, suoi registi, suoi «direttori»), Totò fece del proprio corpo e della propria maschera facciale uno stilema burattinesco e astruso, che supera ogni influenza e somiglianza. Come tutti i grandi comici, Totò è riuscito a rovesciare il proprio carattere macchiettistico in una forma unica, assoluta, quasi astratta, che ha qualcosa di sconveniente e d’inquietante, ma che non dimentica la caratteristica primaria della sua esistenza: ridere di sé e degli altri, far ridere perché gli altri si riconoscano in uno specchio deformato, che rinvia la loro immagine grottesca.
Giuseppe Saltini, «Il Messaggero», 12 ottobre 1979
Su la maschera, ritorna Totò
Ritorna Totò. Quante volte la si è sentita questa frase, e sempre la si accompagna con un sorriso, in cui c’è la sicurezza che toma un comico amico e un pezzettino di quell’inconscio collettivo che il suo genio (mimico, gestuale, linguistico) sa evocare con un solo movimento o una sola battuta.
Ritorna Totò. Ritorna lui, la sua maschera, la fame di Pulcinella, come sostiene Goffredo Fofi che, sull’onda di una nuova generazione di pubblico, è stato il primo a dargli nuova vita (e chi ne vuol sapere di più si legga il
suo approfondito e illuminante saggio pubblicato da Feltrinelli). Ritorna il personaggio e non i suoi film, gran parte del quali potrebbero essere dimenticati senza sforzi né peccato. Perché, pur cambiando il regista, il contesto, il partner, Totò è sempre restato Totò.
Da stasera (e per otto settimane) il video della Rete 1 gli dedica una rassegna. Non è difficile prevedere (è già successo con un altro recente ciclo-tv) un alto indice di gradimento. Coi supporto di una rivalutazione critica che ha sottolineato la creatività dell'artista e delle sue continue invenzioni — più era modesto e limitato l’insieme e più Totò inventava suo sponte, convinto com’era che per lui un vero copione non esisteva — oggi gli si può dare di nuovo il benvenuto senza paure di subire etichette sbagliate.
Totò, al contrario di Sordi, non è la storia di un italiano, non è un viaggio nel costume, piuttosto è la nostra società che gli si è attaccata addosso e ha viaggiato con lui. e lui, bastonando qua e là. anche senza volerlo, l'ha illuminata e spiegata facendo tesoro di antiche consuetudini e di gloriose tradizioni. Quelle, ovviamente, dell’arte della sceneggiata e del varietà, da cui mosse i primi passi.
I film che rivedremo sul video sono otto. Nell’ordine, Animali pazzi di Bragaglia (1939), che è davvero un pezzo raro e introvabile, Il ratto delle Sabine di Bonnard (’45), L'imperatore di Capri di Comencinl (’49), Un turco napoletano di Marioli (’53), Il coraggio di Paolella (’55), Totò, Peppino e i fuorilegge di Mastrocinque (’56), Signori si nasce di Mattoli ('60), Totò truffa 62 di Mastrocinque (’61). Mentre negli anni '50 si era soliti considerare il Totò realista, e in alcuni casi addirittura neo realista, il film in programma stasera Animali pazzi, che era il secondo film interpretato da Totò, getta una luce sul vero stile del comico: il surreale. L'incontro con Achille Campanile, autore della sceneggiatura e capostipite dell'umorismo nuovo e diverso dell'assurdo, non fu casuale. Nel film Totò sostiene una doppia parte, c'è una serie di equivoci per un’eredità e una clinica per animali pazzi e nevrotici. La partita non fu, al momento, vittoriosa: Totò rimase allora un divo del teatro, non ancora del cinema. Fu dalla fine degli anni '40 che il set divenne la sua occupazione abituale: vi arrivava a fine mattinata (viveva e scriveva la notte), girava un film dopo l’altro, anche 6 o 7 per anno. Non smise più fino al 1967, anno in cui mori.
Il ciclo di film in tv presenta opere di diversa levatura, ma converrà ricordare n ratto delle Sabine (che fornì l'ispirazione a Luci del varietà), il giovane Comencini che nell'Imperafore di Capri sogghignava, con l’aiuto di Totò, sugli snobismi mondani di allora, quando Capri era il simbolo della depravazione alto borghese; l’irresistibile eunuco del Turco napoletano, e il fregolismo dei travestimenti di Totò truffa 62.
Ci sarebbe voluto l'intuito di Pasolini per riportarlo alle origini dell'assurdo con Uccellacci e uccellini Ma la riscoperta del suo genio comico è venuta invece con i suol film minori, dove perciò il suo disarticolato talento poteva trovare la più completa e autentica vena espressiva, senza ostacoli di nessun tipo, tanto meno quelli culturali. Fu il successo di una casuale ripresa di Totò a colori, a Milano, a riportarlo alla ribalta del giovani. Era il ‘71, e da allora in poi fu un susseguirsi di cicli-rassegne-riscoperte-convegni.
Sull'onda di Fofi (ma anche nel passato c’era stata qualche eccezione fra i critici che in genere giudicavano i suoi film affermando che «il comico avrebbe meritato di meglio») e soprattutto sull’onda di un nuovo consenso popolare, di segno opposto al primo, altri si unirono al plauso. Il nuovo pubblico, si disse, è stufo degli inni piccoli borghesi della commedia italiana: in Totò ritrova la prevaricante «volgarità» della maschera.
Il successo ora è diventato internazionale: pochi mesi fa il quotidiano «Le Monde» gli ha dedicato un pagina con un ritratto esaltante del critico Jean De Baroncelli, e con uno scritto autografo (ora ripreso da un grande settimanale) di Fellini, che racconta come e perché scoprì Totò. Senza contare una rassegna organizzata a Parigi con i suoi film e con un’opera antologica organaizzata da Jean-Louls Còmolli con i suoi pezzi più famosi. Anche qui in Italia uscirà in febbraio un film antologico (diviso a «temi», con pezzi anche inediti o mai registrati) con Totò e si chiamerà «Supertotò»: nel frattempo godiamoci in santa comicità, questo ritorno televisivo.
Maurizio Porro «Corriere della Sera», 2 febbraio 1979
Il primo Totò e libri per tutti
Un ciclo cinematografico televisivo può arrivare a raffinatezze di fronte a cui i vecchi cineclub dovrebbero andare a nascondersi. Ieri la rassegna dedicata a Totò è partita con Animali pazzi, che è del 1939, e che è il secondo film girato dal comico napoletano e di cui esiste un'unica copia, quella che il curatore, Claudio G. Fava, è riuscito a rintracciare: copia tra l'altro fatalmente imperfetta. Il film — dove accanto a Totò si riconoscevano solo Luisa Ferida e il caratterista Claudio Ermelli, e tutti gli altri erano interpreti ignoti — andava visto essenzialmente come documento, anche se un paio di gags funzionavano ancora, grazie alla regia abbastanza vivace di Carlo L. Bragaglia e al copione di Achille Campanile.
Era un incontro curioso, ma logico, tra Campanile e Totò, ossia tra un umorismo letterario e surreale e una comicità di antiche tradizioni popolari partenopee ma egualmente, e per le stesse caratteristiche fisiche dell'interprete, di stampo surreale. In Animali pazzi Totò è cinematograficamente ancora debuttante e il suo punto di riferimento è il palcoscenico di rivista (lo sarà, del resto, per diversi anni): tuttavia immette una presenza estrosa, strampalata, burattinesca che allora doveva apparire piuttosto originale.
Ho detto documento. Animali pazzi appartiene a quel gruppo di film comici della fine degli Anni 30 e inizio Anni 40 con cui l'Italia, autarchicamente ma con risultati interessanti ancorché sempre legati prevalentemente ad una matrice teatrale, cercava di crearsi un suo cinema «da ridere». E' superfluo ricordare che per tutto il decennio '30-'40 il cinema «da ridere» era stato quasi esclusivamente americano e che, oltre ai grandi modelli di Charlot, Buster Keaton. Harold Lloyd. la produzione media di Hollywood aveva clamorosamente sfondato con la coppia Stan Laurel-Oliver Hardy, i popolarissimi Cric e Croc, che anche qui in Italia riempivano le platee e rappresentavano il vertice dell'umorismo spicciolo. A proposito di questo tentativo italiano — che si protrarrà e si svilupperà dopo la guerra — torno a battere un chiodo da me più volte e invano martellato. Va bene Totò, ma perché dimenticare gli altri comici che traevano dal patrimonio culturale delle rispettive regioni doti straordinarie di verve? Alludo naturalmente, e ancora una volta, a Macario, tutto da riproporre come cinema, e al grande genovese Gilberto Govi, e al grande siciliano Angelo Musco... Signori Fava e Pintus, attivissimi e autorevoli artefici della programmazione cinematografica della rete 1 e della rete 2, vogliamo farci un pensierino?
Ugo Buzzolan, «La Stampa», 13 ottobre 1979
E' tornato in televisione sulla Rete 1, a partire da venerdì 12 ottobre, l'arte comica di quel grande maestro della risata che fu il principe Antonio De Curtis, per il pubblico Totò. Le otto pellicole che compongono il ciclo coprono un arco di tempo molto ampio, a partire da «Animali pazzi» del 1939 per finire con «Totò truffa ‘62 » del 1961, e permettono quindi di compiere una specie di panoramica totale sull’attività cinematografica della celeberrima maschera napoletana.
Totò era nato nel 1898 a Napoli; l'infanzia tra i vicoli del rione Sanità, un'esperienza ginnasiale tanto breve quanto poco esaltante, l'arruolamento volontario in Fanteria, sono gli episodi salienti della prima giovinezza di Antonio De Curtis. Poi l'incontro con il teatro, gli esordi al Salone Elena, in piazza Risorgimento a Roma (paga: due soldi al giorno), i primi passi nel mondo dello spettacolo e del successo, da cui Totò verrà allontanato solo dalla morte, sopravvenuta nel 1967.
Il teatro di varietà, la rivista, il cinema e la televisione hanno consegnato per sempre alla storia dello spettacolo e a quella del costume il patrimonio grandissimo di invenzioni e trovate satiriche che Totò, come un prestigiatore, estraeva continuamente dal cilindro magico della sua fantasia. Insieme a Petrolini certamente egli costituisce il vertice della comicità italiana, che nel napoletano nasceva dalla accorta fusione di improvvisazione ed osservazione, di spontaneità e tradizione. Una battuta poteva nascere in lui sia dal caso (la gaffe sua o di un altro attore, un movimento incontrollato) che dall'analisi istintiva ma acuta di tic linguistici o comportamentali (le frasi che rese immortali, come «a prescindere» o «siamo uomini o caporali?»), in tutto avendo sempre presente non solo i grandi predecessori, quali Petrolini o Gustavo Di Marco, artisti individuali, ma anche le voci «collettive» di Anselmo Tartaglia, animatore sommo della commedia dell'arte, Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo.
Certamente in Totò primeggiò sempre la maschera rispetto al personaggio che l'attore veniva di volta in volta interpretando: ma di che maschera grottesca e potente, graffiante ed accattivante si trattava? Il suo volto conteneva (come quello di Buster Keaton o di Stanlio) tutti gli elementi necessari perché irregolarità e piccole deformazioni somatiche diventassero docili strumenti a disposizione di una fantasia scatenata. Il tutto enfatizzato da un fisico disarticolato che faceva di Totò il re dei marionettisti più pazzi.
Certo non tutte le pellicole che il «Picasso della risata » (così lo definì il critico Sandro De Feo) interpretò possono essere definite valide; ma non bisogna però neppure dimenticare il proficuo lavoro svolto con regista di taglia, quali Monicelli, Rossellini, De Sica o Pasolini. Vorremmo concludere queste note con le testimonianze di due registi che ebbero con Totò rapporti di lavoro.
De Sica dichiarò che «Totò era veramente un grande clown, nel senso più nobile della parola. Certe sue folli improvvisazioni erano geniali ed insostituibili. Clown come lui ne nasce uno ogni cento anni».
Divertente l'aneddoto di Sergio Corbucci: «Una delle caratteristiche dei films che ho fatto con Totò e Peppino De Filippo era la difficoltà della prova. Durante la prova la scena diventava sempre penosa e per il regista tristissima. Uno si sentiva come un deficiente e si diceva: questi non faranno ridere nessuno... Poi, quando girammo sul serio, ricordo che si trattò di una scena spaventosa; spaventosa perché vedevo l’operatore sussultare dalle risa dietro la macchina, vedevo gli elettricisti, gli operai e i macchinisti sghignazzare sulle attrezzature. Era comicità allo stato puro».
Scaglione Fulvio, «La Gazzetta d'Alba», 17 ottobre 1979
«Otto Totò» (rete 1 - ore 21,30) - nel ciclo dedicato a Totò va in onda il secondo film della serie, diretto da Mario Bonnard nel 1954: «Il ratto delle sabine». Accanto a Totò, Clelia Mata-nla, Carlo Campanini, Mario Pi-su. La trama: una compagnia di terz’ordine fa la fame in un paese. Dati gli incassi magri, ricorre al copione che il maestro del luogo ha in un cassetto, «Il ratto delle sabine», e riesce ad attirare il pubblico. Ma la conclusione è il solito fiasco. Forse, il significato di questo film sta in una frase che disse una volta Totò: «Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo...». Comunque, nemmeno il film, a suo tempo, fu un successo.
«Il Piccolo di Trieste», 19 ottobre 1979
Il ratto delle Sabine (1945), che va in onda stasera (Rete uno, ore 21.30), è il secondo film del ciclo dedicato a Totò. Diretto da un estroso artigiano della comicità, Mario Bonnard, e sceneggiato da un non altrettanto fantasioso autore di rivista, Mario Amendola, il film riporta Totò, ai suoi albori cinematografici, sul palcoscenico dell’avanspettacolo Ma nella buia provincia ove la storiella è ambientata, non si rappresentano allegre commediole con procaci donnine. Il ratto delle Sabine, che dà titolo al film, è un tremendo melodramma, concepito da un disgraziato drammaturgo che vuol risollevare le sorti della sua scalcinata compagnia.
Il ratto delle Sabine, con le sue piccole pretese, fu tutto sommato un copione troppo ferreo per lo scalpitante Totò, messo qui a dura prova. Del resto, il film — interpretato, inoltre, da Clelia Matania, Carlo Campanini, Aldo Silvani, Mario Pisu — non ottenne il successo sperato. Tuttavia, questo apologo straccione di guitti affamati, a quanto risulta, ispirò successivamente Lattuada e Fellini al momento di realizzare Luci del varietà. Certo. «Fellini è un’altra cosa», ma perché negare un qualche merito a questo disgraziato Ratto delle Sabine?
«L'Unità», 19 ottobre 1979
Campanini: «mi ricordo che Totò...»
TORINO — Carlo Campanini, 73 anni appena compiuti, toma con la memoria sul set di Il ratto delle Sabine, Roma 1945. «Totò era proprio scocciato. Mi disse sottovoce: "Questi scherzano, ma io, maestà lo sono veramente! E domani ti faccio vedere...". Mi portò gli incartamenti araldici: aveva fatto tutta la trafila, marchese conte principe...». Durante una scena del film che vedremo stasera in Tv, Totò, copocomico di una compagnia di guitti affamati, mette in scena (per sopravvivere) un dramma in versi, li ratto delle Sabine, opera del professore del paese, che è Carlo Campanini. A Totò spetta il ruolo del re; la gente, anche sul set, si diverte, ma l'attore, geloso del suo sangue blu, s’inquieta.
Da una commedia recitata in teatro da Angelo Musco, il regista Mario Bonnard («bravo ma pigro. Diceva «Fai tu, Carlino...») ricavò in fretta un film comico. «Girammo nel teatrino di via degli Avignonesi. Proprio li, Rossellini vi stava girando, a pezzi e bocconi, Roma città aperta. Io intanto facevo contemporaneamente con Soldati Le miserie del signor Travet. Per il film con Totò ebbi 200 mila lire: tante, uno sproposito...».
Ora recita in un altro teatrino, la sala Gobetti da Torino. Recita in piemontese Paletto Gioanin, americano ’d Mongardin a fianco di un giovane e dotato comico torinese, Franco Barbero. Fanno coppia da cinque anni, nove commedie rappresentate a teatri, esauriti, storie subalpine di ruspante fragranza comicosentimentale.
In questo stesso teatrino, 300 posti al primo piano di via Rossini, sotto la Mole, nacque nel ’55 con Nico Pepe lo Stabile torinese, De Bosio vi allestì i primi Ruzante, Moravia (Il mondo è quello che è) e Natalia Ginzburg (Ti ho sposato per allegria) vi presentarono le loro novità di teatro. Campanini sorride: «E proprio qui ho studiato corno. Nel ’24, per tre mesi. Poi mi misi a cantare. Intanto lavoravo in una fabbrica di molle e come compagno di tornio avevo un giovanotto balbuziente. Mi presentai a un impresario come baritono e venni assunto come comico, grazie all’imitazione del balbuziente. Andammo in America. Ho cominciato così. Sono nato a Torino, povero, in via Principe Amedeo, quartiere allora malfamato per via delle case chiuse. Mio padre era tranviere e morì giovane: dovetti arrangiarmi...».
— Ancora Totò. Eravate amici?
«Abbiamo fatto tanti film insieme, I due orfanelli resta il migliore. Fuori lavoro, Totò non frequentava nessuno. Ma era buono, aiutava gli attori sfortunati pagando affitti e conti in trattoria senza dirlo in giro. E si innamorava spesso. La Pampanini? Beh si, l’aveva corteggiata. Magari s’era illuso. Lei gli disse durante 47 morto che parla che lo considerava solo un padre, un fratello. E Totò, in uno sfoga notturno, scrisse Malafemmena».
— E quante volte lei ha dato del cretino a Walter Chiari?
«Centinaia... Vieni avanti, cretino. E venivano anche gli applausi. L'imitazione dei fratelli De Rege ci ha dato successo e lavoro. In Australia non sapevano dell'esistenza dei De Rege e attribuirono a noi l’invenzione dei personaggi...-.
— E i suoi film?
«Più di 100. Ora li trasmettono alle Tv private e la gente mi riconosce per strada. Anche perché ho messo in testa un po’ di Brill (e si passa la mano nel capelli diventati scuri per esigenze di copione). Per il ruolo di Leone in Addio giovinezza c’erano quattro candidati: Nino Besozzi, Umberto Melnati, Paolo Stoppa e Carlo Romano. Scelsero me, che venivo dall'avanspettacolo...».
— Ha recitato accanto a Totò, Macario, Chiari: si considera una buona «spalla»?
«Non direi "spalla": sono un caratterista che recita in coppia. Ma la coppia è sempre esistita, nel teatro comico.
—Si sente in debito o in credito con la vita?
«Scherza? Meglio di cosi non poteva andare. Ho quattro figli e cinque nipoti. Recito da mezzo secolo, sono in pensione da 13 anni ma continuo a lavorare. Un solo, grandissimo dolore, la scomparsa di mia moglie. Una grande fortuna, l’incontro con Padre Pio e la mia conversione. Ecco come passo il mio tempo libero, parlando al prossimo di Padre Pio. Non una conferenza, ma una confessione».
La voce gli si incrina di commozione. Poi si spande il cerone sul volto, un po’ di rossetto sulle guance e entra in scena. Lo accoglie il tradizionale applauso di sortita. Succede cosi da mezzo secolo
Dino Tedesco, «Corriere della Sera», 19 ottobre 1979
L'imperatore del kitsch
Terzo appuntamento televisivo, stasera alle 21.30 sulla Rete uno, con Totò. Il film in programma è uno del più decenti della serie. L'Imperatore di Capri (1949), sceneggiato da Metz e Marchesi e diretto da Luigi Comencini.
Proprio Comencini fu il primo regista italiano di un certo livello a voler cimentarsi con Totò. Fu cosi che Metz e Marchesi confezionarono su misura per il grande comico napoletano un abito narrativo che gli stava a pennello: Totò è un cameriere d'albergo ma viene scambiato per un principe orientale (avete presente Antonio De Curtis, principe di Bisanzio?) da una procace avventuriera, e di qui si snodano i più classici equivoci da pochade in chiave partenopea, secondo un copione alla Scarpetta. Inoltre, Metz, Marchesi e Comencini hanno escogitato un’altra trovata piuttosto sensata, destinata ad avere un seguito in molti dei successivi film di Totò. Accanto all'attore troviamo per la prima volta sullo schermo, tutto il «bestiario» dell'avanspettacolo, con le tradizionali «spalle» di Toto già collaudate sul palcoscenici del varietà, da Mario Castellani a Galeazzo Benti, che diverranno inseparabili dunque anche al cinema.
Ma è la principale interprete femminile dell'Imperatore di Capri che desta più scalpore. Trattasi dell'attrice turca Yvonne Sanson, qui riproposta in tutta la sua paradossale volgarità, lontano dai melodrammi strappacore di Matarazzo con Amedeo Nazzari. E’ appunto la Sanson che conferisce al film di Comencini l’ambita patente di spettacolo consapevolmente kitsch, e ogni effetto esilarante, si può star certi, va a segno ben oltre le apparenze. Che dire di più? Forse si può aggiungere che L'Imperatore di Capri è senz’altro uno dei film di Totò destinati a durare negli occhi degli spettatori ancora per un pezzo, mentre non si può ritenere altrettanto degli altri titoli usciti in quello stesso periodo.
Il nostro comico spontaneamente surrealista è, infatti, già legato ad una triste realtà di mercato. Per «sfruttare il momento», agli albori degli anni '50 Totò lavora come in una catena di montaggio, a scapito non certo di se stesso, ma della generica qualità dei prodotti. Chissà, magari pensava già di avere soltanto un paio d’anni di successo sul suo cammino.
d.g., «L'Unità», 26 ottobre 1979
«Ottototò» (rete 1 - ore 21.30 -colore) - Quarto film della serie dedicata al grande comico napoletano: «Un turco napoletano», nel 1953. La regia è di Mario Mattoli. Accanto a Totò: Isa Barzizza, Carlo Campanini, Aldo Giuffrè, Franca Faldini. É la storia, ovvia ma divertente, di Totò falso eunuco turco che va al servizio nella casa di un commendatore gelosissimo della sua bella moglie. L’ignaro marito crede cosi di poter dormire sogni tranquilli, ma si sbaglia...
«Il Piccolo di Trieste», 09 novembre 1979
Tratto dalla omonima commedia di Eduardo Scarpetta, Un turco napoletano è il quarto degli «Ottototò» che va in onda stasera alle 21,30 sulla Rete uno. Si tratta di un titolo che fa parte di una trilogia di Scarpetta (gli altri due film sono Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi) portata sullo schermo dal grande comico in stretta collaborazione con il regista di varietà Mario Mattoli, particolarmente a suo agio in questo genere di operazioni.
Nel panni di Don Felice Sciosciammocca (personaggio chiave della cultura napoletana, tante volte incarnato anche da Eduardo De Filippo a teatro), Totò sguazzava davvero in queste pochade partenopee. Di suo, ci metteva sempre il solito guizzo surreale, senza però strafare come In tante altre occasioni, poiché sapeva che i testi di Scarpetta non meritavano certo di essere strapazzati come l copioni del film di serie B.
L'equivoco che sta alla base di tutte le commedie di Scarpetta, qui lo troviamo fin dal tìtolo. Un turco napoletano, appunto, è un farsesco stratagemma che viene in mente a Sciosciammocca, appena uscito di golena, per procurarsi un lavoro. Farà il «maestro di casa» da Don Pasquale, un riccone che ha bisogno di un eunuco. Circondato dalle grazie femminili (la padrona, la figlia, la serva). Totò -Felice rischia di impazzire nel mettere a freno l’integra esuberanza, ma fa Impazzire di divertimento pure la platea. Ogni battuta ne nasconde un'altra, ma non siamo fra triviali doppi sensi: Totò e Mattoli si stanno cimentando con il più bell'avanspettacolo della loro lunghissima carriera.
«L'Unità», 9 novembre 1979
«Stampa Sera», 12 novembre 1979
«Ottototò» (rete 1 - ore 21.30) - quinto film, intitolato «Il coraggio», della serie dedicata al grande Totò. Sono accanto a lui un brillante Gino Cervi, due «belle» dell’epoca, (la fatale Gianna Maria Canale e la giovanissima Irene Galter), il promettente Gabriele Tinti, Paola Barbara, Leopoldo Trieste ed Ernesto Almirante. È la storia di un povero diavolo che, salvato dalle acque del fiume nelle quali ha tentato il suicidio, si alloca di prepotenza nella villa del suo salvatore e ne combina di tutti i colori. Alia fine sarà proprio questo povero diavolo, aiutato dai suoi otto figli, che strapperà il «benefico» e idrofobo padrone di casa dalle grinfie di un'attricetta che lo ricatta. Il film, prodotto 24 anni fa e diretto da Domenico Paolella, è tratto da un vecchio e famoso racconto di Augusto Novelli.
«Il Piccolo di Trieste», 16 novembre 1979
Venerdì sera consacrato a Totò. Il film di stasera sulla Rete uno è Il coraggio, del 1955, tratto da un testo teatrale dì Augusto Novelli, diretto da Domenico Paolella, e con un cast che comprende, tra gli altri, oltre il grande comico, anche Gino Cervi, Irene Galtier, Gianna Maria Canale, Leopoldo Trieste.
Di che cosa si tratta? Un industriale, certo Paoloni, per stare in pace con gli uomini e con Dio, si prodiga per salvare coloro che hanno deciso di mettere fine alla propria esistenza. Salva un suicida oggi, salva un suicida domani. Paoloni si imbatte, un giorno, in un candidato all'obitorio diverso da tutti gli altri. E' Gennaro Vaccariello, bloccato sull'orlo dei precipizio, appena in tempo. Ma Vaccariello è, appunto, un aspirante suicida di tipo speciale. All’industriale rivolge più o meno questo discorso: «Benissimo, ora che m'hai salvato, spetta a te mantenere me e la mia famiglia». Paoloni fa buon viso a cattivo gioco, nonostante che le richieste di Vaccariello diventino sempre più esose.
Nella foto: Gianna Maria Canale e Totò in una inquadratura del film di questa sera.
«L'Unità», 16 novembre 1979
Totò, Peppino e i fuorilegge è il film di questa sera sulla Rete uno. Il sesto della serie dedicata al comico, lungometraggio non certo tra i migliori nella prolifica produzione di questo binomio. Totò e Peppino De Filippo appunto, che pure dette innumerevoli saggi di comicità (come ad esempio. il film della prossima settimana, Signori si nasce).
La storia di questa sera, firmata alla regia da Camillo Mastrocinque, è quella di un marito, angariato dalla moglie avara e tiranna, il quale, pur di spillare quattrini alla consorte, escogita un complicato piano di un finto rapimento. Suo complice è naturalmente Peppino, barbiere di professione, il quale dà una mano nella messa a punto del piano. I due faranno finta appunto, di essere stati sequestrati da un terribile bandito, costringendo in tal modo la donna a cacciare i soldi del riscatto. La moglie però, ad un certo punto scopre ogni cosa; ma questo sarebbe niente... Il guaio è che poco dopo Totò e Peppino vengono rapiti per davvero e la donna, naturalmente, non vuole più pagare. Cosi, i due suderanno le proverbiali sette camicie per tornare liberi. Si fa per dire. Con quella moglie...
«L'Unità», 23 novembre 1979
Finisce in bellezza, stasera alle 21,30 sulla Rete uno, il ciclo di film dedicato a Totò. Il titolo, Totò truffa '62 (regia di Camillo Mastrocinque), dice poco, o addirittura puzza di bruciato. Ma non lasciatevi ingannare. Si tratta, con ottimo margine di probabilità, della migliore commediaccia di serie B interpretata dal grande comico napoletano.
Infatti, Totò truffa ‘62 è tra i pochi film indispensabili in questa rassegna televisiva che si è dimostrata piuttosto precaria. Totò metteva sempre qualcosa di veramente suo anche nei film che meno lo meritavano, però sono state rare le occasioni cinematografiche per un ritratto a tutto tondo di questo straordinario attore. Indubbiamente, Totò truffa '62, nella sua apparente modestia, rappresenta un monumentale omaggio al suo interprete-protagonista-mattatore. Ci sono le più gustose gags riesumate dall'età d'oro dell'avanspettacolo, si rivedono alcuni tipici travestimenti clowneschi del varietà, si affaccia un uso quasi hollywoodiano delle musiche e delle coreografie, e soprattutto c'è Nino Taranto, che è una «spalla» finalmente robusta per Totò.
Ma il bello è che il tutto sta prodigiosamente in piedi. La storia ha un avvio fulmineo, con una trovata quasi geniale: Totò e Taranto, comici spiantati, se ne vanno in giro per Roma con un vespasiano, chiedendo mazzette ai proprietari di ristoranti per andarlo a piazzare altrove. Non è che la prima di una lunga serie di truffe mirabolanti, consumate sotto gli occhi di un commissario ex compagno di scuola di Totò (si tratta di Ernesto Calindri, con la sua faccia migliore), e all'insaputa di una tresca amorosa tra i rispettivi figli, molto sciocchi e perbene, e all’oscuro di tutto.
Ebbene si, bisogna parlare proprio di miracoli, poiché fra i nomi degli autori di Totò truffa '62 figurano inoltre Castellano e Pipolo ormai famosi e logori routinier cinetelevisivi nei panni di sceneggiatori. Da quasi vent'anni, ci si chiede come abbiano fatto a scrivere una cosuccia cosi acconcia e garbata.
«L'Unità», 7 dicembre 1979
Saltato all'ultimo momento la settimana scorsa, Totò truffa '62, ultimo film della serie «Otto Totò», viene recuperato questa sera dalla Rete uno (e viene cancellato, di conseguenza, il già programmato film di Nadine Marquand Trintignant, Il ladro di crimini). Totò truffa '62 è soprattutto un omaggio al grande interprete comico. Vi si ritrovano le più gustose gags dell'avanspettacolo, si rivedono alcuni tipici travestimenti clowneschi del varietà, con Nino Taranto che fa da robusta «spalla» a Totò.
La storia ha un avvio fulmineo, con una trovata quasi geniale: Totò e Taranto, comici spiantati, se ne vanno in giro per Roma con un vespasiano. chiedendo mazzette ai proprietari di ristoranti per andarlo a piazzare altrove. Non è che la prima di una lunga serie di truffe mirabolanti, consumate sotto gli occhi di un commissario ex compagno di scuola di Totò (si tratta di Ernesto Calindri, con la sua faccia migliore), e all’insaputa di una tresca amorosa tra i rispettivi figli, molto sciocchi e perbene, e all'oscuro di tutto.
Totò truffa ’62 è tra i pochi film indispensabili in questa rassegna televisiva che si è dimostrata piuttosto precaria. Totò metteva sempre qualcosa di veramente suo anche nei film che meno lo meritavano. però sono state rare le occasioni cinematografiche per un ritratto tutto tondo.
La regia è di Camillo Mastrocinque; oltre a Totò, Taranto e Calindri, gli altri interpreti sono Estella Blain, Carla Macelloni, Lia Zoppelli, Pietro De Vico, Luigi Pavese.
«L'Unità», 14 dicembre 1979