Articoli e ritagli di stampa: anni '90
Indice degli avvenimenti importanti 1990-1994
Febbraio 1990. Nella strada dove nacque Totò a Napoli, Via Santa Maria Anteseculae, per iniziativa di una piccola associazione culturale, la «San Vincenzo Ferreri», verrà collocata una statua in omaggio alla memoria del grande comico
Novembre 1990 Esce nelle librerie l'opera a firma di Liliana de Curtis e Matilde Amorosi «Totò mio padre», Mondadori Editore, Milano, 1999 - 159 pagine, lire 32.000
Marzo 1991 Viene annunciata l'uscita del nuovo libro di Franca Faldini dal titolo «Insieme nel buio», Milano 1991, Tullio Pironti editore
15 aprile 1992 ricorrenza del venticinquennale della scomparsa di Totò. Celebrazioni, speciali televisivi, mostre, ricordi
16 novembre 1992 Sulla prima rete della RAI inizia lo speciale televisivo condotto e curato da Renzo Arbore «Caro Totò ti voglio presentare»
Novembre 1992 Esce nelle librerie "Totò, Scalfaro e la... «malafemmina»", Edizioni Daga, 15 mila lire che ripercorre le vicende del mancato duello fra Totò e l'onorevole Scalfaro
12 novembre 1993 Inizia la nuova serie televisiva sulla Rete Uno della RAI «Totò, un altro pianeta». Autore è Giancarlo Governi, regista Alberto Orsi, le musiche sono di Piero Montanari. La serie fa seguito ad una precedente dello stesso autore, chiamata «Il pianeta Totò», di cui furono realizzate tre edizioni nel 1981, 1983 e 1988.
Mostre, programmi televisivi, retrospettive, serate a tema, Totò torna popolare come e forse più di quando era in vita. In suo onore vengono istituiti premi, giornate a tema, create associazioni commemorative, gli vengono dedicate strade, piazze, monumenti ed altre iniziative. Si parla della creazione di un museo a lui dedicato che si dovrà inaugurare a Napoli.
Novembre 1991 In uscita il terzo cofanetto dedicato a Totò, contenente poesie, scenette e canzoni ritrovate e reinterpretate da Nunzio Gallo
Ottobre 1992 a distanza di venticinque anni dalla scomparsa di Totò, Carlo Croccolo conferma che ha doppiato la voce del principe della risata in molte pellicole, particolarmente nel periodo che va dal 1957, anno in cui si ammalò agli occhi, fino alle ultime opere.
30 ottobre 1993 E' nelle librerie la seconda edizione dell'unica autobiografia di Totò, da titolo «Totò. Siamo uomini a caporali?», Newton Compton, pp. 140, L. 25.000 curata da Liliana de Curtis e Matilde Amorosi. La prima edizione, edita dall'editore Capriotti di Roma, uscì nel 1952.
Fa discutere l'appendice del libro dedicata alla critica a Pasolini, in particolare al film «Uccellacci e uccellini»
24 dicembre 1993 La Rete TRE della RAI ripropone al pubblico il film «L'uomo, la bestia e la virtù», con Orson Welles e Viviane Romance. Nel 1953, gli eredi di Luigi Pirandello ne bloccarono la diffusione
Altri artisti ed altri temi
Totò
Articoli di stampa, al 1990 al 1994
C'è poco da ridere: la nipotina di Totò è sparita nella droga
Liliana de Curtis: «Totò m'ha fatto piangere»
Totò: foto private e scatti d'autore
Il principe e la ballerina
Liliana Castagnola, il segreto di Totò
Come Totò divenne il principe de Curtis
Mio padre Totò: ecco chi era veramente il principe attore
Jella e pinzellacchere
Presentazione del libro di Liliana de Curtis «Totò mio padre»
Liliana de Curtis: «la malafemmena di mio padre era...»
Festa per il ritorno in Italia di Liliana da Johannesburg
Con Macario e Totò i fascisti ridevano verde
Diana: Totò scrisse «Malafemmina» pensando a me
Diana: «Mio marito mi teneva chiusa a chiave»
Diana: subito dopo avermi conosciuto, Totò mi disse: «signorina, vorrei sposarla»
Presentazione del libro di Franca Faldini «Insieme nel buio»
Federico Fellini: «il mio Totò»
Il Totò mai visto
Totò venticinque anni dopo la sua scomparsa - Rassegna Stampa
Totò, genio puro come Keaton e Charlot
Totò, un Pinocchio crudele e asessuato
«Caro papà, grazie anche a nome dei tuoi umili fans». Liliana de Curtis
Carlo Ludovico Bragaglia: «Totò, una marionetta che ignorava la sua grandezza»
Tutte le mattine sotto casa di Totò una fila di poveri
Renzo Arbore: «È la Napoli che piace a me»
Vincenzo Mollica: «Pescando perle in un oceano di versi e gag»
Mio padre Totò
Totò e Charlot, confronto fra due geni della risata
Monicelli: la sera cantavamo con Totò
Ricordando Totò
Carlo Croccolo: «per anni Totò ha parlato con la mia voce»
Renzo Arbore: io e Totò
Quale Totò?
Liliana de Curtis: «mio padre, Totò, mi fa regali dal cielo»
Totò e Milly Carlucci: il principe e la bionda
Totò, il principe e la sciantosa
Totò si pentì di «Uccellacci e uccellini»
Totò sotto le bombe e tra i maiali
Quando Totò era il Belpaese
Il mio Totò, pessimista comico
Totò, un principe misterioso
Una statua per Totò a Napoli sorgerà vicino alla sua casa
NAPOLI - Un monumento a Totò sarà realizzato nei pressi dell’abitazione natale del grande artista per iniziativa di una piccola associazione culturale, la «San Vincenzo Ferreri». Il monumento sarà costituito da una edicola in marmo, di quelle di tipo votivo, che racchiuderà un busto in terracotta realizzato dallo scultore napoletano Antonio Januario. Lo ha riferito l’autore dell’opera, che in questi giorni tiene una «personale» nei padiglioni della mostra d’Oltremare in margine alla mostra-mercato del libro «Galassia Gutenberg».
Januario ha dichiarato di aver consegnato nei giorni scorsi ai dirigenti della «San Vincenzo Ferreri», nella sede di via S. Maria Antesecula, il busto in terracotta raffigurante Antonio De Curtis, in arte Totò, come era nella vita di tutti i giorni e non nei panni della «macchietta» diventata famosa in tutto il mondo.
«Con l'associazione - ha detto Januario - abbiamo convenuto che si doveva eternare il ricordo del grande attore napoletano cosi come era nella realtà e non come appariva nella finzione cinematografica ed abbiamo deciso di realizzare il busto in terracotta».
«Il Messaggero», 20 febbraio 1990
Caro Totò sul piedistallo
Un monumento al grande comico
Leggo che si è formato a Napoli un comitato promotore perché venga intitolato un monumento a Totò: ottima idea, che consentirebbe di onorare contemporaneamente un attore, un comico popolare, e il portavoce di una certa Italia, che in Napoli si riconosce ma non certo si esaurisce. In merito all'opportunità di onorare un attore immagino oggi nessuno avanzerebbe più riserve, lontani sono i tempi in cui ai comici non veniva data sepoltura in terra consacrata, anche nel nostro Paese, dove forse più a lungo che altrove la Chiesa continuò a combattere chiunque tentasse di contrastarle il monopolio dell'intrattenimento. Lei volle che l'istrione fosse randagio, senza posto fisso nell'ordinamento sociale. Ma oggi la professione dell'uomo di spettacolo non è più ritenuta incresciosa, e la riconoscenza di coloro che ne sono stati allietati può manifestarsi anche, come capita a Roma, con l'intitolazione di strade e piazze, sia pure nella più squallida periferia.
Magnifico sberleffo
Meno pacifica, forse, agli occhi perlomeno della cultura ufficiale, l'idea di onorare un attore comico, anzi un comico popolare, semidialettale, venuto dall'avanspettacolo e fedele a tali origini: ma qui sono pronto a battermi con tutte le forze. E' vero, in altre nazioni il Grande Attore, colui nel quale tutta un'epoca si identifica, non è mai un comico. L'Inghilterra, che è il luogo dove per primo l'attore fu rispettato e riverito in quanto tale, possiede l'asse Garrick-Kean-Irving-Olivier, tutti belli, nobili, intensi; ma anche la Francia da Talma a Gerard Philipe ha venerato protagonisti aulici, portatori di alti ideali. Non così l'Italia, almeno quella libera.
Non appena si affrancò dal regime, il cinema italiano — ossia la parte più viva e più seguita dello spettacolo nel nostro Paese — imboccò risolutamente la strada della commedia; solo da noi le grandi star del botteghino sono state, da allora ad oggi e senza eccezioni, attori comici (Fabrizi, Macario, Chiari, Rascel, ma più di tutti loro Toto, e poi Sordi, Gassman comico, Tognazzi, Manfredi, Mastroianni comico, e poi Villaggio, Troisi, Nuti, Benigni...). Può darsi che all'origine di questo privilegiare chi non era serio ci fosse, nella gente, stanchezza e diffidenza verso la retorica fascista da cui era stata a lungo inondata. Ma c'era anche dell'altro. Ennio Flaiano diceva che la vera comicità italiana è sempre stata di tipo parassitario, parodia, pernacchie rivincita dell'umile sul potente, dell'oppresso sull'oppressore. Ora, mentre da un lato questo indica il filone più ricco e coerente del nostro umorismo, dall'altro spiega implicitamente la ragione per cui, checché Mussolini tentasse di dir loro, per prassi atavica gli italiani, abituati a prenderle, diffidavano degli eroi; calcisticamente, come spiega Gianni Brera, noi abbiamo sempre funzionato al meglio quando ci siamo schierati in difesa, tentando di beffare l'avversario in contropiede.
D'altro canto, anche tramontato il regime, chi aveva a cuore le sorti patriottiche continuò a esortare romanticamente i nostri concittadini a giocare all'attacco; per questo motivo la critica trovava Totò deteriore, diseducativo, incolto, volgare. Tanto glielo ripetè che quasi finì per crederlo anche lui, quando dichiarò che Uccellacci e uccellini di Pasolini era il solo bel film che mai avesse fatto (la storia si ripete, anche oggi Pietro Citati loda Fellini per avere fatto diventare Benigni qualcosa d'altro).
Ma la critica si sbagliava, e oggi del resto lo ammette. L'importanza di Totò nella storia del nostro spettacolo e del nostro costume resta incalcolabile. Approdato quasi per caso al grande schermo con tutto il bagaglio dei suoi lazzi e dei suoi sberleffi, questo vecchio animale di palcoscenico ottenne immediatamente, con le sue sole forze, un plebiscito impressionante; parlò (e grazie alla televisione, parla ancora) a tutti. E mentre per anni manteneva in piedi, di nuovo quasi da solo, una grossa fetta della nostra rinascente industria cinematografica, indicò ai suoi successori un modo di parlare agli italiani che in seguito non avrebbe perso di validità: quello di coinvolgerli nell'ironia, di farli ridere, e di farli ridere — non ho lo spazio per dimostrarlo ma credo non ce ne sia bisogno — intelligentemente.
Masolino d'Amico, «La Stampa», 4 marzo 1990
Nel nome di Totò una lista per «quelli della notte»
Elezioni a Napoli: tra ironia e trasgressione presentate 39 candidature, valide soltanto per una sera
Elezioni a Napoli: tra ironia e trasgressione presentate 39 candidature, valide soltanto per una sera
NAPOLI — Candidati sì, ma soltanto per una notte. E non certo quella del sei maggio. Contano poco, infatti, le elezioni per i nottambuli napoletani. Molto di più conta ciò che è accaduto ieri sera nella discoteca KGB dove è stato presentato l'elenco degli aspiranti assessori. Aspiranti che tali resteranno, perché fatichereste invano a cercare sulla vostra scheda elettorale uno solo dei trentanove nomi in lizza.
Eppure del partito ormai hanno tutto: slogan, programmi e linea politica. Si battono al grido di «Vota Antonio, vota Antonio» in onore di quello che considerano il loro nume tutelare: il principe Antonio De Curtis, in arte Totò. Diffondono volantini in cui annunciano che «mai come oggi i notturni napoletani sono una forza, e come tale avanzano i loro diritti di liberi cittadini che danno di Napoli un’immagine più vicina alle grandi capitali d Europa».
Ed invocano il ritorno in auge del ritornello cantato nel 1964 da Caterina Caselli: Bisogna saper vivere.
Ma allora, se davvero sono così agguerriti e compatti, perché non trasformare quell'effimera lista in un vero e proprio cartello di candidati, con tanto di simbolo e marchio? Perché non portare il gioco fino in fondo? «Perché riusciamo a prendere sul serio soltanto il piacere di stare insieme — risponde Salvatore Pica, architetto e commerciante «in sonno», ex presidente della disciolta «Accademia della Catastrofe», oggi numero uno dei nottambuli vesuviani — E poi chi lo sa: può darsi che nel surrealismo della politica meridionale, ci sia qualcuno disposto a prenderci sul serio. Danno soldi a tutti, persino agli ex detenuti: vuoi vedere che ci scappa qualcosa anche per noi?».
Una speranza vana, probabilmente. Ma che riflette per intero il programma stilato dai trentanove candidati. -Chiediamo gratis: taxi, pullman, funicolari, ristoranti, pub, teatri e discoteche — si legge in quella che è già stata definita la Carta dei Diritti del nottambulo — Chiediamo la villeggiatura d’estate e d’inverno, la barca nuova ad ogni stagione, l’auto con telefono ogni sei mesi, il rinnovo del guardaroba due volte all’anno, sauna e massaggi a domicilio, due stanze ed accessori con veduta su Capri e posto auto ad equo canone, stipendio minimo garantito di cinque milioni di rubli al mese. E soprattutto ci battiamo affinché tutte le attività del centro storico debbano iniziare al risveglio del nottambulo».
C’è forse qualcuno che non sottoscriverebbe all’istante un simile programma? «Credo proprio di no — ribatte Pica —. Ma è per questo che la nostra lista è vissuta una sola notte. L’unico spazio politico rimasto disponibile è quello dell’ironia, della trasgressione fine a se stessa. Del resto, come in ogni partito che sì rispetti, i candidati dei nottambuli sono stati scelti in base ad un criterio rigidamente clientelare: sono tutti amici miei».
E vediamoli, allora, questi candidati, uomini e donne che per poche ore si sono opposti ai big della politica napoletana. Ad ognuno di loro è stato già affibbiato un incarico da assessore. «Naturalmente sulla scorta delle competenze individuali», aggiunge sornione Salvatore Pica. C’è l’assessore al teatro, Luciano Doppio Rhum, un attore dilettante che per il teatro ha sacrificato l’impiego in banca; il responsabile dei «beni in casa», Carlo De Rita, numero due dell’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa; l’assessorato all'aviazione è diretto da Maurizio All’Erta, che da tempo sostiene, unico testimone, di aver visto un aereo cadere in mare; Raffaella Levecque, assessore al tempo libero «dato che non ha mai niente da fare-; il giornalista de «Il Mattino-, Pasquale Esposito, responsabile del settore appuntamenti, proprio quello che nel suo giornale gli hanno invece soffiato da sotto al naso; e c'è persino l'assessore a Positano, Piero Pugliese, tardo epigono dei «feriti a morte» narrati da Raffaele La Capria.
«Ma il fiore all'occhiello della nostra lista è senza dubbio Giovanna De Conciliis. unica amministratrice in Italia ad occuparsi esclusivamente della nobiltà — spiega Pica —. Contiamo molto sul suo assessorato per rinsaldare i legami con la Napoli dei Borbone, nostri avi spirituali, fantasmi sempre presenti in queste notti dove non è d'obbligo l’abito scuro, ma un pizzico di malinconia».
E. d’E., «Corriere della Sera», 13 aprile 1990 (Disegno di Luciano Francesconi)
Esplorando il pianeta Totò
Le diverse facce dell’attore che fu poeta e autore di canzoni
E' stata inaugurata al Centro internazionale di Brera, nell’ex chiesa di San Carpofaro di via Formentini 10, la mostra iconografica «Totò (l’uomo, il teatro, il cinema, la televisione, il poeta, il fotografo)». Promossa in collaborazione con il Comune, il ministero del Turismo e dello Spettacolo, la Regione Lombardia, Redi Electric, Skill Group e con il patrocinio della Provincia di Milano, questa testimonianza globale del «pianeta Totò» è stata allestita dall'architetto Giampaolo Monti e coordinata da Angelo Lan-za. Luigi Giustiniano e Umberto Altomare, grazie anche al determinante aiuto di Liliana De Curtis, Giancarlo Governi, Vincenzo Mollica, della Biblioteca Siae e degli archivi Rai; il catalogo è stato pubblicato dalla casa editrice Collseum (la mostra resterà aperta sino al 1° luglio).
La maschera Totò, un originale miscuglio di Pulcinella, Pinocchio e Petro-lini, viene proposta in questa rassegna nella versione pubblica, quella delle locandine accompagnate da fotogrammi dei film più noti — In totale ne girò 96 —, da «Fermo con le mani» del ’37 a «I due orfanelli» del ’47, da «Totò le Mokò» del '49 a «Napoli milionaria» del ’50 e poi, passando attraverso «47 morto che parla» (’50), «Guardie e ladri» ('51), «L’oro di Napoli» (’54), «I soliti ignoti» (’58), solo per citarne alcuni, per arrivare a «Uccellacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini (1966). E non dimentichiamo Totò attore di teatro, compagno di Isa Bar-zizza in «C'era una volta il mondo» del '48, di Anna Magnani in «Quando meno te l’aspetti», protagonista dello spettacolo «Bada che ti mangio» (’49) e della rivista «A prescindere» (’56) che annovera in cartellone nomi come la soubrette Yvonne Menard, il musicista Carlo Alberto Rossi, la spalla Enzo Turco.
Tuttavia, accanto a queste documentazioni dell’artista Totò, sono esposte anche foto di famiglia scattate da Antonio De Curtis alla moglie Diana e alla figlia Liliana a Viareggio nel 1937 e durante un viaggio in Africa nel '40: Totò fotografo, una passione nascosta. Altre immagini, a fianco di lettere autentiche, documentano poi la vita privata del «principe», come il tragico amore di Liliana Castagnola, la soubrette che si suicidò nel 1930 perché abbandonata da Totò, o come il legame con Franca Faldini che diventò la sua compagna negli ultimi quindici anni di vita.
Antonio De Curtis, uomo e attore, ma anche poeta e autore di canzoni: l’altra faccia del pianeta Totò. De Curtis era molto affezionato a questi testi che probabilmente considerava lo specchio più vero della sua anima malinconica. La più famosa delle sue canzoni è senz’altro «Malafemmena», ma Totò ne scrisse altre 40.
Qualche titolo tra l testi esposti in originale al Centro internazionale di Brera: «Nemica», cantata da Giacomo Rondinella, «Povero core», «Casa mia», «C’aggia fa’... C’aggia dì...», «Miss, mia cara miss». E se «Malafemmena» viene considerata la regina delle canzoni di Totò, «’A livella» è la più nota delle sue poesie. Mentre nelle canzoni il tema dominante è l’amore, qui Totò racconta piccole storie del nostro vivere quotidiano, segnato dal contrasto tra prepotenti e poveracci, ricordando con Antonio De Curtis che «'A morte ’o ssaje ched’è?... è una livella. ’Nu rre, ’nu maggistrato, ’nu grand’ommo trasenno stu canciello ha fatt' ’o punto c'ha perzo tutto, ’a vita e pure ’o nomme... nuje simmo serie... appartenimmo 'a morte!».
Franco Manzoni, «Corriere della Sera», 8 giugno 1990
Puntuali come l'anticiclone delle Azzorre, anzi, di più, considerati i recenti eventi meteorologici, le reti di Stato ed i maggiori network privati hanno varato con sollecitudine la programmazione estiva. Incombenza delicata, complessa e tradizionalmente risolta propinando agli sventurati, costretti a trascorrere davanti al video le proprie serate estive, una serie di repliche e saldi di vario genere. Quest'anno poi, se il caldo vero è in ritardo, c'è il Mondiale a complicare le cose e a rendere ancora più dura la vita, costringendo ad un anticipata penitenza feriale.
Ecco perchè, come da copione, è riapparsa sui teleschermi la maschera inimitabile di Totò, le sue prodezze, le smorfie, i lazzi e i frizzi del principe della risata. Ha aperto le danze Rai Uno con Totò tredici, rassegna delle pellicole più significative proposte ogni lunedi, per tredici settimane, intorno alle 21,40. E si è subito adeguata Italia 1, che inaugura stasera un ciclo, «Totò estate», con lo stesso protagonista indiscusso, il principe de Curtis. Non che la cosa dispiaccia per principio, sarebbe anzi fin troppo facile tessere le lodi del fenomenale Totò, allo stesso tempo genio della scena e macchietta, misconosciuto dalla critica cinematografica quando era in vita e poi «riscoperto» clamorosamente, con tanto di mea culpa collettivi. E' chiaro altresì che. all'interno di una carriera attoriale, in alcuni momenti frenetica, sono necessari dei distinguo, molti film sono decisamente scadenti, girati magari in tutta fretta, instant movies con tutti e due gli occhi alla cassetta.
La tanto conclamata riscoperta di Totò risale agli anni '70, non è certo cosa di oggi, e sembra quantomeno riduttivo riproporre ancora in questa chiave esclusiva il comico napoletano. Diciamo piuttosto che fa comodo, in termini di ascolto, in una stagione, televisivamente parlando, di vacche magre, poter contare su di un prodotto che. a fronte presumibilmente di un minimo impegno economico, produca risultati più che soddisfacenti. Il successo di pubblico è certo in questi casi, pur se resta ancora da dimostrare che il gradimento degli spettatori, e il discorso andrebbe esteso al cinema, coincida automaticamente con la validità artistica del prodotto o dell’interprete. Anzi, troppo spesso il rapporto qualità-successo risulta inversamente proporzionale. I cicli dedicati a Totò, un poco come la rituale messa in onda — non ci si risparmia un anno — dell'indimenticabile Via col vento, costituiscono uno dei punti di forza nei momenti di crisi.
Non dimentichiamo però che si tratta di pellicole per la maggior parte viste e riviste. Certo la loro vis comica resta intatta, ma di nuovo c'è poco e niente. Allora, ci si chiede, perché non allargare il discorso e cercare di approfondirlo per capire meglio il fenomeno Totò, nel suo tempo e in rapporto alla vivacità del cinema italiano di allora, ed arrivare a motivare il sopravvivere e l'irrobustirsi del suo mito nella realtà odierna? Ne potrebbe venire un contributo utile anche alta identificazione delle cause di certe scelte del pubblico, bollate ed archiviate con la diagnosi di povertà culturale. E se è veramente questo il movente, aiutare a prendere adeguati provvedimenti. Magari non si conquisterà la stessa audience, ma certamente verrà resa giustizia al grande Totò, perché del comico dai guizzi incontenibili non resti solamente una maschera senza nulla sotto.
Marco Marta Blasetti, «Il Popolo», 14 giugno 1990
«Radiocorriere TV», 17 luglio 1990
Termina questa settimana Totòtredici (Raiuno, martedì ore 21,30), il ciclo di film dedicato a Totò, la cui filmografia è ampiamente reperibile in videocassetta.
In trent’anni, dal ’37 al '68, Totò è stato protagonista di ben 97 film, 72 dei quali già reperibili in videocassetta e 25 inediti. È a questi ultimi che dedichiamo la nostra filmografia, oltre che per motivi di spazio (con una qualsiasi filmografia completa di Totò, per esempio quella edita da Gremese, sarà abbastanza semplice ricostruire i titoli già in cassetta), con la convinzione di offrire un’utile guida agli operatori interessati ad acquisire diritti home video. Tra questi titoli, infatti, figurano ancora grandi film quali Napoli milionaria, Guardie e ladri e Operazione San Gennaro. I settantadue film usciti in videocassetta sono su varie etichette (ma in particolare: Skema, Fonit Cetra Video, General Video, Mondadori Video, Ricordi Video, M & R, Azzurra Home Video, Domovideo, Creazioni Home Video e Video Electronics Club). Molti di quelli degli anni Quaranta e Cinquanta, inoltre, sono disponibili su vari marchi (ad esempio I due orfanelli, uscito su Star Video* Mitei, Azzurra Home Video, Skema e Mondadori Video, oppure Racconti romani, uscito su Golden Video, Star Video e Azzurra Home Video).
FILMOGRAFIA
Film di montaggio: 1968 Totò Story (Azzurra Home Video), 1975 Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca (Creazioni Home Video), 1978 Antologia di Totò (Avo Film), 1980 Supertotò (Ricordi Video).
Film “non” disponibili in videocassetta: 1949 Yvonne la nuit, 1950 Napoli milionaria, 1950 Figaro qua, Figaro là, 1950 Totòtarzan, 1950 Totò sceicco. 1951 Sette ore di guai, 1951 Guardie e ladri, 1952 Totò e i re di Roma, 1953 L'uomo, la bestia e la virtù, 1953 Una di quelle, 1953 Il più comico spettacolo del mondo, 1955 Totò all’inferno, 1955 II coraggio, 1957 Totò, Peppino e i fuorilegge, 1959 I tartassati, 1960 Noi duri, 1960 Signori si nasce, 1960 Risate di gioia, 1960 Chi si ferma è perduto, 1962 II giorno più corto, 1963 Le motorizzate, 1963 Totò sexy, 1965 Rita, la figlia americana, 1966 Operazione San Gennaro, 1967 Le streghe.
Gabriele Rifilato, «Radiocorriere TV», 25 agosto 1990
Monumento al principe Totò per ricordare il Cuneese delle autostrade, degli aeroporti
Ricordato il grande Totò (non Schillaci, ma il principe Antonio do Curtis, Napoli 1898 - Roma 1967) quando, por affermare la propria conoscenza del mondo apostrofava il suo interlocutore con «Ma lo sa che io ho fatto il militare a Cuneo?» Noi, che siamo anagraficamente fra «Quei di Cuneo», ci sentiamo davvero come Totò che anzi può essere un simbolo della paciosa nostra provincia, a tratti guizzante e inventiva. Ma comunque marca di confino tra Francia, Torino, Asti, Liguria. Noi di Cuneo, come il principe de Curtis, ci sentiamo furbi e superiori, forti di alcuni primati come quello d'essere pressoché l'unica provincia d'Italia a non avere autostrade [...] La nostra è una richiesta alle Autorità perchè, almeno, erigano un monumento a Totò (non Schillaci)
a.ge., «La Stampa», 4 settembre 1990
M. T., «Il Nostro Tempo», 4 novembre 1990
Totò: il principe e il povero
Loro di Napoli • In vita Antonio De Curtis fu spesso ignorato. Quasi mai capito. Un libro della figlia Liliana prova a svelarci qualche segreto. Grande, grande, grande. E il resto? Quisquilie, pinzillacchere
Vecchia storia all’italiana. In questo Paese — spesso vile rispetto ai suoi talenti, di una viltà in cui confluiscono arroganza e volgarità che azzerano il giudizio — bisogna morire per essere capiti col giusto metro. Totò non fa eccezione; anzi. della regola, è massima conferma. Si scopre l'acqua calda? Fra tanti vinaioli dell'intelligenza, ubriachi di sé, forse ò un bene.
Quando lo incontrai nella primavera del '64, con l'intenzione di scrivere un primo saggio su di lui (che poi uscì nel '65, I grandi comici), Totò mi disse: «Ma è sicuro? Non rischia di rimetterci la reputazione?». Eravamo affondati nelle ombre del suo salotto, quelle ombre in cui Totò si rifugiava, non appena fuori dui riflettori, quasi potessero essere sorelle alla sua vista offuscata. Rileggo il saggio, e il riferimento alla rivista «C'era una volta», a una delle scenette più note di Totò: «Il vagone letto». E il dicembre del '47: la guerra sembra lontana, o almeno l'arte di Totò è tornata ad essere la sottile, cantante follia che tende però alle «saggezze» terrestri dell’uomo, cogliendone le smagliature.
Nel comico passano vibrazioni alla Cervantes, e veramente l'attore avrebbe potuto essere un inimitabile Don Chisciotte (con la sua faccia raggelata da una consapevolezza intoccabile, sdegnosa, ma anche stupefatta, infantile e antica). Nel sangue c’è una comicità di piazza — i poetici ribaldi delle medioevali contrade — e insieme l’occhio tagliente del piccolo inquisitore: una gamba rivestita con lo sbuffo del giullare e l'altra infilata nello stivale, dittatore e Rigolctto insieme. Un'iperbolica fuga nell'astratto — un astratto del tutto fisico — come nel Pinocchio.
Chi conosce Totò sa bene quanto sia prodigioso il suo mutare per la scena, con una connessione misteriosa fra vita personale c vita teatrale, che si può cogliere anche in questi versi del poeta di 'A livella: «Ormai per me il trapasso è 'na pazziella: — è nu passaggio dal sonoro al muto —. E quando s'è stutata 'a lampetella — significa ca ll'opera è fernuta — e 'o primm’attore s'è ghiuto a cuccà». Non ci si riferisce soltanto alla morte, ma anche alla recita. Pensiamo, oltre a Cervantes, a Gogol, laddove Totò ha saputo evocare i trasalimenti della strada quando ci si ferma a guardare se stessi attraverso gli altri. Non è la strada di Chaplin, in cui tutto si dilata troppo, piuttosto la stradina in cui tutto si restringe e si arriva persino al gomito a gomito, c il sole è cosi pieno in ciclo ma non riesce a sprofondare fino in fondo fra le case, a toccare la terra dove pesa una secolare ombra.
Ora, Mondadori spedisce in libreria un testo biografico di Liliana De Curtis, la figlia (a cura di Matilde Amorosi, prefazione di Renzo Arbore): Totò, mio padre. Lo schema è completo: l’infanzia, la famiglia, il fascino del palcoscenico, dietro le quinte, la separazione da Diana (la moglie), la seconda vita di Totò, e poi le femmine e «Malafemmena», superstizioni, manie, quisquilie e pinzillacchere, via via fino al sipario che cala. Ma la riflessione precede il gusto dell'annotazione curiosa, e cosi ci si sofferma su un’idea di Arbore, prefatore smagato e rispettoso, sull'incipit di Liliana De Curtis.
Secondo Arbore, la qualifica, in sé piuttosto limitativa, di «attore comico», ha impedito la completa riscoperta di Totò «attore serio unico e inimitabile», come testimoniano i suoi pochi film non comici e i moltissimi momenti seri dei film umoristici. La biografa, dal canto suo, anticipa: «Da quando, dopo la tua morte, sei stato riscoperto, osannato e mitizzato, ti sono stati dedicali saggi, biografie e tavole rotonde. Lo sforzo per spiegare alla gente il segreto della tua arte e del tuo fascino è stato spesso onesto e parzialmente efficace ma, secondo me, non è servito allo scopo». Quale scopo? Quello di «palesare» l’umanità della marionetta meravigliosa che continua a divertire le platee di tanti Paesi.
Il dubbio è questo: può, Totò, essere catalogato? Non solo, in specifico, come comico (e qui ha ragione Arbore, nel deprecare il concetto riduttivo), ma in generale: intendo suddiviso fra la scena e il privato? Mi pare di no. Totò, come Molière, è un meccanismo naturale che non legittima e non tollera passaggi tipo «dalla vita alla ribalta»; come certi frutti arcani, certi animali magici a favore dei quali la natura si è compiaciuta di eccentriche delizie, egli è un tutt'uno, è il frutto, con una circolarità, interna e interiore, quasi paranormale. La luna e, insieme, il telescopio; Astolfo e l’Ippogrifo. Non trovo dunque irriguardoso il fatto clic, sfogliando le pagine scritte e le immagini raccolte da Liliana De Curtis, la voglia prima sia quella di addentrarsi fra i segreti delle figure femminili che, con il loro sale, anche semplicemente erotico, nutrirono la sete vitale della curiosità di Totò: dalle sciantose e ballerine che, con le loro forme, comprimono l'attore nella passerella — facendoci capire che dovevano concedersi senza troppi pudori c senza farsi pregare — a ogni altra che appagò ciò che la biografa definisce l'«instancabile ardore, la galanteria e la generosità» di Totò, via via fino alle compagne sinceramente amate.
Con Diana, Totò si compiaceva dei suoi racconti libertini, provocando della moglie «un tumulto di sensazioni dove il piacere della trasgressione si fondeva con una punta di masochismo». La sensualità dell'attore era molto complessa e lo portava a passare con indifferenza dalle finezze di un’amante sofisticata alla crudezza di un breve incontro con un'inserviente. Ma era particolare in tutto, afferma la biografa, «e la mamma ancora oggi lo definisce, pirandellianamente: Uno, nessuno e centomila». E così la schiera delle amanti — a cominciare da quella Luciana Gora che Totò ricordava spesso: una soubrette dalla voce melodiosa, che per amor suo aveva abbandonato il palcoscenico — induce il lettore a immaginarsi una sorta di coro antico, pagano, che si accosti all'albero magico e dagli arcani frutti, con una religiosità carnale che fomenta il miracolo della fusione del sole con quei rami privilegiati. Nel volume, a cui Matilde Amorosi dà il contributo di una rasserenante traduzione di memorie spesso inquiete, ci si imbatte in immagini e didascalie un po' sconcertanti. Una, in particolare: Totò è fotografato a Viareggio, e lo si definisce «raffinatissimo anche sulla spiaggia, quasi un personaggio di Fitzgerald».
Una piccola sezione finale di versi inediti insinua. con semplicità, qualcosa definibile forse soltanto con un gioco di parole: uno stato d'anima creato da incessanti stati d'animo, mutevoli come la luce di certi vicoli, ora assolati ora cupi. L’ultima poesia di Totò si intitola «Cuore»: «Ho preso questo cuore mesto e afflitto, — e triste l'ho gettato in mezzo al mare: — ma prima sopra col mio sangue ho scritto... — per non amare più, per non amare...».
«Corriere della Sera», 11 novembre 1990
La vita? Per fortuna è una livella
Gentile Dott. Fiorentino, la ringrazio infinitamente per i complimenti e per le felicitazioni che ha voluto inviarmi a proposito della mia poesia "'A Livella", complimenti che mi sono giunti particolarmente graditi appunto perché provenienti da lei, che io tanto stimo come editore di gran gusto e cultura. Riguardo al suo invito di pubblicare eventualmente le mie poesie sarei certamente oltremodo felice di dare la precedenza alla sua bella seria e stimata Casa Editrice, sempre che lei naturalmente (e senza alcun complimento) le ritenga all’altezza.
Parlo domani per una breve vacanza all'estero e sarò di ritorno a Roma verso il 20 novembre, pertanto se per quell'epoca lei sarà sempre del parere di mettersi in contatto con me, potrei sottoporle i manoscritti. La ringrazio nuovamente e gradisca i miei saluti più cordiali».
Firmato: Antonio De Curtis.
Così il principe attore scriveva, non senza qualche trepidazione, all’editore napoletano Fausto Fiorentino nell’autunno del 1963. Totò, e non era un segreto, si dilettava moltissimo nel comporre versi. Amava trascorrere le notti insonni seduto alla scrivania in compagnia di penna e calamaio. Scriveva e correggeva. Ma non amava far circolare o leggere in pubblico le sue poesie. Pare che questa confidenza fosse riservata soltanto al suo autista, che sapeva amante profondo dei versi di Salvatore Di Giacomo.
Le poesie vennero pubblicate dall’editore Fiorentino soprattutto grazie alla sua intraprendenza. Avutane notizia, scrisse una lettera a Totò chiedendogli un incontro. L’incontro avvenne e dopo un breve scambio epistolare (da cui la lettera sopra trascritta e gentilmente dataci dal figlio di Fausto, Stefano) Fiorentino si trovò fra le mani l'atteso manoscritto. Da lì alla pubblicazione il passo fu breve. Le paure e le ansie subito superate. Fiorentino studiò con grande cura il progetto. In copertina volle una foto con la vera «maschera» di Totò: lo sguardo un po’ triste, le labbra serrate in una smorfia, l'immancabile sigaretta fra le dita e l'anello nobiliare distrattamente mostrato.
Prezzo popolarissimo e distribuzione mirata. In pochi mesi tutte le edicole delle grandi stazioni metropolitane ne furono invase. Ed è qui, nelle sale di attesa delle stazioni e sui vagoni dei treni ferroviari che fulmineamente si costruisce la fortuna editoriale delle poesie di Totò. Dal '64, anno della prima edizione, si sono susseguite numerose ristampe e le copie vendute sono state migliaia e migliaia. Ci fu anche, e come poteva mancare, un falso. Visto lo straordinario successo qualcuno pensò di stamparne una edizione pirata. Non fu mai dato sapere quante furono le copie falsificate, anche se qualcuno giura su una tiratura non inferiore alle 50 mila.
Fortuna completamente diversa ebbero invece le poesie postume di Totò, Dedicate all’amore, (Colonnese editore). Scritte in gran parte alla compagna Franca Faldini, furono ritrovate circa dieci anni dopo la scomparsa dell'artista, e stampale nel ’77 con una testimonianza di Gassman e una nota di Ghirelli. Il libro non andò oltre qualche piccola ristampa. La maschera di Totò ispira anche i poeti: al grande attore Franco Stanzoni ha recentemente intitolato una raccolta di versi (Totò, Fonèma edizioni, pagine 92, lire 15.000).
Antonio Troiano, «Corriere della Sera», 11 novembre 1990
Franca Faldini: «la mia vita con furore»
Gli occhi di Franca Faldini sono di color cangiante tra il viola e il turchese a seconda degli umori e del tempo. Parla delle sue origini, figlia di un padre israelita e di una madre cattolica. Anzi, di padre giudeo e madre ariana, come diceva l’Italia fascista quando applicò le leggi razziali. La bambina degli anni tristi ora e una signora di sessantanni che gioca sorridendo con i capelli grigi e affascina ancora. Una signora dai molti ricordi: Hollywood, la via Veneto degli anni ’50, registi italiani come De Sica e Zampa, i quindici anni di amore trascorsi accanto a Totò fino alla sua morte, i libri scritti sul cinema. Tanti bei ricordi che però non hanno mai cancellato il rimpianto per il lungo tempo rapinato dal razzismo e dalla persecuzione.
Franca Faldini ha voluto proprio i suoi speciali occhi sulla copertina di Insieme nel buio (in uscita presso Tullio Pironti editore). «Annuso nell’aria odore di intolleranza, di fastidio per i diversi. Osservo come trattiamo gli immigrati, leggo certe scritte antisemite ricomparse sui muri di Roma. Ho paura. E’ ora di raccontare la mia storia, mi sono detta, forse servirà a far riflettere qualcuno». Ecco com’è nato il libro.
La tragedia è storica e familiare insieme, spiata dal buco della serratura proprio come fanno i più piccoli. Mezze frasi buttate lì, un pianto soffocato, le rassicuranti abitudini borghesi sconvolte da una furia imprevista. La storia comincia col contrastato amore tra Davide, il padre, e Costanza, la madre. Si chiude con la lettera di un prete che cita Leopardi per annunciare la fine delia tremenda tempesta.
La storia di Franca (così si chiama la protagonista di questo romanzo di trasparente autobiografia) è simile al racconto di mille altri perseguitati. «Ma di noi meticci, di noi mezzosangue hanno scritto e parlato in pochi», spiega l’autrice. Il padre perde il lavoro di rappresentante di tessuti e sua moglie ne prende il posto. Salvo poi perderlo a sua volta quando le restrizioni si fanno più dure. La fuga in campagna e il tentativo di «mettere le cose a posto», soprattutto per salvare la bambina, con un matrimonio in Chiesa.
A Franca capita di tutto. La discriminazione a scuola e l’odio degli altri genitori. Il mancare per puro caso il rastrellamento nazista degli ebrei appena rientrata a Roma il 17 luglio 1943. «Da allora ho scelto il 17 come portafortuna», racconta.
Il balzo nella «vita vera» avviene subito dopo la fine del buio. Arriva il dopoguerra. Esplode il sogno di via Veneto, una passeggiata obbligata per lei che abita nell’elegante via Lazio, grazie a una ritrovata agiatezza economica. «Mi rivedo come una ragazzona alta e bruna. Il contrario della media italiana. Dunque colpivo. Era il 1948 quando De Sica fermò la mia carrozzella per parlarmi. Eppure, lo giuro, bellissima non ero».
Capita a Montecarlo ed è damigella al matrimonio di Errol Flynn. Per dimenticare un amore sfortunato, viaggia in America. Approda a Hollywood nel 1951, dove il produttore Hal Wallis la definisce «exotic type», un tipo esotico. Firma un contratto per sette anni, ma lo rompe dopo un anno.
Il cinema, fantasioso contraltare della discriminazione. Quindi simpatico: «Soprattutto lontano anni luce dall’intolleranza. Ebrei, negri, omosessuali: mai sentita una parola contro le diversità». Torna in Italia e nel 1952 conosce Totò. Altra scelta controcorrente. Bella e giovane, ma assai più adulta dei suoi ventun anni. Lui, di anni, ne ha trentatré di più. L’incontro è tra due solitudini che si riconoscono e subito familiarizzano. Seguono quindici anni di affetto «senza un attimo di noia nè di fatica. Mi faceva sorridere chi diceva 'poverina, con un uomo tanto più anziano’. Non capiva niente».
La morte di Totò la riscopre ancora una volta «diversa»: «Non sposai mai Antonio De Curtis. Quando arrivò il sacerdote per benedire il suo corpo, fui allontanata dopo quindici anni di vita in comune, perché non ero sua moglie. In un istante mi risentii di nuovo differente, una specie di marziana».
Un addio senza rimpianti al cinema, quindi l’inizio di una pagina nuova. Prima traduce, poi comincia a scrivere per sé. Racconta in due volumi L'avventurosa storia del cinema italiano con Goffredo Fofi e ricostruisce le vicende di Totò. Adesso l’esordio nella narrativa. Insieme nel buio è il figlio prediletto. Potrebbe diventare un film, un giorno. «Sono emozionalissima e stremata come dopo un parto. Lì dentro c’è tutta la mia esistenza».
Una vita che prosegue a forza di colpi di scena. Per esempio, il suo matrimonio, quindici anni fa, con Nicolò dei principi Borghese. «Lo amo come uomo, sinceramente potrebbe essere chiunque. Sto con lui per scelta quotidiana e non certo per un vincolo sancito».
«Non c'è niente di più osceno del razzismo. Non sono ebrea né cattolica, non pratico religioni. Riconosco Dio in una bella giornata, in un fiore o in un passante. Siamo creature destinate a morire, marionette nelle mani di un grande burattinaio. Lui decide quando tagliare i fili e farci afflosciare. Tutti per terra, tutti uguali. Un bianco, un nero. Un occidentale, un orientale. Un ebreo, un cristiano, un musulmano. Chi è meglio di chi, e perché? E’ una follia. Parola di meticcia mezzosangue che ha sofferto e racconta».
Paolo Conti, «Corriere della Sera», 31 marzo 1991
Dimenticare Totò
Parla la Faldini: un libro, non sull’attore. «Racconto il razzismo»
Gli occhi di Franca Faldini, chiari, luminosi, severi, sono ancora bellissimi. E proprio ai suoi occhi è dedicata una breve poesia in napoletano di Totò. Il manoscritto, incorniciato su un tavolino del salotto, è il solo segno tuttora visibile della presenza nella sua vita del grande attore: quindici anni, tutta la gioventù, passati accanto a lui. Molte, invece, sono le fotografie che la ritraggono accanto al marito, Nicolò Borghese, o che la mostrano giovane con la madre, il padre, o più adulta con il suo cane.
E' evidente, in questa scelta di ricordi, che Franca Faldini ha chiuso ormai tra due parentesi l'unione con Totò. Quando un paio d'anni fa s'è messa a scrivere il suo primo romanzo, dopo la storia del cinema fatta con Goffredo Fofi, ha scelto di parlare della sua infanzia in un racconto che è autobiografia fedele, punteggiata qua e là da particolari di fantasia. «Non credo potrei mai scrivere qualcosa come "La mia vita con Totò". Lo trovo volgare e insignificante. Quale interesse potrebbero avere i miei sentimenti di allora? Interessante è raccontare lui, il personaggio, scovarne i pensieri, metterne in luce gli aspetti segreti: ma questo l'ho già fatto con Totò l'uomo e la maschera uscito da Feltrinelli. Adesso basta».
Il romanzo, Insieme nel buio (edito da Pironti), è dedicato alla madre Costanza e al padre Davide. Affronta il tema della discriminazione razziale e delle persecuzioni contro gli ebrei in Italia, durante il fascismo e la guerra. Franca Faldini è figlia di madre cattolica e di padre ebreo: era, come si diceva allora, una meticcia. L'idea del libro le è stata suggerita dagli spunti di intolleranza ricomparsi nella nostra società: verso i negri, gli omosessuali, i meridionali e Totò con Franca Faldini all'epoca del loro matrimonio perfino, di nuovo, gli ebrei. «Sono rimasta sconvolta - spiega -, quando ho visto in tv i rappresentanti delle Leghe. L'Italia che ho conosciuto io non m'era mai parsa un Paese ferocemente ostile a ogni forma di diversità: che è successo in questi Anni Ottanta perché il Paese cambiasse tanto?». Nel libro, le figure principali sono quelle del padre e della madre, due commercianti romani a modo loro anticonformisti, liberi da qualunque pregiudizio, capaci di affrontare le ingiustizie forti del loro senso morale e della loro indipendenza di pensiero. Sullo sfondo la piccola Italia del fascismo, i suoi riti borghesi, il suo perbenismo, la sua grettezza, le miserie. «La fuga da Roma, l'abiura di mio padre, i nascondigli, il gran mistero che ero costretta a far in pubblico sulla mia nascita, il dover tacere con gli altri bambini, mi hanno lasciato solo una lieve ferita.
Quello che m'è pesato, e m'ha fatto diventare adulta prima del tempo, è stata la segregazione dalle compagne di giochi sopportata durante la guerra: il mio rapporto con Totò è nato dalla mia solitudine infantile, provocata dall'esser stata figlia di un ebreo, e dalla sua, figlio non riconosciuto dal padre». Attrice senza vocazione, lanciata da Hollywood negli Anni Cinquanta come tipica bellezza italiana, traduttrice per bisogno dopo la morte di Totò dal quale non aveva ereditato una lira, Franca Faldini sostiene di aver trovato una autentica realizzazione solo con la scrittura. «Mia madre ne sarebbe soddisfatta visto che si è sempre battuta per l'autonomia economica e psicologica della donna». Il prossimo libro? «Se avessi preso appunti, avrei potuto raccontare due miei cari amici famosi: Orson Welles e Errol Flynn. Ma potrei tentare di farlo a memoria».
Simonetta Robiony , «La Stampa», 11 maggio 1991
«Le mie dive, il mio Totò»
Carlo Ludovico Bragaglia festeggia i 97 anni e racconta il suo cinema. «Mi colpì Lyda Borelli, come in un sogno il bel corpo nudo sotto la veste trasparente» «Quante litigate col principe, se mi avesse ascoltato sarebbe stato più grande di Charlot»
«Totò? Era un ignorante, nel senso che ignorava le sue grandi capacità espressive e quindi non le sfruttava al meglio», dice Carlo Ludovico Bragaglia, il berretto blu calcato sulla fronte e gli occhiali neri inforcati su di un naso imponente. Il regista di tanto cinema e teatro tra gli anni Trenta e Cinquanta qualche settimana fa ha raccontato la sua avventura agli studenti dell’Università di Roma «La Sapienza».
La voce è ferma e la memoria non è vaga, nonostante i 97 anni ben portati. «il guaio è che sto sempre bene», scherza l'anziano uomo di spettacolo, fratello del celebre Anton Giulio Bragaglia fondatore del Teatro degli Indipendenti.
«Era il più intelligente e il più colto di tutti noi — dice subito Carlo Ludovico di Anton Giulio, riferendosi anche agli altri due fratelli, Arturo e Alberto, rispettivamente attore e pittore. Eravamo una famiglia di artisti, di creativi. Abbiamo spaziato nell’avanguardia e nella sperimentazione. promuovendo nuove idee e spesso anticipando i tempi. Abbiamo tracciato un percorso di ricerca, dove la fondazione della Casa d’Arte Bragaglia, nel 1918 a via Condotti, è stata solo una tappa importante, ma non definitiva».
Orgoglioso del suo passato ed energico anche nel presente, Carlo Ludovico Bragaglia ripercorre a ritroso il suo lungo itinerario artistico. Da quando cominciò come fotografo ad avvicinare alcune grandi dive dei «telefoni bianchi». Ricorda il regista: «Quella che mi colpì più di tutte fu Lyda Borelli. Mi chiese di andarla a fotografare a casa sua, in un piccolo appartamento a piazza del Popolo. Io, che pur essendo giovanissimo avevo già una certa esperienza, ero emozionatissimo. Avevo portato con me tutta l'attrezzatura, tra cui anche delle lampade elettriche che, a quell’epoca, erano una novità. All’improvviso mi apparve la Borelli come in un sogno, avvolta in una veste trasparente che lasciava intravedere il bel corpo nudo. Rimasi abbagliato, ma riuscii comunque a realizzare un bel servizio fotografico».
Una sessantina di film, tra i quali alcuni indimenticabili con Totò: «Totò le Mokò», «47 morto che parla», «Animali pazzi», «Totò cerca moglie». Ma nonostante il lungo sodalizio artistico, il rapporto con il principe de Curtis non fu semplice. «Tante volte abbiamo litigato, perché Totò non si degnava nemmeno di leggere i copioni che doveva interpretare — racconta Bragaglia —. Si affidava completamente all’improvvisazione, secondo la scuola del vecchio avanspettacolo, e pure essendo bravissimo, irresistibile, finiva inevitabilmente per ripetersi. Totò non era semplicemente un attore e non era neppure una maschera: era una marionetta. In lui giocavano due fattori, la tradizione della «guitteria» napoletana e la naturale capacità di incredibile articolazione, che gli consentiva di muoversi proprio come un burattino. Se avesse compreso le sue potenzialità e se qualche volta mi avesse dato retta, sarebbe diventato più grande di Charlot».
Con lo spirito del pioniere, Bragaglia rammenta i tempi difficili del regime fascista. Tempi di «autarchia» anche nel campo dello spettacolo, quando neanche per fare un film si potevano usare nomi o materiali stranieri. Racconta il regista: «All’inizio non c’era nemmeno la pellicola e bisognava farsi tutto da soli. Per questo mi sono sempre definito un artigiano del cinema». Quella di Bragaglia è modestia o aristocratico distacco dall'industria dello spettacolo fatto in serie? «No, è solo la consapevolezza — conclude il regista — di appartenere a una generazione di artisti di cui si è perso lo stampo. Ma ancora oggi, ciò che mi tiene in vita è proprio la voglia di continuare a lavorare».
Emilia Costantini, «Corriere della Sera», 16 giugno 1991
«L'Unità», 17 novembre 1991
Ritmo, ritmo sincopato... canta Albertone
Escono due nuovi cofanetti antologici dedicati all'attore romano e a Totò, curati da Vincenzo Mollica
Due nuovi capitoli si vanno ad aggiungere alla collana Palcoscenico, curata dal giornalista televisivo Vincenzo Mollica: un ricco cofanetto su Alberto Sordi «cantante», da Nonnetta al duetto col baritono Bruson, passando per i brani scritti per il cinema assieme a Piero Piccioni; ed il terzo volume dedicato a Totò, con poesie, scenette e dieci sue canzoni «ritrovate» ed interpretate da Nunzio Gallo.
[...]
Il terzo (e probabilmente ultimo) cofanetto dedicato a Totò contiene invece principalmente poesie, come la celebre "A livella", dove Pino Daniele accompagna alla chitanra la voce registrata del grande attore; scenette (fra cui l’indimenticabile gag del "Vagone letto" ed una eccezionale parodia dell'Amleto offerta da Totò durante un'inlervista radiofonica che gli fece Sergio Zavoli nel '52). E una decina di canzoni inedite, di cui Mollica attraverso il consueto giro di collezionisti, è riuscito a trovare gli spartiti. C'è anche la splendida "Scettico napolitano", che Totò considerava il seguito ideale di Malafemmina «Ma poi ci siamo detti: e ora chi le canta queste canzoni? - racconta Mollica - allora mi sono ricordato che una volta Franca Faldini mi disse che il cantante preferito di Totò nei suoi ultimi anni era Nunzio Gallo.
Dopo un mese di ricerche lo abbiamo rintracciato e abbiamo scoperto che, oltre ad essere un grande interprete della tradizione napoletana, è anche un uomo simpaticissimo, che ti fa morir dal ridere. Ha accettato volentieri di cantare questi brani inediti, e ci ha rimediato lui il pianista per l'accompagnamento: Mario Festa, un signore di ben 82 anni, che lui ci ha presentato come "il maestro Festa", che accompagnò Totò nel suo tour africano all’Asmara». Anche il cofanetto di Totò ò corredato da un album di foto, disegni, e, dulcis in fundo, una gustosissima serie di fumetti con Totò alle prese con cannibali, belve e giungle. Sarà davvero l'ultimo della serie? Chissà; Mollica intanto continua a cercare materiali preziosi e dimenticati, «su tre o quattro piste» che potrebbero diventare i cofanetti del prossimo anno.
Alba Solaro, «L'Unità», 30 novembre 1991
Quell’altro Totò che scriveva versi
POESIE E CANZONI DEL GRANDE COMICO
Ho scoperto Totò al cinema. In teatro non ho mai avuto occasione di vederlo. I gran finali, le passerelle delle sue riviste compiute a tu per tu con la Magnani, con Lucy D’Albert o Wanda Osiris, gli scoppi di grancassa, i contorsionismi fisici appresso alle ragazze del balletto: so lutto da racconti altrui. Ero un ragazzino di dodici o tredici anni, andavo al cinema e vidi «Fifa e arena». Ricordavo in modo confusissimo un altro film, visto anni prima: «San Giovanni Decollato». Ne avevo riso fino alle lacrime. Diventai un fan di Totò. Per anni non persi un suo film. «I pompieri di Viggiù», «Totò a colori», «Yvonne la nuit», «Totò cerca casa», «L’imperatore di Capri», «Totò cerca moglie», «Totò Tarzan», «Totò sceicco»: tornai a vederli più volte. Anche quel magnifico «Guardie e ladri» di Monicelli, dove la fuga e la rincorsa con Fabrizi, Totò pataccaro e ladro, e Fabrizi guardia, è un vertice ineguagliato di commedia, un momento di fuggevole magia in cui i due attori riescono a esprimere, con la casualità di un'arte che è rivolta e vittoria, le astuzie, i bisogni e le possibili derive di un popolo che faticava a girare il volano della «ricostruzione».
Allora non capivo niente di tutto questo: andavo al cinema per vedere Totò e per sentirmi: investito o posseduto dalla necessità di ridere. E ridevo. Nei film che ha girato, si poteva pensare che Totò disperdesse il proprio talento. Lui stesso lamentò la routine faticosa cui la macchina del cinema lo aveva condannalo. Per lo più produzioni di nessuna qualità, spesso registi mediocri. In una recentissima intervista, Fellini ha detto: «Che assurdità. Quante volte s’è sentito dire: peccato che Totò non abbia trovato un grande regista. Un po’ come dire: peccato che la giraffa non abbia trovato qualcuno che abbia saputo farle fare la giraffa. Lui era un fenomeno naturale, da fotografare così com’era. Un gatto, un bradipo. L'albero di Natale. O Venezia».
E' così. Cosa di diverso ha compiuto Pasolini con Totò in «Uccellacci e uccellini», ne «La terra vista dalla luna» o in «Che cosa sono le nuvole»? Lo ripete spesso: ritrovare in Totò il dato naturale che certa corrività cinematografica poteva aver offuscato in lui, «opporre esistenza a cultura, innocenza a storia».
Ma chi era Totò? Rispondere è un esercizio non da poco. Dario Fo, in un libretto fresco di stampa, «Totò. Manuale dell’attor comico» (Aleph ed.), argomenta che Totò sia stato l’incarnazione di un eterno Arlecchino: «Dell’Arlecchino delle origini, egli ha saputo ripetere la versatilità, la disponibilità a far tutto». Per quanto Dario Fo cerchi di renderla screziata, e sappia sostenerla con esemplificazioni tecniche, a mio giudizio, quella definizione va stretta a Totò. Proprio nel suo libro, Fo riporta una citazione di Flaiano che schiude l’argomento verso altro: «Nella frantumazione della commedia dell’arte, mentre i "servi" Brighella, Arlecchino, Pulcinella si sono dati a rappresentare il mondo possibile nelle vesti dei loro padroni, Totò si è dedicato a illustrare, come in una striscia comica, l’assurdo della sua presenza in quel mondo».
Chi era Totò? La risposta, una risposta intrisa di veritieri umori novecenteschi, dialettica, la argomenta Ruggero Guarini nella prefazione a un «TuttoTotò» dove l’editore Gremese ha raccolto poesie, canzoni, sketch del geniale comico.
E' proprio la natura umbratile, piccolo borghese, dei versi di Totò a scatenare Guarini. Totò, dice Guarini, aveva con il proprio personaggio un rapporto di «assoluta estraneità». Nessun rapporto fra quel personaggio «sulfureo e mercuriale, plebeo e fallico, acrobatico e ingovernabile» che saliva in scena e dava la febbre al pubblico giocando con se stesso, la propria faccia, come un automa soggiogato da Dionisio, e l’elegante, silenzioso gentiluomo napoletano che scriveva «'Na vota sulamente t'aggio visto / e chella volta sola m'è bbastata, / pe nun te scurdà cchiù».
Il Totò che scrive versi ha un’imprevedibile natura crepuscolare: è il principe De Curtis che si stupisce, come ha scritto, se il portiere del palazzo romano dove abitava, dopo averlo visto in scena, invece di salutarlo con deferenza come al solito, gli ha riso in faccia: «Da allora, non fui più per lui una persona rispettabile, ma un saltimbanco». Guarini spiega molto bene la rifrazione profonda e ambigua, ispirata a sincerità e a menzogna psicologica che correva fra quella «persona rispettabile» e il «saltimbanco».
Totò diventa Totò nel momento in cui scopre, sdoppiato, di poter intraprendere un «derisorio rapporto con se stesso», con quel se stesso che è un guscio di buone abitudini e che diventa materia di una parodia à suivre, una parodia infinita di tipi esumati da quel paese d’enigmi che è «il Perturbante». Ciò che Totò portava alla luce era la festa anarchica del vivere, la festa che percuoteva l’Italia dell’immediato dopoguerra. E se si obietta che Totò, con i suoi «grandi numeri» d’avanspettacolo era un eroe del varieté fin dagli anni Trenta, Guarini risponde che «occorreva solo un grande evento — come la generale follia del dopoguerra — perchè in quello spirito... ci riconoscessimo tutti».
Insomma, Guarini, ci disegna sotto gli occhi un Totò folgorato dal male del secolo, la schizofrenia. «Leggeva Totò, l’immortale, le poesie del suo doppio mortale? A questa indiscreta domanda coerenza e logica dovrebbero indurci a rispondere con un secco e deciso "no"». Immaginare Totò assorto nella lettura di se stesso sarebbe come «immaginare un geroglifico che sogna di essere un uomo, un segno araldico che desideri procurarsi un corpo, o un extraterrestre che in un momento di noia, di curiosità o di distrazione ceda ogni tanto alla tentazione di prodursi sulla scena dei sentimenti umani. Ma sognano i geroglifici? Hanno desideri gli stemmi? Sono sentimentali i marziani?».
Enzo Siciliano, «Corriere della Sera», 24 dicembre 1991
Venticinquennale della scomparsa di Totò
Totò nel venticinquennale della sua scomparsa
«Caro papà, grazie anche a nome dei tuoi umili fans». Liliana de Curtis
Carlo Ludovico Bragaglia: «Totò, una marionetta che ignorava la sua grandezza»
Il mio Totò, pessimista comico
Il Totò mai visto
Mio padre Totò
Quando Totò era il Belpaese
Renzo Arbore: «È la Napoli che piace a me»
Renzo Arbore: io e Totò
Ricordando Totò
Totò e Charlot, confronto fra due geni della risata
Totò venticinque anni dopo la sua scomparsa - Rassegna Stampa
Totò, genio puro come Keaton e Charlot
Totò, un Pinocchio crudele e asessuato
Tutte le mattine sotto casa di Totò una fila di poveri
Vincenzo Mollica: «Pescando perle in un oceano di versi e gag»
La nipote di Totò condannata ieri per calunnia
Storia di un assegno
GENOVA.
La nipote di Totò. Diana Buffardi De Curtis, 36 anni, è stata condannata ieri mattina in appello a un anno e quattro mesi di reclusione, con la condizionale, per calunnia nei confronti della nonna Diana Rogliani, 86 anni, moglie divorziata del principe Antonio De Curtis. All'imputata, difesa dall'avvocato Giovanni Scopesi, in tribunale erano stati inflitti due anni di reclusione. E' stato assolto, invece, il suo ex fidanzato, Giorgio Sanguineti, 40 anni, di Rapallo (avvocato Cesare Manzitti), anch'egli condannato in primo grado a due anni.
La vicenda risale ai 1984 e ruota attorno a un assegno di 50 milioni firmato da Sanguineti, girato dalla sua ex fidanzata, e messo all'incasso dalla nonna. Per l'accusa i due imputati avrebbero incolpato ingiustamente Diana Rogliani di avere falsificato la firma.
a.l., «La Stampa», 6 febbraio 1992
Dalle monete ai francobolli celebrativi. A Totò sarà dedicata una strada
Sono diverse le iniziative previste per celebrare il venticinquesimo anniversario della morte di Totò, anche se a Napoli, la sua città, non è prevista alcuna cerimonia ufficiale. A Castellammare di Stabia, invece, hanno deciso di dedicargli una strada del centro, finora nota come via Silio Italico.
Se il progetto televisivo di Renzo Arbore è momentaneamente fermo, pronti sono invece l’annullo speciale delle Poste italiane e la medaglia creata dalla Zecca di Stato in onore del principe de Curtis che sarà presentata il 23 a Vicenza in occasione della manifestazione «Numismatica»: su un lato è effigiato il volto dì Totò, sull’altro la sua bombetta e la sua firma. In libreria sta per arrivare, invece. «Totò, a prescindere», il nuovo libro scritto per la Mondadori dalla figlia del grande attore, Liliana, e curato da Matilde Amorosi: nel volume una ricca raccolta di aneddoti e curiosità sull'uomo e sull’attore.
E Napoli? Dopo tante polemiche sull’opportunità di dedicare una statua - e quale - all’illustre concittadino, le istituzioni sembrano aver dimenticato l'anniversario della scomparsa di Antonio de Curtis. Questa mattina, alle 9,30, nel cimitero del Pianto, in suffragio dell'attore verrà celebrata una messa.
«Il Mattino», mercoledi 15 aprile 1992
Colombo, Vittorio Emanuele, Totò: storia in soldoni
Si svolge alla Fiera di Vicenza «Numismata», la prima mostra internazionale di monete
VICENZA - Per la prima volta, nei saloni di "Numismata", (I mostra internazionale di monete che si tiene fino a domenica presso la Fiera) viene esposta una parte della collezione di Vittorio Emanuele III da lui donata agli italiani al momento di partire per l'esilio. Si tratta di una celebre raccolta di oltre 100 mila pezzi, che il re cominciò a mettere insieme all'età di 6 anni, iniziando con una monetina da 1 soldo dell'aborrito Pio IX, il papa che per due volte scomunicò il nonno dei Savoia.
E la prova di questo odio si ritrova a Vicenza dove, accanto alle monete più singolari del sovrano. è esposto il vademecum del Bazzi-Santoni del 1892 sul cui frontespizio il re annotò il piano della grande opera di numismatica che avrebbe pubblicato nel corso di 30 anni, il «Corpus nummorum italicorum» in 20 volumi. Alcuni di questi sono esposti dall'editore Eupremio Montenegro che ha pure pubblicato, unico in Italia. un volume sulle «Monete imperiali romane».
All’interno del «vademecum», dove si parla di Pio IX e delle Repubbliche Cisalpina e Cispadana. Vittorio Emanuele III. precedendo Giovanni Leone, ha disegnato due grandi corna. Del resto, da buon napoletano, era superstizioso al punto da non scrivere mai sui suoi cataloghi i numeri 13 e 17, diventati 12 e 16 bis.
Espone anche la Zecca italiana, insieme con quella di altri Stati. Il direttore, Nicola Jelpo, ha illustrato l'ultima produzione (le lire 500 d'argento per Lorenzo il Magnifico, Rossini e Cristoforo Colombo) e ha donato a Liliana De Curtis, figlia di Totò, una medaglia coniata per il venticinquesimo della morte. Era un vecchio desiderio del comico quello di essere immortalato nel metallo, tanto che nel ’62, come il principe di Bisanzio, aveva fatto coniare una grande medaglia con il suo profilo e lo stemma di famiglia, e prima ancora aveva battuto una serietta di monete ora introvabile.
Jelpo ha detto al Corriere che con la nuova legislatura verrà probabilmente battuta la moneta da 1000 lire e la nuova serie con la lira pesante (il disegno di legge è fermo al Senato). Accanto allo stand della Zecca, quello di Verres. paesino della Val d’Aosta dove dal ’39 si producono i tondelli e gli anelli necessari alla coniazione delle monete italiane. Tante le curiosità esposte: dal torinese Bolaffi, il 3 rubli d'argento. che ricorda la battaglia di Mosca, ultima moneta emessa dall'Urss: da Montenegro, il tallero di Pisa battuto nel 1620 da Cosimo II de Medici ed il 6 lire d'argento di Luigi XVI del 1792; dal milanese Johnson. il modello originale delle medaglie scolpite nel 1892 per il quarto centenario della scoperta dell'America, da Ludovico Poliagri, autore della porta centrale del Duomo di Milano, ed ora riprodotte per il V centenario in oro. argento e bronzo: c'è anche una moneta con l'effigie dei sovrani di Castiglia. in corso quando Colombo compi i suoi viaggi.
Mario Pandolfo, «Corriere della Sera», 22 aprile 1992
Viva Totò fra cinema e ricordi
Con «W Totò», un'antologia dei film del famoso comico napoletano, stasera alle 20.30 su Odeon Tv, il programma «Odeon Dossier» celebra i venticinque anni dalla scomparsa del principe Antonio de Curtis, in arte appunto Totò. In occasione dell'anniversario la Zecca di Stato ha coniato una medaglia d'oro con l’effigie dell’artista ed è in cantiere una statua che verrà posta davanti al Palazzo del Cinema di Cannes. «Odeon Dossier» ricorda la persona e il personaggio di Totò con i racconti della figlia Liliana De Curtis. ospite in studio assieme al direttore della fotografia di molti suoi film. Marco Scarpelli. e attraverso le testimonianze di Domenico Modugno e del regista teatrale Luigi Squarzina.
«Corriere della Sera», 28 aprile 1992
Totò a prescindere. La figlia del comico italiano più surreale e amato di questo secolo, Liliana De Curtis, con l’aiuto di Matilde Amorosi ha raccolto una serie scelta di aneddoti ed episodi della vita del padre in un libro che cerca di svelare i segreti della vità più personale e intima dell’attore. Il taglio è giornalistico, gli episodi a volte esilaranti, a volte commoventi. Ne emerge un quadro duplice della personalità di Totò, impeccabile nel suo aplomb nobiliare e incorreggibile guitto dalle innumerevoli risorse, dalle movenze e dalle gag ancora oggi inimitabili. Poi ci sono le passioni, per gli animali ad esempio e quella più civettuola e originale per la poesia e per la brillantina.
La poesia, oltre ad amarla, Totò la seppe comporre, trovando le parole più belle. Malafemmena, per intenderci, in cui una estenuata malinconia insegue sul filo della seduzione un amore per l’eterno femminino che Totò sembra vivere in chiave tutt’altro che “dandistica” . Una grande e inesausta voglia di vivere emerge da queste pagine, una curiosità per tutto ciò che la vita comporta, forte nella persona di Totò, quanto nel personaggio a cui seppe dare vita sulla scena.
Liliana De Curtis , Totò a prescindere, Arnoldo Mondadori. L.32.000
M.L.C., «Il Piccolo», 30 giugno 1992
Lo dico? Totò meglio di Charlot
Sono stato «convocato» molte volte per dire la mia su Totò. Dalla figlia, per la prefazione del suo primo libro, da tanti giornalisti e intervistatori televisivi e radiofonici, probabilmente per la mia passione, per la mia piccola competenza. lo mi fregio di dirmi totologo, ma qualcuno lo aveva già scoperto, nei corso della mia, ahimè, lunga carriera televisiva, perché ogni tanto la citazione totoesca veniva fatta, e Totò era debitamente ringraziato, quando la battuta mi veniva spontanea, per merito, appunto, della grandissima scuola comica che Totò rappresenta.
Dopo aver tanto guardato i film di Totò, studiato la sua arte e parlato di lui, mi accorgo della differenza fra il grande artista e l’artista. Totò è uno dei pochi, ma veramente uno dei rarissimi grandi artisti di spettacolo che abbiamo in Italia, lo affermerei, disposto a subire qualsiasi tipo di dibattito che Totò, in fatto di comicità e di valentia come attore cinematografico tout court, non soltanto umoristico, non soltanto comico, ma anche drammatico (in quei rari momenti in cui, Pasolini a parte, doveva essere drammatico per esigenze di copione), è uno dei tre grandissimi geni destinati a durare nel tempo, nei secoli dei secoli. Penso a Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio e Totò. Quasi quasi mi dispiace di mettere Stanlio e Ollio nel novero dei tre grandi, perché Totò è stato più grande e più ricco di significati, più moderno.
Però, indubbiamente, anche i due inglesi appartengono a quella grande arte della comicità eterna, dai canoni immutabili e mutabili, antichi e moderni, che li fanno assurgere al ruolo di grandi artisti. Chaplin, lo sappiamo, ha prodotto opere straordinarie. Ma Chaplin è uno riflessivo e un intelligente, un grande tecnico razionale della comicità e dell'umorismo, amaro e denso di significati. Totò era profondamente istintivo e quindi più geniale. Perché la sua comicità, la sua stravaganza, it suo «Siamo uomini o caporali?» non hanno spiegazioni razionali, vengono fuori dal cuore, affidati alla genialità del l'irrazionale, e proprio per questo più alti, come in certi casi la musica o le grandi arti,
Mi piacerebbe che il pubblico, nel venticinquennale della morte di Totò, celebrando la sua arte, non lo guardasse soltanto per sorridere, ma anche per apprezzare la doppia, tripla lettura che c'é nei suoi occhi. Una lettura dalla quale traspare innanzitutto l'anima più bella, più classica e più nobile di Napoli. La Napoli che amo io è la Napoli di Totò. Una Napoli profonda, nobilissima, classica, fonie addirittura aristocratica - nel senso non certamente letterale del termine -dietro la quale si nascondono drammi, civiltà, disincanto. Ma anche il sussiego, l'attrazione e il rispetto per l’arte in genere. Mi piacerebbe quindi che il pubblico ne valutasse anche la grandissima valenza artistica come attore drammatico.
Il mio invito ai totologi futuri è quello di guardare in quelle pieghe dei film comici, fatti fortunatamente da registi che lo hanno lasciato libero, senza imbrigliarlo, per sua e nostra fortuna, in un film d'arte, d'autore, lasciandolo libero di improvvisare, con Peppino e con la sua bravissima spalla, laddove it copione doveva essere drammatico. Parlo di Arrangiatevi, in cui Totò, per problemi di casa, deve andare ad abitare in una casa di tolleranza. Parlo dei I due colonnelli, quando Totò fa il colonnello in pensione e viene irretito da Franco Fabrizi. Poi di Totò, Peppino e la dolce vita, Totò, Peppino e la malafemmina, dove un grandissimo Totò riesce ad esprimere tenerezza, solidarietà umana e dolore. E questo che fa di Totò il mio beniamino in senso assoluto anche in senso drammatico. È perciò che parlo di grande artista. Totò non sapeva di essere un grande attore drammatico. La sua istintività d'attore lo portava a calarsi, in maniera assolutamente impareggiabile, in questi ruoli con grande versatilità e globale capacità d’interpretazione. è questo che mi fa ritenere Totò uno dei pochissimi grandi artisti del nostro Paese.
Renzo Arbore, «L'Unità», 12 luglio 1992
Totò o Charlot? A ciascuno il suo comico, a prescindere...
Discussioni / Il principe de Curtis meglio di Chaplin? Una risposta a Renzo Arbore che difende Napoli contro tutti.
Se Renzo Arbore ci avesse confidato che per lui Totò è meglio di Charlie Chaplin dopo un'allegra colazione sotto il sole di Mergelllna, al momento del caffè, niente da obiettare. Anzi ci sarebbe da sorridere compiaciuti per una simile fragorosa opzione di napoletanità, nonché per la fedeltà arboriana nei confronti di quello che considera il suo maestro. E il nostro consenso conviviale sarebbe appena offuscato da un minimo sospetto di promozionalità in quanto è noto che l'animatore di «Quelli della notte» sta preparando da tempo un omaggio televisivo in due serate al Principe del varietà.
Ma il veder trasformata una battuta paradossale («Lo dico? Totò meglio di Charlot») in un titolo sulla prima pagina di un quotidiano serio come «l'Unità» (di ieri, 12 luglio) lascia davvero perplessi: e l'affermazione diventa diffìcile da condividere, mentre è facile indicarne tutti i rischi. Nel suo articolo Arbore afferma che Totò «è uno dei tre grandissimi geni destinati a durare nel tempo, nei secoli dei secoli».
Presumo si riferisca ai geni della comicità perché subito enumera Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio e Totò. che per la verità sono quattro.
Ma ciascuno di noi, a questa stregua, potrebbe controaffermare che il più grande di tutti è Larry Semon detto Ridolini. E altri ancora potrebbero protestare: e Buster Keaton dove lo mettete? E Jacques Tati? E Harry Langdon? E Danny Kaye? E, per restare in Italy, sarebbe d’obbligo mettere in lizza l’immortale Peppino; e De Sica, quando decideva di farci ridere come nel «Processo a Frine»; e Eduardo con il suo pernacchio; e Fantozzi nostro contemporaneo: e il pirotecnico Benigni. Per tacere di molti altri. Se poi telefonate a Tellaro e chiedete a Mario Soldati qual è stato il migliore comico italiano del secolo, il grande vecchio vi risponderà quasi certamente con il nome triestinissimo di Angelo Cecchelin. Proprio come un tedesco vi direbbe che dopo Karl Valentin non si è andati oltre.
L'esazione della risata è un rito antropologico, legato alle vicende di un popolo, all’ambiente e al linguaggio.
Il riso è un fenomeno soggettivo, che risponde a una chiamata profonda prenatale, emergente a sorpresa dal nostro codice genetico. È comprensibile, quindi, che mezza Italia, quella del Sud, della pulcinellata, della sceneggiata, impazzisca per Totò; ed è del pari comprensibile che l'altra mezza Italia sia più che disposta a lasciarsi irretire in questa trama di buonumore. Tuttavia nessun rapporto si può seriamente istituire fra Charles Spencer Chaplin e Antonio de Curtis: e puntualizzarlo è perfino pedantesco.
Non occorre essere professori di cinema per sapere che Chaplin è l'autore unico, assoluto, indiscutibile dei suoi film: mentre Totò non ha mai fatto il regista e a tavolino, come scrittore, ha filiato qualche poesia partenopea e «Malafemmina». Inoltre Chaplin è stato sempre il produttore di se stesso, cioè ha fattoi ciò che voleva quando e come gli pareva, mentre Totò lui ha subìto, soffrendone, l'avvilente condizione dello scritturato.
Insomma Totò non può essere considerato ne meglio né peggio di Charlot per il semplice fatto che si tratta di due personalità incommensurabili.
Paradosso per paradosso, se volessimo davvero inviare qualcuno sul ring della popolarità universale nel secolo che si sta chiudendo, contro l'imbattuto fenomeno planetario costituito dal personaggio di Charlot potremmo immaginare un solo sfidante: Mickey Mouse alias Topolino.
Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 13 luglio 1992
Che bello il proprio funerale guidato da Totò
Vincenzo Mollica, ideatore dell’operazione: «Succedono molte cose tipicamente felliniane: c’è perfino un treno a sei piani frutto dell’incontro con la fantasia di Buzzati». Il clown ha le fattezze di Paolo Villaggio: trova i fratelli Marx, prende un Oscar e da morto si vede al cinema
L'ha fatto per simpatia. Per allegria. Per tornare alle sue origini, quando disegnava sul «Marc’Aurelio» e iniziava la sua scalata all’immaginario collettivo. «E anche per levarmi di tomo un fantasma mortificato e minaccioso, che non se ne voleva andare. E per dimostrare che la baracca del cinema s’è incagliata per sempre. Poi mi sono molto divertito, perché anche il fumetto è un film».
«Il viaggio di G. Mastorna», il titolo «non realizzato» più famoso del cinema, che dal ’65 fa anticamera nel subconscio di Fellini passando da un produttore all’altro («con De Laurentiis che si prodigava in pittoreschi scongiuri»), Analmente si farà, anzi si pubblicherà. A fumetti, in tre capitoli poi riassunti in un unico volume (il primo a metà luglio), con la matita di Milo Manara, nelle edizioni del Grifo di Vincenzo Mollica, ideatore dell’operazione, bissando così «Il viaggio a Tulum», gran successo internazionale.
Niente stupori, niente scandali. Fellini è sicuro: «Dietro il cinema c’è sempre il fumetto, sono parenti strettissimi. Pensi a Harry Langdon o Buster Keaton, inquadrati a mezzo busto, a macchina ferma davanti al paesaggio stilizzato. Pensi al piano americano, che è tipico di Fortunello o Coccoricò. Un occhio che guarda una realtà senza i movimenti. Anch'io sto tornando a quel tipo di cinema: "Amarcord" era un omaggio ai fumetti del "Corriere dei Piccoli” e aveva una sola carrellata» .
Ogni volta che, in questi 30 anni, Mastorna sembrava sul punto di nascere (si costruì anche la cattedrale), veniva sorpassato da un altro progetto. Colpa degli astri contrari? Smentisce Fellini le superstizioni: «No, il mago mi ha sempre consigliato di farlo. Ma col passare del tempo il violoncellista e clown Mastorna, che poi ho affettuosamente citato in tutti i miei film per scusarmi del ritardo, ha preso il carattere del fantasma, il fascino non materiale della memoria.
«Succede negli amori, nelle amicizie, anche nei film: era destinato a non nascere. Ma oggi che questo omino si allontana e prende un’altra strada, con modifiche nella sceneggiatura meno ambiziosa, mi dispiace vederlo andarsene per sempre. Gli ho regalato con affetto un nome in più, Fernet, perché i clown per tradizione hanno da sempre un soprannome alcolico: gin, rhum, porto; e io mi sono preso il fernet, che era libero».
Niente nostalgia d’autore. «Siamo orgogliosi — dice Mollica —, questa del "Viaggio di Mastorna" a fumetti è una bellissima avventura di cui siamo grati a Fellini, che ha anche scritto le battute nelle "nuvolette” e disegnato tutto lo story board dell’opera, pubblicato a fianco di quello di Milo Manara, autore delle strisce.
«Il Mastorna rappresenta un salto di qualità nel fumetto, la creazione di uno stile affine al cinema e alle sue emozioni: Fellini e Manara alternano le consuete strisce a grandi tavole. E il protagonista? Fellini, scartato Mastroianni già disegnato nel "Tulum", e poi Ronald Colman e John Barrymore, ha scelto alla fine il prototipo di Paolo Villaggio, che si è fatto vestire e truccare come Mastorna, clown musicale. Ma non è una caricatura, è un uomo qualunque, un non eroe».
Milo Manara, che Fellini l’ha sempre conservato come super io fin dai tempi di «8 e mezzo» , dice di essersi molto avvicinato con la matita al cinema: «Abbiamo lavorato con la luce, in modo pittorico, disegnando in acquatinta, cioè con i colori tenui del bianco e nero, e del grigio, mettendo in risalto la luminosità, lavorando sulle ombre e i controluce. Un’esperienza straordinaria su una storia fantastica e impressionante; una scelta cromatica vicina a quella del viraggio nel cinema, ricca di mezzi toni».
Fellini, che intanto ha l’onore di posare in un castello in Svizzera per un ritratto di Balthus, toma dunque al primo amore, con un viaggio — ma sì, spendiamolo, l’aggettivo kafkiano — nell’al di là. Perché questo è il tragitto di Mastoma, «un tragitto sognato, della memoria, un labirinto che ha un’infinità di uscite ma un solo ingresso: ho però cercato di sdrammatizzare l’allegoria ultraterrena».
Il protagonista lo conosciamo in aereo mentre vede un film di Stanlio e Ollio, poi durante un atterraggio di fortuna nella piazza del Duomo di Colonia, indi allo show di un’odalisca che partorisce un bimbo. Anticipa Mollica: «Succedono molte cose tipicamente felliniane, c’è perfino un treno a sei piani nato dall’incontro con la fantasia di Buzzati, finché Mastorna capisce di essere morto in un incidente aereo. Inizia il bello: il nostro incontra Harpo e i suoi fratelli Marx, conquista in una serata mondana l’Oscar del successo, guarda i defunti che si buttano dal grattacielo e assiste al suo funerale, con Totò che guida il carro mentre tutte le sue amanti passano in rassegna, va al cinema e scopre che si proietta la sua vita; eccetera».
Che strano, anche il principe de Curtis. «Totò nel film doveva esserci davvero — dice Fellini — e ci teneva molto, mi chiedeva sempre: maestro, quando incominciamo? Peccato».
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 13 luglio 1992
Steno ed io diventammo registi per caso quando inventammo «Totò cerca casa». Per «Risate di gioia» la Magnani non lo voleva: «Abbassa il tono del film»
Liliana Madeo, «La Stampa», 15 luglio 1992
Arriva il Totò «virtuale»
Parte lunedì su Radiouno Sullo sfondo di una Napoli «Luntanamente », montaggio del futuro, una miscela sonoro realizzato con la voce di battute, frasi e monologhi del celebre attore partenopeo per un omaggio inusuale.
Dal 20 luglio il grande Totò toma in vita per interpretare Luntanamente, nuovo programma radiofonico di Gianfranco Salvatore, prodotto da Audiobox per Radiouno, in onda ogni lunedi alle 19.25. Un montaggio «apocrifo» di battute e monologhi, tratti da suoi film, inserito in una sceneggiatura che narra di una Napoli post catastrofe. E alla fine ne viene fuori un Totò non solo comico ed insolito.
Non è un «blob». Non è un pastictle. Non è nemmeno una ricostruzione biografica. È un «film apocrifo» di Totò che ascolteremo per radio. Parola di Gianfranco Salvatore, musicologo e appassionato «ricercatore» di Audiobox, la «fucina di miracoli sonori» di Radiouno, per la quale ha realizzato «Luntanamente. Splendori e miserie del tornare a vivere». 9 puntate dedicate al grande attore napoletano scomparso 25 anni fa, in onda ogni lunedi dal 20 luglio su Radiouno alle 19.25.
«L'idea del programma -spiega Salvatore - é quella di rendere un omaggio a quel grande attore che è stato Totò. Un gesto d'amore per cercare di rivisitare nel modo più completo tutto il suo lavoro, e non solo quello di comico. Totò, infatti, i registri drammaturgici li ha attraversati tutti: dai popolare al surreale, dal patetico al satanico. La vena popolare è presente in tutti i suoi film più conosciuti, quelli con Peppino De Filippo per esempio. Chi non si ricorda di Totó, Peppino e la malafemmina»? Mentre nelle pellicole meno note - continua Gianfranco Salvatore - vengono fuori registri più in usuali per l'attore napoletano: di patetismo è pervaso Yvonne la nuit. Surreale è Che fine ha fatto Totò Baby, mentre satanico è Totò diabolicus. Ecco, tutto questo vogliamo rendere con Luntanamente.
Ma questa sorta di ritratto inedito come viene fuori? «Da un lavoro lunghissimo - aggiunge l’autore - Da due anni di ricerche fatte su tutti i film di Totò. Rivisti, selezionati e poi sezionati. Dallo pellicole abbiamo estratto le battute detrattore napoletano, le abbiamo restaurate e messe insieme secondo una vera e propria sceneggiatura. In questo senso Luntanamente è un film "apocrifo’' perché ad interpretarlo è il vero Totò riportato in vita attraverso la realtà virtuale basata sulla sua voce e sulle sue battute». E proprio come in un vero film saranno presenti anche altri personaggi, pronti ad interagire col grande comico napoletano. Un gruppo di interpreti reclutati da Salvatore tra le giovani promesse della comicità italiana: Rosa Masciopinto e Giovanna Mori, la scatenata coppia di «Opéra comique»; Paolo De Vita e Mimmo Mancini più conosciuti come «I fratelli Capitoni»; Enrico Caria e Frank Tiratore.
Ai giovani interpreti è anche affidato il compito di richiamare in vita il grande Totò, in uno scenario da post catastrofe: una Napoli distrutta, popolata di sopravvissuti che invocano il ritorno di Totò come possibile «restauratore» di una perduta armonia. «E quello che tornerà, però - continua Gianfranco Salvatore -sarà un Totò stanco, sconfitto, combattuto tra il desiderio di vita e di morte. Un aspetto del comico che per altro non mi sono inventato io, ma che emerge dall'analisi complessiva dei suoi lavori. “Ma allora un poveraccio non può neanche morire" dice l’attore in Totò e i sette re di Roma, e questo rapporto costante con la morte è presente in molti suoi film. Ma il Totò di Luntanamente sarà anche il Totò più conosciuto, quello pirotecnico che punta tutto sull'equivoco verbale, sul tormentone. Insomma un Totò "completo": da una parte si descrive il suo rapporto con Napoli e i suoi problemi, dall'altra si restituisce un attore con tutti i suoi registri narrativi». In tutto questo, poi, gran rilievo avrà la musica, visto la formazione dell'autore che da 11 anni collabora ad Audiobox. «La musica all'interno di Luntanamente - conclude Salvatore - sarà importantissima: Totò si esibirà anche in una serie di rap a soggetto, uno per ogni puntata. Che altro dire... Ascoltate per credere...».
Gabriella Gallozzi, «Unità», 16 luglio 1992
Totò, a prescindere dalle telequisquilie
COSA DICONO /I film del principe riempiono i teleschermi d'estate. Il mondo del cinema spiega quell’eterno successo. Fellini: «Porta le storie scritte in faccia». Nichetti: «Realistico e surreale» , Lattuada: «Marionetta col cuore di poeta». Verdone: «Essenza di comicità»
Quella mascella deragliata riempie i teleschermi d’estate: Raitre gli dedica il ciclo «Io piacciucchio» (stasera alle 20.30: «I ladri», 1959), Retequattro propone la serie «Super-Totò» (sabato alle 20.30 «Totòtruffa '62», 1961). E quei vecchi film sono protagonisti in molte altre videoserate: ottenendo anche oltre 3 milioni di spettatori, quanto show e film in prima visione. Successo che non conosce logorio.
«Totò non aveva bisogno di storie, le portava già tutte scritte sulla faccia e nel corpo disossato», ha detto e ribadisce Federico Fellini. Gli ascolti del pianeta Totò aumentano perché il gentiluomo con la faccia da clown, come sostiene Raimondo Vianello, «è "diabolicus" e sempre porta in scena qualcosa di speciale. Avevo forse una sola posa in ”I due orfanelli” e in 'Totò Diabolicus” ero suo marito e lui. vestito da donna, si faceva aria muovendo come un ventaglio la gonna. Mi prendeva da parte e diceva: "Facciamo una compagnia solo di nobili"».
Dice Lina Wertmuller: «La verità di quel successo è semplice, nei suoi film il principe fa piazza pulita di tutte quelle sovrastrutture sociali e culturali che Benedetto Croce definiva "pseudoconcetti"». Renzo Arbore ribadisce: «Se è vero che ogni spettatore si sceglie la sua risata, volgare o sofisticata, io scelgo sempre Totò e una sua frase: "Lo spettacolo è la vita fermata nei momenti a noi congeniali"».
«Ritomo bimbo con i bimbi che lo amano — commenta Alberto Lattuada — nell'osservare quella mostruosa abilità di scomporre il corpo come una marionetta con l'anima e col cuore di un poeta appeso a un filo». Mario Monicelli aggiunge: «Piacerà sempre perché parte da uno spunto e lo insulta, lo aggredisce, lo trasforma, modellandolo come se fosse argilla. Questa capacità di reinventare la parodia è la sua grande forza contro tutto ciò che è codificato. Forse cercava Pirandello. Forse abbiamo sbagliato qualcosa: il Totò più geniale è quello "scuro" e rendendolo troppo umano noi gli abbiamo tarpato la fantasia».
Tra i più giovani, lo sceneggiatore Enrico Vanzina, figlio di Steno, che ha scritto tanto e tanto diretto Totò, dichiara: «Papà dice che il principe ripeteva spesso: "In privato non rido mai. La risata non mi piace, è rumorosa e il rumore turba e disturba. Io amo tutto ciò che è scuro, tranquillo, senza rumore”. Spesso, cogliendo l'ombra della allegra malinconia dei suoi film, mi ritorna alla memoria questa frase».
Dice il comico, di gesti più che di di battuta, Franco Franchi: «All'inizio, Ingrassia ed io ci ripetevamo: "Anche noi, come lui, siamo stati e siamo costretti a improvvisare tutta la vita. Abbiamo preso a modello la sua comicità, prefiggendoci di essere il più elementari possibile». E un altro clown gentile, Maurizio Nichetti, aggiunge: «A me Totò piace tutto, come ai ragazzi di oggi, indipendentemente dal suoi film. Perché? Il suo è un personaggio realistico, che si esprime attraverso situazioni surreali».
Carlo Verdone: «E’ comicità essenziale e "povera". Conquista le nuove generazioni: scoprono ogni volta come i gesti e le cose minime possano diventare grandi. Uno dei tanti revival di Totò è datato anni Settanta e a riscoprirlo, è importante ricordarlo, fu quella generazione post-sessantottesca e delusa e ferita e forse anche un po' snob e anarcoide che si riconosceva nei suoi gentiluomini e sottoproletari. In lui si ama l'uomo libero, al di là del tecnicismo, della violenza, dei nuovi profughi con la fame atavica, della speranza del sole napoletano».
«Certo che ritorna con la sua difesa fisica e sentimentale alla sub-civiltà delle macchine — dice Riccardo Freda, che di Totò fu grande amico —. Fra tante parole, foto private e scatti d'attore, io voglio ricordare una frase che Totò diceva sempre: "Se fossi regista, vorrei fare un film su come sono davvero, su come sono dentro: magari ingoiando la macchina da presa"».
Ninetto Davoli, che con Totò interpretò «Uccellacci e uccellini» di Pasolini, conclude: «Mi riporta e ci riporta la giovinezza. Andai a trovarlo con Pier Paolo: indossavo i blue jeans e un maglione. Ci fece accomodare su divani di seta e lui indossava la vestaglia e la sciarpa di seta. Mi dissero che, quando me ne andai, Totò prese un insetticida e lo spruzzò sulla seggiola dove ero stato seduto. Forse non è vero, ma sembra la grande scena di un suo inimitabile sketch».
Giovanna Grassi, «Corriere della Sera», 12 agosto 1992
Croccolo, l'altra faccia di Totò
L’attore e i segreti di un grande sodalizio: «"Malafemmina” era la Pampanini». «Era un uomo solo e triste»
Carlo Croccolo, quarant'anni di onorata carriera nello spettacolo, è un attore involontario, non animato né da vocazione personale né da ansia da successo. «Mi sono rassegnato a seguire la mia faccia», ammette sorridendo. La sua faccia, la celebre faccia da fesso con l'occhio da pesce e la bocca inerte, gli ha permesso di interpretare centodieci film. Da «I cadetti di Guascogna», quello del «Costa lòn ca costa soma dia Val d'Aosta», a «O' Re» di Magni sulle disavventure bellico-erotiche di Fraceschiello.
E soprattutto lo ha fatto entrare nella storia del cinema per il suo sodalizio con Totò con il quale ha girato il meglio che c'è, da «47 morto che parla» a «Totò Sceicco», da «Miseria e nobiltà» a «Totò lascia o raddoppia?», in una sequenza infinita di scene dove lui, Totò, porgeva la battuta, e l'altro, Croccolo, gli rispondeva al suo modo stralunato. «Era un uomo solo e triste, Totò, molto più grande dei suoi film. Nient'affatto guitto, disprezzava con aristocratico cipiglio le mezze calze. Girava un film dietro l'altro, film a basso costo e senza trama, perché aveva bisogno di guadagnare, ma gli piaceva esser circondato da persone di talento. Più erano bravi quelli che gli stavano intorno più si esaltava lui. "Le cose belle è bello vederle col sole", diceva. Io l'avevo capito e lui mi ricambiava volendomi al suo fianco». Un gran divertimento? «Bugie. Una gran fatica. Non si rideva mai. Totò era serissimo. Anche quando s'innamorava. Io lo vidi perdere la testa per la Pampanini,la donna per cui scrisse "Maiafemmina". Ma era un amore infelice. Non scherzava, Totò. "Un film è buono se fa ridere quando si vede non quando si fa", era il suo convincimento. Negli ultimi anni, quand'era ormai diventato cieco, ho doppiato la sua voce perché fosse in sincrono con le immagini, ma l'ho fatto in segreto, evitando che si sapesse, perché Totò temeva che il pubblico l'avrebbe abbandonato se avesse scoperto la sua malattia».
Fu in quegli anni, i primi Anni Cinquanta, che Croccolo esplose imponendosi come il più strepitoso attor giovane del nostro spettacolo: faceva cabaret alla maniera di Grillo riuscendo per fino a dialogare con le proprie scarpe, accompagnava Claudio Villa in quelle serate popolari metà canzoni e metà risate che tanto piacevano, intratteneva il pubblico della tv che proprio allora cominciava a trasmettere: la prima notte di Capodanno dell'era televisiva la fece lui, in compagnia di Teddy Reno, Juia De Palina, Sandra Mondami. Il denaro correva. Tra il '53 e il '54 fece 26 film, un record oggi inarrivabile. E lui spendeva. Al suo tavolo di ristorante poteva sedere chiunque passasse. La sua auto americana era la più lunga che si fosse mai vista a Cinecittà. Il suo cane aveva una giardinetta personale con un autista per le passeggiate. Le mance elargite ai ragazzini dell'ascensore erano più alte dello stipendio che percepiva sua madre insegnante di filosofia. Se gli saltava in testa portava a cena il cavallo con cui stava facendo il film perché anche lui era un attore. Se lo divertiva inviava champagne e rose alla costumista della compagnia perché anche lei avesse un'emozione. Guidava la barca; si buttava col paracadute, si comprò perfino un aereo, che però non riuscì a pagare e gli fu sequestrato, solo per il gusto di fare quello che gli andava. Le sue stravaganze finivano sui giornali. Il divismo all'americana era approdato a Roma. Perfino la Camera si dovette interrogare su di lui e sulla «croccolite» che aveva colpito la gente e sarebbe sfociata, un po' più tardi, nel mito di «La dolce vita».
Troppo sperpero, troppe follie, troppo esibizionismo per un'Italia ancora dominata dai Peppone che sognavano Baffone e dai Don Camillo che minacciavano le fiamme dell'Inferno. Megalomania? Croccolo nega. «Non ero snob. Ero fuori dal giro degli intellettuali. Di fare il cinema non me ne fregava niente. Ero arrivato a essere un divo senza fare nessuna fatica. M'ero lasciato andare alle cose e le cose giravano per il verso giusto. A Roma ero piombato seguendo un'inglese bellissima per far dispetto alla mia fidanzata napoletana che m'aveva piantato. E a Roma m'aveva scoperto la radio. Sembravo un esibizionista. Ero solo un ragazzo che si divertiva a provocare». All'apice del successo, tirato da una parte da Eduardo che aveva rotto con Peppino e voleva lui in compagnia per sosti- tuirlo, e dall'altra da Totò che non se la sentiva più di far cinema senza averlo vicino, Croccolo fu travolto dallo scandalo: lo accusarono di trafficare cocaina, lo sbatterono in prigione per cinque mesi, poi l'assolsero con tante scuse per non aver commesso il fatto. Ma la sua carriera era finita. Si rifugiò in Canada, senza una lira, a presentare spettacoli per emigranti, approfittando del fatto che conosceva le lingue e sapeva far ridere.
Da quel momento Croccolo ha vissuto cinque diverse esistenze, ogni volta tentando di far soldi con un mestiere che niente avesse che fare con quello dell'attore e ogni volta essendo costretto a ricominciare a recitare per i fallimenti registrati. E' stato barman, venditore di pubblicità, regista di spot televisivi, antiquario, produttore in proprio e per conto terzi di filmetti commerciali, padrone per tre anni di un teatro a Roma, «Il Colosseo» dal cui disastro economico è uscito distrutto. Ha avuto una casa quasi fissa in Canada, Stato di cui ha ottenuto perfino la cittadinanza; un pied-aterre a Roma dove finiva per tornare sempre; molti soggiorni ad Hollywood per far visita agli amici Sammy Davis jr e May Britt, Burt Bacharac e Angie Dickinson e poi il giro dei Kennedy, Marilyn Monroe, Peter Lawford, Sinatra. E cinque tra mogli e compagne, più un non quantificabile numero di avventure erotiche che gli fecero avere il soprannome di «Irish express» per via dei suoi capelli rossi. Ma anche sulla fama di sedut¬ tore Croccolo nutre perplessità. «Le donne mi piacciono ma sono sempre stato il sedotto, mai il seduttore». E racconta della prima fidanzatina, una ragazza che volle far l'amore con lui perché era il solo maschio di cui i suoi fratelli gelosissimi non potevano sospettare. A questa che è la sua ultima puntata da protagonista dello spettacolo l'ha ricondotto Strehler con una telefonata: «Ma non-aei.morto? - gli chiese )/ì Palava vieni a fare con me "La grande magia". E sbrigati». Da allora ha recitato in «Rinaldo in campo» con Massimo Ranieri nel ruolo che Garinei e Giovannini scrissero per lui nell'edizione con Modugno e che lui non fece per scapparsene negli Stati Uniti. Ha vinto un Donatello per «O' Re», l'unico riconoscimento della critica in tanti anni di lavoro.
E' stato Crispino al Sistina in «Aggiungi un posto a tavola» insieme con Johnny Dorelli. A sessantanni e passa ha una nuova compagna giovanissima e bella che per lui ha lasciato il teatro, e se ne va in giro per l'Italia con un «Pluto», classica commedia di Aristofane riproposta da Shahroo Kheradnaud. Con Carlo Croccolo non c'è più Pinotto, il soldatino inventato copiando un dialogo surreale con un autentico nordico pre-leghista, che gli regalò, a lui napoletano autentico con villa a Pineta, mare e barca a Mergellina, popolarità e ricchezza. Ma lui non si lamenta. «Sono stato fortunato. Donne e spettacolo mi sono sempre corsi dietro».
Simonetta Roblony, «La Stampa», 17 agosto 1992
Totò, povero attore da duemila miliardi
Il comico fu un supercampione di incassi e di pubblico
Oltre ad essere rievocato in televisione da Renzo Arbore e oltre ad essere oggetto di spettacoli teatrali, Totò viene rivalutato in questi giorni anche come l'attore italiano che ha richiamato nelle sale cinematografiche il maggior numero di spettatori: 217 milioni. Una platea eccezionale, oceanica, soprattutto se si considera che oggi si aggira attorno ai novanta milioni la frequenza annuale di spettatori che viene registrata nelle sale cinematografiche di tutta Italia.
Questi duecentodiciassette milioni di biglietti venduti hanno assicurato ai film intepretati da Totò un complessivo incasso reale di 38 miliardi e 416 milioni, una somma che, una volta rivalutata sulla base degli attuali prezzi, corrisponde all'astronomica cifra di 1798 miliardi. Queste sono le conclusioni di un meticoloso studio condotto da Alessandro Ferrau, considerato il più attendibile esperto di psicologia delle folle. Forte del suo metodo scientifico, Ferraù analizza da trentasette anni, ogni settimana, gli incassi cinematografici. «Il verdetto del botteghino spiega - non rivela semplicemente la resa economica di un film, ma permette di stabilire la nascita o la decadenza dei vari generi cinematografici, degli attori, dei registi. Nello stesso tempo gli incassi riflettono la mutevolezza del gusto del pubblico. Nonostante gli elevati incassi ottenuti dai suoi film, il mio amico Totò non è morto ricco perché era molto generoso con i poveri.
Comunque nei suoi confronti i produttori hanno sempre applicato la politica del "limone spremuto". Investivano i loro capitali sicuri che i film di Totò, comunque li realizzassero, non avrebbero mai deluso dal punto di vista economico e qualche volta ne approfittavano». «Ma il "limone-Totò" non si esauriva mai - sottolinea Ferrau - anche se nel periodo 1949-1963 venivano proposti non meno di quattro, cinque a volte anche sei film per stagione». Il record si raggiunse nel 1963 con otto titoli: «Il giorno più corto», «Il monaco di Monza», «Totò contro quattro», «Totò e Cleopatra», «Totò sexy», «Vigile ignoto», «Gli onorevoli» e «Il comandante». L'inchiesta socio-economica di Ferrau inoltre non tiene conto degli incassi - non più reperibili - dei primi sei film che furono interpretati da Totò tra il 1937 e il 1945: «Fermo con le mani», ((Animali pazzi», «San Giovanni decollato», «L'allegro fantasma», «Due cuori tra le belve» e «Il ratto delle Sabine». Nella sua lunga carriera di interprete cinematografico (conclusa, poco prima di morire, con la partecipazione a due episodi di «Capriccio all'italiana»), Totò ha girato 97 film. Di questi cinquantasei furono realizzati con soli sei registi: Mario Mattoli. Steno, Mario Monicelli, Camillo Mastrocinque, Sergio Corbucci e Carlo Ludovico Bragaglia. Ma Totò è stato diretto anche da «maestri» legati alla storia del nostro cinema come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Alessandro Blasetti, Luigi Comencini, Alberto Lattuada, Dino Risi e Pier Paolo Pasolini. «Di Totò - sottolinea Ferrau - mi ha sempre impressionato, in particolare, la "tenuta".
Di nessun altro attore furono mai messi in circolazione tanti titoli in concorrenza tra loro. Prima della guerra Totò girò pochi film, tuttavia riuscì già allora a mettere in risalto il suo talento con "San Giovanni decollato", sceneggiato da Zavattini ed ispirato all'omonima commedia di Nino Martoglio. Totò per il cinema è sempre stato un attore senza età, valido per tutte le stagioni, e la sua ascesa cominciò con il fortunato incontro con Mario Mattoli». Al boom cinematografico di Totò si deve poi aggiungere quello televisivo che ha consentito di fare vivere questa straordinaria personalità attraverso i suoi film. Ma difficilmente in futuro si potrà conteggiare la platea televisiva del principe Antonio De Curtis. Anche perché la sua maschera, così ricca di espressioni e di umanità, continua a catturare, ogni giorno sui teleschermi, l'attenzione di nuove generazioni, che vanno ad assommarsi ai duecentodiciassette milioni di persone che l'hanno ammirato al cinema.
Ernesto Baldo, «La Stampa», 30 dicembre 1992
Carlo Croccolo, la voce di Totò
Totò, il grande comico napoletano, fu costretto negli ultimi anni della carriera a farsi doppiare molte scene da Cario Croccolo, per gravi problemi agli occhi. Lo racconta Giancarlo Governi nel libro «Io sono Totò» e lo ha confermato ieri Croccolo, presentando «Lei non sa chi sono io», due videocassette che ripercorrono la carriera artistica del principe de Curtis.
«Totò aveva le retine malate - dice Croccolo - e col passare degli anni divenne quasi cieco. Le scena in esterni, che richiedevano una nuova incisione audio, non potevano essere ridoppiate da lui, perché non riusciva a seguire sullo schermo i movimenti delle sue labbra. L'ho aiutato in una trentina di film. Mi fece giurare che non ne avrei parlato con nessuno. La stampa non lo amava e lui non voleva che si sapesse della sua malattia». E' noto infatti l'ostracismo della cultura italiana dell'epoca verso il genio di Totò.
Simonetta Roblony, «La Stampa», 15 ottobre 1992
«Si, dovevo doppiare Totò»
Sorprendente rivelazione sul grande comico nel venticinquennale della scomparsa. Cario Croccolo: era malato, dopo il ’58 gli ho prestato la voce in trenta film
Totò, il grande comico napoletano del quale ricorre il venticinquennale della scomparsa, fu costretto negli ultimi anni della carriera a farsi doppiare in molte scene cinematografiche da Carlo Croccolo a causa di gravi problemi agli occhi. La notizia, contenuta nel libro di Giancarlo Governi «Io sono Totò», è stata confermata da Croccolo durante la presentazione dell iniziativa editoriale multimediale «Lei non sa chi sono io», realizzata dalle consociate Rai Fonit Cetra, Nuova Eri e Videorai, che ripercorre la carriera artistica del principe de Curtis in due videocassette corredate dal saggio biografico di Governi.
«Totò aveva le retine malate — ha detto Croccolo — e col passare degli anni divenne quasi cieco. Le scene girate in esterni, che richiedevano una nuova incisione audio, non potevano essere ridoppiate da lui. perché Totò non riusciva a seguire sullo schermo i movimenti delle proprie labbra. Le scene girate in interni, invece, sono tutte autentiche, in presa diretta. L'ho aiutato in una trentina di film dopo il 1958. Mi fece giurare che non avrei parlato con nessuno dei miei interventi. La stampa non lo amava e lui non voleva che si sapesse della sua malattia».
L'ostracismo della cultura italiana dell'epoca verso il genio artistico di Totò, che fu anche autore di poesie e canzoni divenute celebri, è stato ricordato da Lello Bersani, autore nel '65 di una celebre intervista tv al principe de Curtis. riproposta in «Lei non sa chi sono io»: «I critici — ha detto — si divertivano con i suoi film ma poi li condannavano». In quell'eccezionale documento Totò si rivelò con lucidità, ironia e senza segreti, recitando con straordinaria commozione la sua poesia più celebre. «’A livella». Si scopre cosi la difficile convivenza fra il principe e il comico, il «servitore» Totò che vive in cucina, la gioventù in via Santa Maria Antesaecula, in «Rione», gli inizi con la Commedia dell’Arte che gli insegnò l’improvvisazione, vera perla di ogni suo film, poi il varietà, la rivista, la commedia musicale, il cinema. «Lui è un pagliaccio, un attore: io una persona per bene», afferma il principe, legato al titolo e al blasone, che solo agli amici più cari permetteva di chiamarlo affettuosamente Totò.
«Totò — ha aggiunto Carlo Sartori, direttore editoriale della Nuova Eri — fu vittima della cultura cattolico-comunista prevalente a quei tempi, che anteponeva la tragedia alla commedia. In quest’ultimo genere d’arte si intravedeva una forma di disimpegno, non produttiva da un punto di vista politico».
Un atteggiamento destinato a mutare con il passare degli anni e che «Lei non sa chi sono io» documenta attraverso scritti di Federico Fellini, Umberto Eco, Cesare Zavattini, Eduardo De Filippo, esempi del ripensamento dei massimi esponenti della cultura nazionale nei confronti dell’opera cinematografica dell’attore napoletano: «Ricordate Totò? — si domandava Fellini nel 1980 — Che stupefacente, misteriosa apparizione!».
«Corriere della Sera», 15 ottobre 1992
16 novembre 1992, RAI Uno, prima puntata dello speciale tv «Caro Totò ti voglio presentare»
A Torino Liliana De Curtis e Mario Di Gilio celebrano con uno spettacolo il principe della risata. Un mito in privato attraverso le canzoni, gli sketch, le poesie.
TORINO
«A me Totò non piace. Prima di tulio è bruttissimo. Hai mai osservato lo sua faccia asimmetrica? E' lunga, triste, senza dignità». Qualcuno probabilmente ha già avuto un sobbalzo. Ma come! - deve aver pensato -. Chi può essere cosi blasfemo? Beh, queste cose le ha dotte proprio lui, Antonio De Curtis, principe di Bisanzio. Lui, che deliziava le platee più semplici (la rivalutazione, come si sa, arriverà tardi, con un libro di Goffredo Fofi), doveva stimarsi poco e, anche per questo, s'immalinconiva, s’avviliva. Con lui, una volta tanto, sembrava trovar conferma il mito romantico del clown che, fragoroso fuori, è triste dentro. Ma le cose stanno davvero così?
Pensavamo che «Totò dietro le quinte», lo spettacolo in scena al Fregoli fino a domenica, potesse aiutarci a sciogliere questo minuscolo enigma. La presenza in scena di Liliana De Curtis. figlia dell'attore, e di Mario Di Gilio, antica gloria del varietà napoletano, partner per qualche anno del Principe, promettevano per lo meno un ritratto sincero e antiretorico. Il che, ora che tutti millantano di avere frequentato e amato Totò, non è cosa da buttar via. Ma a teatro, a volte, le bugie sono più redditizie della sincerità, nel senso che lo sincerità non sempre garantisce la buona riuscita di uno spettacolo.
«Totò dietro le quinte» assembla sketch, poesie e canzoni, introduce una zona memorialistica nella quale, fingendo di rispondere a un'intervista, Di Gilio rievoca con voce appena percepibile la figura dell'attore, il suo stare in scena, la sua solitudine, la sua dignità nella miseria. Un gruppo di giovani attori ripropone una minuscola antologìa di sketch, c'è un guappo che disturba un finto spettacolo, uno fragrante sciantosa, un fine dicitore che non riesce a tenere a bada un riottoso spettatore. E c'è Liliana De Curtis che, alla fine del primo e del secondo tempo, recita poesie, compresa la celeberrima «Livella», interpretata nientemeno che a tre voci, in una drammatizzazione epica francamente eccessiva.
C'è di tutto, insomma; ma nonostante la varietà della materia e la rumorosa comicità di alcuni brani, il tutto è dominato da un senso di grande malinconia, anzi da una robusta vena patetica. I lunghi silenzi, le musiche che s’ingolfano sulla scena vuota producono pericolosi rallentamenti. E la riproposta di numeri celebri è inevitabilmente sminuita dal ricordo dell'originale. C’è Totò in questo spettacolo? Forse un santino lontano, da trattare con deferenza. A prescindere, naturalmente.
Osvaldo Guerrieri, «La Stampa», 18 novembre 1992
Totò contro il Presidente
Quando Scalfaro rifiutò un duello
«Ho appreso dai giornali che Ella ha respinto la sfida a duello inviataLe in seguito agli incidenti a Lei noti...». Ma mi facci il piacere! L'Italia satirica, quella tarda cavalleresca e quella bacchettona del 1950. Un grande comico; un futuro Presidente della Repubblica; le spalle scoperte di una bella donna; un padre furioso; un marito inferocito, che oltretutto si chiamava Aramis. E, come se già non bastasse, un dibattito a Montecitorio e una, anzi due e forse tre sfide a duello. Che l'attuale Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, fedele alla dottrina cristiana, si guardò bene dall'accettare. Continuandosi ad attirare una pioggia di vignette canzonatorie. A firma dei principali disegnatori del momento: Attalo, Girus, Majorana, Giovanni Mosca. Ma anche dei giovani Furio Scarpelli, oggi sceneggiatore, ed Ettore Scola, il regista.
Sia pure con dilatazioni epiche (uno schiaffo, per dire, che non ci fu mai) di quella scenetta al ristorante, per la verità, s'era sempre saputo: un caldo luglio romano, la moda delle bretelline e il battibecco tra il giovane sottosegretario Oscar Luigi (e due suoi colleghi di partito: gli onorevoli Sampietro e Titomanlio) e la signora Edith Toussan per via, appunto, di un prendisole considerato troppo osée. Acqua passata? Non proprio. La vicenda ritorna nelle cronache in mcdo più o meno intermittente. La signora Toussan l'ha ricordata, ora con rabbiosa, ora con rassegnata tristezza. E anche il Presidente se la tira appresso come una specie di ombra.
Ma adesso grazie a un libro che s'intitola «Totò, Scalfaro e la... «malafemmina». (Edizioni Daga, 15 mila lire) a distanza di 42 anni si capisce per bene come l'Italia di allora visse quel piccolo ma emblematico evento. Commenti, battute, poesie, disegni d'epoca. E grazie alle ricerche archivistiche di Angelo Olivieri, già autore - guarda caso-di Sette anni di guai, storia satirica del Quirinale da De Nicola a Cossiga, viene fuori che anche Totò scese in campo contro Scalfaro. Al punto da indirizzargli una sdegnosissima lettera aperta che l'Avanti! pubblicò con il titolo: «Siamo uomini o...». Anche se non voleva affatto far ridere, Totò. O meglio come del resto si firma - il Principe Antonio Focas Flavio Comneno De Curtis. (Leggi l'articolo «Totò contro Scalfaro: il caso del prendisole»)
Un Totò ottocentesco e sprezzante che con fraseggio aulico e dispiego di maiuscole interviene quasi più sul diniego di Scalfaro a incrociare le armi - anche la stessa Edith, buona spadaccina, e il marito Aramis, avevano gettato il guanto - che sulla (infelice) frase che aveva scatenato le tre richieste di duello: «Queste donne, a furia di esporsi senza alcun pudore, cessano di essere donne private per diventare donne pubbliche». Ecco, l'attore che pure in Totò, lascia o raddoppia fece una specie di parodia di quella sfida negata, reagì: «Non si pretende da Lei, dopo il rifiuto di battersi, una maggiore sensibilità per ciò che è avvenuto, ma si ha il diritto di esigere che in incidenti del genere, le persone alle quali il sentimento della responsabilità morale e cavalleresca è ignoto, abbiano almeno il pudore di sottrarsi al giudizio degli uomini, ai quali questi sentimenti e il coraggio - civile dicevano- ancora qualcosa».
Su questo polemico e sorprendente, reperto dell'«Avanti!» (Totò non era né un Socialista né un libertario, tantomeno un libertino), Olivieri ha una sua teoria secondo cui nell'intemerata deve esserci lo zampino del grande impresario Remigio Paone, vicino al psi. O forse, ma le due cose non sono in contrasto, il comico non pensasse anche di ribellarsi al sistematico massacro che i potentissimi critici del Centro cattolico cinematografico facevano dei suoi film: «Abbigliamenti immodesti», «situazioni immorali», «scollature». «Inutile negarlo - dice Olivieri le schede del Ccc (1) sembrano firmate da Scalfaro». E aggiunge: «Le sinistre saltarono subito a cavallo sul caso. Poi, ironia della satira, si accorsero che la Toussan era di destra e mollarono la presa».
Ma più in generale la battaglia, anche parlamentare, del prendisole, il duello pubblico e privato tra il futuro Capo dello Stato e la bella signora (che - autore ed editore ci tengono a dirlo - «non era affatto una "malafemmena"») è come mimmo indicativo di una temperie. Così, sempre con vignette di quei fatali 1949 e 1950 il libro documenta la sorda guerra degli umoristi contro quell'Italia sessuofobica appena conquistata dalla de: la crociata di Scelba contro i costumi da bagno, la censura alla Venere di Botticelli, le multe a chi si baciava per strada, i preparativi per il Giubileo con l'apposizione di foglie di fico sulle statue al Foro italico. Neanche troppo strano, dunque, quello scalpore «a motivo di belle spalle tormentate dal calore».
Poi un salto brusco di 42 anni. E trenta pagine di vignette sullo Scalfaro presidente della Repubblica e prima ancora presidente della Camera. Lo Scalfaro che in ideale prosecuzione con il «si copra!» di tanti anni prima grida: «Onorevole! Esca subito dall'aula! Questo non è un luogo dove ci si spoglia!». Sempre di caldo e di spalle più o meno nude, si tratta. Anche se stavolta non è una donna, ma l'incauto onorevole Borsano che a Montecitorio voleva togliersi la giacca.
Filippo Ceccarelli, «La Stampa», 29 novembre 1992 - «Totò contro Scalfaro: il caso del prendisole»
ROMA
Oscar Luigi Scalfaro non ha mai rievocato volentieri quella lontana vicenda del 1950. Ma subito dopo i fatti, alla Camera, reagì con fastidio. Di fronte a un'interrogazione parlamentare del socialista Francesco Geraci, che voleva sapere se Scalfaro avesse violato la legge insultando la signora Toussan dopo le sue reazioni, l'allora semplice deputato democristiano disse di essere «meravigliato» che l'iniziativa partisse «proprio da Geraci, un figlio di quella terra di Calabria dove si ha il culto della famiglia e si venera la donna, giungendo persino al duello rusticano per lei...».
Più avanti, il Presidente tornò sull'episodio, negando decisamente che l'alterco fosse arrivato allo scontro fisico: «Ogni tanto nella mia vita qualcuno parla di schiaffi - disse il Capo dello Stato -. Dati o ricevuti. La verità è che non ne ho mai né dati né ricevuti. E comunque non ritengo degradante ricevere uno schiaffo, ma darlo».
[r. i.], «La Stampa», 29 novembre 1992
Totò e Fellini per l'onore di una signora
ROMA
Un tempo si moriva per una lite. Ma con quale eleganza, con quanta classe. Altro che le risse da ingorgo o da fila alle poste, pane quotidiano di una civiltà condannata all'isteria collettiva. Prendiamo per esempio uno dei cento e più Duelli mortali raccolti da Iacopo Gelli, ufficiale di cavalleria autore del Codice cavalleresco italiano scomparso nel 1935 (il volume e riproposto dalla Sugarco nella collana Tasco ad appena 16.000 lire): «Il 2 febbraio 1889 il capitano d’artiglieria Tégalmy ebbe da questionare con un velocipedista. al Calvayrac. Un duello alla spada fu tosto combinato e a Saint-Céré (Lot), dove avvenne, il povero capitano Tégalmy riceveva un colpo formidabile in pieno petto che lo spediva all’altro mondo!».
In quel punto esclamativo c'è tutto un mondo: da una parte l’entusiasmo per la buona prova dell'anonimo velocipedista, dall'altro il dolore altrettanto sincero per la sorte del «povero capitano». Chissà cosa accadrebbe se tutte le querelle da incrocio si trasformassero oggi in altrettanti confronti all'arma bianca.
Le tenzoni, negli anni Novanta, si convocano sul video, alla radio, sui giornali. Eppure il duello ha esercitato il suo fascino romantico fin quasi ai nostri giorni. Basta sfogliare un altro libro recentemente uscito, «Totò, Scalfaro e... la malafemmina» di Angelo Olivieri (edito da Daga). Sullo sfondo la famosa vicenda del 1950, quando Oscar Luigi Scalfaro, giovane sottosegretario, ebbe da ridire in un ristorante sull'abbigliamento di una giovane signora, Edith Toussan, giudicato troppo azzardato per colpa di un prendisole tolto dalle spalle rimaste cosi nude. Nell'anno di grazia 1992 sia la signora che l’attuale presidente della Repubblica ricordano con un comprensibile fastidio quel giorno di quaranta e più anni fa.
Allora, nell'Italia appena repubblicana e da poco uscita dagli orrori della guerra, il pubblico battibecco tra un deputato dc cattolico osservante e una bella donna dalle spalle scoperte fece la gioia dei vignettisti: il Marc'Aurelio e il Travaso camparono di rendita per settimane. Fatto sta che Scalfaro si ritrovò tra le mani tre sfide a duello: del padre e del marito dell’insultata e della stessa Edith, lei stessa eccellente schermitrice. Tutte rifiutate per motivi religiosi, almeno così riportarono le gazzette.
Ma veniamo al libro: Olivieri ripubblica una lettera che porta la firma del principe Antonio Focas Flavio Comneno de Curtis, alias Totò. Nella missiva aperta a Scalfaro, pubblicata da alcuni giornali, il principe di Bisanzio lo rimprovera: «Abusi del genere comportano l'obbligo di assumerne le conseguenze, specialmente per uomini responsabili...».
La faccenda del mancato duello divertì Federico Fellini, che lo citò nel suo episodio di «Boccaccio ’70»»: in un filmino comico muto, Peppino De Filippo (nel ruolo di don Antonio) ripete la scena del bacchettone che si infuria per quelle spalle scoperte.
Duello che nostalgia, insomma. A onor del vero, qualche scontro all'antica è stato segnalato anche in tempi recenti. Per esempio quello tra due giornalisti partenopei, Antonio Scotti e Gino Palumbo, che incrociarono le spade nei boschi di Camaldoli nel 1958 per un acceso diverbio (altro che donne) sul calciatore Vinicio. Appena pochi mesi fa un nobile romano, tal Roffredo Gaetani di Laurenzana dell'Aquila di Aragona, sperò di rinverdire le glorie cavalleresche dei suoi blasonatissimi avi sfidando a boxe, in quel di New York, l’attore Mickey Rourke per difendere l’onore della splendida Carré Otis, amica del prence ed ex fiamma del divo e dal medesimo insultala in pubblico. Non se ne fece nulla.
Bisognerà dunque accontentarsi delle urla e degli insulti via etere, dei tavolini rovesciati nei talk-show, delle risposte al fiele sui giornali? Qualche fiammella di speranza ogni tanto si accende. Giorni fa, Vittorio Sgarbi ha definito il critico Federico Zeri «la sora Leila della storia delibarle». Chissà che il Grande Federico non si infuri e convochi i padrini.
Paolo Conti, «Corriere della Sera», 8 dicembre 1992
Perchè mi tengo stretto Totò
Arbore replica alle accuse: la sua risata unisce il Paese
Totò l'ho visto la prima volta al Gran cinema teatro Ciccolella di Foggia dove mio padre m'aveva portato a vedere «Fifa e arena». Colpì tanto la mia fantasia di bambino che poi volli vedere tutti i suoi film, citando e recitando anche a scuola le sue battute. «Alto gradimento», «L'altra domenica», «Quelli della notte», in fondo non sono che furti perpetrati da me ai danni di Totò. I suoi slogan costruiti sulle assonanze, quegli straordinari giochi di parole che inventava, quei tormentoni di cui si serviva per scatenare la comicità sono stati i ferri del mio mestiere. E poi c'erano i suoi tenerissimi doppi sensi. Il suo «Vitto e alloggio, lavatura e stiratura» detto facendo il gesto di passare un ferro su un asse da stiro, per noi ragazzi di allora era diventato il modo di indicare una signorina che faceva il mestiere, il massimo della trasgressione ipotizzabile, un modo di dire su cui ridere come poi lo sono stati il «Buono, no bbuono» oppure «Non capisco ma m'adeguo», lanciati dalle mie trasmissioni.
Per anni la voce di Totò è stata un po' la colonna sonora delle mie giornate. Come i miei coetanei ascoltavano fino a consumarlo un disco dei Pink Floyd, così io e un mio amico ascoltavamo un «long playing» della Fonit Cetra che raccoglieva alcune scenette celebri di Totò. Totò non era un attore che recitava ma un artista che sapeva far vibrare la voce trasformandola in un canto. E' naturale che il conto aperto che io avevo con lui, prima o poi, volessi saldarlo dedicandogli uno spettacolo. Uno spettacolo che in un momento così difficile per il nostro Paese, con la gente che allarga le braccia colta dalla sfiducia e, se vota, vota per protesta, ha fatto di Totò, senza volerlo, un simbolo unificante. Perchè noi meridionali è vero che abbiamo molti difetti che provocano mali tremendi di cui siamo i primi colpevoli, ma, tra le nostre qualità , abbiamo quell'inclinazione al sorriso che Totò ha saputo incarnare meglio di chiunque altro. Per me lui è stato il più grande, più grande anche di Chaplin. E non mi pare neanche ipotizzabile l'idea di una Italia del Nord privata del gusto per la risata che aveva Totò, così come non si può pensare a un Sud senza la raffinatezza della grande pittura toscana. Sono finalmente entrati gli Anni Novanta e perfino lo spettacolo non può più prescindere da quel che avviene nel mondo. Perciò anche il povero Totò si è trovato, suo malgrado (o suo buon grado non si sa), proprio lui che ha sempre evitato la politica, in un guazzabuglio «politico», senza dubbio più «basso» (come dicono gli intellettuali) dell'arte modesta ma «alta» (sempre come dicono gli intellettuali) che lui ha rappresentato.
Renzo Arbore, «La Stampa», 30 dicembre 1992
La storia della mitica sala di via Viterbo. Negli anni Settanta l’ascesa con la scelta di programmare i film del principe De Curtis. Oggi, pellicole d'alta classe. Al cinema con l’Unità: l’appuntamento è domenica alle 10 davanti al Mignon con una copia del giornale per poter assistere al primo film di una rassegna tutta italiana. Ma vediamola da vicino questa sala che per diversi mesi ospiterà la nostra iniziativa. Retroscena e micro-storie del locale, fondato agli inizi del ‘900, rivivono attraverso i ricordi della signora Paola, fedele cassiera del Mignon da più di trent'anni.
La sala occhieggia su una via laterale dietro piazza Fiume, in una sorta di triangolo delle Bermuda dove i parcheggi ti svaniscono da sotto le ruote. Ma gli aficinados del cinema Mignon non si lasciano intimidire da questi crucci metropolitani e continuano a frequentare con passione le proiezioni doc dell'ex-Salario. [...] Nato come «cinemino», di quelli dove si andava per quaranta centesimi appena, magari sgranocchiando semi e : carrube durante la proiezione. il locale degli lovinelli affrontò un primo maquillage nel '56, adottando il vezzoso nomignolo di «Mignon». E accanto al nuovo look, cambiò anche quello del cartellone, presentando film di «prima visione di zona». «Allora - spiega la signora Paola - esisteva l’anteprima, la prima visione e la prima visione di zona: un tipo di distribuzione che permetteva di sfruttare un film anche per un anno, mentre adesso con il fatto che una pellicola viene proiettata contemporaneamente in più sale, un film viene "bruciato" in brevissimo tempo e poi lo si toglie di circolazione per sempre».
La svolta «ribelle», però, quella che ha dato l'imprinting di sala «speciale» al Mignon è avvenuta negli anni '70 circa, all'alba di una seconda ristrutturazione e dopo qualche anno di programmazione d’essai. «Fu per caso» racconta la signora Paola -, eravamo stati fra i primi a proporre un tipo di cartellone selezionato - assieme al Margherita, che poi è diventato «il Bagaglino», e al Nuova Olimpia, ma il successo arrivò con una decisione secondaria: si trattava di coprire un giorno feriale e un nostro socio scelse una pellicola di Totò». Era Miseria e nobiltà e fu un successo tale che il Mignon continuò per quattro anni a proiettare i film del - principe Antonio De Curtis. Al «cinema di Totò», come venne rapidamente ribattezzata la sala, cominciarono a venire tantissimi giovani, dai 13 ai 30 anni, sostituendo il vecchio pubblico delle famiglie di quartiere. Ci venivano anche molti attori, per imparare i trucchi dell'«irresistibile», come Enrico Montesano, che affilava qui il suo personaggio del gagà, o Paolo Panelli con Bice Valori.
Sull'onda spensierata e felice di Totò, al Mignon non è passata la voglia di crescere: e dell'87 l'accordo stretto dai proprietari del cinema con la Mikado. [...]
Rossella Battisti, «L'Unità», 28 gennaio 1993
Beppe Anderi, «Il Biellese», 5 febbraio 1993
«Gazzetta d'Alba», 2 giugno 1993
Quante volte vi è capitato di ripensare a una scena famosa di qualche film, ma di non ricordare precisamente le battute? Tante, vero? Noi abbiamo pensato a voi, e da oggi cominciamo un'iniziativa «estiva» in vui vi riproporremo i testi di alcuni tra i più famosi sketch della storia del cinema: alcuni già pubblicati, altri trascritti da noi, direttamente dalle videocassette... E ogni sketch sarà commentato: da un umorista, da uno scrittore, da un intellettuale. Oggi tocca a Bruno Gambarotta «chiosare» quello che è forse lo sketch più celebre e più bello di Totò: l'immortale scenetta del wagon-lit, quella dell'onorevole Trombetta (in bocca) che in Totò a colori era interpretata accanto al sommo, da Mario Castellani e Isa Barzizza. Prossimamente su questi schermi - pardon, su queste pagine - brani di Straziami ma di baci saziami, lo sketch di Sordi e del vicecommissario in Accadde al penitenziario, la telefonata fra presidenti nel Dottor Stranamore e altri classici della cultura del '900. Buon agosto.
Ecco a voi il più famoso sketch della storia del teatro leggero italiano, «l'onorevole in vagone letto», con Totò, la sua spalla abituale Mario Castellani e una splendente Isa Barzizza. Come sempre la sua trasposizione sulla carta non è che una pallida orma di quello che accade sulla scena o sullo schermo. Manca un intero armamentario di segni convenzionali per indicare le pause, te intonazioni, le sottolineature, gli appoggi, i falsetti, gli slittamenti. Senza contare le espressioni facciali, la gestualità, le controscene. Tanto è vero che a un certo punto è segnato sul copione un soggetto delle valigie, cosi come nei concerti in forma classica era segnata la cadenza per l'esecutore dello strumento solista. Ma sia pure ridotto a una pallida larva, il testo trasmette ugualmente la sua prorompente comicità. La situazione è classica: un luogo chiuso e degli estranei costretti a una coabitatone forzata. Tanto vero che nelle sue versioni cinematografiche lo sketch è girato tutto di seguito, come un piano sequenza, con un’inquadratura frontale fissa, come girava Chaplin ai tempi del muto.
Il personaggio dell’onorevole è un’invenzione geniale: tronfio, vacuo, un pallone gonfiato che rivendica i suoi privilegi. Quando lo sketch fu scritto e girato per la prima volta, l’onorevole era chiaramente un democristiano, anche se non è detto da nessuna parte, per evitare gli strali della censura L'onorevole Trombetta lo si immagina votato da quella Vandea di pecoroni che poi lo subissa di richieste e di raccomandazioni. Totò, alla notizia che l’onorevole nella vita civile faceva l’ostetrico, osserva che ha fatto bene a farsi eleggere perchè «con le ostriche si deve guadagnanare poco... Perché non si fa una bella cassetta di sigarette americane...», vendicando in tal modo l'Italia oppressa dalla democristianeria imperante. Le costruzioni censorie fanno bene alla comicità. Allo stesso modo, quando più avanti la signora Barzizza li informa che un uomo armato vuole uccidere lei e i suoi occasionali compagni di viaggio, mentre l’onorevole tromboneggia: «Ne voglio fare un'interrogazione alla Camera, parlo domani...». Totò contrappone un: «lo parlo adesso... e senza peli sulla lingua... vi dico che la paura mi frega». E via di questo passo. Rivisitandolo oro, viene la tentazione di attualizzarlo, attribuendo l'onorevole Trombetta al gruppo della Lega Nord. Per cui tutto torna, dal momento che l'onorevole precisa: «Mia sorella da signorina faceva Trombetta, adesso invece mia sorella maritata fa Trombetta in Bocca». E' consolante pensare che la sorella dell'onorevole leghista abbia sposato il fratello di Giorgio Bocca; si spiegherebbe cosi anche il mio appoggio a Formentini. Inutile poi ricordare cosa significa, fin dai tempi delle Malebolge di Dante, «fare trombetta».
Questo sketch dà modo a Totò di disegnare ancora una volta il personaggio di borghese anarchico, scompigliatore dell'ordine stabilito, irrispettoso delle convenzioni linguistiche, finto tonto per non pagare il dazio e fare il cascamorto con le belle signore. «Non cominciamo a fare camorre!», grida al conduttore del Wagon Lit che vuol farlo dormire qui. Mentre la comicità mimica di Totò è straordinaria e complessa, quella verbale è semplice, affidata al gioco dei fraintendimenti e alla ripetizione di un dettaglio avulso dal suo contesto naturale a cui Totò si appiglia come ad un’ancora di salvezza. Un esempio fra i tanti la signora Barzizza irrompe nello scompartimento e chiede ospitalità ai due occupanti perchè un uomo, che lei ha conosciuto a Rapallo, la perseguita e vuole ucciderla. Quest'uomo lei lo ha visto alla stazione e Totò precisa: «a Rapallo!». Poi lei aggiunge che l’uomo l’ha inseguita sul treno e che è armato. E Totò ripete: «a Rapallo!». Attenzione: non si tratta di un puro espediente meccanico per scatenare la risata (alla Drive In, per intenderci); quel Rapallo! rappresenta anche il desiderio assurdo del pauroso Totò che quell'uomo armato non si trovi in stazione e sul treno ma sia rimasto a Rapallo, quel Rapallo che a forza di essere ripetuto fuori dal suo contesto logico diventa pura astrazione. Certo, nessuna analisi, per quanto accanita, riuscirà mal a dare la formula per far ridere; la comicità dopo tutto è sostanzialmente una questione di tempi esatti fino alla frazione di secondo e questo stesso sketch, recitato da altri e con tempi diversi, farebbe a malapena sorridere.
Bruno Gamabrotta, «L'Unità», 5 agosto 1993
Quando Totò si scatenava al «Margherita»
E’ stato un punto di riferimento per generazioni di liguri, simbolo di una città che non c’è più. Genova, ricordi e nostalgie per il teatro che rischia la chiusura
GENOVA.
Era uno dei salotti della città. Era una perla nella collana, ora sbriciolata, di una Genova che, attorno agli Anni 30, forse la fame non riusciva a levarsela del tutto, ma che era più serena e più felice, nonostante non mancassero certi soprusi di marca nera. Era il «Margherita» - che ora i picconi fanno pezzi - nelle cui poltroncine era bello tirar tardi, anche alle 2 di notte. Per esempio l'ora in cui Totò, Macario, Dapporto e le loro bellissime facevano l'ultima passerella. Ora la società è frettolosa, spesso in vivibile.
La vecchia «Bay» ha portato via gli ultimi sprazzi di una goliardia spensierata, che era anche una febee scelta di vita. Serata al «Margherita», compagnia Ricci-Adani, va in scena una commedia di Berstein. Silvio Giovaninetti, critico teatrale e commediografo, dedica quasi interamente il suo articolo ad un gatto che salta il palcoscenico, passando dall'uno all'altro dei palchetti di proscenio. La sera gli attori del «Margherita» si ritrovavano al «Giornale di Genova», e la serata finiva quasi sempre all'alba con le fagiolate di Alfredo, dove è ora la Banca Passadore. Marcello Giorda e Bruno Ziravello levavano le cravatte a tutti e si fingevano venditori, a volte capitava anche il conte Ludovico da Parma, nessuna nobilita e abbonamento al fiasco, capo della claque del «Carlo Felice». Scherzi anche brutali: la moglie di uno noto cronista teatrale fu avvisata per telefono che il marito era al cinema «Augustus» con l'amica. Un putiferio. E così avvenne per un giornalista: era al mare con una bella bruna, arrivò la moglie, appositamente convocata, lui rimase fino a sera inoltrata aggrappato ad una boa davanti alla spiaggia di Prà.
I cosiddetti «viveur» finivano la notte al «Tabarin», sotto la vecchia posta. Capitò una sera al «Giornale di Genova», dopo aver visto lo spettacolo al «Margherita», Arnaldo Mussolini. Al «Giornale di Genova» c'era un portiere, Pompilio, disturbato da un tic che gli faceva fare spallucce. Chiese Arnaldo: «Devo vedere il direttore». Risposta di Pompilio: «Lei, come si chiama?». «Mussolini». «E dove abita?». «Di solito a Milano». «E da Milano, viene proprio a prendermi per il sedere fin qui?». Petrolini capitò al «Giornale di Genova» una notte alle 2, irritato per una critica non benevola ad una sua recita al «Margherita». Aveva un abito scuro, borsalino a cupoletta in testa, una massiccia catena di argento che gli traversava il panciotto. Declamò in redazione: «Ho recitato davanti ai grandi di Russia, mi hanno applaudito negli Stati Uniti e a Londra. Ed ora mi trovo criticato da un giornalista di provincia». Voleva sfidare a duello l'autore dell'articolo, fu dissuaso a stento, finì tutto con un fritto misto di pesce da «Perelli», allora il ristorante più importante di Genova, 30 lire a coperto.
Guido Coppini, «La Stampa», 7 novembre 1993
«Totò, un altro pianeta»
Viaggio nel pianeta Totò, comico da duemila miliardi
NOVITÀ' Scatta su Raiuno il programma in 15 puntate sulla vita dell’attore napoletano campione di incassi. La figlia: «La gente lo amava ma lui soffriva per la critica». E scopriamo che «Malafemmena» non fu scritta per la Pampanini. Lei ribatte: «Non importa, me ne hanno dedicate altre 5»
«Ammesso e non concesso». «Ma mi faccia il piacere». Da qualche giorno vanno in onda pezzetti dei film di Totò e la sua voce, miscelata in un rap ballabile, che «canta» quelle frasi celebri. È la sigla di «Totò, un altro pianeta», da oggi su Raiuno alle 18.40: 15 puntate a 25 anni dalla morte, ideate e condotte da Giancarlo Governi, con la collaborazione della figlia del comico napoletano, Liliana De Curtis.
«Ho la pretesa — ha detto Governi — di fare il punto su vita e carriera del grande comico, alla luce di nuove testimonianze e biografie. Su Totò non è stato ancora detto tutto. Pochi sanno, per esempio, che è stato una delle più fenomenali macchine da botteghino del cinema italiano. Secondo studi recenti, i suoi 96 film hanno incassato una cifra equivalente a 2000 miliardi di oggi. Neanche Sordi ha fatto tanto».
La gente lo seguiva, sì, ma i critici lo consideravano un artista di serie B. Deluso, ossessionato dall'idea di essere presto dimenticato, angosciato dal pensiero di aver fatto film che non valevano niente, negli ultimi giorni della sua vita ripeteva: «Muoio in fallimento». Spiega la figlia Liliana: «Soffriva molto per le critiche negative. A ogni film scrivevano sempre: "È finito, questa è la sua ultima pellicola”. Allora i critici erano snob e i comici non degni di considerazione».
Oggi vedremo, in filmati d’epoca, quanto al contrario il pubblico lo amasse. Fu immensa la partecipazione popolare ai suoi ben tre funerali, uno a Roma, uno a Napoli e un altro sempre a Napoli, qualche settimana dopo, al rione Sanità, per volontà di un guappo suo ammiratore. Dai funerali, come in un flash-back. Governi risale alla nascita (Antonio De Curtis era figlio del marchesino De Curtis e di Anna Clemente), all’infanzia povera, all'adolescenza, fino ai primi passi nel mondo dello spettacolo. Tante le curiosità, qualcuna inedita. Racconta la figlia: «Papà passava ore e ore a osservare i comportamenti della gente, per poi riportarli nei suoi personaggi. Una volta seguì un gagà a Roma da piazza Barberini a via Veneto, studiandone le mosse. Poi lo riprodusse nella famosa rivista con Anna Magnani».
Governi ha utilizzato, oltre che filmati d’epoca e cinegiornali, spezzoni di film e testimonianze. Ha intervistato Liliana De Curtis e, per la prima volta, la moglie Diana Rogliani, dalla quale il comico si separò dopo 20 anni di matrimonio. Pochi lo sanno, ma è per lei e non per Silvana Pampanini che Totò scrisse «Malafemmena». La Pampanini non sembra prendersela. Dice: «Sono stufa di questa storia. La canzone è bella e basta. Per chi è stata scritta non importa. E poi, a me di canzoni ne hanno dedicate almeno 5. Una in più o in meno...».
Ma su questo punto Liliana De Curtis è fermissima: «Papà e mamma erano molto innamorati. Mia madre racconterà il loro primo incontro, la decisione, a 16 anni, di fuggire di casa per andare a vivere con lui, gli anni di dedizione completa. Con me papà era buono ma severo. Non mi lasciava mai uscire e non mi permetteva quasi niente. D’estate, a Capri, fittava sempre una casa dove dal balcone si vedeva la spiaggia, per controllarmi con il cannocchiale». Un papà gelosissimo? «Ma folle d’amore per me».
Senza capire anche i curdi ridono
Totò ha conquistato persino i curdi dell’Irak, che pur non capendo una parola di italiano «impazziscono» per il nostro attore. La neonata tv dei partigiani, i fieri peshmerga, organizzata con pochi mezzi e tanta fantasia, trasmette da oltre due anni film dell'attore partenopeo. Ovviamente i curdi non hanno la possibilità di doppiare le pellicole e allora mandano in onda «La banda degli onesti» o «Totò, Peppino e la malafemmina» così come sono. Ed è un successo. Un giovane architetto curdo, Saman, che ha portato nel Kurdistan 27 ore di videocassette di Totò, confida: «La gente non capisce nulla, ma ride a crepapelle».
Le gag del comico animano, poi, una trasmissione che potremmo definire la versione curda di «Paperissima». Il programma, intitolato Kashkol (lo zaino), va in onda «in prima serata» ed è costituito da spezzoni di film di Totò, delle comiche di Benny Hill e da tiri mancini nei confronti di personaggi locali.
Ma il prìncipe non è l’unico attore italiano a riscuotere le simpatie dei curdi. «Vanno forte anche Franco Franchi e Bud Spencer», assicurano i curdi che non nascondono la speranza di aiuto da parte dell’Italia — e della Rai — per arricchire la cineteca e potenziare le strutture tecnologiche.
Mariolina Iossa, «Corriere della Sera», 12 novembre 1993
Totò si pentì di «Uccellacci e uccellini»
IL CASO Appunti inediti curati dalla figlia Liliana. Ma lo scrittore e la compagna dell’attore dubitano dell’autenticità. «Film impegnato, uccide la mia comicità». Siciliano e la Fàfini: no, di Pasolini era entusiasta
«L'impegno ammazza la comicità», parola di Totò. Per questo l’attore napoletano non si sarebbe piaciuto in «Uccellacci e uccellini», il film di Pasolini uscito nel ’66, poco prima della scomparsa del principe Antonio de Curtis, in arte Totò. Lo si viene a sapere solo ora, in un'appendice al suo diario semiserio del ’51, «Siamo uomini o caporali?», ripubblicato da Newton Compton con alcuni inediti a cura della figlia Liliana. «E’ un ottimo film, ma contiene un messaggio sociale e questo non mi va — si legge a proposito della pellicola di Pasolini nel capitolo «Il Totò pensiero» dove sono stati raccolti da Liliana De Curtis appunti e annotazioni del padre fra il ’55 e il ’67 —. L’impegno ammazza la comicità. Se una battuta ha un doppio o triplo significato perde la spontaneità. Il pubblico per capirla è costretto a riflettere e così non si diverte più».
Totò pentito di aver lavorato con Pasolini? Enzo Siciliano, lo scrittore amico del regista di Casarsa, di cui coltiva la memoria e l’eredità culturale, lo smentisce. «La vita stessa di Totò lo smentisce: continuò a lavorare con Pier Paolo in due piccoli gioielli, "La terra vista dalla luna” nel ’67 e "Che cosa sono le nuvole” uscito nel ’68. In quelle pagine di diario di cui non ero a conoscenza, ci può essere forse come in tutti i diari un momento di verità: è indubbio che un uomo come Totò potesse provare una certa allergia per la tensione intellettuale di Pasolini. Ma si rendeva anche conto che lavorando con lui avrebbe aggiunto spessore alla sua figura d’attore. E non si lasciarono».
Per «Uccellacci e uccellini» Totò vinse il Nastro d’Argento e inviò alla giuria un messaggio di ringraziamento che — si apprende dagli appunti finora sconosciuti — lui definì uno «sberleffo finale» ai suoi severi critici. Il premio viene così commentato: «Il 1966 è un anno storico, una pietra "emiliana” della mia carriera. Il Sindacato dei giornalisti cinematografici, molti dei quali probabilmente sono gli stessi che mi hanno denigrato per anni, mi assegna il Nastro d’Argento. Qualcuno arriva a definirmi un grande attore e io quasi non ci credo. Forse in un caso così clamoroso di pentimento tardivo bisognerebbe dire meglio tardi che mai, ma lasciamo correre».
A lasciar perdere invece gli appunti «segreti» invita Franca Faldini, compagna di Totò dall’inizio degli Anni 50: «Chi stava con lui sempre ero io, sarei al corrente di queste annotazioni. Lui in quegli anni dettò semmai qualche poesia al registratore. È ora di smetterla con questo uso dissennato che si sta facendo di Totò da parte della famiglia con cui peraltro non ho più avuto rapporti. Anche in tv Totò non è altro che è un riempitivo, un sottoprodotto, come è stato considerato sempre dai critici. E invece sarà lui, si è capito, a vincere il tempo».
Quanto alle riserve sulla collaborazione con Pasolini, «basti sapere che si davano del tu, e Antonio non ha mai permesso ad alcuno di trattarlo con confidenza — continua Franca Faldini —. Vinta la prima diffidenza, quel senso di inferiorità che lui nutriva sempre nei confronti della cultura, i loro rapporti furono di grande stima. E da parte di Totò di grande soddisfazione. "Finalmente mi sento compreso", diceva».
Claudia Provvedini, «Corriere della Sera», 10 dicembre 1993
Totò critico verso Pasolini
Inedito su «Uccellacci e uccellini»
Totò fu molto critico con Uccellacci e uccellini. L'impegno sociale di cui il film di Pier Paolo Pasolini era intriso non piacque all’attore napoletano, che lo interpretò assieme a Ninetto Davoli. Lo rivela un inedito iscritto del prìncipe Antonio de Curtis, in arte Totò, che appare nell’appendice al suo diario semiserio Siamo uomini o caporali? (Newton Compton Ed.), che fu stampato nel '51 con una limitata tiratura. La considerazione è pubblicata ora nel volume Il Totò pensiero che raccoglie un insieme di appunti e annotazioni (raccolti dalla figlia Liliana) scritti fra il '55 e il ’67, anno della morte del grande attore «È un ottimo film - scrive Totò riferendosi all’opera di di Pasolini -, ma contiene un messaggio sociale e questo non mi va. L'impegno ammazza la comicità. Se una battuta ha un doppio o triplo significato, perde di spontaneità. Il pubblico per capirla è costretto a riflettere, e cosi non si diverte più».
Ma non è l’unica sorpresa che l'indimenticato interprete de L'oro di Napoli e di Guardie e ladri ci riserva a proposito del film che gli valse il Nastro d’argento. Totò, apprendiamo dai suoi appunti, inviò alla giuria un messaggio di ringraziamento che lui stesso definì uno «sberleffo finale ai suoi giudici così severi». «Il 1966 è un anno storico, una pietra "emiliana” della mia carriera - scriveva ironicamente Totò -. Il sindacato dei giornalisti cinematografici, molti dei quali probabilmente sono gli stessi che mi hanno denigrato per anni, mi assegna il Nastro d’argento. Qualcuno arriva a definirmi un grande attore e io quasi non ci credo. Forse, in un caso cosi clamoroso di pentimento tardivo, bisognerebbe dire meglio tardi che mai... Ma lasciamo correre».
In un altro degli appunti risponde a quanti lo avevano invitato ad abbandonare i panni del guitto per indossare quelli dell’attore impegnato. «Spesso mi sono sentito dire - scriveva - che dovrei fare l'attore drammatico, ma io non sono d'accordo. Rappresento la vita, che è un misto di comicità e di tragedia, e quindi non capisco perchè dovrei convertirmi da un genere all’altro. La vita non si sceglie, si accetta». Severissime anche altre annotazioni. «Nel mio pessimismo professionale influisce certo l'atteggiamento negativo dei critici, che mi hanno sempre stroncato. Non posso fare a meno di notare che questi signori si limitano a distruggere, mentre dovrebbero consigliare per il meglio noi attori. Io rispetto i critici, mentre loro non rispettano me».
E ancora un giudizio inedito: «I critici mi rimproverano perchè, secondo loro, faccio sempre le stesse cose. Non è vero. Sono passato dalla commedia dell'arte alla prosa, dal varietà al cinema, dalla poesia alla musica. Certo, rimango sempre Tolò, perché non sono io a comandare la mia faccia, ma la mia faccia a comandare me». Con amarezza Totò ammetteva poi di aver recitato a volte solo per guadagnare un po’ di soldi. «Ho girato diversi film mediocri, altri che erano veramente brutti, ma dopo tutta la miseria patita in gioventù, non potevo permettermi il lusso di rifiutare le proposte scadenti e restarmene inattivo». E infine rivela di aver avuto un desiderio rimasto nel cassetto: «Il mio sogno è girare un film muto, perchè il vero attore, come il vero innamorato, per esprimersi non ha bisogno di parole. Nessuna tentazione, comunque, di paragonarmi a quel genio di Charlie Chaplin».
«L'Unità», 10 dicembre 1993
Totò «rinnegò» il film «Uccellacci e uccellini»? L'ipotesi potrebbe far stramazzare uno storico del cinema, ed è tanto più sorprendente se pensiamo che, ad avanzarla, fu lo stesso attore in una inedita pagina di diario pubblicata in appendice al volume «Siamo uomini o caporali?», ristampato di recente dalla Newton Compton. Leggiamo: «"Uccellacci e uccellini" di Pier Paolo Pasolini è un ottimo film, ma contiene un messaggio sociale e questo non mi va. L'impegno ammazza la comicità. Se una battuta ha un doppio o triplo significato perde la spontaneità. Il pubblico per capirla è costretto a riflettere e così... non si diverte più».
Sembra il crollo di un monumento. Totò, che pure deve a Pasolini la sua rinascita artistica e a «Uccellacci» il primo Nastro d'argento, pare dunque prendere le distanze dal film. E sembra voler difendere con fierezza la comicità diretta, istintiva, «sporca». Lui che c'entrava con l'umorismo astratto di quel film? E soprattutto: che c'entrava con il «messaggio sociale»?
Giriamo i dubbi di Totò a Ninetto Davoli, che nel '66 gli fu compagno nella lavorazione del film. Ninetto urla: «No, ma no! Non è vero». Eppure è scritto. «Per Totò quel film era una fatica, lo considerava insolito, ma non lo ha mai rinnegato, anzi». E in che consisteva il suo disagio? «Forse non si sentiva abbastanza libero, gli mancava lo spunto per fare il comico come voleva lui. Ma era una sua scelta. Pasolini gli chiedeva sempre di fare Totò, e lui rifiutava. Trattava Pasolini con molto rispetto. Credo che, al di là dei bellissimi risultati, per lui sia stata una grande esperienza. E poi ci divertivamo. Se quel set fosse Totò, un grande del cinema stata una sofferenza, Totò si sarebbe comportato in modo diverso».
Come si comportava? «Scherzava, mi raccontava storielline divertenti». E allora, come considera quell'appunto? «Forse lo ha scritto in un momento di malinconia, prima che cominciasse il film. Certo è che deve molto a "Uccellacci". Per la prima volta fu considerato un grande attore».
Anche la figlia di Totò, Liliana De Curtis, minimizza lo sfogo. «Non va preso alla lettera», dice. Ma è possibile che quella frase sia stata soltanto il frutto di un malumore passeggero? «In parte è giustificata. Mio padre riteneva che, a causa del messaggio politico, la sua comicità ne avrebbe risentito. Quando ricevette il Nastro d'argento pensò per un attimo che i critici lodassero lui per lodare il film. Prima di allora i critici non lo amavano: per loro contavano soltanto i film impegnati. E mio padre ne soffriva». E' così vero che Totò scrisse: «Qualcuno arriva a definirmi un grande attore e io quasi non ci credo. Forse in un caso così clamoroso di pentimento tardivo bisognerebbe dire meglio tardi che mai, ma lasciamo correre».
La signora De Curtis aggiunge che se Totò avesse avuto un dubbio anche minuscolo su Pasolini non avrebbe continuato a lavorare con lui. «Era affascinato da Pasolini, l'unico regista che sia riuscito a dirigerlo. "Uccellacci" non fu un trauma. Totò poteva fare qualunque cosa. Aveva già girato film tragici. Pensiamo a "Guardie e ladri" e a "Dov'è la liberta?". Con Pasolini fece addirittura tre film. E c'era il progetto di farne un quarto. Purtroppo morì prima».
Osvaldo Guerrieri, «La Stampa», 18 dicembre 1993
Sorpresa, Totò con Orson Welles
NOVITÀ’ Raitre propone domani sera «L’uomo, la bestia e la virtù»: uno dei pochissimi mai visti sul video. Prima tv del film congelato nel ’53 dopo le proteste della famiglia Pirandello. Eredi del drammaturgo bloccarono l’opera dopo l'uscita nei cinema: ma non fu un'azione contro il comico. Presto proposta sul piccolo schermo un’altra commedia data per scomparsa.
Un Totò in prima visione televisiva. Raitre propone per la vigilia di Natale, domani alle 20.30, «L’uomo, la bestia e la virtù», uno dei pochissimi film del comico napoletano mai passati sul piccolo schermo. E dove il principe della risata appare in coppia con Orson Welles, Ma è un’inedito a metà. Spezzoni della pellicola sono stati presentati in una puntata di «Totò, un altro pianeta», curato per Raiuno da Giancarlo Governi, e all’inizio di quest’anno è uscita un’edizione home-video.
La pellicola, tratta dalla celebre commedia di Luigi Pirandello, era congelata da quarant'anni. Distribuita nel 1953 per poco tempo (ma riuscì a incassare 258 milioni di allora), venne ritirata dopo un’azione legale degli eredi Pirandello: Ercole Graziadei, il loro avvocato, utilizzò una clausola del contratto, che riservava la possibilità di bocciare il film nel caso non fosse gradito. È potuto tornare in commercio alla fine del 1992, scaduti i diritti dei discendenti, e la Rai lo ha acquistato. La decisione di bloccarlo non fu un attacco contro Totò. Tanto è vero che il principe de Curtis un anno dopo interpretò un altro Pirandello («La patente», episodio diretto da Luigi Zampa in «Questa è la vita») senza che nessuno trovasse nulla da contestare.
Il punto è che la pellicola, interpretata anche da Viviane Romance, venne accompagnata da cattiva fama fin dalla lavorazione: Steno, il regista, non parlava inglese e non si capiva con Welles (che tra l’altro non vedeva l’ora di lasciare il set), la Romance faceva i capricci, Totò non si intendeva né con l’uno né con l’altro. E alcuni critici, stroncando «L'uomo, la bestia e la virtù», biasimarono gli eredi Pirandello per aver concesso la trasposizione.
«Ma quella degli eredi non fu un'azione anti-Totò — spiega Governi —, piuttosto contro lo spirito del film. Nessuno credette mai fino in fondo nella pellicola, che ebbe molti problemi. Solo Totò ci mise l’impegno di sempre. E anche per questo è da vedere: non so perché la Rai abbia atteso un anno prima di mandarlo in onda».
E realizzato a colori, ma sul video va in onda una copia in bianco e nero, l’unica a essersi salvata. Totò, assieme a Steno, volle essere tra i pionieri del colore (in questo caso del sistema Gevacolor) e secondo alcuni i suoi problemi alla vista peggiorarono proprio dopo le riprese di questi film che allora richiedevano un’illuminazione molto forte sul set.
Presto Raitre presenterà «Sette ore di guai», altro Totò mai arrivato in Tv e tratto nel 1951 da una commedia di Eduardo Scarpetta. Governi dice: «Anche questo negativo, per motivi misteriosi, era andato scomparso e nessuno l’ha più visto. Qualche tempo fa mi venne offerto da una società, ma dopo 15 giorni dovettero ammettere che il film non si trovava. Ora è tornato davvero».
«Corriere della Sera», 23 dicembre 1993
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Il padre di famiglia. Regia di Nanni Loy, con Leslie Caron, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi. Domenica ore 10.00 al cinema Mignon.
I film natalizi hanno invaso tutti gli schermi della città e «l'Unità», riprendendo dopo le feste la sua iniziativa domenicale, propone un titolo del '67 ormai dimenticato. Il padre di famiglia venne presentato alla Mostra di Venezia e fu accolto calorosamente dal pubblico. La critica, invece, lo considerò un buon prodotto incapace però di sviluppare tutte le sue premesse. Manfredi è un padre di famiglia, un architetto socialista che ha tenacemente combattuto contro la speculazione edilizia. Leslic Carol è sua moglie, anche lei è un architetto idealista e di sinistra che ha però rinunciato alla carriera per seguire i figli. I due hanno infatti quattro ragazzini pestiferi, diseducati con il metodo Montessori.
Gli equilibri familiari si incrinano quando il padre decide di mettere da parte i suoi bei progetti per cercare di assicurarsi un po' di benessere. Sentendosi tradita dal suo compagno, la donna cerca di ricordargli il loro passato e di metterio difronte alla sua coscienza in un commovente chiarimento finale. La parte di Ugo Tognazzi doveva essere interpretata da Totò, ma l’attore mori dopo aver girato una sola scena.
«L'Unità», 7 gennaio 1994
Totò, il clown per tutte le stagioni
SECONDA VISIONE - La rivalutazione dei brutti film è snob, dice D’Amico. Replica Monicelli: «Era un genio comunque». Il regista di «Guardie e ladri» ha un rimpianto: «Non capii la sua vena surreale, il Buster Keaton che era in lui». Enrico Montesano accusa: «Chi parla male del suo cinema dimentica le responsabilità dei produttori, veri palazzinari della pellicola». E Isa Barzizza ricorda: «Per me recitare con lui era come seguire un corso all'Accademia»
Anche per Totò gli esami non sono ancora finiti e non finiranno mai. Accusato e poi esaltato come attore «di culto» (che bei giochi di parole ci avrebbe fatto su questo termine!), snobbato dalle recensioni dei «vice» e poi mitizzato dai titolari, scartato dalla Storia dell'Arte e poi riammesso soprattutto grazie alla riscoperta di Goffredo Fofi e di Franca Faldini, è stato comunque l’«affare»» del cinema italiano dei ’50, quando le sale staccavano ogni anno 8(X) milioni di biglietti (e non 90 scarsi come oggi).
Allora gli spettatori erano freschi del ricordo del favoloso Totò rivistaiolo, quando faceva correre la compagnia in passerella, per i ringraziamenti finali, alla bersagliera e mandava in visibilio le platee con lo sketch del vagone letto. Un classico, che infatti venne inserito in Totò a colori, il primo film italiano a colori uscito nel 1951.
Passarono gli anni e il teatro gli diventò troppo faticoso: ci riprovò nel '56. l'ultima volta, con A prescindere. Poi fu solo cinema. Già, ma proprio sul Totò degli schermi verte la discussione: ieri, su queste pagine, il regista Luigi Fiippo D'Amico scriveva che il principe Antonio De Curtis, supremo comico sulle scene di teatro, fu invece impiegato in film mediocri o addirittura brutti. Che poi sono stati rivalutati come capolavori, a parziale compensazione di antichi torti critici, ma che a giudizio di D’Amico restano solo brutti.
«E' tutto vero — dice Mario Monicelli, uno dei pochi registi che l'ha preso sul serio rendendolo immortale nei Soliti ignoti —. Totò era guardato con sufficienza dai registi di valore e dai critici, ed era quindi costretto a quel cinema di serie B che oggi gli si rimprovera, l'unico che capì tutto in anticipo fu Pasolini, con Uccellacci e uccellini. Pier Paolo aveva intuito le sue qualità e la sua statura di comico astratto. pari a mio parere a quella di Keaton e di Chaplin. Un’eccezione, comunque; i film di Totò, normalmente, erano di seconda scelta, girati in fretta, improvvisati come una commediaccia dell’arte, ma destinati sempre a strepitosi incassi. Ecco, questo dato non va dimenticato: i produttori con Totò andavano sul sicuro».
E lei, invece, come lo usò? «Lo confesso, lo impiegai in un modo molto tradizionale. Rimpiango di non aver intuito il suo lato surreale, che pure egli mi aveva gentilmente indicato. ma senza insistere, com’era nel suo carattere. Certo, in Totò e Carolina e poi nei Soliti ignoti io l’ho inserito in una storia, gli ho creato addosso dei personaggi su misura, che avessero qualcosa da dire e non fossero solo macchiette. Però, ripeto, non credetti alla sua vena di stravaganza».
Totò amato dalle grandi platee, eppure sgradito alla censura del dopoguerra. Cosa ricorda Monicelli? «Due miei film con lui, Guardie e ladri e Totò e Carolina, ebbero un mare di problemi. Nel primo, anno 1951, i signori censori trovarono inammissibile che un ladro e una guardia (Totò e Fabrizi) finissero per allearsi e far comunella nell'Italia poveraccia di allora. Meno male che il premio alla sceneggiatura, al Festival di Cannes, ci diede un aiuto e una garanzia. Nel secondo film (1953), poi, c’era di peggio: Totò, questurino in un paese bigotto, deve rimpatriare una ragazza. Anna Maria Ferrero, scappata di casa e incinta; il parroco se ne lava le mani, gli unici a dargli una mano sono i comunisti. E così scoppiò la bomba: aiuto, sembrava che fossero arrivati i cosacchi in piazza San Pietro. Tagli ai dialoghi, via certe battute, al bando l’Internazionale nella colonna sonora, guai a vedere una bandiera rossa anche nel bianco e nero della pellicola. Fu una vera, forte, organizzata censura politica, manovrata dagli stessi che comandavano sotto il fascismo».
E Totò che diceva di queste censure? «Partecipava solo di riflesso alla cosa, quelli erano soprattutto guai miei e della produzione, anche perché lui era socialmente superiore, era il principe de Curtis, erede degli imperatori di Bisanzio, e gli andavano strette sia la destra sia la sinistra».
Enrico Montesano, l’attore che imita spesso Totò con affettuoso perfezionismo (gli voleva dedicare addirittura un intero musical partendo dalla sua celebre bombetta) dice con rimpianto: «Io purtroppo in teatro non l’ho mai visto, e non ho avuto nemmeno l’occasione di conoscerlo di persona. Però — e parlo al presente storico — per me è uno straordinario attore che conservo nel cuore».
Sì, ma che cosa pensa dei suoi film? «Il problema è che anche nel cinema ci sono i cineasti e i cinematografari, come nell’edilizia ci sono i costruttori e i palazzinari. E Totò ha lavorato purtroppo — salvo poche eccezioni — con i cinematografari, che l’hanno sfruttato fino all’ultimo. Un grande talento consumato biecamente. Tanto sapevano che lui era simpatico. popolare, risolveva ogni situazione e non creava problemi...».
«Io l’ho ammirato in rivista e anche in avanspettacolo — conferma Monicelli — e ho in proposito memorie grandiose. In teatro Totò era diverso, possedeva una violenza comica irresistibile perché la reazione, il respiro del pubblico in platea gli davano la forza. Sullo schermo il discorso era diverso, però per me rimane grande comunque, nonostante l’approssimazione di un certo cinema: doveva forse essere riconosciuto in tempo. non dopo la morte».
Una carriera fra miseria e nobiltà. Sentiamo la testimonianza di Isa Barzizza, la sua soubrette preferita. partner insostituibile di molte riviste, bellissima attrice che fece con lui una decina di film: «Anch’io, quelle pellicole, non le ricordo certo come opere d’arte e credo che molto del cinema che facevamo allora potremmo tranquillamente dimenticarlo, anche se allora ero molto giovane, poco consapevole, interessata ad altro che a fare la storia. Ma di una cosa sono certa: anche a Totò di quei film improvvisati e arrangiati in pochi giorni, senza sceneggiatura, non gli importava proprio niente. Diciamolo chiaro, lui li prendeva sottogamba, erano solo routine; per quelle pellicole lo pagavano anche bene, però lui le considerava robetta. Spesso non conosceva la trama e non sapeva nemmeno come andasse a finire. Per fortuna sapeva improvvisare da maestro e salvava così qualunque situazione. Ma sicuro che fu uno sfruttato! Pochi intuirono il suo genio e lo misero a fuoco, lo lo conobbi proprio nel primo dopoguerra quando ricominciò con I due orfanelli a fare cinema e senza la sicurezza del successo, perché i suoi primi film non erano stati dei successi al botteghino, e infatti si era poi dedicato esclusivamente al teatro».
La Barzizza, figlia d’arte (il padre, Pippo, è il grande musicista), lo raggiunse in punta di piedi in teatro quando lei era agli esordi, bellissima e titubante di fare la passerella magari vestita solo con tre foglioline e qualche paillettes: «Ho recitato con lui e con la sua "spalla" Mario Castellani, per centinaia di sere, il famoso sketch del vagone letto, dove buttava le valigie dalla finestra e farfugliava la gag dell’onorevole Trombetta. Per me è stato come fare l’Accademia, perché quella scenetta, nata così per caso, si allargò a dismisura per le reazioni di un pubblico sempre più esilarato: all'ultima replica era ormai irriconoscibile. E’ vero: in teatro Totò era grande perché recitava senza gli stacchi cui obbliga il cinema, in una sana continuità comica. E poi perché sapeva percepire ogni desiderio del pubblico, anticipava le sue reazioni, ne ascoltava il respiro».
Sì, però, i suoi film? Brutti senza rimedio o no? E la rivalutazione un po’ snob che ne è stata fatta regge ancora? L’ultima risposta a Monicelli: «Il gioco dello snobismo è arrivato tardi. Se qualcuno, nel cinema, se ne fosse accorto prima... Il rischio delle rivalutazioni, comunque, non è l'enfasi con cui si parla ancora oggi di Totò: è che si vadano a pescare nomi e personaggi francamente improponibili...».
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 27 marzo 1994
Franca Faldini: una «meticcia» protesta
Rigurgiti neonazisti
Se già la realtà italiana di questo ultimo periodo mi sembrava eccessiva per le nuove antifone di fascismo smentite alla leggera che racchiude, la parata dei naziskin a Vicenza e ancor più il fatto che questa fosse autorizzata da un questore hanno accresciuto quella sensazione.
Sono «di padre ebreo e di madre ariana», tanto per usare la forbita terminologia in auge negli anni di Mussolini. Appartengo quindi, e con orgoglio, alla categorie di persone che, dal 1938 e fino al termine della guerra, per volere del Re e del Duce furono definite «meticce» o «mezzosangue» perché figlie di matrimoni «misti». Ho accennato a queste vicende personali da me già raccontare un paio di anni fa nel libro «Insieme nel buio» perché, avendo patito il fascismo in più di un modo, guardo indignata a quanto sta accadendo: e mentre come cittadina chiedo al presidente Berlusconi se è questo il tipo di garanzie che egli ha promesso a quella parte di popolazione che dubita della sua politica, mi domando se lo sdegno, quello che leva la voce come una marea impetuosa, non fa più parte della natura di noi italiani.
Franca Faldini, «Corriere della Sera», 17 maggio 1994
«Lei mi dice: devi cacciare questo. E io lo caccio...». «Maresciallo, la prego passarsi una mano sulla coscienza». «La fattura? Venga nel mio uffizio. Se non la trovo, pazienza. Vorrà dire che trovo qualche cosa che la fa contenta lo stesso...». «Ha mai provato queste supposte per il raffreddore? Prenda maresciallo, prenda pure senza complimenti...». «Ogni uomo è onesto pubblicamente. Ma in privato bisogna procedere per sondaggi...».
I rapporti di ordinaria corruzione tra un imprenditore e un finanziere possono anche far ridere, a patto che il concupito abbia la facciona pasciuta di Aldo Fabrizi e il corruttore la maschera inconfondibile di Totò. La storia la raccontava 35 anni fa il regista Steno, nel film I tartassati. Un'Italia diversa: dove le diecimila lire erano grandi come lenzuola e i sogni piccoli come la Vespa, il frigorifero o il televisore. Un'Italia dove le tasse da evadere (o da pagare) avevano nomi da archeologia del fisco, parole ormai estinte come «Ige» o «ricchezza mobile». Dove, soprattutto, i finanzieri erano incorruttibili al punto da non lasciarsi offrire neppure un caffè o una telefonata a casa.
Il film comincia così, con una dichiarazione che potrebbe essere portata pari pari alle cronache di oggi: «L'Italia è il Paese del sole, dei monumenti e dei palazzi, in ogni città c'è qualche palazzo famoso, che i turisti da ogni parte del mondo vengono a vedere. Ma in ogni città c'è anche un palazzo che nessuno vorrebbe vedere: il palazzo delle tasse». Anche la storia e i personaggi sono senza tempo: il cavalier Pezzella (Totò), commerciante in vestiti, cerca con la complicità del consulente fiscale Curto (Louis De Funès) di «convincere» il maresciallo Topponi (Fabrizi) a chiudere un occhio su una evasione fiscale da 15 milioni. Persino i dialoghi potrebbero essere stati scritti ieri. Ad esempio quando il negoziante e il maresciallo discutono di politica: «Lei mi ricorda i tempi della buonanima...», dice Fabrizi. «Quelli sì che erano tempi, caro maresciallo: tempi che non tornano più...». «Quali tempi, scusi?». «Maresciallo, siamo uomini o bambini? I tempi che: "Italianiii!"». «Vuole spiegarsi meglio? Non ho afferrato...». «Ha afferrato, ha afferrato. Maresciallo, lei è nostalgico. Nostalgico come me». «Guardi che lei si sbaglia. Io intendevo la buonanima di mia nonna». «Allora lei è "anti". Anti come me. Ho detto nostalgico? Mi è scappato...». «Ma lei come la pensa?». «O bella, io la penso come la pensa lei. E poi è ora di finirla: siamo o non siamo tutti italiani?».
L'aspirante corruttore gioca tutte le sue carte: comincia con un invito a pranzo che si infrange contro un gelido «Mi creda, non è il caso». Poi viene a sapere che la moglie del finanziere va pazza per un nuovo elettrodomestico chiamato tv. «E allora compriamogli un televisore. Da quindici, trenta quaranta pollici. Compriamogli tutti i pollici che esistono». Si informa sui gusti della signora e le manda un buono sconto del 75 per cento sui suoi vestiti. Salvo poi essere costretto dall'inflessibile maresciallo ad estendere i saldi all'intera clientela. Le regala persino un enorme frigorifero, prima di accorgersi di aver sbagliato indirizzo e di aver foraggiato un'ignara parente del finanziere. Alla fine, prima di pentirsi, Totò ricorre perfino alla rapina, rubando al povero Fabrizi una borsa di documenti e portandolo sull'orlo del suicidio. In chiusura, dopo il lieto fine, i titoli di coda: «Fatti e personaggi del film», naturalmente, «sono immaginari».
Guido Tiberga, «La Stampa», 27 luglio 1994