Totò e... Federico Fellini
Totò non poteva fare che Totò, come Pulcinella, che non poteva essere che Pulcinella, cosa altro potevi fargli fare? Il risultato di secoli di fame, di miseria, di malattie, il risultato perfetto di una lunghissima sedimentazione, una sorta di straordinaria secrezione diamantifera, una splendida stalattite, questo era Totò.
Franca Faldini
Ricordate Totò? Che stupefacente, misteriosa apparizione! La prima volta che l’ho visto, moltissimi anni fa, non sapevo niente di lui, non ne avevo nemmeno sentito parlare. C’era già la guerra nell’aria e io, da incosciente, mi godevo la città che l’oscuramento, con le sue luci schermate e verniciate di blu, rendeva più suggestiva, più complice, misteriosa. Mi ero infilato in un piccolo cinema dietro la posta, dopo il film c’era l’avanspettacolo, e io ero stato risucchiato dentro, come sempre, dalla gigantografia della soubrette, una moracciona con la frangetta alla Claudette Colbert e i fianchi da mongolfiera. Mi ricordo ancora come si chiamava, poiché anche il suo nome prometteva deliri: Olimpia Cavalli!
Come mi piacerebbe rivederla! Entrai che il film era appena finito, si accendevano le luci e la platea, in un marasma fumoso e vociante, si concedeva un momento di riposo: urla, sghignazzamenti da manicomio, giaccate in faccia. Mi ero appena seduto in quella stiva di pirati pronti a tutto quando si fece sentire via via più sonora e pungente una musichetta da circo, una tarantella pazza e sinistra che percorse lo sgangherato stanzone come un irresistibile solletico. La platea si agitava tutta, allargava le cosce, sbracandosi nella posizione più comoda, con ingordigia: era scoccato il segnale che un accadimento gelosamente atteso stava arrivando. Sembrava di stare in un aereo al momento del decollo sulla pista di partenza... Ma Totò non apparve sul palcoscenico che continuava a restare vuoto e deserto. Arrivò al fondo della platea, si materializzò all’improvviso e tutte le teste si voltarono insieme come una gran ventata. In un uragano di applausi, di urla di gioia, di gratitudine, feci appena in tempo a vedere l'inquietante figuretta che avanzava rapidissima lungo il corridoio centrale della platea. Scivolava come su delle rotelline, una candela accesa in mano, il frac da becchino, e sotto l’ala della bombetta due occhi allucinati, dolcissimi, da rondone, da ectoplasma, da bambino centenario, da angelo pazzo. Mi passò vicinissimo leggero come un sogno e subito scomparve inghiottito dalle onde del pubblico che si alzava in piedi, lo acclamava, voleva toccarlo, trattenerlo. Riapparve, ormai irraggiungibile, laggiù sul palcoscenico, in una immobilità catalettica; si dondolava avanti e indietro, in silenzio, leggermente, come un missirizzi, gli occhi che giravano come le biglie della roulette. Poi, di colpo, la funebre con macchietta soffiò sulla candela, alzò la tesa della bombetta e disse a tutti «Buona Pasqua». Ma non era Pasqua. Era novembre, e la sua voce era quella di un sepolto vivo che chiede aiuto.
Qualche mese più tardi, rividi Totò, nell’occasione di una brevissima intervista. Facevo il giornalista, scrivevo una rubrichetta sull’avanspettacolo per «Cinemagazzino», un giornaletto tutto scritto da un sarto, si chiamava Reanda ed era tutto pieno di aghi e fili sulla giacca. E' merito di quel giornaletto se sono venuto una prima volta a Cinecittà.
L’intervista con Totò al Giulio Cesare, un locatone immenso che faceva film e grandi avanspettacoli. Era domenica pomeriggio, c’era quella gran folla degli spettacoli domenicali, doveva essere l’intervallo, o forse no, non era ancora cominciato lo spettacolo, perché Totò stava vicino alla cassa, protetto da transenne per tenere lontana la gente che aspettava di entrare. Era appoggiato al marmo, la testa un po’ reclinata, come un mobile o un amorino, come se facesse parte dell'arredamento, il colletto alto, i capelli impomatati, tutto tirato a lustro fumava con un'aria da gran signore, assorto e distaccato. Andarono a dirgli che ero un giornalista. Totò mi guardò e mi fece segno con la mano di raggiungerlo. Gli dissi che volevo fargli un’intervista.
Con un lieve abbassar delle ciglia mi fece capire che acconsentiva, e poi disse subito con tono calmo e definitivo: «Allora scrivete questo: che a me piace la donna e il denaro. Avete capito?». Non disse proprio donna, ma pronunciò un vocabolo napoletano che non avevo mai sentito, tenero e osceno, infantile e cabalistico, un suono di sillabe che dava benissimo l’idea di una cosa dolce, molle, umida. Mi vide perplesso: «Perche a voi non piace?».
Scrissi l'intervista, naturalmente senza riportare quel pochissimo che mi aveva detto, inventai tutto e feci un piccolo disegno.
Quando il giornale uscì, andai subito a portarglielo, questa volta era al Brancaccio, o forse al Principe, chissà che rivista c’era, c’era un motivo che faceva così: «A me piacciono le bionde con le ciglia volte in su». O qualcosa del genere. Gli mostrai il giornale col mio disegnino e l’intervista. Mi guardava stupito: «Ma davvero l’avete fatto voi?». Sembrava non crederci. Poi mi chiese se avevo visto lo spettacolo e mi mandò giù in platea a vederlo un’altra volta.
Il sentimento di meraviglia che Totò comunicava era quello che da bambini si prova davanti a un evento fatato, alle incarnazioni eccezionali, agli animali fantastici; la giraffa, il pellicano, il bradipo: e c’era anche la gioia e la gratitudine di vedere l’incredibile, il prodigio, la favola, materializzati, reali, viventi, davanti a te. Quella faccia improbabile, una testa di creta caduta in terra dal trespolo e rimessa insieme frettolosamente prima che lo scultore rientri e se ne accorga; quel corpo disossato, di caucciù, da robot, da marziano, da incubo gioioso, da creatura di un’altra dimensione, quella voce fonda, lontana, disperata: tutto ciò rappresentava qualcosa di così inatteso, inaudito, imprevedibile, diverso, da contagiare repentinamente, oltre che un ammutolito stupore, una smemorante ribellione, un sentimento di libertà totale contro gli schemi, le regole, i tabù, contro tutto ciò che è legittimo, codificato dalla logica, lecito.
Come tutti i grandi clowns, Totò incarnava una contestazione totale, e la scoperta più commovente e anche confortante era riconoscere immediatamente in lui, dilatati al massimo, esemplificati in quell’aspetto di personaggio di Alice nel paese delle meraviglie, la storia e i caratteri degli italiani: la nostra fame, la nostra miseria, l'ignoranza, il qualunquismo piccolo borghese, la rassegnazione, la sfiducia, la viltà di Pulcinella. Totò materializzava con lunare esilarante eleganza l’eterna dialettica dell’abiezione e della sua negazione.
Io l’ho incontrato poche volte, e mi affascinava, non credevo ai mici occhi quando lo vedevo da vicino. Ho avuto con lui anche una piacevolissima esperienza come regista, molti molti anni fa, moltissimi. Ho diretto il finale di Dov'è la libertà? di Rossellini. Roberto si era ammalato, mi pare, i produttori mi pregarono di concludere in qualche modo il film. Una sequenza minuscola, solo un paio di inquadrature: Totò che saltava in testa all’avvocato Talarico e gli mordeva l’orecchio. Tutto qua. Ma io ero ugualmente intimidito e a disagio. Come tutti, gli dicevo: «Senta principe, potremmo fare così, ecco, principe, lei viene avanti...». E allora Totò mi ha guardato con quei dolcissimi occhi da rondone e mi ha detto: «Voi mi potete chiamare anche Antonio». Era un'investitura; sia pure per pochi minuti ero diventato il suo regista.
L’ultimo ricordo che ho di lui è un ricordino edificante, da libro Cuore. Stavo facendo il doppiaggio di 8 1/2 o forse era un altro film, era l’ora della pausa e nel giardinetto della Scalera tutti stavano seduti chi qua e chi là, a mangiare il cestino. Vedo Donzelli, un attore napoletano che guida Totò verso il muretto dove c’è un po' di sole, lo portava per mano, un passo alla volta, come si conduce un ammalato, un cieco. Totò aveva il volto nascosto quasi completamente dietro i grandi occhiali neri che da parecchi anni ormai portava sempre. Donzelli mi si avvicina, gli chiedo come sta Totò. «Niente, non ci vede niente, assolutamente niente», e poi a gran voce rivolgendosi a Totò «Principe, lo sapete chi c’è qua? C’è il regista Fellino che vi saluta». Totò solleva la testa guardando in alto verso il cielo, mi fa molte feste cercandomi le mani, scambiammo qualche parola, e poi rimango lì in silenzio a guardarlo, era più fatato che mai, impalpabile, irraggiungibile. Sorrideva con quel sorriso inerte e disarmato che hanno i cicchi. Adesso vengono due della produzione a prenderlo uno da una parte e uno dall’altra, lo fanno comminare quasi sollevandolo, come portassero un santo in processione, una reliquia.
Spinto da una curiosità insieme scientifica e sentimentale entro anch’io nello studio, voglio vedere come fa a lavorare in quelle condizioni, non posso crederci. Nello studio tutto è pronto; facendogli evitare i cavi come in un labirinto lo conducono al centro del set potentemente illuminato, lo aiutano ad indossare il suo fracchettino, posa la bombetta sulla testa, ma ha ancora gli occhiali neri sugli occhi, se li è tolti... Corbucci, credo proprio che fosse film di Corbucci, gli spiegò la scena. Sento che gli dice: «Fai così, arriva fin là, lì ti fermi, dici la battuta, poi corri laggiù dove c’è Enzo Turco». Enzo Turco si fa sentire: «Antò, songo acca», facendogli con le mani un gesto che cade nel vuoto. Tutto a posto? Si accendono altre luci. Motore! Ciak! E solo a questo punto Totò si toglie gli occhiali ed è il miracolo. Il miracolo di Totò che improvvisamente ci vede, vede le cose, le persone, i segni di gesso che limitano i suoi percorsi, non due occhi ma cento, che vedono tutto, perfettamente. E salta, piroetta, corre sgusciando via in un salotto pieno di mobili, robottino fantastico che tira piatti e risponde fulmineamente alle domande di Turco, di Donzelli, di Castellani, e la gente della troupe tutta attorno, gli elettricisti sui ponti si mordono le labbra per non ridere, si nascondono la faccia tra le mani. Stop. La scena è finita, si cambia inquadratura. Nel caos che segue ogni fine ciak Totò si rimette lentamente gli occhiali e tende le braccia in attesa che qualcuno venga a prenderlo, e lo portano via infatti, piano piano, facendogli fare attenzione ai cavi, alle pedani ne, alla gente. E’ tornato quella creaturina incredibile che prendeva il sole poco fa in giardino, un esserino incorporeo, un dolcissimo fantasma che ritornava nel buio, nell’oscurità, nella solitudine.
Federico Fellini
Così la stampa dell'epoca
Totò e... Federico Fellini
Federico Fellini: «il mio Totò»
Un film con Fellini nelle speranze di Totò
Tardivo entusiasmo dell'"Express" e "Le Monde"
I francesi riscoprono Totò (e Fellini fa il coccodrillo)
Totò fu un grido del '68 come l'immaginazione al potere. Per gli studenti che, tra manifestazioni in piazza e assemblee, andavano al cinema nel rifiuto della cultura borghese, legata da rimpianti a! neorealismo e di complicità ai temperati acidi della commedia all'italiana. Totò fu la scoperta proletaria e sottoproletaria ricca di fascino e ammiccamenti alla moda. Ma la sua semplicità di mito popolare, come Coppi e Bartali con i quali il comico ingaggiò una gara anche fisica in Totò al Giro d'Italia, non presentava gratificazione sufficiente. La marionetta, il burattino doveva decantare volgarità e sublimare in rivalutazioni culturali. Urgeva la nobilitazione. Comincia cosi pochi mesi dopo la morte, avvenuta nell'aprile '67, l'esegesi.
Si trovarono ascendenti illustri alla gestualità, alla mimica, alla comicità dirompente, aggressiva dell'attore: la commedia dell'arte, le maschere, Pulcinella, Arlecchino, e ancora più indietro fino a Plauto, ai fescennini. Libri, saggi, convegni, retrospettive, omaggi: Totò il re dell'avanspettacolo: l'Imperatore del cinema di periferia (quanti milioni allora per le sale di quartiere!) entra nei programmi sofisticati dei cineclub, consumato eucaristicamente sugli altari dell'intellettualità. La memoria di Totò sull'imitazione del primo agiografo contestatore. Goffredo Fofi, affonda in un torrente gonfio di attributi suggestivi e intimidatori, un esercizio di alte letterature: la sua maschera allenata e collaudata tra i fischi delle spietate platee suburbane, di volta in volta è definita dodecafonica, picassiana, crudele (con riferimento ad Artaud), robotica, funeraria, surreale, brechtiana, epica. Come accettare le freddure tipo «Sono un passeggero in borghese», «Il mio orologio è un paté di Filippo», «Pesciaccio democristiano» al pesciolino rosso nell'acquario oscurante lo strip della bellona, o i giochi di parole sul «vagoli lit e il vagon qui» sulla «signora Trombetta in Bocca», appartenenti tutti alla comicità naif, plebea dei bardi borgata. Il principe di Bisanzio Antonio de Curtis, in arte Totò, nato nel rione Sanità a Napoli, entrò postumo nell'università del cinema (lui che per vezzo o per onesta autocritica lamentava sempre la propria ignoranza scolastica), ebbe un posto nell'accademia della «decima musa» accostato sfacciatamente alle divinità della risata, Charlot, Keaton. Dopo un decennio di riletture forzate su circa 120 film dell'attore brucati con devozione vorace dal nostri cinefili postsessantotteschi, In questo momento di pausa per la totofilia casalinga, ecco alzarsi il monumento di «Le Monde», l'autorevole quotidiano parigino, giunto a sancire la beatificazione internazionale del «mito Totò». Un articolo del prestigioso critico Jean de Baroncelll, unito, per sostegno, ad una voce scelta direttamente dall'Olimpo del cinema, quella di Federico Fellini.
Uno di quegli autori di «lusso», come scrisse Mario Soldati nell'elogio funebre dell'attore (Il Giorno, 17 aprile 1967), per lavorare con il quale Totò «avrebbe fatto carte false» dovendo sopportare «un'amarezza che avvelenò gli ultimi anni della sua vita». Fellini nella passione accecante per gli chapiteaux, la segatura delle piste e i pagliacci colloca anche Totò sotto la specie dei clowns. Ma forse confonde la stilizzazione comica del teatrino delle marionette e della maschera, con quella del circo, esplosiva, scoppiettante nella veste esteriore e tragica all'interno, uno spettacolo per i bimbi facili ad essere catturati dall'apparenza del dinamismo e del colore. Il contrario preciso di Totò: doloroso e grigio ritratto di miseria nell'involucro, un vulcano di energia e fantasia nel cuore, nella mente, che a intervalli regolari esplodono comunicando al mondo una mimica liberatoria forsennata e pirotecnica. La minirassegna di Parigi comprende Miseria e nobiltà, la grottesca saga degli spaghetti e della fame. Totò le Moko, San Giovanni decollato, e un'antologia di brani celebri raccolti da Jean-Louis Comolli.
Gli intellettuali francesi scoprirono Totò già molti anni fa: i primi. Frank nel libro «Cinema dell'arte» e Benayoun, probabilmente rivelarono sensibilità superiore alla nostra critica e cultura d'epoca, fatte poche eccezioni come Barbaro e Marotta celebratore partecipe di una viscerale, appassionata «napoletanitudine». Più recenti in Francia sono I saggi di Positif, dei Cahiers du Clnéma e gli articoli del settimanale Express. Il critico di Le Monde scrive che a Totò toccarono pochi registi Importanti. Cita De Sica (L'oro di Napoli). Rossellini (Dov'è la libertà), Monicelli (Guardie e ladri) e Pasolini (Uccellacci e uccellini). Trascura tra i grandi Lattuada (La mandragola), Comencinl (L'imperatore di Capri), Eduardo.
Ma Totò non aveva bisogno di autori, dietro la macchina da presa: autore era lui, e per modestia, pigrizia o paura non pensò mai di dirigersi. Gli bastava un tecnico che disciplinasse i suoi movimenti davanti all'obiettivo, il resto da professionista finissimo e smaliziato qual era lo aggiungeva lui. adattando ogni volta il personaggio agli schemi meccanici, calcolatissimi della sua maschera e delle sue mosse. Sempre, per più di cento prove cinematografiche anche nella vecchiaia stanca, cieca, spremuta, la sintesi tra l'idea, il canovaccio (anche il più ignobile), e la macchina espressiva Totò e stata perfetta. Tanti piccoli capolavori inseriti in un contesto a volte pleonastico, orchestrato magari nell'ombra, con rispetto e modestia, da solidi artigiani come Mattoli, Steno. Fu la lunga serie dei - Totò e...: Totò sceicco, Totò cerca casa, Totò cerca moglie, Totò a colori, Totò all'inferno, Totò lascia o raddoppia, Totò a Parigi, Tototruffa, ecc.: Totò era il film. Il titolo diventava l'annuncio di un appuntamento, la garanzia di un prodotto. E' il segno del successo e dell'affetto vero, grande, popolare, come accadde da noi soltanto per il Chaplin del muto: Charlot macchinista, Charlot al pattinaggio, Charlot usuraio, Charlot soldato, Charlot e...
Sandro Casazza, «Stampa Sera», 2 luglio 1979
Metti un Totò fra Fellini e i francesi
E' noto che i critici cinematografici francesi, esperti nello 'scoprire' geni in esclusiva (spesso facendo centro, vedi la rivalutazione di certo cinema americano in epoche in cui qui da noi lo si bollava ancora come «commerciale»), hanno da qualche tempo fatto fiorire presso il pubblico le radici di alcuni registi e attori italiani legati soprattutto a quella che al suoi definire la «commedia»: Sordi-Gasaman-Tognazzl-Manfredi-Vitti e Scola-Monicelli-Comencini-Risi, eccetera. Ora, in cammino a ritroso, sono arrivati a «riscoprire» Totò.
Il 28 giugno dalle «importanti» colonne del quotidiano Le Monde (in precedenza avevano già fatto il toro dovere le riviste specializzate, che toccano però il pubblico del cinefili), il critico Jean De Baroncelli traccia un ritratto esaltante del comico, collegandolo alle origini classiche della maschera di Pulcinella (che però Totò avrebbe reso più «astratta»), alla tradizione del teatro di varietà, all'improvvisazione, e al ritmo del gesto e della mimica. Si lamenta che pochi furono i veri autori di cinema che in Italia lo fecero lavorare, e cita, pur con qualche dimenticanza, i nomi benemeriti di De Sica, Rossellini, Monicelli, Pasolini.
Nella stessa pagina, lo stesso giorno, il quotidiano parigino ospita anche un autorevole intervento su Totò firmato addirittura da Federico Fellini. E' uno dei 'pezzi' che fanno parte di un libro antologico di prossima uscita nelle edizioni Einaudi, in cui saranno raccolti articoli di Fellini e interviste col regista, nel corso del tempo del dopoguerra. L'aggancio ‘giornalistico' è una rassegna di film di Totò in corso a Parigi, che comprende Miseria e Nobiltà (con la sua storica mangiata di spaghetti), Totò le Moko, San Giovanni decollato e un’antologia di pezzi famosi curata da Jean-Louis Comolli.
Com’è noto la querelle su Totò, e la sua beatificazione, scoppiò a cavallo del '68 (poco dopo la sua morte, avvenuta nell'aprile del '67), ad opera della nuova critica e dei giovani, capitanati da Goffredo Fofi che a Totò ha dedicato un bellissimo saggio pubblicato in un volume edito da Feltrinelli che comprende anche una lunga testimonianza di Franca Faldini e molti altri interventi.
La rivalutazione di Totò, ottenuta spesso rileggendo proprio i suoi film meno «d'autore», cioè la maggioranza, era dettata dal rifiuto del cinema pseudo borghese della commedia all'Italiana per entrare nelle radici delle maschere e della commedia dell’arte. In questa accezione decine e decine di rassegne hanno amplificato la nuova popolarità di Totò, entrato nell'olimpo cultural-ideologico. Scoppiato il fulmine, ora, dopo dieci anni, il tuono si fa sentire presso il grosso pubblico francese.
Forse su questi «Interventi» d'oltralpe e sul pezzo di Fellini scoppieranno oltre polemiche. Sociologicamente, come scrive Fofi, Totò è a cavallo tra l'esperienza sotto proletaria e quella piccolo borghese, ma egli sostiene che sul personaggio vince sempre la maschera. Baroncelli la pensa pressoché come Fofi: e scrive che Totò vince sempre sulla mediocrità del suo cinema. La questione è quindi di dare un colpo alla maschera e un colpo al realismo e di vedere poi quale manichino resta in piedi.
Fellini nel suo scritto, supera la dialettica e, raccontando come e quando vide per la prima volta Totò in un avanspettacolo di un cinemino, 'ricatta' la contraddizione facendo ricorso alla sua personale poetica d'artista. Fellini vede Totò come una apparizione «stupefacente e misteriosa», come una «creatura di un'altra dimensione», come «un robot dal corpo disarticolato».
L'Ipotesi felliniana congloba le altre, annulla le contraddizioni portando di uno «ribellione senza memoria» e di una «libertà totale contro la legittimità della logica a delle istituzioni». In questa visuale, perfettamente legittima, Totò rappresenta infatti la contestazione totale, diventa sia Pulcinella sia il piccolo borghese martoriato da qualunque tipo di potere. Ed infatti il regista lo dipinge come l'incarnazione di tutta la caratteristiche 'italiane': la fame, la miseria, l'ignoranza, l'indifferenza piccolo borghese, etc. Dispiace solo che Fellini non l'abbia mal «usato» in un suo film: sarebbe scoppiata una scintilla che ora renderebbe inutili tutte la glorificazioni postume.
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 3 luglio 1979
Il discorso sui grandi registi è complicato e gronda troppe ipotetiche: se Pasolini, se De Sica, se Rossellini... Soprattutto: se Fellini. Il regista di 8½ è quello che per temperamento fantastico e affinità sentimentale nei confronti del varietà pareva il più indicato per dirigere Totò, ma difficilmente il suo ego glielo avrebbe permesso. Totò ha la capacità di inglobare tutto, di far proprio il film, di sottomettere a sé trama e stile; con Pasolini il connubio — almeno a tratti — riesce, quando il regista fa un passo indietro, quando scruta il suo interprete con umiltà, quando accetta di seguirlo nel suo mondo fatato: Fellini sarebbe stato altrettanto generoso?
La domanda avrebbe potuto trovare una risposta nel 66, quando il film di Pasolini, Uccellacci e uccellini è appena arrivato in sala. Il regista riminese sta preparando Il Viaggio di G. Mastorna, detto Fernet, una sorta di racconto onirico sull’aldilà, una “Dolce morte” più ambiziosa e rischiosa della celebratissima La dolce vita. Fellini prepara l’impresa con l’aiuto di Dino Buzzati e con i denari di Dino De Laurentiis: fa preparare la carlinga di un aereo, fa allestire la facciata del Duomo di Colonia, e promette mille apparizioni di personaggi dello spettacolo nei panni di se stessi: De Sica, Dapporto, Macario, Franchi & Ingrassia, Wanda Osiris, Mina, Fanfulla e - appunto - Totò. Così in sceneggiatura: “Scaraventato giù dal letto [...], un miserabile vecchio, quasi completamente nudo, con le carni gialle, incartapecorite, sta indossando un fracchettino da attore d’avanspettacolo. Sacramenta per conto suo, evidentemente di essere stato disturbato nel suo sonno. Si ficca in testa una bombetta, stacca dal muro un bastoncino da passeggio e, accompagnato dai ritmici colpi di grancassa, prende a saltellare qua e là nella stanza, con mosse burattinesche e atteggiamenti osceni: ’Ndringhete ndrà... ndringhete ndrà... uè... uè... ndringhete ndrà... uèf" (Federico Fellini, Il viaggio di G. Mastorna, Bompiani, Milano 1995, p.77). Un cameo, niente di più: ma un cameo con Fellini equivale a una laurea. Poi Fellini ci ripensa. In autunno rinuncia al film, litiga con De Laurentiis, s’ammala, cade in preda a mille superstizioni. Un altra occasione persa per Totò, l'ultima della sua vita.
Riferimenti e bibliografie:
- Federico Fellini, «Il Messaggero», 14 dicembre 1988
- "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
- "Fare un film", Einaudi, Torino 1980
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- Franca Faldini, intervista di Alberto Anile, 1997. I film di Totò, cit., p. 352
- Disegni e caricature: collezione Vincenzo Mollica
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- La Stampa
- La Nuova Stampa
- Stampa Sera
- Nuova Stampa Sera
- Il Messaggero
- Corriere della Sera
- Corriere d'Informazione
- Il Messaggero