TOTO' E LA CENSURA
Indice
Forse non tutti sanno che quasi tutta la produzione cinematografica a cui ha partecipato Totò fu presa di mira e regolarmente falcidiata nei suoi "scabrosissimi" contenuti dalla famigerata censura cinematografica di regime prima, cattolico-democristiana poi. In poche occasioni furono tagliate scene osè con ragazze in abiti non appropriati, talvolta fu tagliato il linguaggio dello stesso comico, ritenuto forse un pò sopra le righe, oppure volgare ma questa vera e propria persecuzione va ricercata altrove: il popolarissimo Totò destabilizzava il sistema socio-politico-religioso, toccava temi sensibilissimi per quell'epoca così complicata sotto il profilo della libertà d'espressione. Lo Stato, la politica, la magistratura, le forze armate, la chiesa erano argomenti tabù ed era impensabile che un attore comico toccasse certi temi senza subire conseguenze.
La censura si era resa conto che Totò non faceva cose oscene ma era intimamente osceno, che la gente poteva anche non comprendere cos'erano quel collo che si allungava e quegli occhi orgiastici, ma rischiava per un attimo di intravedere il fuoco delle passioni, lo scandalo di contraddizioni non sanabili, il gorgoglìo della grande risata che minacciava di scoppiare seppellendo qualunque tipo di potere.
Alberto Anile
D.: Lei ha registrato per la TV una serie di dieci trasmissioni, ma da tempo non le mandano in onda: non potrebbe essere un ritardo causato dalla censura?
R.: «La censura televisiva è terribile: abbiamo tolto qualche cosa, qualche battuta un po’ forte; abbiamo aggiunto qualche altra... potabile...»
D.: Lei pensa che tutto quello che censurano sia censurabile?
R.: «No. Ma lì vi sono dodici funzionari; ognuno trova qualcosa da ridire e allora vengono censurate anche dieci o dodici cose per volta».
D.: Ma che cosa viene censurato?
R.: «Alla televisione censurano delle cose che non c’entrano affatto con la censura! Io, per esempio, facevo uno starnuto in mano alla mia «spalla»; questo ha disturbato uno dei funzionari. Questo non dovrebbe essere censurabile perché poi vediamo alla televisione stessa, in un altro sketch con altri attori, che c’è uno che sputa nell’occhio ad un altro. Beh? Lo starnuto era finto mentre lo sputo è vero!... C’è il liquido!».
La censura ed il suo sistema: le origini
L’arte col bollino: quando il comico doveva far ridere anche il censore
Nel 1931, sotto il sole abbagliante del regime fascista, nasce l’ufficio della censura teatrale preventiva. Un’idea così brillante da non venire direttamente dal Duce – no, lui si limita ad annuire con aria paterna – bensì dagli stessi teatranti. Esatto, furono gli attori a chiederla, come chi si fa da solo il nodo scorsoio per poi lamentarsi che stringe troppo. Il motivo? Prima dovevano bussare a ogni prefettura del regno per ottenere il nulla osta. Un’odissea logistica degna di Ulisse: treni, valigie, copioni dattiloscritti da portare in triplice copia e la minaccia costante della carta bollata. Insomma, sembrava di organizzare un colpo di Stato solo per mettere in scena una farsa.
La soluzione? Centralizzare tutto a Roma. Geniale. E infatti nasce l’Ufficio Censura, con a capo il prefetto Leopoldo Zurlo: colto, celibe, molisano, per nulla un fanatico fascista – ma nemmeno uno che dicesse molti "no" al regime. Il suo lavoro? Leggere copioni, apporre timbri, segnalare tagli con la matita rossa, correggere battute colla penna blu, e magari – se si sentiva ispirato – lasciare qualche appunto personale sul perché una battuta fosse "inopportuna", "scabrosa", o semplicemente troppo intelligente per il pubblico medio (che per il regime, doveva restare mediamente decerebrato).
I testi dei drammi borghesi erano eleganti, scritti su carta robusta, con margini larghi e respiro da tragedia greca. Quelli dei comici? Sembravano la copia carbone di un bollettino post-bellico: scritti fittissimi, su fogli trasparenti, spesso color verde acqua – una scelta più estetica che economica, visto che la carta costava, e i comici avevano le tasche bucate da sempre.
Il sistema funzionava a meraviglia… per chi voleva affossare la libertà espressiva. Gli attori dovevano portarsi il copione vistato ad ogni replica, pronto per eventuali blitz dei censori in platea. Niente spiegazioni in caso di rifiuto: un "Respinto" secco, che neanche alla dogana. Ma almeno – e qui l'ironia si fa amara – Mussolini aveva fatto un favore agli artisti. Centralizzando la censura, li aveva esonerati dalla fatica di fare avanti e indietro tra mille prefetture. Così potevano concentrarsi su altro, tipo… autocensurarsi preventivamente.
Morale? Anche la repressione, se ben organizzata, può avere un tocco di efficienza italiana. E chi meglio di un gruppo di teatranti poteva offrirsi volontario per il primo atto? A scena aperta, naturalmente.
Totò sotto censura: quando ridere faceva paura allo Stato
Totò è un volto popolare del cinema italiano. Chi vuol ridere, chi vuol passare una serata leggera, evadere dalle noie e dai grattacapi della vita quotidiana, non si lascia sfuggire, quando può, l’occasione di vedere un film che ha per protagonista il bonario principe-attore. Un attore che non è solo popolare, ma anche innocuo. Eppure, anche lui, Totò, è stato tagliuzzato dalle forbici d’oro del censore. Una volta, anzi, l’attore riuscì a far indignare perfino i commissari addetti alla visione preventiva dei nuovi film. Fu in Totò e Carolina, quando volle fare il protettore d'una povera ragazza di provincia capitata a Roma come tante altre. Durante una retata al Pincio, il celerino Totò arresta Carolina, una servetta che sera avvelenata per una disavventura d’amore. Il poliziotto l’aveva scambiata per una di «quelle», e sera trovato così in un bel pasticcio : il commissario, accortosi del grossolano errore, gli ordina d’accompagnarla al paese d’origine e lì, poiché la ragazza non ha parenti, diffidarla a qualcuno.
In questo viaggio, l’agente passa attraverso peripezie ora comiche ora patetiche. Al paese nessuno vuol saperne di Carolina; né il prete, che cerca tuttavia di aiutarla in qualche modo senza riuscire però a sistemarla; né i comunisti, né nessun altro. Così, chi finisce per compiere un’azione positiva, di comprensione e solidarietà umana, è proprio Totò, il celerino. Era partito col preconcetto che Carolina fosse, se non proprio una delinquente, almeno una ragazza perduta, e che la gente appartiene, in genere, alla categoria di chi sta in galera o c'è stata, o all’altra di chi in carcere ci andrà prima o poi; ma a poco a poco si ricrede, s’accorge che Carolina non è altro che una ragazza semplice e onesta, che ha sbagliato, in fondo, non proprio per colpa sua, e non volendola abbandonare, ora che nessuno l’ha accolta, finisce per portarsela a casa, dove lui vive, dopo la morte della moglie, col vecchio padre e il figlio ancora ragazzetto.
Un film senza pretese, dunque, senza problemi né piccoli né grossi, un quadretto di vita contemporanea, in cui, anche se ci sono i giovani dell’Azione Cattolica che cantano « Biancofiore » e i comunisti che cantano « Bandiera rossa », tutto si svolge bonariamente, in una ordinata e discreta caricatura di cose e di uomini che muove spesso al riso. Lo riconosce lo stesso Monicelli, il regista : «È un filmetto cordiale, intessuto di episodi che capitano, pungente qua e là; appartiene a quel genere di comicità che non si affida unicamente ai lazzi e ai giochi di parole, ma che cerca di riallacciarsi per qualche verso alla realtà, senza per questo affrontare, e tanto meno esaurire, nessun problema di fondo».
Un film, in sostanza, che presenta allo spettatore il ritratto di un agente di polizia umano, attraverso il quale, come fa notare Monicelli, è « tutto il corpo degli agenti dell’ordine che diventa simpatico». Ma non fu questo il parere della commissione di prima istanza per la « visione preventiva ». I commissari, concordi, bocciarono il film negandogli il nulla-osta per la proiezione: Totò e Carolina era « un oltraggio alle forze di polizia, un’offesa al pudore e alla religione ».
Mario Monicelli si mise allora a lavorare di forbici, e tagliò duecento metri di pellicola, poi presentò il film alla commissione d’appello, presieduta dal sottosegretario Ermini. Ma anche stavolta, dopo mesi d’attesa, il visto fu rifiutato: Totò e Carolina offendeva, adesso, non più la religione, ma «la morale, la pubblica decenza e le forze di polizia».
Anche in altri film Totò non è piaciuto ai censori: tagli furono imposti, per esempio, a Guardie e ladri, di Steno e Monicelli, e addirittura di un terzo fu tagliato Totò e i re di Roma, degli stessi registi. Da questa pellicola furono tolte le avventure di Totò in paradiso.
Altre «offese alla polizia» furono eliminate da un film di Luigi Zampa, L’Onorevole Angelina, si dovettero sopprimere molte scene e battute che riguardavano il marito della protagonista, un agente di pubblica sicurezza, perché gli spettatori avrebbero riso di cosmi, e quindi, sia pure indirettamente, secondo i commissari, anche di tutto il corpo delle «forze dell’ordine».
Se sarà chiaramente indicato quali film sono leciti per tutti, quali per i giovani, quali per gli adulti, e quali dannosi o positivamente cattivi, ciascuno potrà facilmente scegliere gli spettacoli, dai quali uscirà più lieto, più libero e nell'intimo migliore, ed evitare quelli che potrebbero portare danno alla sua anima, danno aggravato dalla responsabilità di favorire finanziariamente le cattive produzioni e dallo scandalo dato con la sua presenza.
Pio XII, dall'enciclica Miranda Prorsus
Così la stampa dell'epoca
Totò e la censura: da quella di regime a quella democratico-cristiana
Totò poliziotto non piace a poliziotti
Con Macario e Totò i fascisti ridevano verde
Totò e Carolina: due disavventure per Steno e Monicelli
Monicelli: la sera cantavamo con Totò
La tardiva RIscoperta di Totò
Totò e la vera storia della commedia all'italiana
Totò trenta anni dopo: la rassegna stampa
Totò, Carolina e la censura: «Quello sbirro è uno scandalo!»
Totò, il governo e le forbici della censura
Presentazione del libro di Alberto Anile «Totò proibito»
La guerra sulla gente che voleva ridere - Totò ricercato dai tedeschi
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Censura e morale: raccolta di articoli di stampa
Censurati d'Italia
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Galileo fa ancora paura
«Vietato ai minori»: moralismo e sesso nel mirino dei censori
Costituzione, articolo 21
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Censura che vai fotogrammi che non trovi
Censura e magistratura
Paura a Cinecittà
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Circoli e censura
Con 12 teste in scena la censura preventiva
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Alla censura è vietata l'intelligenza?
Il diavolo nel cinematografo
Le «forbici d'oro» della censura in quindici anni di cinema italiano
Il comune senso del censore. Cinema, teatro e morale
Cinema e cattolicesimo - Vigilanti cura lettera enciclica di Pio XI
Cinema e cattolicesimo - La Chiesa e il cinema
Cinema e cattolicesimo - Moralità e spettacolo
Cinema e cattolicesimo - Prospettive del film cattolico
Cinema e cattolicesimo - Cinema e Catechismo
Leopoldo Zurlo, il censore, la censura e il sesso
Cinema e Cattolicesimo - La censura cinematografica
Me ne frego! Il grande Totò e la censura del regime
70 anni fa l’Italia tornava ad essere libera. Abbattuto dagli eserciti alleati e dai partigiani, il fascismo crollava definitivamente. Con la morte di Mussolini calava il sipario su una dittatura che, per vent’anni, aveva governato l’Italia. History ricorda quegli avvenimenti proponendo il 25 aprile alcuni documentari in prima visione assoluta, tra cui alle 21.00 “Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana”.
Mussolini voleva rivoluzionare il nostro Paese. Ma non si accontentava di bonificare le paludi pontine. Aveva un progetto più ambizioso: puntava a cambiare radicalmente l’italiano nel modo di pensare, comportarsi, scrivere e parlare.
“Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana” è il documentario che ricostruisce il tentativo di bonifica della lingua italiana, che coinvolse ogni aspetto della vita degli italiani: dall’istruzione agli affari al tempo libero.
Libro di testo unico per tutte le scuole, grammatiche e dizionari, una versione aggiornata del vocabolario ufficiale della lingua italiana, programmi radiofonici per insegnare il corretto utilizzo dell’italiano: questi furono alcuni degli strumenti messi in campo dal regime, che si impegnò in una lotta senza quartiere contro il dialetto e le parole straniere. L’obiettivo era chiaro: difendere “la purezza dell’idioma patrio”.
Il fascismo vietò quindi l’uso dei dialetti nella stampa, nella letteratura e nel teatro, arrivando addirittura a cambiare a nomi a migliaia di comuni (Monteleone Calabro venne ribattezzato Vibo Valentia). Impose che le parole straniere non apparissero più nelle pubblicità e che i film stranieri fossero doppiati da personale qualificato. Rinominò Il Touring Club italiano in Consociazione turistica italiana. Introdusse numerose italianizzazioni: the diventò tè, check assegno, bunker fossa di sabbia, dribbling calceggio, bagarre affollo. E nel 1938 proibì il Lei non solo per motivi antiborghesi ma anche per una presunta origine spagnola.
Hystory Channel Italia
Il «pagliaccio di Totò» contro il regime
Intercettazione telefonica tra Mussolini e Leopoldo Zurlo, capo Ufficio censura del regime.
Mussolini: Zurlo, ho davanti a me un mucchio d’intercettazioni, nonché «veline rosa» del Partito, le quali commentano in maniera esilarante delle battute di quel pagliaccio di Totò, in una rivista al Quattro Fontane. Poi sottolineano l’inopportunità delle battute stesse, che prendono inequivocabilmente in giro l’operato del massimo organo del regime, che quelle disposizioni ha emanato!
Zurlo: Duce, ho capito l’inopportunità delle battute stesse, ed ho sotto gli occhi l’originale del copione, al quale ho dato, personalmente, il visto, dopo averlo esaminato.
Mussolini:E allora?
Zurlo: Evidentemente si è esagerato...
Mussolini: Non ci sono dubbi sul riferimento!
Zurlo: Esatto, ma bisogna tener conto che un teatro di rivista non è certamente la direzione del PNF. La satira, quando è fatta con intelligenza e contenuta nei giusti limiti, non può e non deve considerarsi offensiva; e ciò proprio in base alle intelligenti e spregiudicate direttive impartitemi personalmente dall’E.V.
Mussolini (con evidente orgoglio): Questo è vero: sono stato proprio io a dirvi di essere, in un certo senso, di manica larga quindi...
Zurlo: Appunto, Duce. Io pensavo a quelle parole quando, dopo gli opportuni tagli, mi son deciso a concedere il visto. Poi vi assicuro che, se leggeste il copione, ridereste anche Voi...
Mussolini: Ma a Palazzo Littorio la pensano diversamente...
Zurlo: Le battute erano due, la prima diceva: «Se tornasse Galivoi...», «Galivoi?...», a cui Totò rispondeva: «Sì, il “lei” è abolito». L’altra riguardava il cambiamento della moneta rumena da lei in voi [...] (ridono)... e poi, non bisogna ignorare i commenti al provvedimento. Solo in tale maniera potevo dare la sensazione di non essere sempre con il fucile spianato.
Mussolini: E' giusto.
Incontri ravvicinati con Totò e la censura degli anni 50
Ah, Venezia! La Mostra d'Arte Cinematografica del 1959 si preannunciava come una passerella di stelle, registi acclamati e, ovviamente, l'alta critica cinematografica. Ma il 7 settembre di quell'anno, il destino aveva in serbo un colpo di scena degno del miglior film drammatico (o forse di una commedia all'italiana, dato il contesto).
La giuria, presieduta dal severo critico Luigi Chiarini, si trovò di fronte a un dilemma corneliano: premiare un solo film era impossibile. Da un lato, "Il generale Della Rovere", un'opera che vedeva l'inedita collaborazione tra il maestro del neorealismo Rossellini e l'attore simbolo Vittorio De Sica. Dall'altro, "La grande guerra", diretto da Mario Monicelli, un regista che stava già dando filo da torcere ai "grandi" con la sua irriverente commedia all'italiana.
La soluzione? Un ex-equo che fece tremare le poltrone del Lido. Una decisione che, oltre a premiare due film, segnò un passaggio di testimone tra generazioni di cineasti e sdoganò un tema scottante come la Prima Guerra Mondiale. Ebbene sì, fino a quel momento, il cinema italiano aveva stranamente evitato di raccontare le gesta (e le disfatte) del conflitto, segno di una censura più silente di un mimo.
Ma torniamo a Monicelli, il regista che amava stuzzicare il potere. Già negli anni '50, quando lavorava con Steno, aveva imparato a conoscere il dolce sapore della censura. Nel 1951, diresse "Totò e i re di Roma", un film in cui il grande Totò incontrava la letteratura russa di Cechov, dipingendo un quadro impietoso della miseria del dopoguerra italiano. Un'immagine così cruda da far tremare i burocrati della Commissione interministeriale per la ricostruzione, che in un documento ufficiale si lasciarono scappare un allarmante "abbassamento del tenore di vita a livelli tali da far temere per l'esistenza stessa del popolo italiano".
Monicelli, però, non era nuovo a questi "inconvenienti". Già negli anni '30, la rivista "Camminare...", da lui co-diretta con Lattuada, era finita nel mirino del Ministero della Cultura Popolare per non essere abbastanza allineata con il regime fascista. Insomma, una lunga storia d'amore (e odio) tra il cinema italiano e chi aveva il potere di tagliare, censurare e, perché no, anche premiare.
Senta un po’ questo caso curioso: un nostro quadro che aveva molto successo si intitolava "Il paese dei balocchi". A un certo punto Totò e io ci scambiavamo due battute: «Ah, quello li ha la testa di legno ! » «Benissimo ! Vuol dire che lo faremo ministro ! » La gente scoppiava a ridere e magari pensava a qualche ministro fascista che non aveva fama di essere troppo intelligente. La censura, tuttavia, non ci disse mai niente. Ma un giorno arrivarono gli alleati a Roma e ci portarono la libertà. Naturalmente, ripresentammo il quadro, e sempre con l’identico successo. Ma ci andò male con la censura democratica: infatti il quadro ci fu proibito dopo la prima rappresentazione.
Mario Castellani
Ettore Pappalardo, l'impiegato ministeriale che sfida la burocrazia (e la censura) a colpi di elefanti improbabili e sogni di ricchezza.
Ettore Pappalardo è un impiegato statale che incarna, con tutte le sue contraddizioni, l'archetipo del servitore dello Stato ligio al dovere, ma schiacciato dalle avversità della vita. Afflitto da problemi cardiaci e con il peso di una famiglia numerosa – moglie e cinque figlie – sulle spalle, Pappalardo si vanta di ben trent'anni di onorato servizio presso il Ministero. La sua posizione di archivista capo del gruppo C lo pone come un precursore di quei tanti personaggi vessati che affollano la narrativa e il cinema italiano, figure in cui il pubblico si immedesima facilmente.
In questo senso, non si può non tracciare un parallelo con Antonio Mombelli, protagonista de "Il maestro di Vigevano" di Luciano Mastronardi, portato poi sul grande schermo da Elio Petri con un magistrale Alberto Sordi. Mombelli, insegnante di scuola elementare, rivendica con orgoglio il suo "gruppo B, quarto scatto, coefficiente 271 e 19 anni di servizio", una vita di sacrifici segnata da familiari venali, colleghi invidiosi e un direttore scolastico tanto arrogante quanto ignorante. La celebre scena in cui Mombelli è costretto a impersonare Roderigo de Triana, l'uomo che per primo avvistò l'America, su ordine di un direttore che ignora la cronologia delle scoperte geografiche, è un esempio perfetto della sua condizione di subalternità.
Tuttavia, a differenza del maestro Mombelli, Ettore Pappalardo è gravato da una "terribile macchia" che mina la sua credibilità: occupa quel posto al Ministero da trent'anni senza possedere alcun titolo di studio. Un segreto inconfessabile, frutto di una raccomandazione del 1922 da parte di un cugino centurione della Milizia.
Quando la verità viene a galla, confessata al capufficio, Pappalardo è "invitato" a conseguire la licenza elementare. È in questo frangente che si consuma una delle scene più esilaranti, e al contempo malinconiche, del racconto, segnata anche dall'intervento della censura. Durante un esame, sollecitato a nominare un pachiderma, Pappalardo risponde "Bartali". Ma il labiale di Totò, l'attore che lo interpreta, rivela un altro nome, ben più scomodo per il potere politico dell'epoca: Alcide De Gasperi. Per evitare ripercussioni, il nome del celebre statista fu sostituito in fase di doppiaggio con quello del popolare ciclista, grazie all'opera di Carlo Croccolo.
Oltre alle peripezie burocratiche e alle ansie da esame, Pappalardo trova una sorta di evasione onirica nella speranza di vincite al lotto, magari con numeri suggeriti in sogno dalla suocera defunta, figura quanto mai sgradita in vita. E un'altra forma di "consolazione" terrena è rappresentata dalla procace segretaria di sua eccellenza, la cui avvenenza lo spinge a rocambolesche cadute da una scala, nel tentativo di spiarne le forme. Questo suo "vizio" lo rende un antesignano di un altro celebre personaggio della commedia italiana, il ragionier Ugo Fantozzi, creatura di Paolo Villaggio, che nella sua grigia esistenza all'Italpetrolcemetermotessilfarmometalchimica trova una (spesso dolorosa) valvola di sfogo nella passione per la "signorina Silvani, fatidica miss quarto piano".
In definitiva, la storia di Ettore Pappalardo è uno spaccato ironico e amaro della condizione dell'impiegato, stretto tra le maglie della burocrazia, le frustrazioni personali e la ricerca di una qualche forma di riscatto, fosse anche solo un terno al lotto o uno sguardo furtivo a una bella donna.
Nel 1949 la censura ancora non si era organizzata bene, risentiva ancora dell'anarchia degli anni immediatamente precedenti. Già comunque i produttori per conto loro, e a nostra insaputa, per non avere storie, avevano cominciato a far leggere i copioni all'addetto alla censura: Scicluna Sorge. Non esisteva una commissione ministeriale, era lui la censura. Era un italiano di Malta; era fuggito da lì durante la guerra ed era venuto a portare al Duce l'adesione di Malta, con un tempismo da record! Aveva ottenuto così un posto al Ministero e alla fine lo trovammo che dirigeva la censura. [...] Scicluna Sorge dava dei consigli ai produttori sulle scene da girare o da non girare. Così i produttori facevano difficoltà a noi: sembrava che la cosa partisse da loro, mentre invece partiva dall'alto.
Mario Monicelli
Censura all'italiana: quando le forbici del potere diventano protagoniste del film
Il testo analizza il particolare rapporto tra il cinema italiano del dopoguerra e la censura, prendendo come esempio alcuni film diretti da Monicelli e interpretati da Totò. L'analisi parte dal contesto storico-politico italiano del secondo dopoguerra, segnato dalla sconfitta del Fronte Democratico alle elezioni del 1948 e dall'inizio del centrismo di De Gasperi, che sancì l'allontanamento dell'Italia dal blocco sovietico con l'adesione al Patto Atlantico nel 1949. In questo clima, espressioni di dissenso come "E poi uno dice che si butta a sinistra" e "Adda venì..." venivano tollerate con difficoltà.
Il testo si concentra poi sul sodalizio artistico tra Monicelli e Totò, paragonato per la sua comicità a mostri sacri come Charlie Chaplin e Buster Keaton. La loro collaborazione iniziò nel 1949 con "Totò cerca casa", un film che, con toni comico-grotteschi, affrontava il problema della crisi degli alloggi, una piaga del dopoguerra italiano. Il film mostrava come, a fronte di una situazione relativamente favorevole a Roma, altre città, soprattutto nel Mezzogiorno, vivessero in condizioni di sovraffollamento estremo.
Successivamente, il testo esamina "Totò e Carolina" (1955), film nato da un soggetto di Ennio Flaiano. Quest'opera, scritta da Monicelli, Age, Scarpelli e Rodolfo Sonego, condivise con "La spiaggia" di Lattuada (1954) il triste primato del maggior numero di tagli da parte della censura negli anni Cinquanta. "Totò e Carolina" fu mutilato una quarantina di volte e, nonostante fosse pronto nel 1953, uscì nelle sale solo due anni dopo.
Nel mezzo, nell'aprile del 1954, i produttori cinematografici, timorosi di scontrarsi con le direttive governative, istituirono una commissione di autocensura composta da "affidabili incompetenti" (cit. Di Giammatteo, 1998, p. 426), rendendo ancora più difficile il lavoro degli autori.
Il pubblico faticava ad accettare Totò nel ruolo di un poliziotto sensibile e scultore dilettante, diverso dai personaggi di ladruncolo a cui era abituato. Il protagonista del film, l'agente Caccavallo Antonio, aspirava alla promozione, ma il suo cammino si intrecciava con quello di Carolina, una giovane che tentava il suicidio a seguito di una delusione amorosa e di una gravidanza indesiderata. Il tema del suicidio era particolarmente rilevante nell'Italia del dopoguerra, dove, nonostante le sofferenze patite, si registrava un alto numero di casi.
Il viaggio di Caccavallo e Carolina è costellato dall'incontro con figure meschine e ipocrite, specchio della società dell'epoca. Il film stesso, però, fu pesantemente compromesso dalla censura, che ne ridusse drasticamente la durata e ne modificò il titolo originale da "Totò, Carolina e la Bandiera rossa". Inoltre, il sonoro fu manomesso, con dialoghi e canzoni alterati per edulcorarne i contenuti politici.
A testimonianza del clima repressivo, nel film compariva una scritta che specificava come il personaggio di Totò fosse frutto della fantasia e che ogni riferimento alla realtà fosse casuale, una precauzione che rivelava le limitazioni alla libertà d'espressione dell'epoca. Il testo sottolinea il ruolo controverso del ministro dell'Interno Mario Scelba, noto per la sua intransigenza e per l'uso della forza pubblica nel mantenimento dell'ordine.
Infine, il testo colloca film come "Totò e i re di Roma" e "Totò e Carolina" in una zona di transito tra il neorealismo rosa e la commedia all'italiana, un genere che, pur con toni leggeri, seppe affrontare temi sociali e politici importanti. Il testo evidenzia come queste opere abbiano suscitato polemiche e critiche, anche da parte di intellettuali come Giuseppe Marotta e Carlo Emilio Gadda. Nonostante le difficoltà, Monicelli proseguì la sua carriera, ottenendo numerosi riconoscimenti, tra cui il Leone d'oro alla carriera alla Mostra di Venezia nel 1991.
Totò, il governo e le forbici della censura
Oltre a subire tagli e modifiche moltissimi film di Totò, scontano un'ulteriore menomazione in termini di distribuzione: il divieto di visione ai minori di 16 anni. Questa circostanza rappresenta per i produttori un danno incalcolabile, in considerazione del fatto che all'epoca il cinema era frequentato da intere famiglie. Alla censura ufficiale dello Stato Italiano, si associa anche quella della Chiesa; in questo caso la condanna consiste nell'esclusione del film anche dai circuiti parrocchiali, frequentati prevalentemente da giovani; il bollino rosso assegnato dalle strutture ecclesiastiche determina un ulteriore danno economico per i produttori.
Con la nuova legge sul cinema (1954-1962), che introduce nuovi divieti ai minori di 14 e 18 anni, i film con Totò protagonista subiscono ulteriori limitazioni alla visione. Ne subiscono importanti conseguenze in sede di revisione I soliti ignoti (titolo originario, bocciato, Le madame), I due marescialli Chi si ferma è perduto e Arrangiatevi! girato in una ex casa di tolleranza! Totò Peppino e la dolce vita è quello più penalizzato di questo periodo, si tagliano scene di feste, ministri, giochi di parole ed altre situazioni "sensibili" alla morale.
Nel 1967, prima dalla sua morte, è la censura televisiva che affila le sue forbici sulla serie televisiva TuttoTotò, massacrando l'opera con assurdi tagli e rigidissime censure.
da «Totò e i re di Roma»
A Ercole Pappalardo gli domandano di nominare un pachiderma, lui resta muto. Il presidente compassionevole gli mima una proboscide. Pappalardo s'illumina e risponde: «De Gasperi!» pensando al gran naso del presidente del Consiglio. La gag non arriverà mai sullo schermo. Gli spettatori udranno invece, come risposta, «Bartali!».
Viene cancellato il dialogo fra Ercole Pappalardo e l'Onnipotente: «chi più truffa più è rispettato. chi più mena più ha ragione, e gli imbroglioni i mascalzoni i delinquenti i farabutti sono quelli che comandano»
Viene censurata poi la presenza nella storia di un comunista.
da «Totò, Peppino e... la dolce vita»
Totò: «Qui guardati intorno, sono tutti Proci!»
Peppino: «Eh, me ne so' accorto»
Totò: «Oggi essere Procio è un titolo d'onore, lo, per esempio, se fossi in te, dato che ci hai anche il fisico, modestamente, fatti Procio!»
da «Sua eccellenza si fermò a mangiare»
Titolo precedente E il ministro si fermò a mangiare. Viene eliminata la battuta «Se è ministro, per forza!»
Taglio alla sceneggiatura e al dialogo: «Sì, io più ti guardo e più mi convinco che tu sei opulenta. In questi casi io consiglio sempre di mettersi a letto»
da «Guardie e ladri»
l'inseguimento della guardia Fabrizi al ladro Totò, viene considerato lesivo della dignità della PS.
da «Totò e le donne»
In prima istanza i censori governativi esprimono parere favorevole a patto, comunque, che vengano tagliate alcune scene.
da Totò all'inferno
Tagliata la battuta: «E' un onorevole, dallo in pasto agli elettori».
da «Totò e Carolina»
La sceneggiatura imperniata su una prostituta; ancora, la figura della guardia di PS Totò considerata poco marziale (qui di seguito l'approfondimento);
da «Siamo uomini o caporali»
Eliminata scena e dialogo: «signore nude, indossatrici semisvestite» e le frasi: «questi ministri (...) sono brutti, brutte espressioni brutti visi»; «si stava meglio quando si stava peggio».
da «La legge è legge»
Eliminata la battuta: «lo conosco un sacco di persone, personaggi importantissimi, pezzi grossi, pezzi piccoli, pezzi medi, pezzettini così, figurati che conosco il cognato del cugino di un portiere di un cardinale, eh!» Il cardinale naturalmente diventerà sacrestano...
da «Racconti romani»
Il Centro Cattolico Cinematografico espresse il suo giudizio sul film: "Alcune scene di gusto grossolano e la mentalità del 'bugiardo' e dell'imbroglione non riprovata, consigliano di riservare la visione del film agli adulti di piena maturità morale". Il pesante giudizio fu espresso nei modi e nei tempi sbagliati e la produzione del film querelò il Centro Cattolico poichè si è espresse arbitrariamente, pubblicando il giudizio sul suo periodico. Non era infatti prevista la presenza di un suo rappresentante alla visione preventiva della commissione censura.
Censura romana
Ciò che è accaduto al film "Racconti romani" è molto significativo. Riassumiamo qui, in poche parole, quella che si ripromette di essere una interessante vertenza giudiziaria: la casa produttrice di "Racconti romani" ha dato querela al Centro Cattolico Cinematografico poiché questo organismo, ancora prima che il film apparisse sugli schermi, aveva espresso su di esso un giudizio negativo, sconsigliandone la visione. E' evidente che vi è, in questo fatto, un chiaro motivo di scandalo, e bene ha fatto la casa produttrice del film ad adire le vie giudiziarie.
Ma vi è un motivo di scandalo ancora maggiore, dietro questa storia: ed è il modo con cui il Centro Cattolico Cinematografico ha espresso quel suo giudizio di condanna. Il C.C.C. ha potuto infatti condannare dato che nella Commissione di censura esso conta su autorevoli esponenti, i quali partecipano alle riunioni senza averne il mandato e l'autorità. E così, evidentemente, la Commissione di censura, che dovrebbe giudicare con precisi metodi, nel rispetto della legalità viene a mettersi in posizione confessionale e di parte rispetto al film. E perciò viene meno al suo mandato.
Il fatto è che tutto ciò si pone come simbolo di una situazione più generale: l'istituto della censura come è attualmente organizzato, è bacato, inutile e dannoso. Di ciò i cineasti si rendono ben conto, e più volte abbiamo udito la loro protesta. E del resto, basta ricordare alcuni casi in cui la censura ha agito in modo goffo, maldestro e sciocco, per rendersi conto chiaramente di come l’istituto della censura costituisca una palla al piede del mondo del cinema, e del libero sviluppo degli artisti.
Ora il Consiglio dei Ministri sta discutendo la nuova legge sul cinema. Su questa legge dovrà poi pronunciarsi il Parlamento. I desideri dei cineasti, anelli che essi hanno espresso attraverso il Circolo romano del cinema, sono che questa legqe, oltre a risolvere i gravi problemi della vita del cinema come industria, risolva anche anello della vita del cinema come arte, della libertà degli artisti, della censura. E poi, non è chi non veda come i due problemi siano strettamente legati, e come una nuova regolamentazione dell'istituto della censura, che limiti nil suo prepotere, gioverà anche al cinema italiano come industria, togliendo i produttori da una pericolosa situazione di paura e di attesa.
T.C., «Noi Donne», anno X, n.50, 18 dicembre 1955
SCANDALOSA INTROMISSIONE CLERICALE NELLA CENSURA
Il Centro Cattolico cinematografico citato in giudizio
Un membro del CCC aveva visionato il film «Racconti romani» con la commissione censura del ministero degli Interni - Giudizi sfavorevoli in un bollettino - Ordine del giorno del Circolo romano del cinema
Roma, 5 dicembre
Un nuovo episodio, che ripropone all’opinione pubblica il problema della censura cinematografica e delle intromissioni clericali in questo campo, si è aggiunto in questi giorni a quelli, clamorosi, verificatisi durante la gestione Scalfaro, i quali, come i lettori ricorderanno, videro "Le avventure di Casanova" e "Il letto" tolti i dalla circolazione, dopo l'inizio delle programmazioni, per riapparire più tardi, tagliuzzati, solo davanti alle forme proteste del pubblico e degli ambienti culturali italiani.
Il «Centro cattolico cinematografico», il quale, com'è noto, è un organo legato all'Azione Cattolica, è stato citato in giudizio da una Casa produttrice, di cui è presidente il marchese Theodoli, per avere, in un suo bollettino mensile, anticipato un giudizio sul film "Racconti romani", tratto dal libro omonimo di Alberto Moravia per la regia di Gianni Franciolini. Questo film aveva ottenuto, il 13 ottobre scorso, il bene placito della censura governativa e doveva apparire sugli schermi nostrani durante le feste natalizie. Sul bollettino in questione il film veniva consigliato «soltanto agli adulti di piena maturità morale».
La perseguibilità ai termini di legge appare evidente. Ma questo non è tutto. Si è venuto, infatti, a sapere che le riserve contenute nel bollettino provenivano dal signor Emilio Lonero, membro del «Centro cattolico cinematografico», il quale aveva visionato il film insieme ai membri della commissione di censura, la quale ha la facoltà di concedere o di negare il nulla osta per la programmazione e che è alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno! A questo proposito qualificati membri di un Cine-club cattolico affermano che addirittura il gesuita padre Ravagli parteciperebbe, in nome del «Centro cattolico cinematografico», alle sedute tenute dalla commissione di censura, influendo notevolmente sull'operato degli uomini preposti a tale delicato incarico.
Davanti a questo grave episodio, illegale ed anticostituzionale, dell'inframettenza delle alte gerarchie cattoliche, indignazione e preoccupazione circolano negli ambienti cinematografici romani.
Per quanto riguarda la citazione in giudizio del «Centro cattolico cinematografico» la causa si terrà domani alle ore 13 in Pretura, davanti al giudice Francesco Greco.
La Casa produttrice è rappresentata dagli avvocati Simoncelli, Scialoja e Eugenio Calò. Il Centro cattolico cinematografico si è, invece, costituito per mezzo dell'avv. Enrico Biamonti. La frase che ha provocato la pronta reazione della Casa produttrice suona precisamente cosi: «Alcune scene di gusto grossolano e la mentalità del " bugiardo ” e dell'imbroglio, non riprovata, consigliano ecc.» Occorre aggiungere che la copia presentata alla commissione era quella «di lavorazione», suscettibile di ritocchi prima di passare nelle sale cinematografiche.
Il bisogno di una completa regolamentazione è profondamente sentito negli ambienti cinematografici. Ad esempio, il Consiglio direttivo del Circolo romano del cinema, in seguito a una riunione, alla quale hanno, tra gli altri, partecipato Alessandro Blasetti, Sergio Amidei, Cesare Zavattini, Luigi Zampa, Michelangelo Antonioni, Paolo Stoppa, Gino Cervi, Giuseppe De Santis, Antonello Trombadori, durante la quale sono stati lungamente discussi i princìpi informatori del testo di legge governativo, ha presentato la seguente mozione: «Il Consiglio direttivo ha preso atto con soddisfazione di quelle misure del progetto di legge che tendono ad assicurare alla cinematografia italiana una sana vita industriale, la possibilità di resistere alla concorrenza straniera e di migliorare la qualità della produzione, la cortezza di non soggiacere a degenerazioni di tipo speculativo.
«Al tempo stesso il Consiglio direttivo del Circolo romano del cinema, fedele al principio dell’inscindibilità tra libertà artistica e avvenire economico del cinema nazionale, riafferma quanto già espresso al proposito in tutti i suoi documenti ufficiali, raccomanda al governo e al Parlamento di sancire con un definitivo testo di legge le garanzie necessarie per sottrarre la creazione cinematografica ai pericoli derivanti dai vincoli e dai limiti anticostituzionali, tuttora incombenti, della legge fascista ».
«L'Unità», 6 dicembre 1955
Un estraneo viglia sulla Commissione che visiona i film per la censura
Il bollettino del Centro cattolico ha anticipato il giudizio negativo del film «Racconti romani», non ancora programmato
Roma, 5 dicembre
Un nuovo episodio dell'ingerenza clericale in campo cinematografico è stato clamorosamente rivelato dalla citazione in giudizio dinanzi al pretore di Roma, da parte del produttore Niccolò Theodoli, del Centro cattolico cinematografico. La vertenza di cui dovrà occuparsi il magistrato è sorta per il film «Racconti romani», prodotto dalla Diana Cinematografica e desunto dalla raccolta di racconti dello scrittore Alberto Moravia. Il film fu presentato il 13 ottobre in visione alla commistione censura del ministero degli Interni, che, dopo averlo visionato, rilasciò il nulla osta per la programmazione. Senonchè mentre il film, che in censura era stato presentato ancora incompleto, stava subendo gli ultimi ritocchi in attesa di essere visionato nelle pubbliche sale, il Centro cattolico cinematografico, nel suo bollettino mensile inviato a tutte le parrocchie ed associazioni cattoliche, anticipava un giudizio negativo su di esso riservandolo, secondo la sua particolare classificazione delle opere cinematografiche, «agli adulti di piena maturità morale ».
Tale giudizio ha provocato il risentimento della Casa produttrice che, con la sua azione giudiziaria, nel chiedere il sequestro del bollettino e riservandosi di chiedere i danni che potranno derivarle, ha sostenuto la illegittimità di una simile critica prima della regolare programmazione del film. In particolare sostiene che il giudizio negativo sarebbe stato scritto per il bollettino del Centro cinematografico da un noto esponente vaticano legato a padre Morlion, il quale avrebbe abusivamente assistito alla visione del film riservato alla commissione di censura.
Al di là della questione giudiziaria, sulla quale, dopo la costituzione delle parti a mezzo degli avvocati Vittorio Simoncelli Scialcia ed Eugenio Calò per la Diana Cinematografica e Beamonti per il Centro cattolico cinematografico, il pretore Greco si è riservato di decidere, ci sembra che l'increscioso incidente meriti un chiarimento da parte del Ministero degli Interni relativamente alla presenza alle visioni della commissione di censura di un rappresentante del Centro cattolico cinematografico, che non aveva alcuna veste per assistervi.
Dopo il ritiro del film «Le avventure di Giacomo Casanova », che il sottosegretario Scalfaro giustificò con la ridicola scusa di una protesta di alcune vecchiette bigotte (le quali avrebbero potuto fare a
meno di andare al cinema a vedere la pellicola invece di costringere milioni di italiani a privarsi dello spettacolo), il nuovo episodio mostra l’assalto al cinema che i clericali stanno tentando in varie forme, nell’intento di stroncare questa libera attività artistica e ridurla agli schemi aridi e superati dei film per sale parrocchiali.
I «Racconti romani» di Moravia costituiscono un'opera che ha già fruttato al grande scrittore, già candidato al Premio Nobel per la letteratura, un premio letterario: non ci meraviglia pertanto che nel film ricavato da quel libro l'ignoranza clericale abbia già ravvisato un nemico da combattere, un’opera di quel culturame che l’on. Scelba combatte con la «Celere»: ma ci sembra incredibile che in un Paese democratico io Stato possa tollerare un simile tentativo di strangolare ogni espressione d'arte: i codini del Centro cattolico cinematografico sono padronissimi di non andare a vedere le opere d’arte del nostro cinema e padronissimi di non leggere i 3/4 della letteratura mondiale che sono stati messi all'indice dal Vaticano. Ma lascino che gli altri restino liberi nel loro Paese e nelle loro idee; e le autorità dello Stato non consentano loro l’ingresso in quei pubblici istituti e in quelle commissioni ove deve vigere la regola dell'intelligenza e della cultura e non quella del più vieto, ignorante e retrivo oscurantismo.
«L'Avanti», 6 dicembre 1955
«Radiocorriere TV», 25 gennaio 1963
La scappatoia della "doppia scena"
Nel film "I due orfanelli", vennero girate due sequenze diverse della stessa scena: una per il mercato italiano, l'altra per l'estero. Isa Barzizza, nel ruolo di collegiale innamorata dell'ufficiale Galeazzo Benti, a un certopunto, accompagnata dalla musica, doveva esibirsi con le sue compagne in una danza sensuale insieme ad altre collegiali, riparata da una tenda. Ricorda oggi l'attrice:
«La scena delle collegiali che fanno la doccia per allora era molto osé, si vedevano queste ragazze nude in silhouette dietro una tenda o qualcosa del genere. Ricordo che Mattoli mi chiese: «Oltre a questa scena qui, ne facciamo anche una che ti si vede un pezzo...? Non nuda completamente, ma un po' di seno... In Italia non va, è fatta per l'estero». Dico: «Va bene, però io mi vergogno un po' davanti a queste persone». Allora ha fatto uscire tutti, è rimasto solamente lui e il suo aiuto, Leo Catozzo. Mi ripresero con delle luci con un effetto per cui si vedeva e non si vedeva. Era una cosa molto osé per allora.»
Isa Barzizza, intervista di Alberto Anile, 2003.
Intervista a Luigi Zampa a proposito della censura nel cinema
Io non posso credere, in quanto regista, nella funzione della censura, la quale pone dei limiti inevitabilmente dannosi alla mia opera. Limiti esterni, che uno spontaneamente interiorizza sicché diventano automatici. L'effetto principale che ne risulta è che ci si perde di coraggio: invece di affrontare temi nuovi e di approfondirli, ci si tiene a quello che è già stato fatto, ci si arrangia con le cose usuali, già sperimentate. La censura, nell’attività cinematografica che è frutto di tanti compromessi, rappresenta un compromesso di più; e se anche lo subisco, non posso però accettarlo, poiché penso anche che un artista potrebbe autolimitarsi.
Naturalmente la censura funziona egregiamente nei confronti della produzione, la quale si sente a questo modo con le spalle al sicuro. E' certa cioè che un film, una volta realizzato, sarà approvato. E poiché una censura esiste, penso anch'io che sia meglio intervenga preventivamente, in modo che poi non si debba amputare il film di alcune scene essenziali al suo ritmo e alla sua comprensione. Il male è che oggi anche quello che viene approvato in prima istanza può venire censurato quando il film è già pronto.
Mi è accaduto con "L'onorevole Angelina", da cui dovetti eliminare alcune battute importanti e tagliare scene intere. Semplicemente perché il marito della Magnani nel film faceva la parte di un agente di Pubblica Sicurezza e il pubblico — secondo il ragionamento della Commissione di censura, ineccepibile perché fondato su articolo del regolamento — avrebbe identificato in quell'agente, che veniva leggermente ironizzato, tutti gli agenti di P.S. d'Italia, e se ne avesse riso avrebbe riso alle spalle dell'intero corpo di P.S. «danneggiandone il prestigio». Da quel momento è rimasta in me una vera fobia per tutti gli argomenti in cui entrassero agenti o guardie: tanto che dopo aver portato a termine il trattamento di Guardie e ladri — il film che con un'altra chiave è stato poi realizzato da Steno e Monicelli — io rinunciai a fare il film, pensando ai limiti, di varia natura, che durante la realizzazione del film mi sarei dovuto imporre.
Luigi Zampa, "Cinema" n.87, 1 giugno 1952
Sesso e politica gli argomenti tabù.
Censurati, negli anni cinquanta (1949-50) ogni tipo di manifesto, tra cui anche di genere artistico (per esempio quello riguardante le celebrazioni di Lorenzo il Magnifico, che per soggetto aveva la Venere di Botticelli). Vibrate proteste da parte del mondo culturale.
Ercole Pappalardo, impiegato statale con famiglia numerosa, rischia il licenziamento: l’odioso superiore ha scoperto che non ha la licenza elementare. Se non passa l'esame perderà il posto. Così, eccolo presentarsi alla commissione. Gli domandano di nominare un pachiderma, lui resta muto. Il presidente compassionevole gli mima una proboscide, Pappalardo s’illumina e risponde: «De Gasperi!» pensando al gran naso del presidente del Consiglio. Italia 1952: la gag contenuta nella sceneggiatura del film Totò e i re di Roma , scritta da Mario Monicelli e Steno che firmano anche la regia, non arriverà mai sullo schermo. Gli spettatori udranno invece, come risposta, «Bartali!».
Non fu quello il solo intervento riservato dalla censura al film, che a più di un anno dall’inizio delle riprese uscirà fortemente mutilato e cambiato. Il punto più scabroso per i censori era il suicidio dell’impiegato che spera, dall’Aldilà, di mandare i numeri del lotto alla moglie. Produttori e registi dovranno accettare di far passare la storia per un sogno; il Paradiso, poi, diviene l’Olimpo e il dialogo fra il defunto Pappalardo e l'Onnipotente («chi più truffa più è rispettato, chi più mena più ha ragione, e gli imbroglioni i mascalzoni i delinquenti i farabutti sono quelli che comandano») viene cassato per intervento dello stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Un anno dopo il già tartassato Guardie e ladri (Steno e Monicelli: l’immagine di Fabrizi, agente di Ps che fraternizza con un ladruncolo sembra inaccettabile) comincia nei confronti di Totò una campagna di sospetti e di persecuzioni. Che si appunteranno su due temi: il sesso e la politica (che comprende non solo le battute su onorevoli e ministri, ma anche la rappresentazione comica o troppo umana delle forze dell’ordine, dei magistrati ecc.). «In realtà - dice Alberto Anile, autore di Totò proibito che esce in questi giorni da Lindau - l’offesa al comune senso del pudore serve spesso da paravento per più decisi interventi su temi propriamente politici. Un esempio: di Sua eccellenza si fermò a mangiare , un tardo film di Mattoli, 1961, che già si doveva chiamare E il ministro si fermò a mangiare , viene molto tagliata la visita che Totò, finto medico del Duce, fa alla contadinotta opulenta. Ma intanto scompaiono tutte le battute sui ministri ladri («Se è ministro, per forza!»)». Così, ne I tre ladri (1954) si taglia Simone Simon discinta sul letto, ma parte anche la scena finale di giudici e poliziotti che si tuffano a raccogliere i soldi lanciati dal ladro impunito. Di Totò all’inferno , 1955, si alleggerisce la scena della seduzione di Fulvia Franco ma cade anche la battuta del diavolo: «E’ un onorevole, dallo in pasto agli elettori».
E nello stesso anno Siamo uomini o caporali viene sforbiciato sia nelle immagini di «signore nude, indossatrici semisvestite» ma anche di frasi come: «questi ministri (...) sono brutti, brutte espressioni, brutti visi»; o anche: «si stava meglio quando si stava peggio». Contenuta già nella legge del 1923, la censura è assunta dall’Italia repubblicana senza grosse modifiche rispetto a quel testo. Ma in più entra in uso la prassi, per i produttori, di consegnare le sceneggiature già prima dell’inizio delle riprese. Questo dovrebbe consentire ai funzionari di indicare subito eventuali cambiamenti, ed evitare la bocciatura a film ultimato. Il cinema e lo spettacolo, in assenza di un ministero, fanno capo alla presidenza del Consiglio e, per delega, al sottosegretario.
Giulio Andreotti riveste questo ruolo nei governi De Gasperi dal 1947 al ’53. Lavora alla rinascita della cinematografia nazionale («dobbiamo incoraggiare una produzione sana, moralissima e nello stesso tempo attraente»), anche se il suo nome resterà legato ai «panni sporchi» che il neorealismo, e De Sica in particolare, avevano secondo lui il torto di esporre in pubblico. I primi guai, Totò e i suoi film li passano sotto Andreotti; di certo, per i censori il comico surreale e burattino che si cala nei problemi sociali della ricostruzione non va bene. Totò non è, non è mai stato di sinistra; però - si ragiona così nelle commissioni censura - certi registi (Monicelli) e certe tematiche populiste possono trasformarlo in una pericolosa arma di critica al governo. Così, quando dopo varie traversie i film ottengono il nulla osta, sono spesso bollati con il divieto ai minori di 16 anni (e contemporaneamente dal giudizio «Escluso» del Centro Cattolico Cinematografico). Il culmine dell’accanimento si registra nel ’54, per Totò e Carolina di Mario Monicelli. La strana coppia formata dal poliziotto buono e dalla ragazza incinta scappata di casa eccita i più efferati interventi che, dopo un anno e mezzo di battaglie, audizioni, polemiche, arriverà nelle sale con oltre venti minuti in meno e un’infinità di cambiamenti nelle parti parlate. Di questo film, il caso monstre dei nostri anni ’50, si era occupato Tatti Sanguineti che nel 1999 presentò a Venezia i risultati delle sue ricerche. «Faceva parte del progetto "Italia Taglia" nato due anni prima» spiega Sanguineti. «Una esplorazione sulla censura in Italia, una ricostruzione della storia proibita del cinema italiano. Che oggi, dopo una interruzione, può riprendere grazie a un nuovo finanziamento ministeriale». Il ’54 però vede un cambiamento di ruoli. Quell’anno al posto di Andreotti subentra Oscar Luigi Scalfaro, certo meno addentro alle cose del cinema. E che forse, insinua Alberto Anile, aveva ancora il dente avvelenato con Totò.
Tutto per via della lettera all’ Avanti che il comico mandò dopo l’episodio (1950) della signora Toussan, apostrofata dall’onorevole Dc come "donna disonesta" perché in un locale pubblico esponeva spalle e braccia scoperte. Sfidato a duello dal padre e dal marito della donna, Scalfaro si rifiutò in nome del «sentimento cristiano». E il principe Antonio Focas Comneno De Curtis, in quella lettera, gli impartì una lezione di cavalleria.
Dal ’54 al ’62, anno della nuova legge sul cinema (che introduce due divieti, ai minori di 14 e di 18 anni, e apre le commissioni di censura ai rappresentanti delle categorie dello spettacolo), i guai di Totò si moltiplicano. Si creano problemi per I soliti ignoti (titolo originario, bocciato, Le madame ) , per I due marescialli , per Chi si ferma è perduto . Prevedibili difficoltà incontra Arrangiatevi! girato in una ex casa chiusa. Ma l’episodio più bizzarro tocca a Totò Peppino e la dolce vita (1961) che sconta, insieme, gli ultimi rigori della vecchia legge e le vendette dei censori che nulla avevano potuto fare contro il film di Fellini. Cadono fotogrammi di feste, si cancellano battute sui ministri che deviano l’autostrada per contentare i propri elettori, si cassano allusioni alle «polverine», i giochi di parole con i Proci.
Insomma, un’ecatombe. Totò, ormai quasi cieco del tutto, assillato dalle tasse, si appresta a girare le cose più alte della sua carriera: con Pasolini fa Uccellacci uccellini e i due episodi, Il mondo visto dalla luna e Cosa sono le nuvole . Potrebbe accomiatarsi sereno, se non fosse per l’ultimo spregio che viene dalla Rai-Tv che, nel fargli confezionare gli episodi di un TuttoTotò (1967), torna a vessarlo con assurdi tagli e rigidissime censure. E pensare che lui sulla televisione aveva sempre avuto dei sospetti, almeno da quando, 1958, durante una puntata del Musichiere , gli era scappato un «Viva Lauro!» che gli costò un lungo ostracismo. Conservatore, aristocratico, monarchico e qualunquista si era trovato a far la parte del sovversivo per troppi anni. Oramai, era veramente tempo di chiudere.
Ranieri Polese, «Corriere della Sera», 28 gennaio 2005
Totò, Carolina e la censura: il mistero degli 82 tagli
Nella storia del cinema italiano Totò e Carolina ha probabilmente il triste primato del film più tartassato dalla censura. «Hanno fatto ottantadue tagli - ricordava il principe De Curtis a un intervistatore nel 1965 -. Hanno persino voluto la soppressione del nome del mio personaggio che si presentava dicendo: Caccavallo, agente dell' Urbe». Perché tanto accanimento contro il film che Mario Monicelli cominciò a dirigere nel settembre del 1953, ma che riuscì ad arrivare sugli schermi solo nel marzo 1955, continua a restare un mistero. È vero che la Rosa Film, la società produttrice di proprietà di Carlo Ponti, ma gestita dal marchese Altoviti, non aveva voluto chiedere il «giudizio preventivo» sulla sceneggiatura (pratica andreottiana che di fatto equivaleva a un vaglio censorio sul film prima ancora che si iniziasse). È vero che il celerino interpretato da Totò non aveva certo la statura dell' eroe, ma piuttosto quella del «povero fesso» (come ribadisce anche l' ultima battuta del film) che finisce dentro a un ingranaggio più grande di lui e che cerca di cavarsela alla meno peggio, chiedendo ora una mano ai manifestanti comunisti (per trascinare la sua camionetta fuori da una scarpata), ora a un ladro (Maurizio Arena, non ancora povero ma bello).
Ma la storia dell' agente «dell' Urbe» Caccavallo Antonio che deve ricondurre a Poggio Falcone l' infelice Carolina, arrestata a Villa Borghese e decisa a togliersi la vita perché incinta di un mascalzone che l'ha piantata, non sembra certo uno di quei soggetti così anticonformisti da scatenare le ire della censura. Eppure il film fu davvero massacrato, togliendo battute e allusioni (come quella sui poveri che non hanno nemmeno la libertà di suicidarsi «perché è roba da ricchi»), «obbligando» un gruppo di manifestanti a non cantare «Bandiera rossa» ma «Di qua, di là del Piave» e sostituendo il troppo nostalgico «dell' Urbe» con «di Roma». L' edizione in dvd della FilMauro rende finalmente disponibile il lavoro filologico fatto da Tatti Sanguinetti e dalla Cineteca di Bologna che hanno ricostruito la versione originale prima degli interventi censori, praticamente battuta per battuta e scena per scena. Manca solo, rispetto al testo pubblicato da Sanguinetti all' interno della ricerca Italia Taglia, la lunga scena con il parroco e il sor Torquato, che però Monicelli sostiene di aver tagliato per ragioni di ritmo. Peccato che l' assoluta mancanza di extra o di testi di spiegazione renda d' impossibile comprensione per il pubblico normale un lavoro di ricostruzione filologica davvero straordinario.
Mereghetti Paolo, «Corriere della Sera», 17 marzo 2008
Quando la censura metteva al bando le beffe del principe - «Totò e Carolina» integrale: subì 82 tagli
Ottantadue tagli per ventitré minuti in meno di pellicola, un anno e mezzo privo di visto censorio, nessuna distribuzione nelle sale, e cinque anni di veto all’estero in quanto il film avrebbe potuto ingenerare «errati dannosi apprezzamenti sul nostro paese». È la sorte toccata a «Totò e Carolina», girato da Mario Monicelli nel '53 — soggetto di Ennio Flaiano — e che racconta le peripezie dell’agente di Pubblica sicurezza, Antonio Caccavallo (Totò) incaricato di riaccompagnare al proprio paese Carolina (una giovanissima Anna Maria Ferrerò), incinta e con alle spalle un tentato suicidio al commissariato. Il film è per la prima volta in edicola nella versione senza tagli. Merito del restauro effettuato su una copia del film, vicina a quella originale, trovata, una decina d’anni fa, alla Cineteca di Roma.
Ma perché censurare Totò? «È il destino di tutti i grandi comici dell’epoca, da Aldo Fabrizi a Macario a Nino Taranto, che non risparmiò neppure Totò, il quale, con la censura, aveva già avuto a che fare ai tempi della rivista, in pieno regime fascista», risponde il critico cinematografico Goffredo Fofi, autore, con Paolo Mereghetti, della parte scritta della collana del Corriere dedicata al principe della risata. «Bisogna risalire a Leopoldo Zurlo, tra i più grandi censori teatrali, il quale racconta come Totò arrivasse nel corso dei suoi monologhi a ironizzare perfino sul severo divieto fascista del Lei al posto del Voi — osserva Fofi — a tal punto da costruire una gag su Galileo Galilei trasformato in Galileo Galivoi». In platea non poteva mancare il solito gerarca, serio, pignolo e in orbace: per Totò scattò subito la denuncia.
Lo stesso Fofi ricorda di avere trovato, scartabellando fra storici e polverosi faldoni censori, il fascicolo di quel procedimento, per fortuna «graziato» addirittura da Benito Mussolini, estimatore di Totò, con il commento lapidario: «Fesserie». Se capitava di saltare il fossato — Totò e Carolina sarà considerato «offensivo del decoro e del prestigio dei funzionari e degli agenti della forza pubblica» — si rischiava di restare comunque al palo: un progetto non realizzato e con tanto di processo alle intenzioni. [...] Rischi e imbarazzanti punizioni sfiorate da Totò in tutta la sua carriera. «Un attore coraggioso, Totò, basta andare a leggersi i suoi copioni teatrali finiti sotto l’occhio della censura», dice il critico: «Un episodio su tutti: gli americani sono sbarcati ad Anzio, ma Roma è ancora occupata dai nazisti, quando Totò, alla fine di un suo spettacolo, si presenta con una sedia sul palco e inventa la scenetta di un uomo ansioso che guarda sempre l’orologio come se stesse aspettando qualcuno, facile il rimando agli americani». Il coraggio della battuta ritorna in Totò a colori, — conclude Fofi — «facile intravedere nell’onorevole Trombetta il tipico politico democristiano», in Totò cerca casa l’eterno problema dell’alloggio nell’Italia del Dopoguerra, o «negli appetiti sessuali simboleggiati nella battuta "Pesce democristiano", perché l’animale che nuota nell’acquario ostacola la visione della donna nuda nel film Fifa e arena».
Peppe Aquaro, «Corriere della Sera», 18 ottobre 2008
Mario Monicelli rievoca i segreti del suo film, incredibilmente tartassato dalla censura.
Un poliziotto senza alcuna autorità, una ragazza sedotta e abbandonata, un prete menefreghista e bandiere rosse che sventolano per tutto il film. Così, nell’Italia democristiana del 1953, Totò e Carolina diventò una pellicola da bruciare
Di una sono certo: Totò e Carolina è stato il mio film più massacrato dalla censura, forse più di tutti i film dell’epoca. E il clamore e le polemiche che, per questo, lo hanno accompagnato in tutti questi anni, ne hanno fatto un film con molti più meriti di quanti, forse, ne abbia.
Il soggetto, molto bello, era stato scritto da Ennio Flajano, e poi sceneggiato insieme a me, Age, Furio Scarpelli e Rodolfo Sonego. L’idea era subito piaciuta al produttore De Laurentiis perchè si rifaceva un po’ all’idea base di Guardie e ladri (del ‘51, n.d.r.): lì c’era il poliziotto Aldo Fabrizi che si faceva scappare il ladro Totò e aveva tre mesi di tempo per riacciuffarlo se non voleva perdere il posto.
Qui, invece, la storia ruotava attorno al poliziotto Totò (Antonio Caccavallo) che deve riportare al paese d’origine Anna Maria Ferrero (Carolina), una ragazza aspirante suicida dopo che il fidanzato l’ha sedotta e abbandonata. Il film narra il viaggio di questa strana coppia per l’Italia di quel lontano 1953, a bordo di una jeep, e delle disavventure che vivranno fino ad arrivare al luogo di destinazione. Ma qui nè i parenti nè il parroco vogliono prendersi cura della ragazza, così il questurino Totò, un po’ per compassione un po’ per portare comunque a termine la sua missione, decide di prendersela in casa. Apriti cielo! E stato proprio questo a far inorridire i censori di casa nostra. Non va dimenticato, certo, che era l’Italia di Scelba e non era ammissibile che si potesse dare una immagine indecorosa delle istituzioni. Così quel Totò, poliziotto senza autorità e spesso ridicolizzato, che simpatizza per una mezza suicida, e forse pure un po’ mignotta, faceva scandalo. E certo non piaceva che nel film mentre il parroco se ne fregava, gli unici che davano una mano alla ragazza erano dei manifestanti del partito comunista incontrati per strada. Figurarsi: parlare di comunisti, vedere delle bandiere rosse, sentirli cantare i loro inni, vederli correre in soccorso della ragazza e del questurino... era tutto così rivoluzionario che decisero di non fare uscire il film!
Ci furono 38 tagli, e 23 battute furono modificate: i comunisti dovettero diventare socialisti, Bandiera rossa fu sostituita con un coro di montagna sulle osterie, la battuta «abbasso i padroni» con «viva l’amore». Il film, girato nel ‘53, fu respinto in prima istanza e bocciato in appello perché «offensivo della morale, della religione, delle forze armate». A cavallo fra Le infedeli e Proibito, Totò e Carolina è un film che scrivemmo su misura per Totò, e per sfruttare in maniera non convenzionale la sua comicità. Non so se è un merito ma ho sempre cercato di agganciare i suoi personaggi alla realtà, togliendogli, forse, un po’ della sua forza comica surreale (così ben sfruttata invece da Pasolini). Già in Guardie e ladri aveva impersonato la figura di un ladruncolo dimesso e pieno di umanità che alla fine solidarizzava con la guardia che lo doveva arrestare. La stessa operazione ripetei in Totò e Carolina e poi ne I soliti ignoti e in Totò cerca casa, dove è un padre che cerca un tetto per la propria famiglia, con avventure farsesche, certo, ma sempre agganciate a un fondo di realtà. Col senno di poi, non so se sia stato un bene sfruttare Totò in questa versione «sociale» ma credo che questa operazione l’abbia avvicinato di più al pubblico, l’abbia reso più umano. Quanto a Totò e Carolina, dopo i tagli e le polemiche, nel ‘55 finalmente uscì nelle sale, con un anno e mezzo di ritardo.
Mario Monicelli (testo raccolto da Pietro Calderoni)
Il ritorno della censura dopo il 18 aprile. Quando la Dc tagliò Totò
Dunque, la vittoria della DC e dei suoi alleati, nelle elezioni del 18 aprile 1948, avrebbe garantito la libertà di tutti, frenando i cavalli cosacchi ansiosi di abbeverarsi alle fontane di Piazza San Pietro (non stiamo inventando nulla, anche di questa pasta, appigliandosi magari alla maldestra profezia di un Venerabile Uomo, fu la propaganda anticomunista e antisocialista di quel periodo). Ma, certo, per le nostre arti dello spettacolo, cinema e teatro, si trattò di lottare fino allo stremo contro l'ondata di oscurantismo e di cieca repressione scatenatasi con particolare virulenza nei primissimi Anni Cinquanta. [...]
E il cinema? Nemmeno Totò sfuggì alle forbici di Andreotti (ma altri sottosegretari, e poi ministri, si avvicendarono al suo posto, con non dissimile zelo, e tra di essi, guarda guarda, l'attuale Capo dello Stato). «Totò e Carolina» di Mario Monicelli, ultimato nel 1953, apparve sugli schermi solo nel 1955, tagliato per centinaia di metri di pellicola, e con la colonna sonora manipolata. Intonavano «Di qua di là dal Piave» in luogo di un inno proletario, i lavoratori in gita su camion sovrastati da bandiere rosse (ma, essendo il film in bianco e nero, il colore non si vedeva). E la servetta (una deliziosa Anna Maria Ferrero), scortata dal buon poliziotto Totò, apostrofava un anziano compagno, riluttante a darle un sospetto aiuto, con l'espressione «Bel socialista sei!», anziché «Bel comunista». Questione di sfumature?
Aggeo Savioli, «L'Unità», 3 gennaio 1999
Verbali e documentazione relativi alle revisioni censorie avute dal film "Totò e Carolina" (cinecensura.com)
Le ragioni del censore
La prima rivista me la portò Michele Galdieri nell’agosto del 1931. Si presentò con un viso di adolescente sveglio e non si vedevano né le ali di pelle, né la coda. Le grinfie si, e le arrotondai qua e là. Il titolo... Nel titolo c’era quello che come le coup de Jarnac si potrebbe chiamare "Il colpo classico di Galdieri: non dire nulla e suggerire tutto". Volete qualche esempio?
In un suo copione trovai una volta questa scena: due uomini dicono male delle suocere ed ecco avanzarsi una signora un po’ matura, ma elegantissima secondo il figurino di poidomani. “Chi sparla delle suocere?” esclama. “Che cosa passata di moda! Oggi le suocere sono come me e tutti hanno cambiato idea nel giudicarle. Tutti hanno cambiato idea... (rivolta al pubblico)... non è vero che tutti avete cambiato idea?”
Era la miglior maniera per far confessare al pubblico di non essere più fascista.
Ora la prima rivista che Galdieri mi presentò era intitolata Tutto dipende da quello e Galdieri sosteneva che “quello” era il denaro, mentre evidentemente nel 1931 tutto dipendeva da Mussolini. Ma il testo era così abile da offrire buone giustificazioni anche pel censore che quel titolo avesse permesso. Vietarlo sarebbe stato dar prova di ristrettezza di spirito, e francamente non volevo che sorgesse subito e si spargesse fra gli autori la voce della mia meschinità. Lasciai correre dunque; ma ebbi lo stesso la taccia di cretino. Non potevo che riderne.
Mi stizzii molto invece quando, passata la censura nel 1935 al futuro Ministero della Cultura popolare, “Il Piccolo giornale d’Italia” e “L’Avvenire d’Italia” gettarono contro l’immoralità delle riviste alte grida di vestali violate. Volli allora esporre francamente il mio pensiero al Duce.
“Non disprezziamo la rivista,” scrissi; “la rivista è un genere teatrale precisamente come la tragedia la commedia il melodramma ecc. I suoi antenati sono illustri: Aristofane che si beffava di Socrate, di Euripide e di tutti i personaggi più grandi del suo tempo, non era a suo modo un autore di riviste? Molière nell’Impromptu de Versailles e nella Critique de l’École des femmes che cosa ha fatto se non una specie di rivista? Pantagruel, Don Chisciotte, Gii Blas, Candide, non sono forse delle riviste-libro?” (Avrei potuto citare anche la Divina Commedia, almeno per le prime due cantiche; me ne astenni perché la retorica del tempo vietava di scherzare con Dante.)
Ora di che si compone la rivista? Di tutti i generi di teatro dal vaudeville all’opera buffa, dalla commedia satirica al dramma, passando per la pantomima, le canzoni, il balletto, la feérie. Esclude la sola tragedia perché questa porta oramai sul volto l’impronta degli anni.
E su che poggia la rivista? Non c’è da esitare: sulla satira e sull’oscenità che sono da secoli le più sicure fonti del riso. Che fa la censura di fronte alla satira della rivista? Sta in guardia affinché rimanga nei limiti della scalfittura superficiale, della punzecchiatura solleticante. Non può sopprimerla però: verrebbe meno uno dei puntelli del genere. Ad ogni modo la proibirà quando saranno proibiti tutti gli spietati analizzatori del cuore umano, La Rochefoucauld, Stevenson, Vauvenargues, Leopardi ecc.
(...) Una vibrata lagnanza venne poi dal Partito perché si era permesso a Mario Mangini di intitolare la sua rivista Tutto da rifare e perché il lavoro era acre.
Allora persi le staffe; ma invece di abbandonarmi a escandescenze preferii dare una lezione e mandai al Ministro l’appunto che riporto testualmente:
“Consigli al futuro censore (a proposito della rivista Tutto da rifare di Mario Mangini). Cave canem Galdieri. È di razza. Non grida, non si avventa. Ti accarezza, ti illude, con parole di miele, con mani aperte senza macchine infernali; e quando meno te lo saresti aspettato ha morso con denti cosi aguzzi che là là non fanno neppure dolore. Ha spruzzato il profumo e vi ha mescolato il vetriolo. Ma è colpa tua se non stai in guardia; un autore di rivista non rinunzia al diritto di far dello spirito e lo spirito è il fiore dell’intelligenza.”
“Cave aliquantum canem Mangini. È bonario, ama la gaiezza ingenua e inclina a una accomodante filosofia napoletana che non si inganna nel giudicare la società ma l’accetta com’è, senza mostrare troppo i denti. Perciò non morde spesso ma abbaia volentieri e abbaiando ti rende il cattivo servizio di svegliare i cani che sembrano sonnecchiare a teatro e sono in agguato contro di te.”
“Ricordi il suggerimento di Figaro alla Stampa? Purché non tocchi l’autorità politica, il culto, le genti altolocate, gli Istituti di credito, il teatro e le persone che tengono a qualche cosa, puoi discorrere di tutto liberamente sotto la sorveglianza di un paio di censori. Aggiornato con l’aggiunta del cinematografo ti sarà ripetuto se non intero, a pezzi da questo o da quello. Vuol dire che è ottimo.”
“Tuttavia non ti consiglierei di applicarlo ciecamente. Dopo poco tempo avresti una patente di imbecillità dagli autori, e, quel ch’è peggio, anche dal Governo.”
“Attento ai titoli delle riviste! Possono celare un trabocchetto. Se Galdieri scrive per esempio C’era una volta un biglietto da mille non ti inganni quel grazioso tono fiabesco. Sai che potrebbe dire la gente? C’era una volta e adesso non c’è più; è carta straccia. Sei costretto dunque a cambiare anche a costo di far danno.”
“Se un altro titolo dice Ma quando parla lui non credere a Galdieri se spiega che lui è il cuore. Chissà quale personaggio potrà invece vedere il pubblico! Se ottieni che il titolo diventi E se ti dice va tranquillo vai l’endecasillabo sereno rende un servizio anche all’autore.”
“Non dimenticare però che il titolo è l’amo a cui abbocca lo spettatore e che l’arte, anche quella sbarazzina, e la cassetta hanno i loro diritti.” (...) “Affrontiamo piuttosto il problema
senza paura. Dei provvedimenti annonari si parla sempre ed ovunque, dal mattino alla sera, nei salotti e nelle cucine. Toccano infatti la vita quotidiana. Ciascuno ne discorre con lo stile del suo temperamento; in fondo tutti ne riconoscono e ne accettano la necessità.”
“Ma l’argomento è amaro. Trasportarne di peso, peggio ancora alimentarne l’acredine sulla scena sarebbe un imperdonabile errore, politico e artistico insieme.”
“Una recente rivista che ha messo in iscena pedestremente la vita quotidiana di una famigliuola è caduta perché ha annoiato il pubblico. Il pubblico sa bene ciò che scarseggia: di che doveva ridere?”
“La rivista di Mangini Tutto da rifare lo diverte invece. Perché? Perché Mangini l’argomento lo ha trattato con garbo, mescolandolo ad altri, senza stancare e mettendo molte cose come in margine.”
“Presenta per esempio Rabagliati che mette all’incanto il fiore all’occhiello della sua marsina, un bottone delle sue mutande ecc. e le offerte femminili fioccano aumentando sempre: un etto di olio, un chilo di pasta, due pezzi di sapone ecc. Qui la satira chi colpisce? le adoratrici di quel bravo cantante, le quali per un suo ricordo darebbero quanto c’è oggi di più prezioso al mondo.”
“ ‘Ma si dice lo stesso che l’olio è poco, che il sapone è scarso...’
“ ‘Bella novità, questo lo sanno già tutti e intanto l’autore sembra audace senza esserlo, non dice male del Governo, né peggiora le idee del pubblico. E nulla dispone meglio all’ottimismo del riso senza malizia.’”
Questo appunto non mi venne mai restituito. Il Ministro Pavolini mi disse poi di averlo inviato al Partito affinché smettessero lagnanze contro una censura che sapeva il fatto suo. E dal Partito lagnanze non vennero più. Continuarono però periodicamente da altri.
Ma colui al quale avrei potuto rivolgere con lieve variante il noto verso “tu solo, tu, mia gioia e mio tormento” fu Michele Galdieri. Delizia pel lettore, era pel censore una peste.
Nel gennaio 1936 egli presentò la rivista Marionette che sanzioni! nella quale una marionetta (l’Italia) si staccava indignata dal Teatrino del Globo per tornare in patria dove assisteva a tanti quadri di vita certo un po' ristretta a causa delle Sanzioni; ma coraggiosa, ma serena, ma indizio non dubbio di non lontana vittoria.
Nulla da ridire dal lato politico, ma mi parve che da quei quadri esulasse il riso per far posto a una pensosa malinconia. Le sorti della nostra guerra in Etiopia erano in quel momento ancora incerte, il Governo sospettoso, l’Ispettorato del teatro muoveva i primi passi tra critiche non sempre serene, la vita quotidiana riprodotta pedestremente sulla scena non ha interesse ecc. ecc. molti argomenti che qui è inutile riportare mi consigliarono insomma di negare l’autorizzazione alla recita.
Non immaginavo di provocare un disastro. Tutto infatti era pronto e il mio no rovinava un impresario e gettava sul lastrico una numerosa compagnia.
Del mio no Galdieri fu cosi' sgomento, cosi abbattuto che mi allarmai. Gli suggerii allora di ricorrere a chiunque, perfino al Duce per far controllare il mio giudizio e ottenerne la revoca. Non me ne sarei certo dispiaciuto: mi bastava evitare la responsabilità di un “nulla osta” che ritenevo immeritato. Galdieri rifiutò recisamente. Lo pregai, lo scongiurai, rimase irremovibile nel dire che non avrebbe mai presentato un ricorso contro di me. E allora gli proposi di rivedere il suo testo, di aumentarne quel sorriso che è indispensabile nelle riviste. Galdieri ebbe un lampo geniale, introdusse nel lavoro un giornalista estero, il quale correndo appresso alla marionetta italiana che ritiene impazzita assiste a quadri di vita e rimane con un palmo di naso, anzi con un naso che ad ogni delusione cresce, si allunga come quello di Pinocchio. La rivista ebbe un successo clamoroso.
Se ora dò un’occhiata alle mie rapide note sui lavori letti, non so più a dir vero se la peste fosse Galdieri per me o io per lui o i terzi per tutt’e due. Di Tutto dipende da quello ho già parlato; in seguito ho consumato un paio di forbici...
Ecco Strade. Via tutta quella critica ai gerarchi che salgono e scendono!
Ecco Il progresso si diverte. Veramente questo lavoro venne preceduto da una lettera anonima in cui si accusava l’autore di mettere in iscena il Duce e di prendere in giro l’azione fascista. Dio mio, l’innocenza e Galdieri non vanno spesso insieme, ma la rivista non era quell’orrore che veniva denunziato. Comunque: “Via la parola ‘libertà’ da quella canzonetta!” — “Via che la gente ha paura di perdere il posto!” (era vero ma non si poteva dire)! — “Via la parola ‘Padrone’ anche se indica il Progresso!” E ancora: “non parlare dei disoccupati; non dire che
dei gemelli della Lupa
l’uno poppa e l’altro no.”
Anche questo era vero ma non si poteva dire. Ai due versi furono sostituiti questi altri:
l’altro aspetta attentamente
di succhiare anch’egli un po’.
In altri dettagli non posso entrare. Sarebbero divertenti pel lettore, ma la mia prosa diverrebbe chilometrica. La canzone di ognuno, Tutte le luci, Trottole, I milioni, Si e no padroni del mondo, persino l’innocentissimo Riposo festivo, furono tutti lavori esaminati con la lente d’ingrandimento e sottoposti ad amputazioni spietate.
Per sua fortuna Galdieri ha tante risorse che i miei tagli non attenuavano i suoi successi; ma per mia disgrazia quei successi aumentavano le mormorazioni, donde la necessità per me di divenire più arcigno.
Avvenivano allora per ogni nuovo copione scene come questa che ebbe luogo a proposito di E se ti dice va tranquillo vai titolo sostituito a quello più pericoloso Ma quando parla lui. Il censore (con l’aspetto di chi vuole massacrarvi): Galdieri, questa volta avete passato il segno. Dire che “si stanno inquadrando persino i sogni” che “salgono in alto tanti campioni senza valore” ecc. ecc.! E nel quadro dei neologismi osate scrivere:
c’è ad esempio una parola
velenosa come un fungo
quella là non dura a lungo
presto o tardi sloggerà!
Galdieri (con un volto da educanda): “Ma io prima parlo di futurismo, di surrealismo; si può dunque pensare a spiritismo, se vi piace anche a comuniSmo.”
Io: “Già! Il pubblico sa proprio quando cadrà il comunismo...”
Dopo un paio di ore di discussioni e di liti si giungeva a una transazione, e la tregua durava sino alla volta prossima.
La rivista C’era una volta un biglietto da mille fu preceduta da un ricorso verbale. “State attento,” mi dissero; “Galdieri ha spinto l’audacia fino a mettere in iscena il Presepe!” Il Presepe in una rivista! quale scandalo!
Non volevo crederci. Galdieri non avrebbe commesso un errore di gusto. E infatti niente grotta, niente di sacro. Appena la satira a una Federazione che aveva fatto il suo presepe con casette novecento. La Betlemme di Galdieri era dunque costruita da architetti futuristi. Se-nonché seguiva l’immancabile pastorale:
c’è un letto al posto della paglia gialla su cui dormiva prima il bambinello e un termosifone nella stalla sostituisce il bove e l’asinelio
e continuava:
ullero ullero
è strano, ma è vero
la mangiatoia
neppure c’è più; probabilmente
la mangiatoia serve a certa gente.
Io: “Misericordia Galdieri! dove volete arrivare?”
Per spiegarsi la mia esclamazione occorre ricordare che in periodo fascista i gerarchi erano spesso accusati di rubare. “Mangiano,” si diceva.
Vero o non vero so che le frecciate del genere erano poco tollerate, e stanco di troppe lagnanze mi ero rassegnato ad attenuare sempre, se non addirittura a sopprimere. I due ultimi versi furono sostituiti con questi altri:
overamente
la mangiatoia serve a tutt’a gente.
Ed ecco quello che accadde. Le prime sere — sbaglio involontario per non dire volontario — gli attori cantarono i versi originali. Il teatro se ne cascò dagli applausi. I reclami fioccarono. Il ministro Alfieri tutt’altro che ladro mi ordinò di vietare. Gli attori obbedirono, ma il pubblico alla pastorale commentava il taglio e diceva male del governo imbavaglia-tore.
Nonostante tagli attenuazioni ecc. non mancarono anche questa volta i ricorsi. Uno grave: “Galdieri si è beffato della stretta di mano”, allora vietatissima. Era vero. Anzi Galdieri aveva ricordato anche l’ostracismo al “lei” e lo aveva fatto attuando il suo colpo classico, citando appena le due cose in un quadro satirico di certa borghesia.
Egli presentava un'attrice e un attore in costume Ottocento, entrambi incarta-pecoriti nei ricordi. Cantavano alcune strofette. Lei ricordando i rapporti tra due suoi corteggiatori diceva che:
il suo amante assai mondano
gli stringeva anche la mano
e lui lamentava
...che se prima
nel parlare era compito
nello scrivere forbito
ora, vecchio, a quel che pare
non sa manco più parlare
prima dà del lei, ma poi
ci ripensa e dà del voi
qualche volta il tu perché
eh eh eh!
Le tre interiezioni finali non erano che il balbettio di un vecchio; ma era evidente che pronunziate con malizia potevano suggerire tutto. Come proibirle?
Il ministro stesso respinse, come io desideravo, le lagnanze del Partito al quale, bisogna riconoscerlo, non di rado recalcitrava.
Leopoldo Zurlo
Leopoldo Zurlo, censore e «pedagogo»
Dal 1931 in poi il servizio di censura teatrale, ormai centralizzato, si venne ad identificare con una sola persona: il prefetto Leopoldo Zurlo. L'esigenza di uniformità negli interventi censòri e quella di tempi decisionali brevi, avevano infatti spinto il capo della polizia Arturo Bocchini a preferire l 'attività di un censore solitario a quella dell' eterogenea commissione prevista dalla legge. Furono poi le capacità professionali di Zurlo sommate alle sue qualità culturali ed umane a personalizzare ulteriormente il servizio, determinando un rapporto inusitato fino ad allora, tra il censore e gli autori, gli attori, gli esercenti, gli impresari:
Fornito com'é di competenza profonda della materia, di intuito e sensibilità politica spiccatissimi - gli riconosceva infatti nel dicembre 1943 il ministro della cultura popolare Fernando Mezzasoma -, ha saputo dare all'ufficio una sua impronta personale, contribuendo notevolmente all'opera di riforma del Teatro italiano. Lavoratore instancabile, ha dato effettivo e valido impulso ad uno dei servizi più delicati del Ministero.
(Lettera del ministro della cultura popolare F. Mezzasoma al gabinetto del Ministero dell'interno in data 31 dicembre 1 943, ACS, A1I, Cab, RSI, ctg. K 1 8, fase. «Zurlo Leopoldo».)
Nato a Campobasso il 3 dicembre 1875 da una famiglia benestante e politicamente attiva Zurlo si era laureato in giurisprudenza all'Università di Napoli nel 1896; in questa città aveva rinsaldato i vincoli di una collaudata amicizia con la famiglia Senise legando si soprattutto al giovane Carmine, futuro capo della polizia alla morte di Bocchini. Era poi entrato per concorso, nel 1900, come funzionario presso il Ministero dell'interno, prendendo servizio a Vasto, nell'ambito della prefettura di Chieti. Trentenne, era stato comandato a Roma nel comparto della Sanità pubblica, interrompendo l'attività due volte: per espletare l'incarico di segretario particolare nel governo Giolitti, dal 1912 al 1914, e nei gabinetti Bonomi e Facta, dal 1921 al 1922.
Ormai in epoca fascista, era stato distaccato presso l'Ente nazionale di cooperazione appena commissariato, per «condurre a termine quel severo lavoro di revisione e di controllo sugli impiegati e sui fiduciari dell'Ente richiesto dal commissariamento. Nei primi mesi del 1931 , col grado di viceprefetto e a 56 anni d'età, era ormai sul punto di andare in pensione; non sperava più in un avanzamento di carriera, dato il lungo servizio prestato fuori del Ministero («preferivo chiudere presto la mia carriera con un collocamento a riposo anzichè non essere promosso, cosa che si sarebbe potuta attribuire a demerito»). Proprio allora gli giunse la proposta di «sovraintendere alla revisione delle opere teatrali».
Arturo Bocchini in persona, capo della polizia, si era adoperato per averlo, e presto, al vertice della censura teatrale, chiedendo all' Ufficio del personale 0 di voler esaminare con speciale benevolenza, la possibilità di destinare qui, possibilmente subito, il v. prefetto Comm. Dr. Leopoldo Zurlo; funzionario che è stato riconosciuto in possesso di speciali requisiti, capacissimo, di vasta cultura letteraria, per essere designato ad assumere la direzione dell'Ufficio di cui sopra».
Zurlo fu contentissimo di accettare l 'incarico, che lo proiettava verso la promozione ormai insperata e, nel luglio 1931 , accantonata l 'idea della pensione, prese servizio alle dipendenze di Bocchini negli uffici della direzione generale della pubblica sicurezza, al Viminale. La sua stanza era contigua a quella del fraterno amico Carmine Senise, allora vicecapo della polizia. Leopoldo Zurlo sarebbe stato censore teatrale per circa tredici anni, adottando - per quanto possibile - un criterio illuminato e ispirato dal buonsenso:
«[...] bisogna lasciare all'autore l 'impressione della libertà permettendogli di dire quanto non guasta o non peggiora l'animo dello spettatore. Divieti troppo brutali e generali si risolverebbero in mormorazioni contro il Governo».
(«A proposito di Volumineide» appunto manoscritto di L. Zurlo per il ministro del maggio 1942, fasc. 3258 «Volumineide")
Colto, intelligente, ironico, incline allo scetticismo, laico, ma rispettoso della morale cattolica e per niente ottuso', assai competente in materia teatrale e in letteratura italiana e straniera, Zurlo era anche molto ambizioso. Fu proprio una forte attenzione alla carriera, a fargli accettare - in via primaria rispetto ad altre motivazioni - il ruolo di censore teatrale del fascismo che avrebbe comportato per lui, di estrazione culturale e politica liberale, la necessità di mediazioni continue e di qualche compromesso con il regime pur di non perdere l'incarico («è evidente che, come tutti coloro i quali hanno un impiego pubblico, mi slavo già abituando all'idea che nell'interesse nazionale avrei dovuto conservarlo»).
Egli, d'altronde, si era adeguato in modo indolore all'instaurarsi della dittatura pur senza grandi entusiasmi, né particolari convinzioni personali. Alle dipendenze del capo della polizia (prefetto a disposizione, totalmente digiuno in materia teatrale), Zurlo godette sin dall'inizio di una grande autonomia: stendeva i riassunti sui lavori da autorizzare, apponendo il proprio giudizio, e Bocchini avallava sempre: bocciature, tagli, modifiche e approvazioni. Firmava tutto, sotto il timbro «pel ministro» . Anche nel caso in cui pervenivano proteste al Ministero - da autorità varie o direttamente dal pubblico - contro i nulla osta appena concessi, Bocchini non sconfessava mai l'operato di Zurlo, ma sottoscriveva sempre, senza cambiare neppure una virgola, le puntualissime e circostanziate risposte del censore al Ministro.
Nel quadriennio 1931-1934, il punto di riferimento di Zurlo, per i casi incerti, non fu dunque Bocchini, ma il capo del governo: spesso, in questo periodo, il censore ricorse a Mussolini. La prima volta era accaduto nell'ottobre 1931, per l'opera «Faisons un révè» ... di Sacha Guitry : se il lavoro fosse appartenuto al repertorio italiano, Zurlo ne avrebbe subito modificato il testo per «non mostrare in pubblico i due amanti che dormivano «insieme abbracciati», ma trattandosi di una commedia francese - nella quale avrebbe dovuto recitare lo stesso Guitry - aveva deciso di chiedere, «prima di fare qualsiasi passo», «la debita autorizzazione » al capo del governo.
Mussolini dette il suo assenso al lavoro assecondando le valutazioni del censore: non gli sembrò opportuno infatti «apportarvi alcuna modificazione» trattandosi di un testo «francese che» sarebbe stato «recitato in Italia dallo stesso illustre autore»; raccomandò però, di non sottolineare troppo nella recitazione le scene (...) che mostra(va)no i due amanti abbracciati nello stesso letto e l'accenno alla camicia da notte che indossa(va) la Signora». Il ricorso a Mussolini da parte di Zurlo si ripetè molte volte nella fase di rodaggio dell'attività, andando progressivamente a ridursi fino a divenire eccezionale, in concomitanza con il trasferimento della censura al Sottosegretariato stampa e propaganda, guidato da Galeazzo Ciano, che diventò subito per il censore il punto di riferimento primario.
Il capo del governo continuò, però, ad essere interpellato regolarmente per i lavori incentrati sulle figure di Cesare, Napoleone, Garibaldi e dei grandi condottieri, in qualche modo assimilabili, nell' immaginario dello spettatore, alla sua persona. Le eccezioni sollevate da Mussolini su questo tipo di rappresentazioni erano di solito molte. In «Sant'Elena di Sheriff e Casalis, nel novembre 1937, non gradì che Napoleone fosse mostrato come un imperatore dal volto umano: in maniche di camicia, intento a radersi, trasandato e insonne. Per Zurlo si trattava di un buon testo, ma a Mussolini non piacque e, nell' agosto 1938, lo vietò.
Il capo del governo, inoltre, si riservò sempre di intervenire su tutte quelle questioni inerenti agli spettacoli teatrali, che avevano risonanza sui giornali, o che gli venivano riportate criticamente da membri del partito, o che erano oggetto di proteste da parte del pubblico, e per le quali chiedeva chiarimenti a Zurlo, prima di decidere in maniera definitiva su una eventuale revoca del nulla osta. Anche le intercettazioni telefoniche fornivano a Mussolini il medesimo spunto. In una di queste, nell'agosto 1937, una certa «sig.ra Maria» sosteneva di aver assistito ad una commedia scadente sotto il profilo artistico, lesiva per l'onorabilità degli italiani e troppo deferente nei confronti dei francesi. Subito il dattiloscritto dell'intercettazione era stato inviato a Zurlo «con »preghiera difar avere possibilmente in busta al gabinetto, un appunto sul lavoro in questione.
Il censore aveva ammesso senza difficoltà lo scarso pregio artistico dell'opera, ma negato che questa fosse offensiva per gli italiani ed eccessivamente ossequiosa nei riguardi dei francesi, descrivendo con puntualità tutti i personaggi di nazionalità italiana: una brava ragazza, un pregevole artista, un simpatico giovanotto, un grande industriale. «Personaggio equivoco è solo il vecchio Marini, - aveva concluso - pittore da strapazzo ( ... ). Ma ( ... ) è figura di nessuna importanza e non da esso la commedia trae il suo significato». Mussolini però non piacque e il lavoro non si recitò più.
Quando il servizio di censura teatrale passò al Sottosegretariato stampa e propaganda, nell'aprile 1935, Zurlo accettò di mantenere l' incarico. Fino ad allora, aveva revisionato complessivamente 5308 copioni, autorizzandone 4625 (l'87,13%), proibendone 468 (18,82%) e sospendendone 215 (il 4,05%), in regime di semiautonomia e senza avere problemi di sorta con Bocchini. Il prefetto, perciò, non era entusiasta alla prospettiva di un cambiamento: passare al Sottosegretariato comportava non solo lasciare Bocchini e abbandonare fisicamente i suoi uffici al Viminale, ma implicava mantenere rapporti con un capo divisione e un ispettore generale, cosa a lui sgradita, considerato l' alto grado di carriera raggiunto. La promessa di Ciano di porlo alle sue dirette dipendenze e soprattutto il timore di dispiacere ad un uomo tanto potente, avevano spinto Zurlo ad accettare.
Così Galeazzo Ciano il 4 aprile 1935, a soli tre giorni dall' istituzione dell'Ispettorato del teatro, aveva potuto chiedere al Ministero dell'interno di «disporre che il Prefetto Zurlo» passasse («unitamente al personale a lui addetto, presso [...] (il) Sottosegretariato». Ciano fu di parola e in effetti, dall'aprile 1935, nei suoi rapporti con il prefetto, non ci furono intromissioni di direttori generali o capidivisione. Il genero di Mussolini interveniva, generalmente su richiesta dello stesso censore, con competenza e autorevolezza, senza lasciarsi troppo condizionare dai pareri di Zurlo, né da quelli della Commissione artistica, che si esprimeva in seno all'Ispettorato del teatro sulla qualità dei testi da trasmettere per radio.
Il passaggio al Sottosegretariato provocò, però, per l'Ufficio censura teatrale un mutamento sostanziale, non tanto nella prassi e nelle tecniche di censura ma nell'ottica in cui la censura teatrale veniva effettuata. Sin dall'Unità d'Italia questo settore istituzionale era stato concettualmente e praticamente finalizzato a proibire, tagliare, eliminare, per salvaguardare la morale, la decenza, l'ordine pubblico, il sentimento religioso: era stato in sostanza un ufficio di polizia; da quel momento in avanti, invece, l'obiettivo primario e ufficiale per l'attività di censura divenne il dovere di contribuire in qualche modo all' elevazione artistica della produzione teatrale italiana.
Il concetto di elevazione artistica delle opere da parte di un Ufficio di censura era quanto mai ambiguo: Ciano e De Pirro da un lato e Zurlo dall' altro non avevano in mente la stessa cosa a questo proposito. I primi pensavano infatti ad una riforma del teatro su un piano prevalentemente etico-politico-propagandistico, che dovesse portare sulla scena l'immagine di un'Italia nuova e rigenerata dal fascismo, qual era al loro occhi l'Italia del tempo di Mussolini:
«Sarà necessario - aveva scritto infatti De Pirro, nel 1935, nella relazione al decreto istitutivo dell'Ispettorato del teatro, poi approvata da Ciano - che gli autori, seguendo il monito del Capo, mutino rotta e dedichino al teatro le proprie energie con una visione più elevata dei propri doveri di artisti, sia dal punto di vista morale e sociale, che da quello di una comprensione più viva ed attuale del mondo odierno italiano.»
Relazione al decreto istitutivo dell'Ispettorato del teatro (Ciano-De Pirro)
Zurlo, invece, pensava soprattutto ad una riforma sul piano etico-filosofica-letterario, che portasse a chiudere definitivamente con l'esperienza del teatro verista, giudicata - e non soltanto da lui - superata e nociva, dando forma a quello che usava definire «il teatro del nostro tempo», animato da valori vivificanti e positivi al di sopra e al di là del fascismo, col compito specifico di educare e di elevare l'animo degli spettatori. Lo spiegava con chiarezza, nel 1935, all'autore Antonio Lazzarino, motivando il veto al suo lavoro «Così la vita»:
( ... ) Il suo dramma risente dell'epoca in cui nacque. ( ... ) È tutto improntato a un verismo che il pubblico mostra di n011 gradire più. Non la consiglierei di continuare su questa strada che anche a me piace poco perchè non eleva l'animo dello spettatore e non risponde a quello che dovrebbe essere il teatro del nostro tempo. Lei è caduto nell'errore rimproverato ai naturalisti. Essi pretendevano di copiare la realtà e ne sceglievano invece gli aspetti più brutti; mentre per fO ltuna la vita non ha tanta sostenuta cattiveria né così costante banalità.
Zurlo non negava l'esistenza di «situazioni equivoche e dolorose», di «gente deforme e divorata dal 'lupus'», ma accanto a queste sussistevano - a suo giudizio - realtà confortanti e positive, che il teatro doveva recepire evitando di «diventare» soltanto «un'esposizione di miserie morali specie quando, notonizzato il male, l'autore non si cura(va) di suggerirne il rimedio».
Secondo il censore, come nella vita esistevano il marciume e la cattiveria destinati a soccombere di fronte a forze ed energie positive, o quanto meno a convivere con esse, così sulla scena il male e gli eroi negativi potevano trovare posto ed essere tollerati, solo se gestiti senza ambiguità dagli autori, nella prospettiva della condanna e della sconfitta totale o del riscatto morale, in modo che il messaggio inviato al pubblico risultasse educativo e confortante:
Il copione del dramma 'Musolino' si restituisce privo di provvedimenti - scriveva infatti Zurlo all'interessato nel 1936 - perché ( ... ) non è il caso ( ... ) di portare sulla scena un brigante tanto più che l'autore sorvola sui delitti da lui commessi mentre indugia su quanto può nel giudizio di un pubblico popolare attenuarne la colpa.
(Minuta di Zurlo alla compagnia di prosa ' L'Ecclettica' in data 18.9.1936, ibid. , b. 405, fase. 7636 «Musolino»)
C'era, dunque, una convergenza di fatto tra l'immagine edulcorata e artificiale di un'Italia nuova che la propaganda fascista intendeva promuovere anche attraverso il teatro, e la visione idealistica della vita che era propria di Leopoldo Zurlo e che il teatro doveva a suo giudizio riflettere. C'era inoltre un' innegabile concidenza tra alcuni caposaldi della cultura fascista e della cultura liberale - sulla cui base operare tagli e divieti - quali il rispetto dell'ordine costituito, delle gerarchie, dell'esercito, delle istituzioni, della famiglia. Queste affinità e convergenze permisero a Zurlo di svolgere il suo compito di censore e di «riformatore» con convinzione, senza eccessive crisi d'identità e di coscienza, e soprattutto di farlo in modo soddisfacente e proficuo per il fascismo, eliminando in sostanza dalle scene fatti, persone, valori sgraditi:
Abolisca quel titolo, - suggeriva infatti ad Antonio Lazzarino - riporti l'azione al principio del secolo fissandola chiaramente per lo spettatore, tolga gli accenni al presente e riprenderò in mano la pratica per un benevolo provvedimento. Se poi vuol mantenere l'azione al giorno d'oggi non faccia del capo delle organizzazioni sportive un gobbo, nè metta in iscena elezioni di quel genere. ( ... ) La fine ( . .. ) potrebbe essere un'altra, più confortante ed elevata. Mi perdoni queste parole aspre - concludeva - ma il mio compito ingrato mi obbliga a un' estrema sincerità, né Ella può giudicar male il mio vivo desiderio di contribuire, attraverso la censura, all'elevazione della produzione italiana.
(Minuta di Zurlo ad A. Lazzarino in data 3.1.1935)
Questo mutamento di prospettiva della censura - da un'ottica negativa di eliminazione ad una positiva di ausilio alla costruzione - comportò che accanto alle tecniche tradizionali, si aggiungesse un'altra modalità d' intervento: l'autorizzazione a fronte di una riscrittura totale del lavoro, oppure della parte centrale o del finale, secondo le istruzioni del censore a mo' di pedagogo. L'ambiguità del ruolo (censorio-pedagogica-riformatore) rivestito dall'Ufficio censura teatrale, dalla metà degli anni Trenta in avanti, si andò accentuando quando Dino Alfieri divenne ministro della cultura popolare, al punto da spingere gli autori a chiedere ufficialmente non tanto «un allargamento dei criteri che governa(va)no la censura delle opere drammatiche», quanto «una loro più esplicita chiarificazione».
Pur ammettendo che il teatro si dovesse adeguare «alla grandezza degli eventi e dei problemi morali, politici, filosofici, storici, sociali, religiosi, educativi» realizzati e proposti dal fa scismo, tuttavia gl i autori erano certi che l'eIiminazione sistematica dai testi dei «conflitti di persone, di caratteri, d'idee e di mondi diversi» , operata dalla censura, non potesse portare alla creazione di un teatro vivo e autentico». Assolvevano Zurlo; elogiavano, anzi, la sua «opera intelligente e conciliativa», ritenendolo il prezioso e abile mediatore grazie al quale le loro opere teatrali potevano comunque essere rappresentate. Però chiedevano:
una censura spiritualmente più larga la quale ( ...) possa consentire agli scrittori del teatro italiano nell'cra fascista l'emancipazione dei loro spiriti creativi da quella specie di incerta soggezione limitativa che attualmente ci fa, non di rado perplessi di fronte alla trattazione di problemi e conflitti, i quali rigorosamente esigono non solo esposizione di verità e di fedi dal regime conquistate, ma anche di errori insiti nell'umana natura e solo superabili, drammaticamente parlando, attraverso appassionate contrapposizioni di personaggi, di idee, di sentimenti e di fatti.
(Alfieri rimase sordo a tali richieste. Nel 1939 tentò addirittura di lanciare una campagna promozionale per un teatro di propaganda, incaricando De Pirro di invitare gli autori a scrivere opere a tendenza fascista, in cambio di un lauto compenso e della certezza della rappresentazione. L'iniziativa fallì totalmente per mancanza di partecipanti, spiazzati dall'aleatorietà del concetto di «opere a tendenza fascista». Alcuni si erano persino rivolti a Zurlo per avere delucidazioni, ma il censore non aveva potuto aiutarli, cfr. L. ZURLO, Memorie inutili ... cit., p. 295.)
Lo stesso De Pirro, nell'aprile 1938, di fronte a queste critiche fondate, aveva inserito in un promemoria per il ministro, tra le varie iniziative previste per l' anno successivo, l'eventuale riforma dell' «attuale sistema di censura», ma né Alfieri, né Pavolini, né Polverelli modificarono nulla in quest'ambito e Zurlo continuò, in un'ottica di sempre maggiore autonomial, la sua attività secondo i canoni consueti.
Anzi il tono pedagogico si venne ulteriormente accentuando nel tempo e spesso le modifiche proposte e imposte finivano con lo stravolgere del tutto l'intento originario degli autori. Come dimostra il suggerimento dato a Giulio Trevisani per una rivista ambientata in periodo bellico; in questa Adamo ed Eva, nudi, si recavano in un negozio per acquistare abiti con la tessera-punti, ma dovevano rinunciare a coprirsi perché i punti non bastavano alla necessità:
Volete un suggerimento? - scriveva il prefetto - Presentate due trogloditi svegliati al mondo moderno, fate in modo che scelgano male dando le precedenza a ciò che brilla invece che a quanto è utile e arrivate alle conclusioni più bizzarre. Potrete allora colpire la vanità femminile, la leggerezza maschile, l'umanità insomma coi suoi difetti fondamentali; ma non avrete criticato un provvedimento dettato dalle patriottiche necessità dell'ora.
(minuta di Zurlo a G. Trevisani in data 4.12. 1 941, ACS, MCp, DGTM, UCT, b. 649, fasc. 12342 «Dieci in condotta». Prima di consigliare la modifica complessiva della trama, il censore aveva rilevato: «Morale: i punti sono troppo scarsi per l a popolazione. Questo è un rimprovero al Govemo, mi pare, e non c'è bisogno ch'io spieghi quanto inopportuno»).
La carriera di Zurlo come censore - nell' ampia accezione descritta - terminò ufficialmente il 31 dicembre 1943 (a 68 anni), dopo il rifiuto d i aderire alla RSI («Non avendo io fatta dopo l'8 settembre alcuna adesione alla repubblica - scriveva egli stesso nel 1944 - , avendo anzi dichiarato che non avrei seguito il Ministero al Nord ed essendomi anche allontanato materialmente dall'Ufficio, fui sostituito nei predetti incarichi».)
Patrizia Ferrara, «Censura teatrale e fascismo (1931-1944) - La storia, l'archivio, l'inventario», Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per gli Archivi, 2004
Riferimenti e bibliografie:
- "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
- Andrea Sanseverino - quadernidaltritempi.eu
- http://www.lazionauta.it/
- http://www.lindau.it/
- Ranieri Polese - http://pensierisullacarta.blogspot.it/
- http://www.quicampania.it/
- http://arabeschi.it
- Fumetti tratti dal libro "Totò, Scalfaro e... la malafemmina" di Angelo Olivieri - Ed. Daga (Autori: Artioli, Attalo, Barbara, Bompard, De Simoni, Di Nistri, Mosca, Majorana, Scarpelli Tratti da: Marc'Aurelio, Don Basilio, Il Travaso, Il Tartufo)
- "Processo allo spettacolo", Domenico Tarantini, Edizioni di Comunità, Cremona, 1961
- "Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista", Nicola Fano, Liberal Libri, Firenze 1999
- "L'arte della commedia", Mario Monicelli, Dedalo, Bari 1986
- "Il CCC citato in giudizio da un produttore", Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 4 dicembre 1955
- Leopoldo Zurlo - Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1952
- "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
- "Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli" (Nino Masiello), Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994
- Domenico Meccoli, «Epoca», anno V, n. 186, 25 aprile 1954
- Angelo Cecchelin in "Il Giornale di Torino", 1946 - "Achab", n.516, 1976.
- Video "Me ne frego! Il grande Totò e la censura del regime" - Canale Youtube History Channel Italia - HistoryIT
- U. Guspini, «L'orecchio del regime. Le intercettazioni telefoniche al tempo del fascismo», Ed. Mursia 1973 (Intercettazione telefonica tra Mussolini e Leopoldo Zurlo, capo Ufficio censura del regime.)
- Documenti censura (Film Totò e Carolina) Ministero dei Beni e per le Attività Culturali e per il Turismo - Direzione Generale per il cinema - cinecensura.com
- Patrizia Ferrara, «Censura teatrale e fascismo (1931-1944) - La storia, l'archivio, l'inventario», Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per gli Archivi (2004)
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Gino Visentini, «L'Europeo», anno VI, n.12, 19 marzo 1950
- Luigi Zampa, Che cosa pensiamo della censura, "Cinema", n. 87, 1° giugno 1952
- Michele Serra, «L'Europeo», anno X, n.2, 10 gennaio 1954
- "Censura romana", «Noi Donne», anno X, n.50, 18 dicembre 1955
- Maria Maffei, «Noi donne», anno XVI, n.50, 17 dicembre 1961
- Vincenzo M. Siniscalchi, «Rivista del Cinematografo», settembre-ottobre 1964
- «Il Popolo», 28 marzo 1964
- «L’Osservatore Romano, 23-24 marzo 1964
- Ranieri Polese, Corriere della Sera, 28 gennaio 2005