Totò e... Cesare Zavattini
Sei il mio uomo
La rassegna stampa
Totò e... Cesare Zavattini - Le opere, le collaborazioni
San Giovanni decollato (1940)
L'oro di Napoli (1954)
Totò: i premi i riconoscimenti
Titina De Filippo, l'amica e la compagna di lavoro
Perché mai proprio la bombetta?
Totò, serio discorso di un attore comico
Totò, l'arte di far ridere
Totò, il comico dalla faccia tragica
La maschera di Totò
Totò, il comico irripetibile
Il grande Totò muore ignorato dalla critica - «Il principe straccione»
Si gira «San Giovanni decollato»: resoconto della «piattata»
Sveliamo il mistero della nascita di un film: «San Giovanni decollato»
Totò e sua figlia
Totò calzolaio in «San Giovanni decollato»
Totò in «San Giovanni decollato»
Totò, ovvero Pulcinella
Totò al Lirico - Gli occhi più disillusi del mondo
Totò impugnerà la spada di Don Chisciotte
«L'oro di Napoli»: per vedere De Sica i napoletani bloccano il traffico
Totò vent'anni dopo riabilitato dalle risate dei giovani
Totò cantante: discografia e incisioni per la Columbia
La polemica moralistica sull'«Oro di Napoli»
Che cosa dice Napoli del suo «Oro»?
Vittorio De Sica cerca l'oro di Napoli
L'oro e la banca di Napoli
Carnet di Napoli con oro o senza
De Sica a Napoli cerca l'oro di Marotta
Tre veri napoletani a Napoli
I pensieri di Totò
Vi raccontiamo «Il giudizio universale»
Liliana, una bambola in regalo

Cercherò di riferire con la massima precisione i discorsi ed i pensieri di questo grande mimo napoletano da me registrati in casa sua, Viale Parioli, 41, la sera del 19 agosto. Totò aveva un bellissimo vestilo color tortora, le gambe secche e pelose su un tavolino intarsiato. Dietro la sua testa il quadro di un trisavolo dal volto aguzzo; mi ricorda Cesare Beccaria tra i ritratti degli allievi illustri sulle pareti dei corridoi nel collegio ducale di Parma.
Totò ama la sua casa e i suoi oggetti come un bambino: gli ho visto con questi miei occhi lucidare un vassoio d’argento dopo aver fatto servire agli ospiti calici di macca rese; e per un buco nel tappeto causato da una sigaretta — credo di essere stato io — si rannicchiò nella poltrona come una statuina di Gemito.
Non voglio essere indiscreto, ma una giornata presso questo marchese quarantenne si presenta con i tagli arditi di una commedia. Tutta la sua vita privata conferma come egli sia uno scrittore traviato, un diarista mancato: la cosa più interessante e commovente del mondo per Totò è proprio il sangue blu Antonio De Curtis, ed egli soffrirà sempre di non poterne raccontare la biografìa segreta. Sul palcoscenico continua « più forte » gli atti quotidiani. Ecco la spiegazione delle rare risonanze del suo movimento: qualche cosa molto piò sangue e memoria deila comune definizione: le mosse di Totò.
Totò tende verso un mondo preciso: talmente chiaro in lui che non sente i pericoli del suo carattere. La materia favolosa del suo gesticolare diventerà serie d’immagini classiche solo se accentua quel rigore che in La camera fittata a tre o dovuto al tempo come somma di riflessioni. Con uno sforzo, egli può arrivare al teatro nel senso di creazione totale: dove “ l’attore segua l’autore.” Il suo “moderno” sta per valicare l'aneddoto e agganciarsi solamente i motivi prediletti della sua vera immaginazione: non all’attore dunque rivolgiamo il discorso, ma all’autore. L’attore è immobile, non gli domandiamo altro (e non commettiamo certo l’errore di esigere da lui dei mutamenti, o l’abbandono di alcuni suoi tipici atti, sarebbe come stancarsi della propria voce) va magnificamente bene coin’ò (e neanche il diavolo per fortuna riuscirebbe a cambiargli un gesto); tutto il lavoro dev’essere fatto dalla parte dell’autore. E che qualche cosa d'importante — la sua crisi — stia avvenendo mi pare comprensibile anche dai seguenti appunti.
Riferisco le sue parole. Se ne aggiungo qualcuna, se completo o chiarisco, lo faccio sempre nell’ordine rigoroso delle intenzioni di Totò. "Leggo poco. Ma ho sempre il rimorso di leggere poco. Spero che equivalga all’avere letto un poco di più.Qualche volta penso di abbandonare il varietà per il teatro. Non significa nel mio caso sottovalutare il primo rispetto al secondo, poiché lo stesso varietà con il repertorio che sogno diventa automaticamente teatro.
Riassumiamo: scrivere una commedia con il coraggio del varietà" (es. Sei personaggi in cerca d’autore, La piccola città. Questa affermazione può far inorridire, ma provate a pensare a Petrolini con il genio di Pirandello). Adopero spesso le parole surreale e metafisico. Qualche amico mi ha messo in guardia, sono un po’ troppo adoperate e vaghe. Io non arrossisco nel dirle, per me vogliono dire fantastico come lo avrei detto a dieci anni. Credo che i cartoni animati siano surreali e metafìsici nel mio senso un po' ingenuo: per questo vorrei essere come Maximum, il protagonista di un cartone animato. Anche perché vorrei parlare pochissimo. Ridere, esclamare; io rido in due modi, e proprio da cartone animato. Questa mia preferenza dovrebbe far capire l’urgenza di una regia che doni al palcoscenico dimensioni sbalorditive.
Anche alcune riviste me le scrivo io. Ma talvolta c’è tra le cose che penso e la loro espressione un velo. In Tarzan quando entro in scena con la camicia bianca e le alette vorrei veramente volare intorno a Lucifero come una farfalla. Invece un lazzo mi tiene incollato sul palcoscenico. Nessuno si accorge che certe sere io combatto una battaglia violentissima: Totò contro il suo repertorio. Sono momenti nei quali mi sembra di soffocare, e allora mi vedete spiccare un salto straordinario — vi assicuro straordinario —, e tento di arrampicarmi su per il sipario. Reagisco alla consuetudine della recitazione. Direi che è un fatto fisico. Vorrei persino precipitarmi nella voragine della platea e correre sulle teste degli spettatori.
Qualcuno ha scritto che io sono un’ameba. Giusto se si pensa che il fluttuare della forma sia il desiderio di essere sempre diverso. Vista l’impossibilità di identificarsi stabilmente subentra l’ansiosa ricerca della cosa o dell’essere che più ci somiglia. O una marionetta o un uccello. Mettete un po’ insieme queste due metamorfosi! La mia non è una situazione originale, ho intuito che anche i miei simili nascostamente si trasformano con il pensiero — quante volte al giorno! — in un albero, in un gatto, in una lucertola. Io sento nelle vene le parentele più remote, per questo un illustratore mi accontenterebbe cambiandomi di colpo un braccio in un giglio, un occhio in un ranocchio, e petali di girasole per capelli. Vedete quella piccola mensola? La mia Danza del cigno che è un pezzo riuscito, mi sembra, nacque guardando quella mensola. Avevo sempre una grande voglia di volare lassù, di appollaiarmici tra lo stupore dei miei familiari.
Il movimento! Il bisogno di rompere oggetti, vorrei che mi scrivessero un atto durante il quale io non faccio che rompere tazze bicchieri vasi e mobili. Il fracasso si compone in musica. Contemporaneamente dovrebbero scoppiare fuochi artificiali, la camera riempirsi di fumo. La mia infanzia è tutto un fuoco artificiale; sento ancora l’odore della polvere pirica. "Conosco l’umorismo moderno più nei settimanali che nei libri. Mi pare di essere esattamente dentro al mio secolo. Altri comici risolvono brillantemente il lato dialettico. Io tendo alle figure. Tra una battuta e la mia spada che si allunga, si allunga tenendo cosi a debita distanza l’avversario, io mi commuovo per la spada (e invidio la battuta).
A proposito di commozione, io non sono un sentimentale. I miei simili mi interessano per quanto essi non appaiono. Una bolla di sapone diventata di vetro — e io ci metto dentro un pesciolino rosso preso nel vuoto — mi commuove veramente. A ogni modo ho la coscienza tranquilla, poiché anche le bolle di sapone sono creature di Dio. Il 1940 è un anno capitale per la mia vita artistica: ho cominciato a capire di essere pigro. Sono le prime occasioni che cerco di descrivermi. Una volta dicevo: io beffo la vita. Definizione barocca e adatta a troppa gente. Ora mi sono accorto che io amo la vita: il desiderio di comunicare con tutte le cose. Sarò meno pigro nel concepire lo spettacolo: che è la vita fermata con la fatica nei momenti a noi congeniali. [...]
Press'a poco tutto questo ha detto Totò. Siamo scesi insieme dallo scalone della sua villa, da basso aspettava l’autista con il berretto in mano davanti alla Lancia come nei manifesti. «Farò un articolo» gli ho detto. «Lungo?» mi ha chiesto con ansia.
Cesare Zavattini, «Scenario», anno IX, n.9, settembre 1940
Nessun Totò senza Totò
Uno dei quattro film italiani che saranno presentati al Festival internazionale di Venezia, è «Miracolo a Milano» di De Sica. Il titolo originale del film era «Totò il buono», come l'omonimo romanzo di Cesare Zavattini dal quale il soggetto del film è stato tratto. Quando De Sica presentò il piano finanziario per la realizzazione del film a un importante produttore, questi, dopo aver accettato tutte le condizioni, domandò quale fosse la cifra che Totò richiedeva per la parte di protagonista. Quando De Sica, rispose che Totò non c'entrava, si rifiutò di finanziare il film che, secondo lui, senza il conico napoletano aveva minori probabilità di successo. Per non far cadere nello stesso equivoco anche gli spettatori, De Sica ha creduto opportuno cambiare il titolo del film in quello di «Miracolo a Milano»
«La Settimana Incom Illustrata», 12 agosto 1950
Totò e la sua magica colomba tra i "barboni" della periferia
Il film di De Sica apparve nel 1951 e suscitò allora contrastanti pareri. La fiabesca vicenda d un soggetto di Zavattini. Protagonista il giovane Francesco Golisano
Miracolo a Milano, diretto da Vittorio De Sica nel 1951, è «il film del mese» che andrà in onda questa sera alla televisione. Su un soggetto di Cesare Zavattini — elaborato in un primo tempo in collaborazione con Totò, che doveva esserne il protagonista, e poi con Suso Cecchi D'Amico, Mario Chiari, Aldo Franzi e lo stesso De Sica — il film suscitò, al suo apparire, contrastanti giudizi: vi furono cioè esaltatori e denigratori della nuova opera di De Sica, e, soprattutto, coloro che rimasero perplessi poiché ritenevano il simbolismo fiabesco del film privo di una profonda e convincente problematica e tale da farlo loro apparire nettamente inferiore ai precedenti film di De Sica, a carattere sociale, come — ad esempio — Sciuscià e Ladri di biciclette.
Il ruolo principale di Miracolo a Milano, che — come abbiamo detto — avrebbe dovuto essere sostenuto da Totò, fu affidato al giovane attore Francesco Golisano, scoperto e lanciato da Castellani, che ha avuto attorno a sé attori valorosi, rome Emma Gramatica e Paolo Stoppa e, inoltre, Brunella Bovo, Guglielmo Barnabò, Anna Carena, Arturo Bragaglia e alcuni autentici «barboni» milanesi.
La fiabesca vicenda ha inizio quando la vecchia Lolotta adotta un bambino trovato sotto un cavolo e gli dà il nome di Totò. Passano gli anni e un giorno la vecchietta muore,- sicché il bimbetto viene ricoverato in un orfanotrofio. Diventato un ragazzotto, Totò esce dall'orfanotrofio e casualmente viene a contatto con alcuni « barboni » accantonati alla periferia di Milano, i quali simpatizzano subito col bravo ragazzo.
Nella «bidonville» dei «barboni » capita un giorno un fatto nuovo e importante: nel sottosuolo dell'area occupata dalle misere baracche si scopre il petrolio; un industriale acquista quel terreno e, per far sloggiare i « barboni » chiede l'intervento della polizia. A questo punto appare lo spirito di Lolotta che dona al suo Totò una magica colomba. Con l'aiuto di questa, Totò compie sorprendenti azioni miracolose e riesce persino a sbaragliare gli agenti della forza pubblica. Ma, per una distrazione, due angeli si impossessano della colomba e i « barboni » sono costretti a cedere.
Ancora una volta ricompare lo spirito di Lolotta. che riconsegna la colomba a Totò che ora darà ai suoi amici «barboni» la possibilità di seguirlo in un mitico paese dove regna la bontà e la giustizia, dove — come dice la didascalia finale — « quando la gente dice buon giorno, intende davvero dire buon giorno» [...]
«Stampa Sera», 27 febbraio 1961
«Totò, tu sei il mio uomo!»
Cesare Zavattini ricorda l'attore in un volume a lui dedicato.
Tutto il periodo del teatro degli anni Trenta, direi che non mi interessava — certo non quanto da ragazzo, mi aveva appassionato il variété. Qualche rivista, certo... C'era Galdieri, che ne faceva un sacco, ma non le condividevo. La rivista alla Galdieri contraddiceva tutta la creatività del variété italiano. Galdieri, se faceva prendiamo «Orlando furioso» con Totò, con le ballerine, le scene, questo e quello, e tante filastrocche poeticistiche... reggeva; ma questo non vuol dire niente, era superficiale, piccolo-borghese.
Vassoio stemmato
Come si salvava Totò? Si salvava perché inseriva sempre dentro lo spettacolo qualche suo testo. Questo ha un’importanza non comune, perché non c'è pericolo, erano brutte cose, e quando più non sembravano brutte, tanto più lo erano. Pareva che si elevassero a un certo tono che dava a Totò un valore che altrimenti non avrebbero avuto, mentre invece il suo valore lo aveva intatto laddove respingeva tutto quest'altro materiale. Il suo sketch era lì, si poteva sempre dire: «facciamo tre sketch di Totò, e siamo a posto» ; ma l’immaginazione di quelli che lo manipolavano era un vero disastro.
Io avevo cominciato a contattare Totò, e poi siamo diventati amicissimi, ma Totò non era trattabile in quanto non aveva logica... Stava volentieri a chiacchierare con me chissà di che cosa (mi ricordo che quando in viale Parioli 41 ci serviva vino o caffè, lui in persona, su un vassoio d’argento stemmato, poi lo riponeva sull’étagère pulendolo con il gomito), ma poi usciva e se Guglielmo Giannini gli offriva una cosa la faceva perché seguiva certi criteri pratici, senza mai amministrarsi mentalmente, culturalmente, intellettualmente. Ma era di tale qualità che tutti lo volevano, perché funzionava sui pubblico, e cosi lo prendevano mescolando il buono e il cattivo, in un gran casino, cosi che non era facile scegliere il loglio dal grano.
A Milano feci una grossa campagna per Totò, nei primissimi anni Trenta, perché i miei amici mal andavano a vedere questi spettacoli, mai andavano al Trianon, io invece ci andavo per via dei residui del mio vecchio amore per il variété. Insomma, a un certo punto dico: «Totò, tu sei il mio uomo!» e scrivo Totò il buono. E sarebbe andato magnificamente bene, ma non c'era rispondenza effettiva nell’ambiente per prendere Totò in forza in quel modo li. Ho avuto forse la più grande occasione della mia vita, quando Capitani mi offerse di fare il regista di San Giovanni Decollato con Totò, perché il povero Zambuto non era più in grado. Ma io non ne ho avuto neanche per scherzo il coraggio. Dio sa cosa sarebbe accaduto!
Per avere Totò con me me lo sono associato, mi sono fatto rilasciare una sua dichiarazione, per avere anche verso la produzione una carta in mano. Questo nel ’35, già per Darò un milione di Camerini. Ma la produzione non se la sentì, io feci di tutto, e il soggetto era un bel soggettino, una cosa molto cinematografica, con una buona idea in cui si mescolavano dentro da Frank Capra a Charlot e a Clair e alle comiche e alla mia natura. E anzi avevo proposto a Camerini anche Keaton, ma Camerini non li volle, né l’uno né l’altro. Voleva la commedia senza rischi.
Era l’ambiente intorno che preferiva un Totò di un certo genere, e lui. pur rendendosene spesso conto, si lasciava però preferire cosi. Preso in un’isola deserta. senza le influenze dell’ambiente, capiva tutto, e si sarebbe riusciti a fare certe cose. Ma ci voleva l'isola, le circostanze. E a un certo punto non lo vidi neanche più, perché fu preso nel vortice dei film e degli spettacoli. Quando ci fu la possibilità del San Giovanni Decollato, non osai farlo io, subentrò Palermi. e ci sono in quel film una cosettina o due, si intravvedono delle possibilità di Totò che potevano essere sviluppate. Palermi, intendiamoci, era bravissimo, ma nel suo ordine di idee.
In un certo senso c’era in me una polemica aperta, sempre, tra il mondo della rivista e il mondo del variété. Io ero sempre dalla parte del variété, e era quello il Totò che preferivo. Restava l'avanspettacolo con attori ancora straordinari: i De Rege, per esempio. Macario era molto mediocre, Camerini era bravissimo, ha fatto due o tre film di una compitezza... commediole equilibratissime. ma tendeva alla commedia, mentre io alla «comica finale» portata in grande.
Il timbro
Per Darò un milione oltre Vittorio De Sica prese Almirante per fare Blim, si figuri... mentre io vedevo per quella parte un Macario, che valeva dieci Almirante, perché era meno realistico. Taranto mi piaceva, siamo stati molto amici, ma si fermava presto, gli nuoceva una napoletanità un po' scoperta, provinciale. Totò non era provinciale. era un fatto astratto, irripetibile. Ho visto due o tre sketch, che non credo siano raccogligli neanche nei testi perché erano tutti inventati, a soggetto. Penso al Pazzo... Totò vi camminava come le mosche, quasi sui muro. Totò nel Pazzo faceva cose che solo un pazzo può fare. Si arrampicava su una quinta oltre ogni legge fisica. E nel Timbro inventava ogni volta un modo di timbrare un foglio di carta contro tutti quelli, in crescendo, che glielo volevano impedire. Per esempio il capufficio per sottraiglielo definitivamente si metteva il timbro nei taschino; Totò. con una mossa fulminea, sbatteva il foglio di carta contro la testa del timbro che sporgeva.
Gli spettacoli di Galdieri, invece, si salvavano solo con gli Inserti fuori copione di Totò. [...] L'umorismo italiano non era poi che nascesse da una pietra, improvvisamente. C’era nel mondo questo po' po' di fatti, che intanto si chiamavano Charlot, e le comiche anche prima di Charlot, con valori inventivi che sono stati o abbandonati o male adoperati o non sviluppati, ma che contengono già i filoni nel quali dobbiamo dire che noi abbiamo più o meno assorbito. E c’era in Italia la grandissima tradizione del variété, che e-ra un terreno di sperimentazione innovazione continua, mentre nel teatro «ufficiale» c'era la noia dei Novelli... Anche da noi, la collusione varietà-letteratura-cinema, avrebbero potuto dare molto di più di quello che ha dato, perché avevano qualcosa di comune su cui lavorare. Pensiamo a un Bontempelli e a un Savinio, legati con un loro cordone ombelicale a certe sperimentazioni dello spettacolo, a Petrolini stesso, che si fotté quando si avvicinò al teatro borghese, credendo di diventare più bravo, con un errore che fanno quasi tutti.
Cesare Zavattini, «Corriere della Sera», 14 ottobre 1977
Zavattini e Totò: incontro all'ombra della Madonnina
Quando lo scrittore giunse dall'Emilia a Milano in cerca di fama e stipendio fisso. E inviava un suo libro al comico napoletano
Nel centenario della nascita di Cesare Zavattini ecco un altro piccolo fiore sulla sua personalità. Zavattini giunse a Milano nel 1930, dopo il servizio di leva. «Arrivai col cappello in mano. Salutavo tutti. Andai da Bagutta. Sedetti a uno spigolo. Non osavo alzare la faccia dal piatto. Ogni tanto vedevo con la coda dell’occhio la mano di Bacchelli intingere il gambo di un sedano nell'olio bollente. Quando entrò Vergani le invocazioni salirono al cielo: Orio, Orio, Orio! Pensavo: buon Dio, fa che io diventi come lui: il grande quotidiano, lo stipendio fisso, la fama».
Un giorno Zavattini, con aria furba di contadino emiliano, si presentò a Valentino Bompiani con i ritagli dei giornali sui quali aveva pubblicato i suoi racconti, proponendogli di fare un libro. Posò i ritagli sulla scrivania e se ne andò. Bompiani annusò, lesse e poco dopo lo cercò. «Lo pubblico subito», gli disse e due mesi dopo Parliamo tanto di me era stampato.
Sempre da Bompiani nel 1937 era stato pubblicato il secondo libro di Zavattini: I poveri sono matti. Zavattini aveva pensato di farlo avere a Totò. «Che ne dici — mi chiese —, gli mando una copia? Gliela vuoi portare tu?». E come un «pony express» ante litteram mi spedì dal grande comico. Totò alloggiava all’albergo Plaza, nelle vicinanze del Duomo; Zavattini mi aspettava sul sagrato. «II principe ha messo la sveglia per runa», mi disse il portiere pregandomi di ritornare a quell’ora.
Totò mi ricevette ancora a letto. Gli detti il libro «Ah, Zavattini! — disse — Zavattini, dov’è?».
Ero frastornato di trovarmi di fronte a lui. Totò mi fece sedere.
«Cosa volete bere?». «Niente, grazie». «Come niente?» Per liberarmi da quella insistenza mi scappò di dire: «Un’aranciata». Il colloquio si avviò, o meglio il soliloquio di Totò continuò. Lui parlava, io ascoltavo. «Zavattini verrà una sera a teatro? Vorrei conoscerlo». Non gli dissi che ci andavamo tutte le sere. «E già — continuò Totò —, noi siamo il varietà. Da noi i professori non vengono. Non abbiamo la critica del Corriere, solo poche righe piccole piccole». Il mio mutismo e il mio disagio dovettero colpirlo perché all’improvviso mi disse: «E voi non parlate?». Continuai a stare zitto. «Dite a Zavattini che l’aspetto». Rimasi da lui quasi un’ora, ricordo che mi raccontò di avere cominciato guadagnando due soldi per sera, di avere recitato in una baracca di piazza Risorgimento in una compagnia di guitti, facendo l’attore comico ne La cieca di Sorrento.
Zavattini ogni sera portava qualcuno a vedere Totò: Quasimodo, Carrieri, Repaci. Ad uno ad uno intruppava tutti i letterati e gli artisti che erano sulla piazza: Campigli, De Chirico, Marino Marini, Carrà. Non ricordo bene se fu De Chirico o Campigli, sicuramente uno dei due che a fine spettacolo disse: «Se l’America ha Charlot, noi abbiamo Totò».
Gaetano Afeltra, «Corriere della Sera», 21 ottobre 2001
Io avevo cominciato a contattare Totò, e poi siamo diventati amicissimi, ma Totò non era trattabile in quanto non aveva logica ... Stava volentieri a chiacchierare con me chissà di che cosa (mi ricordo che quando in viale Parioli 41 ci serviva vino o caffè, lui in persona, su un vassoio d'argento stemmato, poi lo riponeva sull'étagère pulendolo con il gomito), ma poi usciva e se Guglielmo Giannini gli offriva di fare una cosa la faceva perché seguiva certi criteri pratici, senza mai amministrarsi mentalmente, culturalmente, intellettualmente. Ma era di tale qualità che tutti lo volevano, perché funzionava sul pubblico, e lo prendevano mescolando il buono e il cattivo, in un gran casino, così che non era facile scegliere il loglio dal grano.A Milano feci una grossa campagna per Totò, nei primissimi anni Trenta, perché i miei amici mai andavano a vedere questi spettacoli, mai andavano al Trianon, io invece ci andavo per via dei residui del mio vecchio amore per il Varieté. Insomma, a un certo punto dico: «Totò, tu sei il mio uomo!» e scrivo "Totò il buono".
Cesare Zavattini
Cesare Zavattini e Antonio De Curtis, Totò il buono, “Cinema”, n. 102, 25 settembre 1940
Poco dopo, Totò scrive a Zavattini una lettera con la quale rinuncia a ogni diritto materiale e morale sul soggetto, dichiara comunque di riconoscersi nel personaggio “al cento per cento, nelle mie più segrete aspirazioni” e manifesta il desiderio di interpretarlo e di collaborare alla sceneggiatura (“tu sai che su quella linea non mi mancano le idee e le trovate efficaci, tu sai che toccandomi nei tasti giusti io so inventare oltre che interpretare”).
E una liberatoria progettata fin dal principio: in realtà il soggetto è del solo Zavattini, tutt’al più con qualche suggerimento di Totò (come la nascita del protagonista dentro un cavolo); l’adesione dell’attore, e il permesso di utilizzare il suo nome per il personaggio, potrebbero essere comunque decisivi per allettare un produttore.
Ma le cose non vanno come sperato, e forse lo stesso Totò non sostiene il progetto come dovrebbe. “Per Totò il buono chiamai Totò a fare da interprete”, riassumerà poi Zavattini. “Lui, come era nel suo carattere, lo ha apprezzato e immediatamente dimenticato, lasciandosi prendere dalla solita ressa di cose e di persone. [...] Quando tornai a trovarlo nella sua casa ai Parioli, mi trovavo sempre di fronte a un uomo con il quale sarebbe stato possibile fare tutto e niente nello stesso tempo”.
"L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. 1", (Franca Faldini - Goffredo Fori), Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009
E sarebbe andato magnificamente bene, ma non c'era rispondenza effettiva nell'ambiente per prendere Totò in forza in quel modo lì. Ho avuto forse la più grande occasione della mia vita, quando Capitani mi offerse di fare il regista di San Giovanni decollato con Totò, perché il povero Zambuto non era più in grado. Ma io non ne ho avuto neanche per scherzo il coraggio, Dio sa cosa sarebbe accaduto!Per avere Totò con me me lo sono associato, mi sono fatto rilasciare una dichiarazione, per avere anche verso la produzione una carta in mano. Questo nel '35, già per "Darò un milione" di Camerini. Ma la produzione non se la sentì. Io feci di tutto, e il soggetto era un bel soggettino, una cosa molto cinematografica, in cui si mescolavano da Frank Capra a Charlot e a Clair e alle comiche e alla mia natura. E anzi avevo proposto a Camerini anche Keaton, ma Camerini non li volle, né l'uno né l'altro. Voleva la commedia senza rischi.»
Cesare Zavattini
Da 'Totò il buono a Miracolo a Milano'
Erano quelli gli anni (1936-37) in cui Zavattini, da sempre appassionato del varietà, si era innamorato di Totò, andava a vederlo tutte le sere al Trianon di Milano, come testimonia Gaetano Afeltra, trascinandosi dietro quanti più amici intellettuali poteva, da Quasimodo a Repaci da Carrieri a Campigli: «A Milano Totò arrivò alla metà degli anni Trenta. Il debutto al Trianon, in corso Vittorio Emanuele, tra il '36 e il '37 andò benissimo. Il comico napoletano furoreggiava. [...] La compagnia era un miscuglio di guitti e di ballerine di fila. Però quando appariva Totò il teatro esplodeva. Zavattini mi spingeva in avanti fino sotto alla ribalta. Diceva: "È grande!". Applaudivamo come due della claque». A Totò Zavattini pensò inventandosi questo personaggio sui trent'anni, piccolo e magro, che gli somigliava anche nella fisionomia: "Totò aveva occhi neri con molto bianco intorno alle pupille, era magro con il collo e il mento un po' lunghi" (da Totò il buono, p. 8). A Totò intitolò egualmente il "romanzo per ragazzi, ma che possono leggere anche i grandi", che scrisse qualche tempo dopo per i figli, che pubblicò in otto puntate su "Tempo" nel 1942, con illustrazioni di Mino Maccari, e nel '43 presso Bompiani, disegnandone lui stesso la copertina.
A questa favola, al suo utopismo giocoso e umoristico si ispirò il tandem Zavattini-De Sica per realizzare lo stupendo film dieci anni dopo. Svariate furono le modifiche e gli aggiustamenti rispetto al testo (opportunamente calibrate sulle esigenze dello specifico linguaggio cinematografico, che non pochi cambiamenti aveva vissuto negli ultimi dieci anni); senz'altro. Diverso il titolo, non essendo più possibile affidarne il ruolo di protagonista ad un Totò ormai attempato e già troppo noto. Al primo titolo proposto da Zavattini e ripreso da una frase del romanzo, I poveri disturbano - lo stesso che accompagnava, stampato sulla fascetta, la prima edizione Bompiani - titolo che suonava indubbiamente troppo polemico, lo stesso Zavattini sostituì quello definitivo, più morbido e surreale, di Miracolo a Milano.
Ma anche quel trasferire la vicenda dal mitico stato di AA in cui si trovava la città di Bamba secondo il primo soggetto, alla realistica e nebbiosa periferia di Milano; quel coniugare, cioè, favola e realtà, aprì la strada a non poche reazioni e polemiche.
Non dimentichiamo che Miracolo a Milano uscì nel 1951, in piena ondata neorealistica e nel pieno del rigore culturale idanovista: non c'era da illudersi che un film che aveva per protagonisti dei poveri barboni in conflitto con i plutocrati non finisse nel calderone del dibattito ideologico-politico3.
Al Totò secco e nervoso del ritratto succitato, subentrò un Totò piccolo, grassottello, dall'aria allampanata e costantemente tra le nuvole, totalmente lontano dal modello credibile e corrente di leader, cioè bello forte riflessivo autoritario; eppure Totò diventa un leader: la scelta registica coincide perfettamente, esaltandoli, con gli intenti poetici zavattiniani.
Ma se Totò non rispecchiava affatto l'idea canonica o moderna di capo, i suoi compagni erano ben lontani dal rappresentare degli eroi proletari e rivoluzionari, intenti a ingaggiare una lotta di classe: non era questo l'intento di Zavattini! Semmai erano i poveri matti zavattiniani, semplici, ingenui, poveri anche nella brevità anonima dei nomi (Bib, Gec, Rap, Cast, Flamb...) e solidali nella equanime miseria, infantili nello sguardo, nei desideri e nei sogni, elementari nel linguaggio, che difendevano (anche inconsapevolmente) il loro spazio vitale, la propria visione del mondo, il proprio diritto alla fantasia: "...quale rivendicazione contro quella specie di oppressione che le classi dominanti hanno inflitto alle classi subalterne, obbligandole al grigiore della sussistenza pura e semplice. Il riscatto degli umiliati e offesi non passa solo attraverso l'acquisizione di beni materiali, ma anche attraverso l'esercizio tonificante della follia", come affermava fino all'esaurimento e in ogni occasione Zavattini stesso.
Silvana Cirillo
Totò deve tutto a un fenomenale istinto: tra l’animalesco e l’infantile. [...] Un’ameba con uno stato civile, ma un’ameba. Senza satira, senza tempo. In un limbo attraverso il quale intravediamo misteriosi formicolìi dell’animo.
Cesare Zavattini, "Totò", «Tempo», 30 maggio 1940)
Volumetto “Parliamo tanto di me” - “I poveri sono matti” – “Io sono il diavolo” di Cesare Zavattini conservato nel baule di scena di Totò |
Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977
- Silvana Cirillo in "Da 'Totò il buono a Miracolo a Milano'"
- Foto © Archivio Famiglia Clemente
(1) Fables de La Fontaine, livre sixième, I, Tours, Mane et Cie. 1852.
(2) Cfr.. ad esempio, V. la. Propp: Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Giulio Einaudi editore, 1949.
(3) Cfr. Cinema vecchia serie, Roma, n. 79, ottobre 1939.
(4) Cfr. Bis, Milano, n. 11, 25 maggio 1946.
(5) Cesare Zavattini e Antonio De Curtis (Totò): Totò il buono, in Cinema vecchia serie, n. 102, 25 settembre 1940.
(6) Francesco De Sanctis: Storia della letteratura italiana, voi. II.
(7) Adriano Seroni: Ragioni critiche, Firenze, Vallecchi editore, 1944.
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Cesare Zavattini, "I pensieri di Totò" in «Scenario», n.9, settembre 1940
- «La Settimana Incom Illustrata», 12 agosto 1950
- Aldo Paladini in "Cinema", n.3, 1951
- Guido Aristarco, "Cinema" n.57, 1951
- «Stampa Sera», 27 febbraio 1961
- Cesare Zavattini, «Corriere della Sera», 14 ottobre 1977
- Gaetano Afeltra, «Corriere della Sera», 21 ottobre 2001
- Cesare Zavattini e Antonio De Curtis, Totò il buono, “Cinema”, n. 102, 25 settembre 1940