Totò e... Furio Scarpelli
Eravamo totoizzati
Agenore Incrocci e Furio Scarpelli
Scarpelli: I primi film di Totò ai quali collaborammo hanno una componente — che veniva da Totò — favolosa, surreale, ma l’ambiente in cui erano collocati era perfettamente neorealista. Naturalmente i padri del neorealismo non eravamo noi, ma i nomi che tutti conoscono: Rossellini, De Sica, Zavattini, Amidei, che appartengono a una generazione precedente la nostra. Gli sceneggiatori amavano talmente Totò che se ne ispiravano e tagliavano i testi su misura sua, nel modo più perfetto.
C’è stato un lungo periodo di oscurità critica su Totò; i suoi film erano considerati come le cose più insignificanti prodotte dal cinema. Basta leggere le critiche che vennero scritte allora su di lui! Poi c’è stata questa specie di “riscoperta” degli anni recenti in cui non solo Totò è stato rivalutato, ma anche i suoi film, il loro ambiente. Si sono letti anche elogi dei registi dei suoi film, e si che quando questi film erano usciti erano stati lapidati, erano stati fatti a pezzi!
Age: L’apporto di Totò era di natura artistica totale, ma tutto ciò che concerneva la struttura del racconto e la polemica che poteva esserci in queste farse, veniva però dagli autori. Totò aveva il grande istinto dell’uomo di spettacolo, del clown. Se al momento di girare una scena gli si fosse chiesto che scena veniva dopo, avrebbe probabilmente ammesso di non saperlo, come d’altronde la scena stessa che stava girando. Eppure 99 volte su 100 Totò indovinava il tono giusto, la posizione del personaggio, il suo rapporto con gli altri.
Scarpelli: Aveva la sensibilità di certi solisti che hanno la ispirazione, e vanno avanti secondo la loro straordinaria immagine interiore.
Age: Prima di Totò cerca casa assieme a Scarpelli, scrissi I due orfanelli. C'era una produzione italo-francese che girava in due episodi il celebre feuilleton II fiacre n. 13 con la regia di Mattoli. E Mattoli, che era un grande inventore di combinazioni di spettacolo, ebbe l’idea di fare un film comico nelle scenografie costruite per quel film. Così, in maniera assolutamente garibaldina, costruimmo per Totò una parodia dei romanzi francesi dell’Ottocento.
Scarpelli: Era l'epoca in cui nel cinema si mescolavano artigianato e penuria di mezzi, arte di arrangiarsi, gente che faceva due o tre lavori alla volta. Nei film di Totò c’era una componente di ribellione, di satira contro il potere. Questo il pubblico lo coglieva benissimo, vi partecipava totalmente... In quell’epoca abbiamo fatto anche film con altri comici. Tutti avevano un’origine, una matrice, molto popolare. Alcuni venivano dall’avanspettacolo, dal teatro di varietà, che con gli anni si è trasformato in rivista, che c’interessava un po' meno. E nel teatro popolare ci sono sempre stati elementi di satira che al fondo si collegano tutti alla commedia dell’arte, con le sue radici morfologicamente legate alla vita. Uno dei più grandi "maestri" di questo cinema legato al varietà fu per l’appunto Mattoli: ha utilizzato questi attori (Dapporto, Rascel, i De Filippo, Chiari, Tognazzi) e molti altri meno importanti, pescando spesso direttamente dai palcoscenici di provincia. Li ha portati sullo schermo, e a molti di loro ha dato il successo.
Il convegno amoroso fra Totò famelico gagà e Anna Magnani scalcagnata peripatetica. L’aria indecorosa e fiera che ammantava le due striminzite figure; gli spennacchietti di lei e il suo misero disdegno; i capelli di lui, dritti impeciati sulla nuca come una cresta di ferro, e la sua avvilita vanagloria; il comodino da notte in funzione di mobile-bar; il gioco del dialogo comico, intenso e disperato, che ogni sera edificava se stesso divenendo man mano una cattedrale dell’arte scenica: tutto questo, per chi ha avuto la fortuna di assistere a quell’evento, costituisce un ricordo che è premio costante, saldo perennemente in attivo di fronte a ogni possibile passivo dell’arte teatrale passata, presente e futura.
Nei Soliti ignoti ha aggiunto una componente che non avevamo assolutamente previsto: non prende mai sul serio gli altri personaggi, i suoi complici; non crede che siano capaci di fare il colpo. Fa vedere che ha previsto che tutto andrà sicuramente di traverso e ne avverte lo spettatore. Si può dunque dire che in generale l’attore Totò critica il personaggio che interpreta, come se quel personaggio lo disgustasse. In un contesto di finzione cinematografica, credo sia un’attitudine rivoluzionaria. Coscientemente o meno, i giovani che oggi decretano il successo di Totò hanno capito che lui era in contraddizione con tutti i personaggi del film e anche al di là del film, vale a dire in contrasto col regista, con lo sceneggiatore... un folle contro lutto il mondo.
Quella che Age e Scarpelli consegnarono al regista per La banda degli onesti era già in partenza una signora sceneggiatura. L’ossatura del film è tutta loro. Totò e Peppino l’hanno infarcita ulteriormente durante la lavorazione. Succedeva che prima di una scena Totò convocasse Peppino e me in un angolo del set, e lì, come costumava ai tempi della commedia dell’arte, uno diceva una cosa, uno un’altra e si inventavano delle gag fuori dal copione. Quindi al ciack ognuno dava un ulteriore contributo personale così come gli veniva in mente. L’idea, per esempio, di velocizzare la sequenza dei soldi la ebbe Totò lì per lì. Sbaglia, però, chi definisce Peppino la spalla di Totò, perché Totò era un grande comico e Peppino era un grande attore comico. E tra una dote e l’altra corre una bella differenza. Sul piano umano Totò era una persona davvero eccezionale, ha fatto del bene a piene mani a tutti. Lavorarci era inoltre un andare a divertirsi. Comunque, era tanto spassoso sul set quanto pacato appena smetteva i panni della scena. La prima volta che mi invitò a casa sua mi trovai d fronte un gran signore che, sebbene affabile, incuteva soggezione.
Giacomo Furia
All’epoca di Totò e Carolina, io ero iscritto al Partito Socialista Italiano. Per l’esattezza, appartenevo ai Socialisti Unitari, molto aperti alle influenze del Partito d’Azione e della cultura social-liberale. Anni dopo sarei passato al Psiup, e poi di nuovo al Psi e poi al Pei... Ma nessuno di noi che realizzò Totò e Carolina era comunista. Credo necessario specificarlo, perché se fossimo stati comunisti probabilmente non avremmo rappresentato i compagni che, a bordo di un camion, la domenica vanno a farsi un’allegra scampagnata, ma bensì le lotte nelle officine e nei campi.
Vedendo il canto (tagliato) di Bandiera rossa, mi viene da pensare che fosse stata ritenuta un’insidia mostrare i comunisti come della gente quasi normale, che se ne va in giro a mangiare il cocomero anziché i bambini. Naturalmente, questi nostri film cosiddetti “di satira” avevano, per funzionare, la necessità del bersaglio. Il bersaglio era l’acqua in cui doveva nuotare il nostro pesciolino. “Satira” non era ancora la parola deteriore che è divenuta oggi.
Dopo il Marc’Aurelio e dopo le riviste, il vero secondo soffio della nostra carriera ce lo diede Sergio Amidei. Fu un papà severo, ma un papà. Non aveva sussiego: amava queste operazioni poco seriose. Fu lui che tentò l’innesto del neorealismo drammatico e della commedia. Secondo me, tutto cominciò con Domenica d'agosto, dove veniva celebrata la vita quotidiana di alcune differenti generazioni di persone di vario ceto e uscite da poco dalla guerra.
Nei dialoghi di Totò e Carolina, trovo - che so - un riferimento al “caso Egidi”, uno che aveva ucciso una bambina piccola...Un puro fatto di cronaca nera. Oggi nessuno metterebbe più in un copione una battuta sul “caso Egidi”. Ma allora il cinema si nutriva di “fatterelli” di cronaca, si scriveva e si girava giorno per giorno: un’attività stagionale. E noi eravamo come dei cronisti che dovevano fare il pezzo sul tamburo, sempre di fretta. Come il personaggio di Carlo Mazzarella, che qui si intravede solo di scorcio e a cui, per i tagli, non è rimasta nessuna battuta. Noi facevamo il pezzo con la giusta dose di birbanteria e senza alcun complesso d’inferiorità.
A proposito di Mario Scelba e della sua lotta al tipo di cinema che facevamo noi, gli utili idioti, ricordo un episodio di cui fui testimone oculare, accaduto in quel periodo a casa di Amidei a piazza di Spagna, una casa che era una accademia ed un porto di mare. Un giorno era atteso Luigi Zampa, il quale in quel periodo subiva una contestazione da parte della magistratura per via di una scena di Anni facili, in cui si vedevano dei giudici riuniti in camera di consiglio ed intenti a parlare del più e del meno e dei casi loro, del caldo estivo, della malattia di un bambino, dell'orario di un treno e via dicendo. Luigi Zampa aveva chiesto, a tale proposito, un colloquio a Mario Scelba ed ora giungeva a riferirne l’esito ad Amidei.
Zampa esordì così: “Cari amici, ho incontrato Mario Scelba. Ebbene, devo dirvi che Scelba non è affatto l’uomo che noi pensiamo. E un antifascista vero, uno che ha letto Don Sturzo, che ha una sua idea della libertà...”. Amidei lo investì come un ciclone. Cominciò ad urlare ad altissima voce, come un ossesso. “No! No! No! Tu non puoi parlare così di Scelba! Se frequenti il boia, finirai per trovarlo simpatico”. Se lo mangiò letteralmente vivo: a Zampa non fu più possibile aprire bocca.
Per quanto concerne Carlo Ponti, io non voglio parlarne male. E non solo perché probabilmente lo avranno già fatto tutti gli altri, e non solo perché è persona anziana. Ponti aveva portato dal Nord un po’ di letteratura nel nostro cinema, dove grande frequentazione con i classici non c’era mai stata. Non i libri di Einaudi, qualcos’altro. E si portò giù Soldati, Comencini. Risi...
Ad un certo punto, credo si sia lasciato “corrompere” sia da una certa spregiudicatezza romana che da una sorta di visione “internazionale” dell’industria del cinema. Lo ricordo con un gesto da consegnare allo psicanalista: quando decideva di accettare qualcosa di ciò che noi gli proponevamo, diceva di sì facendo di no con la testa. Aveva ambizioni “altre”.
Di Totò e Carolina ricordo riunioni a casa di Monicelli in via Archimede, ai Parioli. Ma non escluderei qualche incontro al Caffè Greco, da Rosati o da Rampoldi a Piazza di Spagna. Ma Age ed io frequentammo anche la moviola: non ce n’erano tante allora, a Roma. Si aggiungeva, si doppiava, si “scavallava”. "Scavallare” è quando devi risistemare due scene perché è saltato quello che c’era in mezzo.
Una scena che sicuramente fu tagliata è quella del pescatore che ha confessato un peccato enorme al parroco di Carolina. Il personaggio ritornava, voleva riconfessarsi, aveva altri peccati da dichiarare.
Una piccola scena, che ho sicuramente scritta io, è quella degli “uccellini sugli alberi che, con le loro aiucce, si liberano nel cielo cinguettando”, quando.. .bum-bum!...Arriva un cacciatore che spara ai poveri passerotti lasciando interdetto il buon Caccavallo che recitava una sorta di laude animalista francescana a Carolina. Questa scena, da me inventata, era semplicemente il ricordo di una sequenza di un film visto al cinema da ragazzo e che mi aveva fortemente impressionato, Il Dottor Jekyll, con Frederich March. Jekyll passeggia nel parco dietro casa e contempla un passerotto su un ramo...e zac!...Arriva un gatto che si pappa il passerotto mentre in quel preciso istante il Dottor Jekyll diventa Mister Hyde. Un’immagine che mi era rimasta dentro per vent’anni.
Intervista di Tatti Sanguinetti, agosto 1999 tratta da "Totò e Carolina" (Tatti Sanguinetti), Progetto "Italia taglia", Cineteca Bologna/Transeuropa Film, 1999
La parola agli sceneggiatori
Ammettiamo che con l film, gìra e rigira, ci si muove sempre nel gran campo del già veduto: ma forse per la prima volta in questo ciclo è il punto di vista che tenta d'essere diverso, richiamando l’attenzione non sul regista o sul protagonista. ma su uno o più collaboratori senza volto, che molto spesso sono quelli che in fase preparatoria danno voce, fisionomia, umore e sfondi all’azione. fino al punto di diventare direttamente corresponsabili e. pertanto, co autori. Sono i soggettisti e gli sceneggiatori del cinema. Vanno dalla semplice manovalanza al talento inimitabile (Zavattini per tutti). Dall’esperienza, traggono uno stile che a lungo andare l'appassionato di cinema comincia a distinguere, affiancato o incorporato in quello del regista. Per non dire dei molti casi in cui lo sceneggiatore fa tesoro della sua pratica, diventando regista a sua volta.
La Rete 1 della nostra TV sta compiendo alcuni esercizi pratici su quanto andiamo dicendo, in un ciclo di otto film appena iniziato, lunedi scorso, a cura di Claudio Giorgio Fava e di Paolo Valmarana. Ha scelto per la sua trattazione una coppia prolifica e fortunata, Age e Scarpelli, sulla breccia dell'immedlato dopoguerra e creatrice di alcune sceneggiature che toccano primati d’incasso. Age si chiama, in realtà, Agenore Incrocci, ed è nato a Brescia; Scarpelli si chiama Furio ed ha conservato il vero nome. E' nato a Roma. Il fatto d’essere coetanei, tutti e due del ’19. comincia subito a rendere le loro vite parallele: la guerra, la prigionia. il tirocinio alla radio, nelle riviste umoristiche e nel giornalismo. In questa veste iniziano a lavorare per il cinema, e il numero del copioni da loro firmati (o nemmeno firmati) è oggi pressoché Incalcolabile. Sulla loro attività, comunque, Age e Scarpelli raccontano qualcosa in due interviste già registrate che figurano nel ciclo stesso.
Dapprima, i due vennero messi al servizio degli attori più popolari del momento, per fornire presto e bene i testi necessari. Eravamo nel 1947, e il cinema stava lanciando su larga scala Totò, che girava un film dopo l’altro. Non gli serviva neppure un soggetto vero e proprio, e quasi non gli serviva un regista. Aveva bisogno di una valanga di battute, trovate. scenette, giochi di parole che lui poi s’incaricava di concatenare In un unico ameno spettacolo. L’incarico era congeniale ai due giovani sceneggiatori, grazie ai loro trascorsi nei settimanali umoristici e tra le quinte del varietà. Abbiamo avuto un saggio di tale collaborazione in Totò e le donne (1952) di Steno e Monicelli. Allegria sbrigativa, naturalmente, ma quando il loro prestigio fu consolidato sullo schermo. Age e Scarpelli scrissero per Totò almeno una sceneggiatura ben diversa, cosi spregiudicata da passare i suoi guai con la censura e da essere falla sparire dalla circolazione a tutt’oggi in pieno clima di revival e di recuperi più o meno fanatici. Era Totò e Carolina (1955) di Monicelli. sull’eccessiva indulgenza di un agente della celere per una ragazza di vita. E’ chiaro che questo film non si vedrà nemmeno in occasione del presente ciclo.
Il programma, del resto, non è garantito in ogni sua parte. Diamo qui. di seguito. I titoli che i curatori ci dicono quasi sicuri. Vi è un piacevole Cinema d'altri tempi (1953) di Steno, con Lea Padovani che fa il verso a Francesca Bertini e Lyda Borelli insieme, ma la corda della parodia non è forse quella che Age e Scarpelli sentono di più. Il terzo lunedi prevede Nata di marzo (1958) di Antonio Pietrangeli. una schermaglia di amori giovani che ebbe il suo quarto dora di fortuna. Ma nello stesso anno giunge per la coppia il successo incontrastato: siamo ai Soliti ignoti di Mario Monicelli, questa grande ballata di poveri ladri, di vernacoli a contrasto, di gerghi carcerari e di scassi che si concludono in pasta asciutta. Nasce qui la cosiddetta commedia all'italiana: prima c'era solo la commedia alla romana. La commedia all'italiana, invece, si dilata in un lavoro di autentica ricerca linguistica, e diviene sulla pagina qualche cosa di attentamente elaborato e concertato, prima di farsi una forma espressiva sulle labbra degli attori. Si comincia a notarlo in un film che non rientra In questo ciclo ma già ripetutamente sfruttato sul video. La Grande Guerra (1959) di Monicelli. in cui protagonista è in primo luogo quel gruppo di dialetti e sottodialetti che forma l'Italia.
Intanto, ha avuto termine il periodo di stretta collaborazione con Totò, e si è aperto quello non meno fruttuoso con Vittorio Gassman. Tutta la seconda parte del ciclo si sofferma sul nome dell’irrequieto mattatore, proponendogli occasioni di diverso livello e qualità. Appuntiamo comunque i titoli dati «quasi» per sicuri: Il mattatore (1960) di Dino Risi. I mostri (1963, Age e Scarpelli hanno scritto solo il soggetto) e Il tigre (1967) sempre di Risi, Brancaleone alle crociate (1970) di Monicelli.
Con i suoi vivaci Interessi di cultura e di rinnovamento e con la sua raffinata attenzione per una nuova via critica e mistilingue da sperimentare nel teatro e nel cinema. Gassman ha inteso il valore dell’opera che Age e Scarpelli faticosamente portavano avanti, e più volte la ha sviluppata anche sulla scena. La complessa galleria di personaggi che vediamo nel Mattatore, portato appunto dal teatro allo schermo, ne reca qualche segno. E cosi, pure frammentato e spezzettato in cento capitoletti tragicomici. In una gara davvero mostruosa di trasformismo dove Tognazzi dà la mano a Gassman con pari bravura e disinvoltura, abbiamo I mostri, nel quale un'Italia becera o salottiera si esprime tutta con la terminologia dei fumetti o dei teleromanzi. Infine, la serie televisiva annovera Tra le maggiori fatiche di Age e Scarpelli quel Brancaleone alle crociate, fratello minore del celebre l'armata Brancaleone, nel quale le gesta pseudo storiche di un gruppo di cavalieri scalcinati si snoda nella parlata «volgare» (in tutti i sensi volgare) del primo millennio, con un maccheronico goliardismo e possanza gassmanaiana. Degli otto film In programma, almeno in questo risalta chiarissimo anche allo spettatore meno attento che la sceneggiatura prevale su ogni altro elemento di realizzazione.
Dal che una possibilità: organizzare di tanto in tanto altri cicli di film italiani, ristudiandoli attraverso i loro sceneggiatori. I nomi non mancano. e non mancherebbero nemmeno le sorprese. Ci piacerebbe che la iniziativa, nata forse per l naufraghi del luglio e l'agosto, si rinnovasse opportunamente anche nella stagione televisiva più piena.
Tino Ranieri, «L'Unità», 16 luglio 1977
«Noi sceneggiatori tutti "totoizzati"»
Parla Furio Scarpelli che scrisse per de Curtis vari film. Un artista incredibile, nato più dal non-sense futurista che da Pulcinella. «Aveva una grande anima»
ROMA
«Un'essenza "totoistica" dava una forma naturale al dialoghi che scrivevamo per lui. Si può dire che noi giovani sceneggiatori eravamo "totoizzati", nel senso che a cena o alle riunioni di lavoro si imitava la sua voce, il suo gesticolare, il suo gusto surreale per il non-sense. Furio Scarpelli, alle prese con il copione del nuovo film di Scola (i due tornano a lavorare insieme dopo parecchi anni), accetta volentieri di parlare di Totò. «Non so che cosa possa dire che non sia già stato detto, ma ci provo lo stesso», si scusa lo sceneggiatore, che per il grande comico scrisse una decina di film. «Il primo lo ricordo bene, perché vi lavorai anche da aiutoregista, era Totò le Mokò. Allora lo spirito parodistico andava per la maggiore, era una vera e propria scuola. Si prendeva un titolo di successo, che magari rispecchiava culturalmente un'altra società, e lo si rifaceva in forma burlesca. Nel caso specifico, il divertimento consisteva nel parodiare il codice di virilità e rispetto tipico di un Jean Gabin per adattarlo al fisico e allo spirito burlone di Totò».
Che cosa significava inventare battute e situazioni per Totò?
«In lui c'era una forte arte improvvisatoria, ma è anche vero che tutti noi vivevamo una specie di immedesimazione. Per ispirazione futuristica era una marionetta, però dentro aveva un'anima grossa così. La sua comicità era una stratificazione di molti elementi. Totò possedeva un intuito che, per magia o metafisica o chissà che altro, gli permetteva di percepire cose che non conosceva. Ricordo un film nel quale interpretava un luminare dell'università che dettava una pagina scientifica. Era impressionante. Forse per spiegare il suo talento ci vorrebbe un psicopatologo».
Che cosa le piaceva di lui?
«La sua schizofrenia, culturalmente alta. In lui c'erano due o tre persone. C'era Totò, il principe de Curtis e un signore borghese dal pensiero raffinato. E non combaciavano mai. Sarà perché, dietro l'eleganza del tratto e del gesto, si celava una psicologia complessa, dolorosa, attenta. Si aveva l'impressione di avere di fronte un uomo dal pensiero travagliato. Se Totò e il principe erano pubblici, il terzo - quello domestico e intimo - era difficile da scoprire, ma non impossibile».
Insieme ad Age, nel 1956, lei scrisse per Totò "La banda degli onesti".
«Una commedia divertente ma che sembrava ereditare, sottotraccia, un messaggio vagamente neorealista... Credo che Totò abbia colto benissimo che, sotto la crosta comica, c’era qualcos’altro. Diciamo un piccolo impegno civile stemperato in un certo sentimentalismo, un pezzettino d'animo, un intento polemico. Nel raccontare la disavventura del maldestro falsario Antonio Bonocore e dei suoi complici partimmo da una domandina semplice semplice: “Siamo sicuri che tutti coloro che ci danneggiano non siano degni di attenzione?"».
Ma solo due anni dopo, ne "I soliti ignoti", Totò diventò un maestro scassinatore che dà lezioni sulla terrazza condominiale...
«E chi poteva fare quella particina se non lui? Forse solo Nazzari».
Totò e la critica. Il rapporto non fu proprio buono, per anni. Lui ne soffriva o se ne infischiava?
«Gliene importava, eccome. Come a tutti. Solo che spesso l'essere oggetto di noncuranza si trasforma in amarezza, quando non addirittura in disprezzo. Ricordo articoli su Totò che cominciavano con la frase: "È ora di finirla!". Perché tanta cattiveria? E ora di finirla per chi? Se stava tanto antipatico, bastava non andare a recensire un suo film».
Poi però le cose sono cambiate: rivalutazioni, omaggi, riletture...
«Successe anche a Buster Keaton. E il bello è che la cosiddetta rilettura ha coinvolto non solo Totò attore, ma anche i suol film».
Lei è affezionato a qualcuno di essi in particolare?
«Mi piace "Animali pazzi". Perché è misterioso, quasi un lascito dell'impronta futurista degli inizi. L’essere mimo di Totò non viene da una matrice napoletana. Pulcinella non c’entra. C'entrano invece Bragaglia e Campanile, quel gusto surreale per il movimento meccanizzato, quasi elettrico».
Mai parlato con lui di politica?
«No. Sapevo che era conservatore, ma non esibiva mai le sue idee politiche. E io, per rispetto, non lo stuzzicavo sull’argomento».
Nemmeno quando la censura se la prese con «Totò e Carolina», imponendo tagli ridicoli?
«Che paese stupido era quello».
Boldi & De Sica sono stati ribattezzati da qualcuno «i nuovi Totò e Peppino». Accetta il paragone?
«No comment. Dico solo che in Totò e Peppino c’erano ricchezza umana, cultura dello spettacolo, dimensione interiore. Penso a Peppino. Sullo schermo sapeva essere ottuso e fine, perbene e pronto a farsi tentare dal male. Che potenza interna, che scienza della recitazione. Questi altri, invece...».
Michele Anselmi, «L'Unità», 11 febbraio 1998
Totò e... Furio Scarpelli - Le opere
Totò le Mokò (1949)
47 morto che parla (1950)
Figaro qua, figaro là (1950)
Totò cerca moglie (1950)
Totò sceicco (1950)
Totò Tarzan (1950)
Sette ore di guai (1951)
Totò terzo uomo (1951)
Totò a colori (1952)
Totò e Carolina (1955)
Tempi nostri - La macchina fotografica (1954)
I soliti ignoti (1958)
Totò, Peppino e le fanatiche (1958)
Totò e le donne (1952)
Risate di gioia (1960)
Totò e Peppino divisi a Berlino (1962)
Riferimenti e bibliografie:
- "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- "Totò e Carolina" (Tatti Sanguinetti), Progetto "Italia taglia", Cineteca Bologna/Transeuropa Film, 1999
- Furio Scarpelli, Bei tempi, il fascismo era caduto e si rideva con Totò, «La Repubblica», 29 gennaio 1983
- Michele Anselmi in "L'Unità", 11 febbraio 1998
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Intervista di Tatti Sanguinetti, agosto 1999 tratta da "Totò e Carolina" (Tatti Sanguinetti), Progetto "Italia taglia", Cineteca Bologna/Transeuropa Film, 1999
- Tino Ranieri, «L'Unità», 16 luglio 1977
- Michele Anselmi, «L'Unità», 11 febbraio 1998
- «L'Unità», 29 gennaio 1983