Totò e... Mario Castellani
Un improvvisatore nato
Per quarant’anni gli sono stato vicino nella vita e sul palcoscenico. Ho avuto l’onore di essere la sua « spalla » prediletta. Ci incontrammo di nuovo nel 1941, dopo aver lavorato assieme negli anni Venti, e d’allora siamo stati sempre vicini. Ridebuttammo insieme nella rivista « Quando meno te l’aspetti » di Galdieri. Gli aneddoti che potrei raccontare di lui sono tanti, ma non me la sento di rievocarli. Dopo il 1950 Totò ha lavorato principalmente per il cinema, ma la sua passione era rimasta il teatro. Viveva la sua vera giornata sul palcoscenico. Pochi giorni prima di morire, mi confidò che stava per scrivere una commedia. Me ne mostrò il canovaccio che già aveva steso, dicendomi: « Con questa commedia, voglio dare un addio al teatro ». Si confidava con me, come con pochi altri. Di conoscenti, ne aveva molti, moltissimi, ma di amici nel vero senso della parola, ai quali confidava tutto, ne aveva soltanto quattro, io, il conte Gaetani, l’avvocato De Simoni e il conte Tarazzani.
Totò era un tipo molto impressionabile. Una volta, a Parigi, fu colpito da lieve febbre, appena 37,3 ma volle subito rietrare a Roma. « Voglio morire in Italia », mi disse. Si vantava però di avere un cuore di atleta « Lo sai che ho le stesse pulsazioni di Bartali e di Coppi? » mi confidò un giorno. Negli ultimi tempi i nostri rapporti si erano fatti ancora più stretti. A causa della vista debole non poteva leggere più, ed allora imparava tutte le parti a memoria, ascoltando me che gli leggevo i copioni.
Totò era un istintivo, un improvvisatore nato. Il copione, per lui, doveva rapppresentare appena una traccia, un punto di partenza e basta. In rivista, dove io facevo il direttore artistico, lui veniva, e piuttosto svogliato, solo i primi giorni di prova, poi scompariva dalla circolazione ed era inutile cercarlo. Si rifaceva vivo quando si stava per andare in scena e allora in quattro e quattr'otto si aggiornava su quello che doveva fare. Ma la verità è che le cose migliori gli venivano spontanee solo sul palcoscenico, sotto la spinta del pubblico.
Insomma, quella di Totò era una forma di comicità tutta speciale, assolutamente unica nel suo genere e perciò irripetibile. In genere, lui lavorava di contropiede, afferrando di rimbalzo battute e situazioni che gli venivano offerte dallla sua "spalla". Se il gioco attaccava, allora si scatenava sull'onda del consenso del pubblico ed infilava tutta una serie di invenzioni di cui sul copione non c'eera il benché minimo accenno.
In seguito al rinnovato interesse per la figura e per l'arte di Totò, spesso mi capita di sentirmi chiedere il testo di questo e di altri sketch diventati ormai leggendari. Ma i testi non ci sono. Non ci sono mai stati. Ecco perché l'arte, la vera arte di Totò è scomparsa con lui e i giovani che non hanno avuto la fortuna di vederlo sul palcoscenico non possono ritrovarlo come è stato veramente guardando i suoi film. Totò non è Chaplin o Buster Keaton, fenomeni tipicamente cinematografici. Totò è il teatro. Il cinema, nel migliore dei casi, lo ha dimezzato. Nel peggiore, che era poi la norma, lo ha puramente e semplicemente tradito.
Incontrai Totò nel 1927. Lui proveniva dal varietà, io dall’operetta. Allora le riviste erano a filo conduttore ed eravamo i due comici della rivista. Poi ci lasciammo per delle vicissitudini dovute alla tremenda crisi del teatro e ci riunimmo nel 1941. In compagnia c’era Anna Magnani e facemmo teatro assieme. E poi ho continuato con lui per anni e anni e anni, in teatro e in cinema. Totò è stato un caposcuola, ha insegnato un po’ a tutti, tutti hanno attinto e attingeranno ancora da lui per molto tempo. Le cose che Totò poteva insegnare sono innumerevoli. La meccanica, la tecnica, l’improvvisazione, il gioco mimico, perché era un grandissimo mimo.
Totò era nato per gli applausi. Quando sentiva di avere il pubblico in pugno, si scapricciava che era una bellezza. A lasciarlo fare avrebbe tirato mattina.
Fui io ad avere l'idea di quel programma, e mi dispiace parlarne male... (Tuttototò, n.d.r.). L'unica cosa buona di quella trasmissione è stata che Totò non fece in tempo a vedersi sul piccolo schermo, altrimenti si sarebbe guastato il sangue dalla rabbia. Ma ancora una volta avrebbe dovuto incolpare soltanto se stesso, la sua apatia, la sua mancanza di fiducia negli uomini. Era convinto che della sua arte non sarebbe rimasto niente, perché questo è il destino degli attori, e ritenne inutile affaticarsi per smentire il suo fondamentale pessimismo. Del resto, lo interessava solo il teatro vero, quello che lui inventava sera per sera davanti al suo pubblico: nel cinema e nella televisione vedeva unicamente delle macchine per far soldi, per pagarsi i suoi vizi e la sua dorata tristezza di principe venuto al mondo in un secolo sbagliato.
Totò ci dava dentro che era una meraviglia e il pubblico si scatenava appena lui usciva alla ribalta. [...] Una sera due spettatori finirono all’ospedale perché dal gran ridere avevano perso il controllo e si erano dati una capocciata tremenda. Confesso che venimmo alla ribalta quasi paralizzati dalla fifa. Ma fu un trionfo. Alla fine del primo sketch i colleghi erano in piedi e urlavano, battevano le mani, agitavano fazzoletti come se invece che in teatro fossimo alla corrida
L'elegante spalla: una celebrazione della carriera sottilmente spettacolare di Mario Castellani
Nato a Roma nel 1906, questo romano dalla figura sottile come un giunco pensante, quasi un Don Chisciotte prestato alla burocrazia ministeriale, è stato marchiato a fuoco da due ruoli iconici che ne hanno, di fatto, divorato l'identità attoriale autonoma. Chi mai lo ricorda come Mario Castellani? No, egli è e rimarrà per l'eternità televisiva l'altezzoso Onorevole Cosimo Trombetta di "Totò a colori" (1952), trombone politico dal nome profetico, e l'insopportabile saputello "Mezzacapa" di "Totò, Peppino e la malafemmina" (1956), archetipo del villano arricchito e petulante. La sua vera faccia? Un optional, un dettaglio trascurabile, fagocitata da queste maschere immortali.
Il sodalizio con Totò, iniziato cinematograficamente nel dopoguerra con il non proprio memorabile "Il ratto delle Sabine" (1945), si rivelerà una sorta di patto col diavolo (comico): 42 film insieme! Un'enormità. Si erano annusati già nel lontano 1927, formando addirittura una coppia di rivista l'anno seguente con la stella Isa Bluette, prima che la crisi teatrale li separasse come amanti sfortunati. Si ritrovarono nel '41, ma fu il grande schermo a saldarli in un connubio quasi indissolubile, una simbiosi artistica dove uno brillava (Totò) e l'altro... beh, faceva da specchio, spesso deformante, ma sempre presente.
Castellani, con quella sua aria da impiegato modello, da incarnazione del buon senso democristiano post-bellico, tutto perbenismo e forma, rappresentava l'Italia che voleva disperatamente credere nell'ordine e nella compostezza dopo le macerie. Era la quintessenza dell'uomo medio, il vicino di casa in pantofole che borbotta contro i giovani d'oggi e rimpiange i "bei tempi andati". E Totò? Totò, genio anarchico e crudele, non faceva che perseguitarlo, umiliarlo, sfruttarlo, denigrarlo con sadica allegria. E lui, Castellani, subiva. Incassava. Con la pazienza di un santo o la rassegnazione di un condannato a vita. Le sue reazioni, quando c'erano, erano passive, flebili lamenti nel vento della furia comica di Totò (si pensi alla leggendaria scena del vagone letto, un trattato di sopportazione stoica).
Diventa quasi un Malaussène ante litteram, il capro espiatorio universale su cui si scaricano le colpe del mondo e gli sberleffi del Principe. La sua logica prevedibile, il suo attaccamento al "si è sempre fatto così", venivano costantemente fatti a pezzi dalla follia surreale di Totò. Ne è esempio sublime lo sketch "Pasquale" (1966, Studio Uno), dove il dialogo tra i due raggiunge vette di assurdo cosmico, con Castellani che cerca disperatamente di aggrapparsi a un brandello di razionalità mentre Totò naviga in un iperuranio linguistico tutto suo. Anche quando gli toccava interpretare un personaggio negativo, come il politico corrotto in "Un turco napoletano" (1953), finiva comunque gabbato, ricattato e privato persino dell'amante da un Totò trionfante. Era la vittima perfetta, quella che, suo malgrado, esaltava la comicità "violenta" e destabilizzante del partner.
Ma attenzione, non era solo un rapporto professionale oliato da decenni di gag. C'era un'amicizia vera, profonda, che si cementò ulteriormente nel 1957, quando Totò fu colpito da una grave menomazione alla vista. Da quel momento, Castellani divenne indispensabile anche fuori scena. Sul set era i suoi occhi: gli leggeva i copioni, glieli vivisezionava, allestiva le scene quasi come un regista ombra, permettendo al Principe, ormai quasi cieco, di continuare a recitare con la sua consueta maestria. Un Virgilio per un Dante della risata.
E Totò, a modo suo, ricambiava. Quando non c'era una parte scritta per l'amico in un film, gli inventava un ruolo: tecnico dei dialoghi, aiuto regista ("Sua eccellenza si fermò a mangiare", 1961)... qualsiasi cosa pur di averlo accanto. Un legame che trascendeva la cinepresa.
Eppure, nonostante questa simbiosi, è difficile non percepire in Castellani un disperato, sommesso tentativo di difendere la propria individualità. Come se il suo corpo, senza l'ingombrante presenza di Totò, faticasse a trovare consistenza autonoma. Lo si vede nell'infastidito Onorevole Trombetta, che si scansa dalle manate di Totò, o, in modo ancora più raffinato, nell'attore squattrinato de "L'imperatore di Capri" (1949), la cui principale angoscia è che i suoi abiti – affittati a un Totò/cameriere – vengano rovinati. Sempre impeccabilmente vestito, quasi a voler compensare con l'esteriorità un'identità che sentiva sfuggirgli, Castellani si assopiva, si indignava silenziosamente, si aggiustava il nodo della cravatta come ultimo baluardo di dignità.
Alla fine, come tanti altri magnifici "caratteristi" che hanno tessuto la trama del nostro miglior cinema, - tra i quali Enzo Turco, il Pasquale di "Miseria e nobiltà", o Carlo Pisacane, l'indimenticabile Capannelle de "I soliti ignoti" - anche Mario Castellani è stato vittima di una sorta di evaporazione dalla memoria collettiva. Non per morte fisica, ma per quella che il testo definisce acutamente "distrazione", forse "negligenza". È scivolato via, pur rimanendo sotto i nostri occhi ogni estate, condannato a un'eterna seconda fila nel pantheon della comicità, presenza costante ma nome sussurrato solo dagli iniziati. Un fantasma gentile e ben vestito che infesta i nostri palinsesti estivi.
Il mio primo incontro con Totò avvenne a Milano nel 1927, quando facevo il comico brillante in una delle due compagnie di rivista organizzate dall'impresario Achille Maresca, che aveva messo in scena due spettacoli, Madama Follia e Mille e una donna. Totò faceva allora il varietà ed era già molto popolare. Maresca lo scritturò per sostituire Eugenio Testa, che si era ammalato. Il suo debutto avvenne a Padova, in Madama Follia, che aveva come soubrette la favolosa Isa Bluette. Ma non fu un successo, almeno all'inizio. Ci fu anzi un momento in cui tutti stringemmo i denti, prevedendo un disastro. La verità è che Totò non era pratico di recitazione. D'altro canto, il pubblico delle riviste non era abituato a vedere sulla scena certi dinoccolamenti che erano il pezzo forte di Totò attore e mimo del varietà. Insomma, i primi «numeri» passarono in un silenzio agghiacciante. Ma poi venne un pezzo musicale in cui Totò faceva la parte di un gelataio, e qui, come se lo avesse morso la tarantola, si scatenò adattando al ritmo dell'orchestra i suoi famosi passi da marionetta. Fu un trionfo. Il pubblico, dapprima sconcertato per la novità, si lasciò trascinare da quella irresistibile pantomima e alla fine manifestò la sua approvazione con un applauso delirante.
Totò, che aveva affrontato il debutto con una tremarella che non cercava nemmeno di nascondere, rientrò in camerino tutto sudato per la gran fatica, pallido, mormorando coloratissimi scongiuri nel suo dialetto partenopeo. «Che dite, eh?», disse lasciandosi cadere su una sedia. «Ce l'ho fatta?». Una breve pausa; poi, come ricordandosi all'improvviso di una cosa della massima importanza, aggiunse: «L'orchestra è stata bravissima nell'assecondarmi. Quei ragazzi meritano un premio. Pago champagne a tutti, bisogna pur festeggiare la mia vittoria, no?».
Nella vita come nell'arte, Totò era un signore, un vero principe. Ma recitava una parte anche quando faceva il generoso. Le sue mance da nababbo al ristorante sono rimaste famose, così come a Cinecittà tutti ricordano ancora i biglietti da mille che distribuiva con noncuranza ai macchinisti, al custode che gli apriva il cancello quando andava sul set per interpretare uno dei suoi cento e passa film. Questo scialo principesco apparteneva però sempre ed esclusivamente al personaggio pubblico. In privato, era un altro paio di maniche. In privato, ho visto Totò chiedere il prezzo del cinema prima di dare alla moglie i soldi per andare a vedere una pellicola.
Non è possibile spiegare Totò. Le faccio un esempio. Totò ha speso un patrimonio perché gli fossero riconosciuti i suoi titoli nobiliari di principe bizantino. Quello della nobiltà era un tasto che non si poteva toccare con lui. Guai, poi, a mettere in dubbio la sua legittima discendenza dall'imperatore Costantino.
Eppure, più di una volta, l'ho sorpreso mentre si prendeva cordialmente in giro. Di regola, questo accadeva dopo lo spettacolo, quando si liberava dei panni del comico snodabile e diventava il principe di Bisanzio. Esattamente, lo sfottò scattava in quei pochi minuti in cui non era più Totò ma non era ancora rientrato del tutto nei panni del principe. [...] Si metteva davanti allo specchio con una faccia serissima e rimaneva per un lungo istante a contemplarsi. Poi, tutto d'un colpo, faceva uno sberleffo alla propria immagine ed esclamava: «Ehi, signor principe, è inutile che si dia tante arie e snobbi il povero Totò: si ricordi che è Totò che dà da mangiare al principe, e non viceversa».
Quando cominciò la sua grande stagione cinematografica, gli accadde di firmare un impegno con la Lux per il film L'imperatore di Capri. La lavorazione era prevista in cinquanta giorni, e il compenso forfettario in sei milioni. Carlo Ponti, che era allora il direttore esecutivo della casa cinematografica, lo mandò a chiamare e gli fece la proposta di allungare il contratto a sessanta giorni e di girare due film invece di uno. Naturalmente, il compenso sarebbe stato maggiorato: dieci milioni. Totò accettò subito. Inutilmente io cercai di attirare la sua attenzione con gesti disperati, per suggerirgli di non firmare. Lui non mi diede retta, e così si impegnò anche per il secondo film, Totò cerca casa. Quando uscimmo dallo studio di Ponti, Totò mi disse: «Cosa significavano tutti quei tuoi gesti?».
«Volevo farti capire», risposi «che non ti conveniva accettare». «E perché», si meravigliò Totò. «Ma perché hai fatto un cattivo affare», replicai. «Dieci milioni per sessanta giorni di lavoro ti pare un cattivo affare? Ma dove ce l'hai la testa?», mi aggredì.
Rinunciai alla discussione, perché mi resi conto che Totò non avrebbe mai capito il mio punto di vista. Per me, i dieci milioni li avrebbe dovuti pretendere solo per il secondo film da girare con calma, in seguito. L'affare, infatti, lo fece Ponti, il quale da Totò cerca casa ricavò un guadagno di 150 milioni, cifra che gli servì per fondare la Ponti-De Laurentiis.
Totò era il re della superstizione. La sua «testa di turco» era il numero 13, che nella classica Smorfia di Tommaso Pironti, famosissima a Napoli, significa tre cose: «la morte», «Sant' Antonio di Padova» e «il principe». Totò impazziva al solo vedere un cartello col numero 13.
A questo proposito, devo raccontare l'incredibile avventura che ci capitò nell'immediato dopoguerra, quando andammo a Parigi su invito dell'impresario Remigio Paone. Dovevarho vedere il balletto delle Bluebell, di cui si diceva un gran bene, e decidere se scritturarlo o meno. Totò e io partimmo da Milano, in vagone letto. Purtroppo gli era stato riservato il letto numero 13. Per evitare un trauma a Totò, prima di salire nella vettura avvicinai il controllore e lo pregai di staccare il cartellino col numero fatale. La richiesta fu esaudita. Partimmo senza intoppi alla volta di Parigi.
Qui scendemmo in un albergo di lusso, dove Totò si era fatto riservare un appartamento principesco, con saloni enormi. «Che dobbiamo farci qui dentro?», mi stupii. Lui rise e mi mostrò il portafogli: si era portato appresso una quindicina di milioni. «li vedi questi?», mi disse. «Li spendiamo tutti. Eh, Parigi è Parigi! Ci dobbiamo divertire, crepi l'avarizia!».
Avevamo in programma di fermarci nella capitale francese quindici giorni. Per questo ce la prendemmo comoda, rimanendo in albergo a riposarci. Ma la mattina dopo, alzandosi, Totò scoprì di non sentirsi molto bene.
Uno starnuto improvviso fu il segnale d'allarme. Suonò per la cameriera, e la ragazza, osservandolo, gli disse che a Parigi c'era un po' di grippe (influenza) in giro. Quella parola straniera lo spaventò a morte. In pigiama si precipitò nella mia camera. «Sto male. Molto male», mi comunicò. Cercai di rassicurarlo, e intanto mandai a comprare un termometro. Risultò che aveva appena un paio di lineette, una sciocchezza che bastava una compressa qualunque per fargliela passare. Lui, invece, si ostinò a immaginarsi sull'orlo della tomba. «Mi dispiace tanto, ma non potremo divertirci», disse: «dobbiamo tornare subito in Italia. Voglio morire a Roma, nel mio letto». Non ci fu verso di dissuaderlo. Si fece portare i pasti in camera e non uscì dall'albergo che per trasferirsi alla stazione. Il regalo che aveva promesso alla moglie e alla figlia me lo fece acquistare nel negozio che c'era nell'hotel. Tra l'altro, non si fidava dei medici francesi. «Sono stranieri, cosa vuoi che capiscano dei miei mali?», diceva.
Uscì da quella specie di tetro letargo in cui era caduto solo quando si ritrovò sul treno che lo riportava in Patria. Qui ebbe un sorriso e mi batté una pacca sulla spalla:
«Vi eravate messi d'accordo per farmi fesso, eh?», esclamò. «Credevate che non mi fossi accorto che il mio letto portava il numero 13? lo vi ho dato corda, ma quel fetentone si è vendicato alla sua maniera. La prossima volta guardatevi bene dal fare i furbi: con la jettatura bisogna sempre venire a patti, oppure combatterla a carte scoperte». Detto questo si rilassò, e dormì saporitamente per tutto il viaggio. La nostra avventura a Parigi era durata soltanto tre giorni sprecati per niente.
Totò fece il suo ingresso nel grande teatro di rivista grazie esclusivamente al fiuto di Achille Maresca, come ho già accennato. Il passo successivo glielo fece fare l'impresario napoletano Eugenio Aulicino il quale nel 1941, in società con Epifani, formò una compagnia di rivista con Totò, il sottoscritto, Anna Magnani e otto subrettine. Con questa compagnia debuttammo al Teatro Quattro Fontane di Roma in Quando meno te lo aspetti di Michele Galdieri, cui seguì l'anno dopo Volumineide . La vera «favola» di Totò cominciò appunto con queste riviste, che secondo me rimangono le cose più belle che egli ha fatto.
Totò era un istintivo, un improvvisatore nato. Il copione, per lui, doveva rappresentare appena una traccia, un punto di partenza e basta. In rivista, dove io facevo il direttore artistico, lui veniva, e piuttosto svogliato, solo i primi giorni di prova, poi scompariva dalla circolazione ed era inutile cercarlo. Si rifaceva vivo quando si stava per andare in scena e allora in quattro e quattr' otto si aggiornava su quello che doveva fare.
Ma la verità è che le cose migliori gli venivano spontanee di farle solo sul palcoscenico, sotto la spinta del pubblico. Insomma, quella di Totò era una forma di comicità tutta speciale, assolutamente unica nel suo genere e perciò irripetibile. In genere, lui lavorava di contropiede, afferrando di rimbalzo battute e situazioni che gli venivano offerte dalla sua «spalla». Se il gioco attaccava, allora si scatenava sull'onda del consenso del pubblico ed infilava tutta una serie di invenzioni di cui sul copione non c'era il benché minimo accenno.
Uno dei suoi sketch più famosi è quello del vagone-letto, che ha fatto sbellicare dalle risate le platee di tutta Italia. Ebbene, nella rivista di Galdieri in cui era inserito, era accennata soltanto la situazione: due uomini nella cabina e una donna che chiede ospitalità per la notte.
La prima volta che lo facemmo, questo sketch durava una decina di minuti; le ultime volte siamo arrivati a tenerlo in piedi quasi un' ora, col pubblico che ci seguiva col fiato sospeso. In seguito al rinnovato interesse per la figura e per l'arte di Totò, spesso mi capita di sentirmi chiedere il testo di questo e di altri sketch diventati ormai leggendari. Ma i testi non ci sono. Non ci sono mai stati. Ecco perché l'arte, la vera arte di Totò è scomparsa con lui e i giovani che non hanno avuto la fortuna di vederlo sul palcoscenico non possono ritrovarlo come è stato veramente guardando i suoi film. Totò non è Chaplin o Buster Keaton, fenomeni tipicamente cinematografici. Totò è il teatro. Il cinema, nel migliore dei casi, lo ha dimezzato. Nel peggiore, che era poi la norma, lo ha puramente e semplicemente tradito.
Totò non ha fatto testamento. Superstizioso come era, credeva che dettare le ultime volontà gli portasse jella. Del resto, era convinto di avere un cuore fortissimo, che non lo avrebbe mai tradito. È vero che si faceva fare l'elettrocardiogramma ogni due mesi, ma si sottoponeva a questa formalità, come la chiamava, solo per scaramanzia. «Ho il cuore di un leone», mi confidava con orgoglio. «Sentilo tu come batte. Sono sicuro che terrà in piedi la mia carcassa almeno fino a cento anni». Invece, nel 1967, fu proprio il cuore che lo tradì.
Totò aveva accettato, per la prima volta, di fare dei Caroselli . Io, al solito, gli ero accanto. Preparavo gli sketch, mi occupavo della regia. Totò appariva in buona salute e, come sempre, si divertiva a prendere in giro le «schifezze» che gli toccava fare per guadagnarsi la pagnotta.
Niente, insomma, lasciava presagire l'improvvisa fine. Un giorno andai sul set, ma non lo trovai. «Ha fatto telefonare che sta poco bene», mi dissero. Conoscendo il suo carattere impressionabile, non mi preoccupai. La sera, tuttavia, telefonai a casa. Mi rispose il cugino Eduardo Clemente, che gli faceva da segretario. «Va tutto bene», mi rassicurò. «Abbiamo fatto fare le analisi: non c'è niente di grave». Gli dissi di non disturbarlo. «Verrò domenica per metterci d'accordo sullo sketch che dobbiamo girare lunedì», conclusi. Alle tre di notte il cugino mi svegliò con una telefonata drammatica: le condizioni di Totò si erano improvvisamente aggravate. Un infarto. Mezz'ora dopo Totò era già morto. Per una curiosa coincidenza, l'ultima cosa che aveva fatto nel cinema si era conclusa con la sua morte. Totò, il comico-marionetta, vi interpretava la parte di un burattino che moriva in scena e finiva buttato in un carrettino a mano.
Come amico ho il dovere di dire che questo fifone che si chiamava Totò era un uomo che la morte se la covava dentro con una specie di disperata tenerezza. Lo attestano le poesie raccolte nel suo libro 'A livella (la livellatrice, cioè la morte); lo attesta la rassegnata fierezza con cui aveva accolto la cecità. Perché Totò, negli ultimi anni, era quasi cieco, non riusciva a vedere che ombre. Se continuava a resistere sul set, era solo grazie al suo enorme mestiere e all'istinto che gli faceva fare le cose giuste al momento giusto.
Ma questo lo sanno tutti.
Ciò che la gente non sa, invece, è che Totò la cecità se la portava appresso da molto tempo prima che diventasse un fatto pubblico, in seguito alla polmonite da virus che lo colpì durante la tournée della sua ultima rivista, A prescindere , costringendolo a sospendere le recite della compagnia. Quella volta io non ero con lui perché c'era stato tra noi un disaccordo di natura artistica. Gli ritornai accanto proprio a causa del suo male, perché mi resi conto che aveva bisogno di un amico che lo capisse a volo.
La verità è che Totò era mezzo cieco già negli anni Quaranta, quando diede al teatro di rivista il meglio di se stesso. Ogni tanto, è vero, si lamentava di non vederci bene ma tutti eravamo convinti che si trattasse di malesseri passeggeri che egli ingrandiva con la fantasia. Invece la realtà era drammatica: Totò aveva completamente perduto l'occhio sinistro (per questo, sulla scena, voleva che mi mettessi sempre alla sua destra). Ne parlai allora con la figlia, ma scoprii che anche a lei il padre aveva nascosto la gravità del male. Per Totò, fu una liberazione quando si accorse che noi due sapevamo. Era come se si fosse finalmente tolto un peso dal cuore. Ce lo dimostrò il giorno in cui, scherzando, prese un paio di occhiali che adoperava in casa e ne staccò una lente, quella dell'occhio sinistro. «Tanto, questa non mi serve», disse con un sorriso. Alla figlia vennero le lacrime agli occhi. Lui le prese il mento con una mano e la costrinse a sollevare la testa, a guardarlo bene in faccia. «Di che ti preoccupi?»! la rincuorò: «è una sciocchezzuola di nessun conto. E poi», aggiunse «a me di occhi me ne basta uno». Da quel giorno, prese l'abitudine di usare regolarmente (sempre in casa, si capisce), quegli assurdi occhiali con una lente sola.
Senta un po' questo caso curioso. Un nostro «quadro» che aveva molto successo si intitolava «Il paese dei balocchi». A un certo punto Totò e io ci scambiavamo due battute: «Ah, quello li ha la testa di legno!»; «Benissimo! VuoI dire che lo faremo ministro!». La gente scoppiava a ridere e magari pensava a qualche ministro fascista che non aveva fama di essere troppo intelligente. La censura, tuttavia, non ci disse mai niente. Ma un giorno arrivarono gli alleati a Roma e ci portarono la libertà. Naturalmente, ripresentammo il quadro, e sempre con l'identico successo. Ma ci andò male con la censura democratica: infatti il quadro ci fu proibito dopo la prima rappresentazione.
Come principe di Bisanzio, considerava un suo dovere essere conservatore. Come attore comico, riteneva di avere il diritto a non professare nessuna idea. «Il comico», diceva «deve essere un uomo che esaspera e mette perciò in ridicolo le pagliacciate della vita». Fedele a questo suo principio, quando dopo la liberazione di Roma ci spingemmo verso il Nord e facemmo tappa a Firenze, lui si permise una battuta che rischiò di costargli la pelle.
Successe questo: Totò faceva la macchietta di Napoleone, e a un certo punto un attore gli domandava: «Compagno?». «No, camarade», rispondeva Totò, storpiando la parola francese in modo che suonasse quasi come l'italiano e fascista «camerata». L'altro, stupito, chiedeva: «Camarade?». E Totò: «Va be', fà come vuoi. Camarade o compagno è lo stesso». Non l'avesse mai detto! L'Italia era ancora divisa dalla linea gotica e Firenze era piena di partigiani. Uno di questi, al termine dello spettacolo si presentò davanti al camerino di Totò con la scusa di volere un autografo. Totò, affabile, venne sulla soglia, pronto a firmare. Con voce sorda, il partigiano gli domandò: «Veramente per lei camerata e compagno è la stessa cosa?». Preso alla sprovvista, Totò rispose: «Mah, non so...». Il partigiano non lo lasciò finire: con una mossa fulminea lo colpì con un pugno in piena faccia, spaccandogli le labbra. Per fortuna, c'era parecchia gente che s'intromise, impedendo così all'energumeno di continuare il massacro. Totò, spaventatissimo, corse a denunciare il fatto al commissariato. Il giorno dopo fu chiamato in Questura. «Abbiamo arrestato il suo aggressore», gli comunicò un funzionario. «Non voglio fargli del male», rispose Totò: «se mi chiede scusa, non sporgo querela». Il funzionario suonò il campanello. Arrivò un poliziotto. «Portate qui il detenuto tal dei tali», gli ordinò il funzionario. «Non posso: è appena uscito a prendere un caffè», dichiarò l'interpellato.
Totò chiese di essere protetto. La Questura gli diede due commissari con l'incarico di scortarlo, avvicendandosi, notte e giorno. Una sera Totò e io ci recammo alla radio per trasmettere uno sketch. Mentre attraversavamo un incrocio, Totò ebbe un sobbalzo e mi indicò due uomini che ci venivano incontro: uno era il commissario che doveva scortarlo e l'altro niente meno che il detenuto che era sparito per andare a prendere il caffè. I due camminavano a braccetto e conversavano allegramente.
Defilandosi dietro di me, Totò cambiò strada bruscamente e io subito lo raggiunsi. «Scappiamo!», disse trascinandosi in una corsa pazza. «Firenze è diventata una città irrespirabile, per me. Stammi sempre vicino, e appena torniamo pensa tu a chiudere col teatro. Andiamo via. Cambiamo piazza». Non ci fu verso di fargli cambiare idea. Abbandonammo Firenze alla chetichella e Totò riacquistò il suo colore naturale solo quando fummo ben lontani dalla città.
Totò non aveva bisogno della parola per far ridere la gente. Ce ne accorgemmo a Salerno, dopo lo sbarco degli alleati, quando facemmo una recita per gli ufficiali inglesi e americani. Al principio pensammo che in sala ci fossero molti «oriundi» che ci avrebbero capito facilmente. Invece, no: non c'era un solo spettatore in grado di afferrare le nostre battute. Eppure risero tutti come matti e ci fecero una festa incredibile. Totò ne approfittò per punzecchiarmi sulla mia mania, come la chiamava lui, di pretendere testi ben scritti. «Hai visto che le chiacchiere non mi servono?», disse. «È il mio personaggio che fa ridere la gente. Per questi zulù abbiamo parlato ostrogoto, ma si sono divertiti lo stesso. Avremmo potuto recitare una litania di insolenze: il risultato non sarebbe cambiato».
Totò era convinto che della sua arte non sarebbe rimasto niente, perchè è questo il destino degli attori, e ritenne inutile affaticarsi per smentire il suo fondamentale pessimismo. Del resto, lo interessava solo il teatro vero, quello che lui inventava sera per sera davanti al suo pubblico: nel cinema e nella televisione vedeva unicamente delle macchine per far soldi, per pagarsi i suoi vizi e la sua dorata tristezza di principe venuto al mondo in un secolo sbagliato.
Giuseppe Grieco, «Gente», n.32, 1973
Così la stampa dell'epoca
Il grandioso successo di "Madama follia" al Margherita
Un esaurito ha iersera testimoniato il grande favore incontrato presso il pubblico romano da Madama Follia la nuovissima rivista di Ripp e Bel Ami in cui sono narrate le piacevoli avventure di «Tony» condannato ad incontrare nella sua vita un'infinità di sosia dal capostazione ai gelatero spagnolo, dal napoletano all’esquimese ecc. [...] Nè va dimenticato Mario Castellani il giovane comico romano che in due anni ha fatto del progressi enormi. Egli sostiene coi Testa quasi tutto il peso dalla grandiosa rivista e si disimpegna con brio giovanile e con esperienza d'attore consumato. [...]
«Il Messaggero», 12 giugno 1927
Mario Castellani e il cinema con Totò
Mario Castellani e il teatro con Totò
Totò e... Mario Castellani - I film con Totò
Il ratto delle Sabine - Il Professor Trombone (1945)
I due orfanelli (1947)
Fifa e arena (1948)
I pompieri di Viggiù (1949)
L'imperatore di Capri (1949)
Totò al Giro d'Italia (1948)
Totò cerca casa (1949)
Totò le Mokò (1949)
47 morto che parla (1950)
Figaro qua, figaro là (1950)
Le sei mogli di Barbablù (1950)
Totò cerca moglie (1950)
Totò sceicco (1950)
Totò Tarzan (1950)
Guardie e ladri (1951)
Sette ore di guai (1951)
Totò terzo uomo (1951)
Dov'è la libertà? (1954)
Totò a colori (1952)
Totò e i Re di Roma (1952)
Il più comico spettacolo del mondo (1953)
L'uomo, la bestia e la virtù (1953)
Totò e Carolina (1955)
Un turco napoletano (1953)
Una di quelle (1953)
I tre ladri (1954)
Il medico dei pazzi (1954)
Questa è la vita - La patente (1954)
Tempi nostri - La macchina fotografica (1954)
Totò cerca pace (1954)
Totò all'inferno (1955)
Totò, Peppino e i fuorilegge (1956)
Totò, Peppino e... la malafemmina (1956)
Totò e le donne (1952)
La cambiale (1959)
Chi si ferma è perduto (1960)
Letto a tre piazze (1960)
Noi duri (1960)
I due marescialli (1961)
Totò, Peppino e... la dolce vita (1961)
Tototruffa '62 (1961)
Lo smemorato di Collegno (1962)
Totò di notte n.1 (1962)
Totò Diabolicus (1962)
Gli onorevoli (1963)
Il monaco di Monza (1963)
Le motorizzate - Il vigile ignoto (1963)
Totò contro i quattro (1963)
Totò e Cleopatra (1963)
Totò sexy (1963)
Che fine ha fatto Totò baby? (1964)
Il comandante (1963)
Totò contro il pirata nero (1964)
Totò d'Arabia (1965)
Totò e... Mario Castellani - Il teatro con Totò
Chicchirichì (1930)
Madama Follia (1927-1928)
Baraonda (1927-1929)
Bada che ti mangio! (1949)
Mille e una donna (1927-1928)
Ma se ci toccano nel nostro debole... (1947)
C'era una volta il mondo (1947)
Girotondo (1927-1930)
Eravamo sette sorelle (1946)
Un anno dopo (1945)
Con un palmo di naso (1944)
Che ti sei messo in testa? (1944)
Quando meno te l'aspetti (1940)
Il traforo del mondo (1929-1930)
Totò e... Mario Castellani - La televisione con Totò
Tuttototò - Il tuttofare
Tuttototò - Totò ye ye
Tuttototò - Don Giovannino
Tuttototò - Il latitante
Tuttototò - Il grande maestro
Tuttototò - La scommessa
Tuttototò - Premio Nobel
1969 - Ieri e oggi
Riferimenti e bibliografie:
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- «Il Messaggero», 12 giugno 1927
- Davide Morganti in "Repubblica", 23 luglio 2006
- Giuseppe Grieco in "Gente" (Una soubrette si uccise per Totò) n.32, 1973