Totò e... Mario Monicelli

Mario_Monicelli

Negli anni Cinquanta abbiamo sbagliato tutto nei confronti di Totò. Abbiamo sbagliato a renderlo più umano, castrandogli la fantasia e portandolo dalle parti di Eduardo De Filippo. Eduardo è un grandissimo attore, Totò è un genio


Totò era un attore straordinario, di grande sensibilità, di grande sapienza, di grande mestiere, inventava continuamente la parte, non che inventasse le battute, ma inventava continuamente il personaggio. Lo sforzo che è stato fatto intorno a Totò anche da me, più che altro da me, è stato quello di levargli questo suo marionettismo, cioè di cercare di umanizzarlo, di umanizzare questa sua comicità un po' marionettistica, burattinesca. I primi tentativi furono fatti proprio con Guardie e ladri. A mio avviso però questa non è stata nemmeno la strada giusta perché, quando si lavorava, Totò tendeva a costruire questa sua comicità tutta meccanica, surrealistica, e forse è stato un errore contrastarlo.
Il primo film che ho fatto con Totò è stato Totò cerca casa ed è nato per caso. Non è che io l'ho scelto o lui ha scelto me, è stata una cosa abbastanza avventurosa, è stato un film che è stato fatto perché c'era Totò libero per quattro settimane.

Ponti aveva questo contratto con Totò e venne da me e da Steno e ci disse: «Tra quattro settimane devo cominciare, avete un'idea?». Rispondemmo che sì, un'idea ce l'avevamo. C'era la crisi degli alloggi, bastava metterci Totò che ha una famiglia, cerca una casa, tutto quello che può avvenire quando uno cerca casa, con i vari incontri. Scrivemmo questa sceneggiatura assieme ad Age, Scarpelli e altri amici ma, finita la sceneggiatura, non c'era il regista; allora Ponti disse: «Fatelo voi», la cosa è nata così, non è che ci fosse questa grande preparazione. Certo, lo conoscevamo già perché lo avevamo incontrato in occasione delle sceneggiature che avevamo scritto per lui.


A proposito di 'Guardie e ladri'...

Quando facevamo Guardie e ladri giravamo verso l'Acqua Acetosa alla periferia di Roma, c'era Totò che scappava inseguito da Fabrizi che era la guardia, a un certo momento arrivò una vettura della polizia e si intromise, due poliziotti saltarono giù con la rivoltella perché credevano che fosse vero, si misero a inseguire Totò che si spaventò e disse subito: «Fermi, fermi». Totò aveva una grande qualità, quella di avere due facce, una umana e una comica, ma addirittura surrealistica.


Quello tra Totò e Fabrizi per Guardie e ladri fu un rapporto stupendo. Si trattavano con grande civiltà, con molto rispetto reciproco, anzi fu proprio allora che capii come una delle grosse furbizie di un regista fosse quella di mettere assieme due grandissimi attori perché in quel caso ognuno dei grandissimi attori tende a dimostrare all’altro che è privo di meschinità e trabocca di fair play, con la conclusione che il tutto sfocia in una lavorazione liscia come l’olio, paradisiaca.


Il film riguardava temi e cose molto attuali: il dopoguerra, gli americani che venivano, i ladruncoli che rubavano i pacchi dell'Unrra, tutte cose che riguardavano il momento e la generazione che ci apparteneva. Il soggetto era molto carino, molto preciso, così ci mettemmo a sceneggiare con Brancati e Flaiano e la cosa ebbe già sulla carta un tono e un impegno che si trasferì sulla realizzazione. Totò cerca casa era stato fatto proprio al risparmio, invece per Guardie e ladri da parte di Ponti ci fu un impegno maggiore, anche di lancio.


La scena dell'inseguimento sull'argine del fiume era particolarmente problematica: dovevamo girare in esterno, i due attori dovevano correre e non ne avevano per niente voglia, per cui c'era bisogno di un direttore della luce molto svelto, quasi sbrigativo, che approfittasse di ogni momento della loro disponibilità. Bava realizzò quella sequenza in modo impeccabile e con grande classe, tant'è vero che è diventata la scena simbolo del film, la fanno rivedere ancora oggi, la proiettano nelle scuole. Più per merito suo che per me o per gli attori.


La scena dell’inseguimento la ripetemmo più volte. Le difficoltà maggiori ce l’aveva Fabrizi che era grosso. Ripetevamo, ci fermavamo ogni tanto per farli riposare, poi riprendevamo, a brevi pezzi. Erano molto partecipi, si impegnavano molto, devo dire. Non me lo sarei aspettato: erano due persone abbastanza anziane, ognuno per conto proprio con delle difficoltà motorie, invece parteciparono molto. La loro fatica era vera, però continuavano perché capivano che ne valeva la pena. Girammo sull’argine del Tevere, all’Acqua Acetosa, allora era una zona fuori Roma, quasi sperduta, ora è tutto campi da tennis, palazzi, cose... Fabrizi è stato molto simpatico, di grande cortesia, di grande rispetto. Lui e Totò furono molto collaborativi con me ma anche fra di loro, la lavorazione si svolse con molta piacevolezza e facilità. Facendo quel film ho imparato fra l'altro che è più facile lavorare con due o tre star: ognuno vuole far vedere all’altro che non si comporta come una star e quindi viene puntuale, non pretende nulla più dell'altro, è tutto uno scambio di salamelecchi e cortesie che favoriscono la lavorazione; quando invece la star è una sola si dà un po’ di importanza perché sa di rappresentare tutto il film e allora può sollevare qualche piccolo problema.


Totò era molto acuto nel sapersi vestire, nel darsi dei tocchi, nello scegliere una capigliatura... Fra molto bravo nell’aderire, nel mettersi nei panni del personaggio, con poche cose ma molto preciso. I baffetti non li portava normalmente: se non aveva il tempo se li appiccicava, ma in genere se li faceva crescere perché non aveva voglia di stare a truccarsi molto, preferiva non appiccicarsi cose che potevano dargli fastidio.


Totò era un vero uomo di teatro, abituato a orari diversi, spazi ristretti. Si sentiva a disagio all'aperto dove si girava. Si stancava e infastidiva per le lunghe pause, sotto il sole o la pioggia, nelle attese che il cinema comporta. In realtà amava il teatro e riteneva che quello fosse il luogo in cui vale la pena esprimersi. Del cinema non gliene importava molto. Aveva un modo distaccato di comportarsi: era come su un palcoscenico d'avanspettacolo, quando le luci si spegnevano tutto finiva lì. Ma, insieme con Aldo Fabrizi, mi diede la prima grande lezione di uomo di spettacolo. Erano due mostri sacri. Fabrizi aveva fatto il regista, aveva lavorato con la Magnani, era un uomo scontroso e irritabile. Sembrava un'impresa impossibile farli lavorare insieme. Tutti erano preoccupati...


Ci arrivò la notizia che il film aveva preso questo premio, ci compiacemmo fra noi ma non ci furono cerimonie di nessun genere. Nessuno di noi era a Cannes, a quei tempi poi non s’andava alla ricerca delle Palme, dei premi, non ci pensavamo proprio, noi perlomeno che facevamo i film comici, la commedia.


Sembrava la rivoluzione, l'Ottobre a Mosca, io avevo fatto del cinema durante il fascismo, poi le cose erano cambiate, o almeno avrebbero dovuto essere cambiate, quindi non pensavamo... Modificammo alcune cose, qualche battuta, accorciammo qualche scena, roba da poco, solo che fu una lotta lunga con l’ufficio di censura.


Fondo Mario Canale 2001 Intervista a Mario Monicelli
Fondo Mario Canale - 2001 - Intervista a Mario Monicelli - Considerazioni generali sul cinema italiano in particolare sulla sua distribuzione all'esterno, sull'industria cinematografica americana, sulle generazione di registi e autori di cinema italiano; sulla sua flessibilità di generi; sul suo iniziale interessamento al cinema muto; sulla sua formazione con il regista Mario Camerini; primi successi con i film di Totò; sulla rivoluzione digitale nel cinema.

Dei due aspetti dell'arte di Totò, non saprei quale preferire: la parte burattinesca, i fuochi d'artificio, la commedia dell'arte, è una componente della sua comicità di grande valore, importantissima, soprattutto a ritroso; ci se ne accorge oggi meglio di quando, mettiamo, io cominciai a lavorare con lui. C'era allora l'esplosione del neorealismo, e quello che Totò faceva in teatro e aveva cominciato a fare in cinema con Palermi o Mattoli sembrava un po' sorpassato, e si cominciarono a prendere per lui dei temi neorealisti. Il Totò maschera, il Totò surrealista, il Totò marionetta, si trasformò pian piano in una figura più umana, e neorealistica, conseguentemente a tutto l'indirizzo del cinema italiano. Nessuno pensava che ci fosse in lui tanta carica di umanità, e tanta precisione di sfumature psicologiche, e fu in questa nuova veste che egli ebbe alcuni grandi successi. Il suo boom fu dovuto in gran parte al neorealismo e a questo tipo di nuova comicità.

Fu Pasolini a riprendere di nuovo il suo personaggio surreale, nei suoi ultimi film. Pasolini s'innamorò di Totò, e fu uno dei pochissimi registi importanti e di valore a occuparsi di lui, perché nessuno se n'era mai occupato. Lo usò su uno sfondo di transizione neorealista, ma lo prese nelle sue caratteristiche più surreali, e ne fece una figura diversa e piena di grazia. La tradizione comica di Totò, in cinema e in teatro, di prima e durante la guerra, era, come abbiamo detto, marionettistica e surrealistica. Poi ci fu l'avvento del neorealismo e dei personaggi ancorati alla vita quotidiana, quelli che rappresentavano l'italiano medio di allora. Totò ne ha subito l'influenza e ha dovuto trasformare il suo tipo di comicità. Il primo film neorealista come tematica che egli fece fu quello mio e di Steno Totò cerca casa. Si trattava precisamente, come dice il titolo, della crisi degli alloggi. Totò doveva affrontare un personaggio che non aveva mai affrontato prima, e il film infatti risente da tutti i punti di vista, da quello della recitazione come da quello della regia e della sceneggiatura, di un certo squilibrio, perché la tematica era spesso vecchio stile, di comicità burattinesca.

Io ero convinto che la vena che fosse da tirare fuori da lui fosse quella neorealista. Mentre giravo con Totò, lui spesso mi dava dei suggerimenti a carattere un po' surreale, astratto, e io glieli bocciavo quasi tutti. Ripensandoci, credo che molte volte avesse ragione lui, ma allora... Sempre Steno e io, facemmo poi un film abbastanza buono sul varietà, Vita da cani con Fabrizi, che allora era nel suo grande momento di attore e di personaggio. A Ponti venne un'idea molto produttiva, quella di mettere insieme questi due personaggi, Totò e Fabrizi, e tutto sommato fu un soggetto scritto su misura, da Flaiano e da Brancati, che poi sceneggiammo facendone Guardie e ladri. La qualità, il tono del film, era diverso, anche perché nasceva da una diversa scrittura. Totò si compiaceva se chi gli scriveva le sceneggiature o i soggetti erano autori di nome, però credo che sul fondo non gli interessasse molto. La grande passione, la grande nostalgia di Totò era il teatro, era il contatto con il pubblico, era recitare la sera su un palcoscenico. Verso il cinema aveva un atteggiamento non dico di disprezzo, questo no, ma comunque di disinteresse.

Lo ha fatto per venti anni e fatto soltanto quello, ma lo ha fatto per ragioni economiche, però il suo amore restava il teatro. Il passaggio definitivo al nuovo personaggio fu dunque Guardie e ladri sia per l'intervento di Vitaliano Brancati, che fece la sceneggiatura e gli dette un'impronta particolarmente valida dal punto di vista psicologico e umano, realistica e aggiornata per quello che era l'Italia di allora, sia per l'esperienza che avevamo ormai dietro tutti quanti. E su questa scia si mossero Totò e Carolina, Totò e i re di Roma, e altri film. Totò e i re di Roma lo prendemmo, Steno e io, addirittura da Cechov. Guardie e ladri ebbe un grossissimo successo. Vi si mettevano quasi sullo stesso piano sia la guardia che il ladro, coi loro problemi, ragione per cui avemmo parecchi guai con la censura, perché sembrava che questo fosse rivoluzionario. Su quell'ambiente venne fuori anche l'idea di fare con Sonego un film su un agente di PS che si trovava per le mani una ragazza che aveva tentato il suicidio e che Totò doveva riportare al paese col foglio di via. Il film, Totò e Carolina, ebbe un mucchio di guai, e usci dopo un anno e mezzo, perché ebbe trentaquattro-trentacinque tagli in censura. Dovemmo cambiare parecchie battute, fu proprio massacrato, e anche lì perché la guardia era fatta da Totò e già questo era visto come un'offesa all'intero corpo della polizia, e poi perché aveva degli atteggiamenti umani, si faceva convincere, non faceva il suo dovere fino in fondo per ragioni umanitarie, e questo sembrava un'offesa ai corpi dello stato. Il personaggio del Totò di quegli anni è tipico degli anni Cinquanta, un piccoloborghese, anzi nemmeno, un sottoborghese in combattimento sempre con lo stipendio, la fame, il posto, la disoccupazione, con un'ideologia diciamo pure qualunquistica, e quindi affamato di notorietà, di sesso...

Il Totò della prima maniera veniva dal pazzariello che va in giro per le strade con una livrea e un bastone in mano, e i passanti, i bambini, lo circondano e ridono alle sue mosse e alle sue battute. La sua comicità era senza dubbio più immediata, proprio perché più infantile e diretta, spontanea. In questo c'era anche un aspetto "intellettualistico", surreale, che però non è affatto in contrasto col mondo dei bambini e dell'immediatezza comica. Il personaggio comico neorealista, era un personaggio di tutti i giorni, il sottoproletario e il diseredato o il sottoborghese, e veniva mediato da altre esigenze, era meno diretto e immediato. Però era altrettanto, se non forse più popolare. Il pubblico Io riceveva con la stessa facilità e con la stessa partecipazione con cui riceveva il primo personaggio. Le donne poi nei film di Totò hanno poca consistenza di personaggi drammatici, sono messe sempre come abbellimento, come oggetti, come divagazioni. La società era quella repressiva di allora, piena di censure, non c'era l'apertura che ci siamo poi conquistata. In fondo Totò rappresentava proprio questo tipo di italiano sottosviluppato, diciamo la verità, perciò credo che il suo grande successo, la sua grande popolarità fossero dati proprio da questo. A parte naturalmente le sue qualità eccezionali di attore, di mimo.

Le donne, nei film di Totò, servono solo per dare pimento, come una bella scenografia, diciamo. Ma come personaggio che abbiano una loro umanità, in generale no, erano un semplice ornamento. Di emancipazione della donna in quei film non se ne parla proprio! Sono un oggetto, bellissimi oggetti che aiutano i film e i produttori a far entrare nei cinematografi un po' più gente. Poi, più tardi, facemmo insieme I soliti ignoti. Fu un colpo di fortuna, perché Isoliti ignoti nacque come un film in cui non doveva entrarci Totò, ma siccome era il debutto nel film comico di Gassman, e Gassman era visto allora dai produttori come il fumo negli occhi, soprattutto per una parte comica e di protagonista, allora per avallare la presenza di Gassman fui costretto a prendere nelle altre parti attori come Totò, come Mastroianni, ` Salvatori, ecc., perché il pubblico si divertisse con questi personaggi e non fosse oppresso dalla presenza di Gassman.

L'ultimo film che ho fatto con Totò, Risate di gioia, non andò molto bene. Penso che intanto la coppia non fosse molto bene assortita, perché avevano tutti e due una forte personalità, e tentavano di sormontarsi l'un l'altra. Poi era probabilmente un po' sorpassato quel genere di film, quel soggetto. E c'era il fatto che era un film ibrido, c'era dentro Ben Gazzara, che parlava in americano, mentre loro due parlavano romano e napoletano italianizzati, e con l'altro si capivano fino a un certo punto. E abbiamo dovuto doppiare il film completamente. Con la Magnani si poteva fare, ma con Totò era una cosa complicatissima e difficilissima.

Franca Faldini - Goffredo Fofi


La rassegna stampa

Ridere non vuol dire nascondere la realtà

A colloqui con Steno e Monicelli. Umoristi e registi cinematografici - La nuova via del film comico aperta da «Guardie e ladri» La censura si accanisce contro «Totò e i sette re di Roma» - Comicità e tragedia nelle «Infedeli» 

Roma, 28 novembre

Steno e Monicelli costituiscono in Italia un binomio molto popolare, perché legato ad una serie numerosa di film comici, alcuni del quali notevolmente significativi, come Guardie e ladri e il recente Totò e i re di Roma. In questi due film, e particolarmente nel primo di essi, si notano alcune caratteristiche che li differenziano dalla media della produzione comica italiana; l'umorismo di Guardie e ladri e di Totò e i re di Roma non é, infatti, gratuito e campato in aria, ma si riferisce ad aspetti reali della vita italiana d'oggi. In entrambi i film il protagonista, Totò, oltre a farci ridere, riesce, a tratti, a commuovere con la amara e dolorosa umanità del suoi personaggi. 

Carriera «dalla gavetta» 

Steno e Monicelli sono arrivati entrambi alla regia, diciamo cosi «dalla gavetta». Monicelli cominciò, quindici e forse più anni or sono, facendo «l'uomo del ciak» in un film di Gustav Machatg, Ballerine. A quell'epoca. Machetiy, che aveva sbalordito e scandalizzato il pubblico del Festival di Venezia con famoso quanto mediocre Estasi (in cui Hedy Kieslerova, oggi Hedy Lamar, compariva nuda), era considerato un grande maestro del cinema, soprattutto da certi giovani imbevuti di estetismo. Monicelli era anche lui convinto di vivere una fondamentale esperienza artistica, ma quando vide il film proiettato ci rimase assai male, tanto esso gli apparve scadente. Poi Monicelli fece, via via, l’«aiuto» del più importanti registi italiani, il soggettista e successivamente lo sceneggiatore. Dopo avere scritto assieme alcune sceneggiature, Monicelli cominciò a dirigere film in collaborazione con Steno. Quanto alla carriera cinematografia di quest’u'timo, essa ebbe inizio con il film Imputato alzatevi. In quell'occasione, Steno, che lavorava nel giornale umoristico Marc'Aurelio, venne chiamato a scrivere alcune trovate comiche per il film. Poi realizzò soggetti, sceneggiature e, finalmente, cominciò a lavorare con Monicelli. 

— Quando si hanno piò o meno gli stessi gusti, la collaborazione è molto vantaggiosa — dicono i due registi: — oltre a rendere più spedito il lavoro, si ha modo di esercitare una reciproca critica su quello che si fa. Del resto, il cinema é soprattutto un’arte di collaborazione. 

Nel corso di un lungo e interessante colloquio con i due registi, abbiamo, fra l'altro, chiesto loro informazioni sulle traversìe subite a causa della censura dal film Totò e i re di Roma. Abbiamo chiesto, in particolare, se fosse vero che nel film erano state soppresse molte scene.

— Effettivamente — rispondono Steno e Monicelli — mancano nell'edizione definitiva del film alcune scene molto importanti; per esempio, alla fine, il povero impiegato che aveva cercato la morte per poter andare nell'aldllà (la censura, fra parentesi, ha voluto che alla parola «aldilà» fosse sostituita la parola «Olimpo») a prendere i numeri del lotto e darli in sogno alla moglie, si sfogava con iI Padreterno e gli diceva press'a poco: tu che ti preoccupi tanto di me, dei miei peccatucci, della mia vita piena di miserie e di sacrifici, guarda, guarda un po’ la terra e vedrai come le cose vadano male; c’è la miseria, c’è la guerra, c’é la bomba atomica e un sacco di altri guai. Non faresti meglio ad occuparti un po’ di quello che succede laggiù? Questo finale, che avrebbe dato al film una carica satirica e drammatica molto più forte di quella che esso ha, è stato tolto di mezzo dalla censura.

— La censura — ci spiegano i nostri interlocutori — specialmente quella non ufficiale, quella cosiddetta «preventiva», è un grave ostacolo al nostro lavoro. Certi temi non si possono nemmeno toccare. Noi vorremmo che si avesse un po’ più di fiducia in noi e che ci si permettesse di realizzare film in pace, fidando nel nostra senso di responsabilità.

Il discorso cade ora sull’influenza che il cinema italiano del dopoguerra può aver esercitato specificamente sul nostro film comico.

Una parentesi tragica

Secondo Steno e Monlcelli, il cinema realista del dopoguerra ha educato il pubblico in modo tale che esso non apprezza più i film comici che non abbiano una precisa caratteristica nazionale, che non si svolgano In ambienti Italiani e che non rispecchino in un modo o nell’altro la vita dei Paese.

— Naturalmente — dice a questo punto Steno, mentre Monicelli annuisce — noi vogliamo essenzialmente far ridere, far ridere di cuore iI nostro pubblico, evitando però di cedere alle seduzioni dell'umorismo meccanico e senza senso.

Ma nel lavoro di questi due registi — finora dedicato esclusivamente al genere comico — c’è un'eccezione: La infedeli. Questo film, che sta per essere ultimato proprio in questi giorni, è infatti un film drammatico, e, ad un certo punto, addirittura tragico, Le Infedeli si svolge negli ambienti della borghesia, o meglio, di quella parte della borghesia, che è costituita dai nuovi ricchi. Esso vuole svelare la miseria morale di questi ambienti. L'episodio tragico del film (una cameriera, accusata ingiustamente di aver rubato un oggetto in casa dei padroni, si brucia viva) ricorderà un fatto di cronaca nera che commosse profondamente qualche anno fa l’opinione pubblica italiana.

Alla fine della interessante conversazione, Steno e Monicelli hanno espresso il loro amore e la loro fiducia nel nostro cinema, che costituisce, a parer loro, la forza culturale più popolare, più importante e più viva che esista oggi in Italia.

Siamo anche noi convinti, insomma, che esistano comunque le premesse di un film comico profondamente nazionale e popolare; e che, come hanno detto Steno e Monicelli, la strada da seguire sia quella maestra del realismo.

Franco Giraldi, «L'Unità», 29 novembre 1952


Chiamatemi Totò

Testimonianze sul grande comico alla vigilia del suo ciclo di film in TV.

A Totò riscoperto un anno fa dal pubblico giovane del cinema d’essai e in questa inaspettata stagione di celebrità dopo i sei anni di assoluto silenzio seguiti alla sua morte rivisitato da critici, scrittori, linguisti, sociologi, la televisione dedicherà da mercoledì 28 un ciclo di otto film. La serie termina con l'impegnativo e complesso «Uccellacci e uccellini» di Pasolini, ma per il resto presenta quei filmetti di poche pretese e di rapida impalcatura che il grande comico napoletano interpretava a getto continuo, specie negli ultimi anni, facendo il verso e la caricatura, senza particolari trucchi di scena, ai miti del momento: Totò sceicco, Totò le Moko. La riscoperta di Totò fa perno proprio su questo tipo di film, e non su quelle poche opere d'autore che si trovò quasi occasionalmente a interpretare: in questi film dozzinali, con trame improvvisate e vistosi scenari di cartapesta, sfuggendo alle insidie della elaborata e borghese commedia all'italiana che l'industria cinematografica andava perfezionando, Totò ritrovava un suo spazio naturale fatto di poche cose essenziali, riusciva a reinventare le situazioni soverchiandone la banalità, riconquistando la spontaneità a suo modo dotta del popolare teatro dell'arte napoletano.

In che modo avveniva il miracolo dietro la macchina da presa? Parlando con Steno e Monicelli che lo diressero in uno dei suoi più bei film «Guardie e ladri», ma anche in tante altre pellicole alla buona e di vasto consumo abbiamo cercato di ricostruire la forse involontaria strategia di sopravvivenza della sua comicità.

Steno e Monicelli: «sul set era lui a comandare»

«Quando si dice "Totó non ha mai trovato il grandi regista che gli ha fatto fare il grandi film" è vero in parte, ma in parte è anche un luogo comune: quando si lavorava con Totó il problema era trovare un tipo di regia adatto alla sua personalità». Così dice oggi Steno, che insieme a Mario Monicelli ha diretto un gran numero di quelle pellicole artigianali, di poco costo e di largo consumo che il comico napoletano, un'occhiata al copione e basta, interpretava una dietro l'altra ma anche uno dei suoi più bei film, «Guardie e ladri». Totó diventato commediante per caso («perché mi ero innamorato, a diciannove anni, di una macchiettista») approdato nel '17 a Roma, dal teatro dell'arte napoletano, sulle tavole sconnesse del palcoscenico di un teatrino da quattro soldi, il Salone Elena, il frac del nonno, i calzoni a mezz'asta del padre, come raccontava lui anni più tardi, una bombetta pescata chissà dove, cominciò a far cinema esattamente, vent'anni dopo nel '37 in «Fermo con le mani». Rimase però per tutti gli anni a venire un attore di teatro (e di un teatro d’estro e di fantasia personale come quello di certo improvvisato quanto a modo suo coltivato teatro di avanspettacolo), capitato per caso, per pigrizia — perché tirare in tournée, spiegava, è «comodo, faticoso cambiare palcoscenico e alloggio — e sempre con un pizzico d'insofferenza davanti alla macchina da presa.

Tuttavia davanti alla macchina da presa, insofferente o meno, riusciva a creare lo spazio magico della scena e a non rinnegare, malgrado la lunga sfilza di titoli nobiliari nel cassetto, gli umori e la viscerale problemailca del sottoproletariato napoletano di cui si faceva portavoce, ultimo esempio di comicità realmente popolare in mezzo al trionfo dell'umorismo piccolo della nascente commedia all'italiana di produzione industriale.

«Totó — dice Steno — aveva una personalità talmente strana e talmente personale che qualsiasi regista doveva per forza subirne i limiti. Limiti nel senso che era un grande attore: allora se tu avevi in mente un’inquadratura particolare e se lui non capiva quel movimento, non se lo sentiva, quella inquadratura non la potevi fare... Bisognava lasciarlo fare, insomma: una volta mentre stavamo girando Letto a tre piazze (dove Totó era un disperso in Russia che a un certo punto torna e trova la moglie sposata con un altro, che era poi Peppino De Filippo) si mise più o meno, con Peppino che gli faceva da spalla e lo seguiva perfettamente, a recitare a soggetto ignorando le battute che erano nel copione. Cominciò a muoversi, scendere dal letto dove si trovava, tornare su, calpestare De Filippo, inventando tutto o quasi: la scena riuscì perfetta e fu proprio un esempio di teatro dell'arte napoletano trasportato nel cinema». Cosi in Totò a colori una specie di festival di Totò con tutti gli sketch che aveva recitato per anni allo Jovinelli di Roma, al Trianon di Milano, ecc.: fu l'attore napoletano e non il regista a stare i tempi, le pause, a decidere le inquadrature. «Non ero il caso di stare a fare della regia — spiega Steno — fu come se avessi dato la macchina da presa in mano a Totò. I tempi di Totò erano perfetti, perché lui li aveva sperimentati anni e anni con il pubblico». Era impossibile, insomma, secondo Steno, imporgli un ritmo che non sentiva, una comicità che non era la sua, o anche, solo, un metodo di lavoro che non gli andava a genio. Per esempio metteva per contralto che lui sarebbe arrivato sul set del film alle due del pomeriggio: «La mattina non si può far ridere» diceva. Per gli esterni spesso era un problema: la scena dell'inseguimento con Aldo Fabrizi in Guardie e ladri andò avanti quindici giorni perché Totò non riusciva mai ad arrivare alle otto della mattina.

I copioni del film che faceva tutto sommalo non lo interessavano molto («leggeva più l'almanacco della nobiltà che il copione dei film che interpretava» ricorda Steno a proposito della sua mania nobiliare e del personaggio del principe, in cui, con caparbio anacronismo si era profondamente immedesimato); poco gli importava, insomma, dei fondali di cartapesta, delle storie, specie le ultime, scontate e volgari, dei cast abbastanta rabberciati di cui si trovava a far parte. A parte una sua personale filosofia sul mestiere dell’attore («Il produttore deve guadagnare, se non guadagna fallisce; se fallisce io non lavoro più») proprio perché era un istintivo non si rendeva mai pienamente conto di che film sarebbe venuto fuori da una sceneggiatura.

«Quando gli portammo a leggere il copione di Guardie e ladri — dice Steno — se ne usci: E’ bellissimo, però è un film per Fabrizi, io che c‘entro? E invece poi è stato uno dei suoi più bei fillm...». Non aveva ambizioni di regia, un po' per la solita pigrizia («Il regista si deve alzare prima degli altri la mattina, quando gli altri hanno finito deve ancora lavorare...»), un po' per ché i film, anche quelli che partivano dagli spunti iniziali più deteriori, glieli costruivano addosso. Sulle storie che gli venivano proposte (storie da «cinema comico povero» come lui definiva quello italiano, con sereno rimpianto, per esempio, per le gags di Stanilo e Olito che finivano «con i piedi nella pece», mentre «l'aeroplano cadeva quando uno era sopra e l’altro sotto» e mentre «il somaro suonava il pianoforte») non aveva quasi mai niente da obiettare «anche perchè — aggiunge ancora Steno — lui aveva la possibilità di interpretare storie metafisiche, surreali e nello stesso tempo anche storie veristiche».

Il primo film che fece con Steno e Monicelli fu Totò cerca casa: i due registi lo andarono a cercare sul set di Comencini con cui allora (nel '49) stava interpretando L’imperatore di Capri. «Per dargli la carica — ricorda Steno — dopo ogni scena, appena Comencini dava lo stop, la troupe applaudiva, e Totò appena sentiva quest'applauso era tutto contento per cui continuava a recitare per la troupe, e ne veniva fuori un suo show continuo».

Addirittura, mi spiega Monicelli, con Totò bisognava girare il film come se si trattasse di un documentario, rinunciando a ripetere la scena perché lui ogni volta la faceva diversa, e poi a ripetere una scena si stancava, non trovava più gusto. «Del resto— aggiunge il regista — lui personalmente non aveva mai bisogno di ripetere una scena perché era prontissimo, essendo abituato dal Teatro: se la sua spalla o comunque l'attore con cui lavorava dimenticava la battuta, era Totò a dargliela, risolvendo la situazione».

Anche Monicelli ricorda che dei copioni che gli venivano sottoposti — quei copioni su cui si sprecano oggi i vari «che peccato che abbia lavorato a roba di questo genere» mentre ieri il rammarico era in fondo minore, perché anche Totò finiva con l'essere coinvolto dal rifiuto per quei film non gliene importava granché: non studiava la parte se ne serviva più o meno come di un canovaccio. I suggerimenti che dava riguardavano soprattutto il trucco e i costumi, per esempio il ladruncolo di Guardie e ladri se l'era pensato lui, combinato in quel modo.

Avrebbe voluto fare qualcosa di diverso? «Si, forse, aveva sempre in mente un tipo di comicità surreale molto difficile da realizzare in cinema e, comunque, la sua gran passione rimase sempre il teatro. Io gli proposi di fare qualcosa insieme, a teatro: non teatro di varietà, ma Moliére, L'avaro. "Si, si, certo, come no", mi disse, ma poi, alla fine, non se ne fece niente». Totò oltre ad avere un modo tutto suo particolare di lavorare, aveva anche un modo tutto suo di vivere. Ci teneva moltissimo alla sua vita privata, non frequentava la gente del cinema (tra i pochissimi erano proprio Moniceili e Steno) ma solo qualche amico del teatro.

Era riservato, educato, e a differenza di tanti altri comici non raccontava mai barzellette, che ha dichiarato più volte di detestare. La sera se ne stava a casa sua a ricevere, e quando gli ospiti se ne erano andati si metteva a scrivere canzoni oppure a vedere del film. «Aveva una saletta da proiezione - ricorda Monicelli - e ci passava ore e ore: la maggior parte delle volte vedeva vecchi film suoi e si divertiva moltissimo, rideva come uno spettatore qualunque».

Cosa diceva del cinema Totò? «Mah, a parte questi film che si proiettava a casa vedeva pochissimo cinema. Dei comici amava motto Buster Keaton...» Più di Charlot? «Mi pare di si, o almeno lo citava più spesso. Keaton era un personaggio che aveva senz'altro presente e che gli aveva fatto una grande impressione». E dei giovani comici che cosa diceva? «Chi c’era allora di giovane comico? Praticamente solo Sordi. Lo trattava come un simpatico ragazzotto, con molta simpatia, con affetto, ma cosi, come se non fosse un attore, ma un giovane volenteroso e simpatico, e, perché no; anche divertente, Del resto lui era molto gentile con tutti i componenti della troupe, non ha mai avuto nessuna gelosia per nessuno, nessun egoismo».

Parlava molto del teatro napoletano. Scarpetta, il San Carlino; gli interessava più quello che si era lasciato alle spalle che il presente in cui viveva; siccome era un uomo discreto e sottile non s’era fatto una bandiera di questa sua gavetta abbastanza gloriosa ed eroica sui palcoscenici malmessi e miserabili; eppure diceva: «non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita».

Elisabetta Rasy, «Paese Sera», 18 marzo 1973


Monicelli - La sera cantavamo con Totò

Steno ed io diventammo registi per caso quando inventammo «Totò cerca casa». Per «Risate di gioia» la Magnani non lo voleva: «Abbassa il tono del film»


1958 I soliti ignoti 044 L

«Ok, parliamo dell'estate 1949. Allora girai il mio primo film, in collaborazione con Steno: Totò cerca casa». Mario Monicelli, con quel suo modo un po' brusco un po' sincopato di parlare, accetta finalmente di ripercorrere un pezzetto della sua lunga carriera. Non voleva farlo. «Non mi piace guardarmi indietro - aveva detto -. Il passato è passato. E, poi, non ho il gusto dell'aneddoto. Figuriamoci del pettegolezzo retrospettivo. Posso parlare solo del mio lavoro, del cinema. E' l'unica cosa che ho fatto nella vita».

Di cose, nella sua vita, veramente ne ha fatte moltissime. Ha 77 anni e fa cinema da quando era diciottenne. Ha girato una settantina di film e nella storia del cinema è entrato come uno dei maestri della commedia all'italiana. Ha lavorato con grandi attori e suoi sono alcuni capolavori come La grande guerra, I compagni, L'armata Brancalcone. Ma nel mondo dei ricordi s'inoltra malvolentieri. Mentre si muove con serena sicurezza fra gli interessi e gli affetti del presente. Eccolo sorridere - neanche tanto spesso - nella piccola casa dove è andato ad abitare con la sua nuova famiglia. Mostrare i quadri dipinti dalla giovane moglie. Raccogliere il pupazzo di peluche che la sua ultima figlia - Rosa, di 4 anni - ha piazzato sul più bel divano della stanza. E soffermarsi sul film cui sta lavorando, insieme con Suso Cecchi D'Amico e due esordienti.

«Vorrei fame - dice - una sorta di continuazione e controcanto di Speriamo che sia femmina. Lì raccontavo il rapporto fallimentare fra uomo e donna, la speranza per il mondo nelle relazioni nuove che le donne sanno instaurare fra loro. Adesso vorrei raccontare quanto le donne - passate attraverso l'esperienza del femminismo - hanno spaventato gli uomini, li hanno intimiditi, messi in fuga. lnsomma vorrei che le donne si prendessero un po' la responsabilità del fatto che i sessi non riescono più a trovare un'intesa fra di loro».

E Totò? Il regista fruga fra buste ingiallite mescolate a libri e dischi. Fatica a mettere ordine fra le foto di film disparati. Si diverte, qualche volta, nel rivedere una faccia. S'imbroncia, più spesso, davanti a visi di gente scomparsa, ragazze sparito dopo la breve parentesi in celluloide. Finalmente ecco una piccola antologica di Totò. Totò che ammicca, strabuzza gli occhi, avanza sghembo come solo lui sapeva fare. Monicelli riflette e dice: «Lui era speciale».

Racconta: «L'ho conosciuto nel '49, anche se - prima - l'avevo spesso incontrato. Insieme con Steno avevo scritto le sceneggiature di tanti suoi film di successo. Io e Steno eravamo una coppia molto richiesta quando noi dopoguerra ci fu quell'imprevedibile boom del cinema italiano. Tutti credevamo che - aperte le porte alle pellicole americane, finita la protezione che il regime aveva assicurato al nostro cinema - non ci sarebbe stato un futuro per noi. Molti si erano dirottati verso attività alternative: giornalismo, fumetti. Invece scoppiò il neorealismo. Nacquero - nonostante i pochi soldi, i mezzi tecnici scadenti - quei capolavori e tante pellicole di cassetta. I film costavano poco e rendevano. La gente faceva la coda davanti ai cinema. I produttori investivano e ci guadagnavano. Stimolavano anzi gli autori a sperimentare nuovo strade Insomma, fu un boom.

«Steno ed io diventammo registi per caso. Carlo Ponti aveva sotto contratto Totò per due mesi. Doveva fare un film per la Lux di Alfredo Guarini. Pensò di fame due di film, invece di uno. Allora si girava alla buona, senza la prosopopea di oggi. Ponti ci disse: inventatevi un soggetto, presto! E ci venne l'idea di Totò cerca casa. Il problema degli alloggi era drammatico. Le città erano semidistrutte. Quella storia teneva d'occhio l'attualità e - come si faceva alloro saccheggiava anche le idee di altri, gli spunti che venivano da una conversazione, il teatro napoletano tradizionale. L'episodio dell'alloggio nel cimitero, ad esempio, è preso di sana pianta da un alto unico - anonimo - del repertorio napoletano. Il clima era quello del tempo dell'opera buffa, di Cimarosa e Paisiello, quando un'aria si trasferiva da un'opera all'altra, e cosi una situazione, un personaggio. Le cose nascevano cosi, con grande felicità, in una maniera che poi si è perduta e che rimpiango molto. Si stava insieme, allora, registi, scrittori e attori. A Roma ogni sera sul palcoscenico di un piccolo teatro, l'Arlecchino, saliva a cantare o recitare chi voleva: Aldo Fabrizi come Ennio Flaiano, Ciarletta. Brancati, Mazzarella, la Valeri.

«Ponti interpellò un paio di registi, poi ci disse: Ma, scusute, porché il film non lo dirigete voi? E cosi finimmo dietro la macchina da presa. Era estate, naturalmente, perché allora si girava solo nei mesi estivi quando il bel tempo era sicuro. Non come oggii che, con le pellicole e i mezzi tecnici a disposizione, si può lavorare sempre e, anzi, la luce invernale, di taglio, è preferita. Le ragioni artistiche allora non potevamo neppure permettercele. Mentre oggi - ironia della storia! - film non se fanno quasi più. Arrivammo sul set col copione completo. Non si usava cambiare, avere ripensamenti. Non c'era il tempo per rifare una scena. Totò aveva approvato la sceneggiatura. Lui veramente non discuteva mai. Gli andava sempre bene tutto. Non contestava mai una situazione, una psicologia. All’inìzio aveva tentato di dare qualche suggerimento, per portare avanti una comicità più surreale, più lieve. Ma non fu capito. E la smise di insistere.

«Anch'io l'avevo contrastato. Avevo voluto, semmai, umanizzare il personaggio, portarlo fuori dal cliché della macchietta. Ho fatto un errore. E me ne dispiaccio, tanto più che, poi, mi ha sempre divertito molto rovesciare i ruoli, inventare attori. Sono stato io - in La ragazza con la pistola - a fare di Monica Vitti, l'interprete dell'incomunicabilità e dell'alienazione, un'attrice comica. E nei Soliti ignoti ho avuto l'idea di trasformare in attore comico Gassman, che fino ad allora il cinema aveva voluto nei ruoli del latin lover o del cattivo o dell'antipatico. Sempre in quel film feci saltare fuori Marcello Mastroianni comico, la Cardinale che era una ragazzetta appena venuta da Tunisi e che non sapeva neppure parlare l'Italiano. Tiberio Murgia che faceva Io sguattero in un ristorante... Stessa operazione, ma in senso inverso, nella Grande guerra, dove affidai a Sordi un ruolo drammatico...

«Già allora, nel '49, Totò era fragile, di salute delicata. Era un vero uomo di teatro, abituato a orari diversi, spazi ristretti. Si sentiva a disagio all'aperto dove si girava. Si stancava e infastidiva per le lunghe pause, sotto il sole o la pioggia, nelle attese che il cinema comporta. In realtà amava il teatro e riteneva che quello fosse il luogo in cui valeva la pena esprimersi. Del cinema non gliene importava molto. Era gentile, un signore. Lui era il cast, per questo gli si mettevano accanto anche attori non professionisti che facevano ripetere una scena magari tante volte: Totò non si spazientiva. Con le sue partner, le bellone del tempo, aveva un modo distaccato di comportarsi: era come su un palcoscenico d'avanspettacolo, quando le luci si spegnevano tutto finiva lì. Certo, era un divo. Ma, insieme con Aldo Fabrizi mi diede la prima grande lezione di uomo di spettacolo. Li volli per Guardie e ladri, nel '51. Erano due mostri sacri. Fabrizi aveva fatto il regista, aveva lavorato con la Magnani, era un uomo scontroso e irritabile. Sembrava un'impresa impossibile farli lavorare insieme. Tutti erano preoccupati. Invece mi rivelarono che - quando più divi lavorano insieme - ciascuno vuole mostrare quanto è disponibile: arriva in orario, non pretende il camerino migliore, non si presenta al trucco per ultimo per guadagnare mezzora di sonno. Andò tutto benissimo.

«In quell'estate del '49 due cose mi colpirono di Totò. Una sorta di sdoppiamento fra l'attore e il principe. Sul set recitava, era scurrile, farsesco, comico. Poi diventava il principe De Curtis e la sua fedeltà alla figura del blasonato era totale. Amava stare a casa. Aveva una saletta di proiezione dove si vedeva - anche do solo - i film. Ascoltava musica e ne componeva. Quando riceveva, la sera, ci faceva sentire le sue canzoni, raccontava aneddoti. Era un uomo molto simpatico, ma non faceva il comico, non si esibiva. Sapeva ascoltare. Si facevano le due, le tre...

«Le volte che andava a vedersi - e non lo faceva neanche sempre - assisteva al film come se quello sullo schermo fosse un altro: rideva di gusto oppure non si divertiva per niente, ma non entrava mai nel merito dicendo questo si poteva fare così questo è andato male perché... Era come se la cosa non lo riguardasse: un atteggiamento che non ho mai trovato in nessun altro attore. Era davvero così diviso? Era una corazza che si era costruito? Non l'ho mai capito. Ho capito poi, invece, quanto grande fosse il mito - mania, debolezza, fissazione? - per quel suo titolo nobiliare. Una volta, nel '51, mentre giravamo Guardie e ladri al Palatino, lui puntò il dito verso l'Arco di Costantino. ‘ Sai che quello è mio?", disse. Io non capii. “Certo, certo”, risposi con ironia. Lui, serissimo, insistè: "E' mio perché Costantino era un imperatore romano. Mentre io discendo direttamente da antenati greco-bizantini”.

«La sua notorietà era senza confronti. Con lui girai il primo film che firmavo da solo, nel '55, Totò e Carolina (film che mi diede un sacco di guai con la censura, perché Totò era un poliziotto diciamo umano, vessato dai suoi superiori, sostenuto da un groppo di persone che cantavano L'Internazionale e sventolavano la bandiera rossa: dovetti fare un sacco di tagli, l’identità di quelle persone fu cancellata e il film uscì con mesi di ritardo!).

«Le nostre strade si separarono per anni. L'ultima volta che lavorai con lui fu nel '60. in Risate di gioia, con Anna Magnani. La Magnani la conoscevo bene. Andavo spesso alle serate in casa sua, serate molto divertenti: lei recitava sketches, cantava, faceva terribili scherzi col telefono svegliando la gente, spacciandosi per altri... Per quel film ci scontrammo: lei non voleva Totò. Tira giù il tono del film! diceva. Io però mi impuntai o Totò fu nel cast. La macchina da presa - vidi - gli era diventata più familiare. Il pubblico cinematografico, per lui abituato al rapporto platea-palcoscenico, non era più qualcosa di astratto. Alla fine di ogni scena la troupe - 20-30 persone - si raccoglieva insieme e lo applaudiva. Questo lo riscaldava, gli piaceva. Un'idea geniale. Che però non avevo avuto io...»

Liliana Madeo, «La Stampa», 15 luglio 1992


Totò e... Mario Monicelli - Le opere

Totò cerca casa (1949)

Totò cerca casa Un posto da guardiano del cimitero non si rifiuta: a cimitero donato non si guarda in bocca. E poi in casa c'è un silenzio di tomba.Beniamino Lomacchio Inizio riprese: settembre 1949, Stabilimenti Titanus, RomaAutorizzazione censura…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
11523

Guardie e ladri (1951)

Guardie e ladri Oh perbacco! Non lo hanno fatto commendatore? Ma come, un uomo così grosso...Ferdinando Esposito Inizio riprese: febbraio 1951, Studi Ponti-De Laurentiis, RomaAutorizzazione censura e distribuzione: 23 ottobre 1951 - Incasso lire…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
11005

Totò a colori (1952)

Totò a colori La serva serve, soprattutto se è bona, serve, eccome!Antonio Scannagatti Inizio riprese: gennaio 1952, Stabilimenti Ponti-De Laurentiis RomaAutorizzazione censura e distribuzione: - 17 marzo 1952 - Incasso lire 775.000.000 - Spettatori…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
10627

Totò e i Re di Roma (1952)

Totò e i Re di Roma Il cappello... metti sull'attaccapanni. Fai attenzione, che è figlio unico!Ercole Pappalardo Inizio riprese: 24 settembre 1951, Stabilimenti Titanus FarnesinaAutorizzazione censura e distribuzione: 24 settembre 1952 - Incasso…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
8350

Il più comico spettacolo del mondo (1953)

Il più comico spettacolo del mondo Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C'è tanta gente che si diverte a far piangere l'umanità, noi…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
6064

Totò e Carolina (1955)

Totò e Carolina Il suicidio è un lusso, i poveri non hanno neanche la libertà di uccidersi.Agente di PS Antonio Caccavallo Inizio riprese: settembre 1953, Studi di Cinecittà, RomaAutorizzazione censura e distribuzione: 2 marzo 1955 - Incasso lire…
Simone Riberto, Daniele Palmesi, Federico Clemente
8261

Un turco napoletano (1953)

Un turco napoletano Io sono nato col destino di essere forte, la mia è la forza del destino.Felice Sciosciammocca Inizio riprese: giugno 1953Autorizzazione censura e distribuzione: 5 agosto 1953 - Incasso lire 594.300.000 - Spettatori 4.525.242…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
8983

I soliti ignoti (1958)

I soliti ignoti Dunque un modo per aprirla è quello della dinamite. Sistema che usava il famoso Fu Cimin, che non era cinese, era veneziano. “Fu” sarebbe che morì, "Cimin" è il cognome, no?!Dante Cruciani Inizio riprese: febbraio 1958Autorizzazione…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
9843

Totò e le donne (1952)

Totò e le donne È incredibile come un bipede di genere femminile possa ridurre un uomo.Cav. Filippo Scaparro Inizio riprese: settembre 1952, Studi Ponti - De LaurentiisAutorizzazione censura e distribuzione: 15 dicembre 1952 - Incasso lire…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
9764

Risate di gioia (1960)

Risate di gioia Ti offro una bella pizza... i soldi ce li hai?Umberto Pennazzuto Inizio riprese: giugno 1960, Stabilimenti Titanus Farnesina, RomaAutorizzazione censura e distribuzione: 11 ottobre 1960 - Incasso lire 206.227.000 - Spettatori…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
8489

Capriccio all'italiana (1968)

Capriccio all'italiana Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato...Iago Inizio riprese dell'episodio "Il mostro della domenica", settembre 1966. Inizio riprese dell'episodio "Che cosa sono le nuvole?", febbraio 1967- Distribuzione: 1968 -…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
6826


Riferimenti e bibliografie:
  • "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977
  • "L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011

Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:

  • Franco Giraldi, «L'Unità», 29 novembre 1952
  • Elisabetta Rasy, «Paese Sera», 18 marzo 1973
  • Liliana Madeo, «La Stampa», 15 luglio 1992