Totò e... Sergio Corbucci
A Totò devo molto
Il regista Sergio Corbucci, con il quale Totò ha girato ben sette film, al pari di Alfred Hitchcock, amava comparire in brevi sequenze dei lavori da lui diretti. Qui lo ritroviamo, ad esempio, in "Totò, Peppino e la dolce vita" e ne "Gli onorevoli".
Quando Mastrocinque, per disaccordi con il produttore, lasciò il set di Totò, Pepppino e la dolce vita, si ricordò di me e, credendomi (poiché allora frequentavo molto via Veneto) un esperto di "dolce vita", mi chiamò per finire il film. Stavo facendo un'altra cosa, fui preso e portato sul set, che era poi quello del film di Fellini, con la strada ricostruita in teatro e tutto il resto. Cominciai a girare subito senza pormi troppi problemi, perché bisognava fare presto. La sceneggiatura si buttava giù la mattina prima di incominciare le riprese, oppure alla sera dopo l'una di notte.
Si andava a casa di Totò a leggergli le scenegggiature. Dopo cena guardava la televisione, chiacchierava, riceveva gli amici, prima delle quattro, delle cinque di mattina non si addormentava: avendo fatto teatro tutta la vita non riusciva a dormire prima, aveva l'insonnia. Si dedicava dall'una di notte fino alle tre, tre e mezza alla lettura delle scenegggiature. I registi, gli autori, rimbambiti completamente perché avevano sulle spalle un giorno di lavoro, stavano lì a leggere le sceneggiature. Erano scene lugubri, mentre gli altri erano quasi addormentati. Totò ascoltava come una civetta sorniona, pronto a scattare, gli bastava una situazione, una battuta, uno spunto parodistico. Ma spesso queste sceneggiature, lette stralunatamente di notte, alla mattina non anndavano più bene.
Quando alle due si cominciava a girare con Totò, prima si rileggeva la scenegggiatura e magari si decideva che era un disastro e bisognava rifare tutto da capo. Si utilizzava qualche elemento già predisposto, una situazione, un motivo, e s'improvvvisava una scenetta. Le cose migliori sono sempre nate così, proprio dall'improvviisazione di Totò e Taranto, di Totò e Peppino De Filippo, che avevano nel sangue questa improvvisazione da commedia dell'arte.
La recitazione di Totò era molto spontanea, l’improvvisazione vi aveva una grande parte. Per dare il meglio, Totò aveva bisogno di un compagno con cui l’accordo fosse immediato, e che spesso lo seguiva di film in film. Ne I due marescialli, ad esempio, Totò recitava per la seconda volta con Vittorio De Sica. Al suo fianco quasi si esaltava, dimostrava il classico piacere del comico che sa di recitare capito e lo fa in modo eccezionale. Le sue doti naturali di improvvisazione, le sue straordinarie doti di comico, venivano messe in enorme risalto. Credo che questo avvenisse, in quel film, principalmente per la presenza di un partner molto importante. Totò diceva sempre: “Io posso far ridere, ma se ho vicino a me uno che fa ridere più di me, anch’io faccio ridere di più." Con De Sica ritrovava una verve nuova, e il senso di divertire un artista che oltre che essere un vecchio collega, un compagno napoletano, era nello stesso tempo un grande regista. Da parte sua c’era un certo gusto a far risaltare la sua bravura, una certa eccitazione nel recitare, far ridere, tirar fuori tutti i suoi lazzi e le sue fantastiche trovate, che rendevano difficile perfino al regista assistere alla scena senza ridere.
Un altro caso di compagno all’altezza di Totò era quello di Peppino De Filippo. Io ho diretto sei film di Totò; tre erano anche con Peppino De Filippo: Totò, Peppino e la dolce vita, Chi si ferma è perduto, Gli onorevoli. Totò e Peppino sono comparsi in una dozzina di film insieme, in una dozzina di anni. Totò aveva sempre bisogno di pubblico, di far ridere i presenti secondo quella che era la regola del teatro. Una delle caratteristiche dei film che ho fatto con Totò e Peppino era la difficoltà della prova. Durante la prova la scena diventava sempre penosa, e per il regista tristissima. Uno si sentiva come un deficiente, e si diceva: ecco, questi non faranno ridere nessuno. La prima volta che li ebbi di fronte — e non ero un principiante — li feci provare una scena. Io mi sentivo molto a disagio a dover dirigere due mostri del genere. Mi guardavano sornioni come due gattoni, consideravano ironicamente il giovane regista di fronte a loro che tentava di ottenere qualche cosa in fatto di comicità, e provarono del tutto meccanicamente. Tanto che dovetti rivolgermi al Principe (Totò bisognava chiamarlo Principe per andarci d’accordo) per solleticare un po’ più di slancio... Ma ero disperato. Poi, quando girammo sul serio, ricordo che si trattò di una scena spaventosa, spaventosa perché vedevo l’operatore sussultare dalle risa dietro la macchina, vedevo gli elettricisti, gli operai e i macchinisti sghignazzare sui ponti. Era comicità allo stato puro, la comicità del teatro dell’arte, irripetibile.
La sceneggiatura era per Totò un filo d’acciaio teso tra due punti, l’inizio e la fine del film, ma il resto subiva mille cambiamenti.
Le sceneggiature Totò le considerava nella maniera più terribile che si possa immaginare. E per noi, o meglio per chi ha lavorato con Totò, la difficoltà maggiore era la lettura della sceneggiatura o del soggetto. La difficoltà consisteva nel leggere a Totò le sceneggiature, perché Totò negli ultimi anni non leggeva più per ragioni di vista. Allora gli si dovevano leggere le sceneggiature, e quasi sempre questo avveniva ad ore impossibili, dalle tre alle quattro di mattina, perché Totò prima di quell’ora diceva di non capire bene. Era abituato a leggere i copioni dopo le due di notte, da vecchio attore di teatro che aveva i momenti di maggiore lucidità in quelle ore. Si trattava dunque, per il regista e lo sceneggiatore, di andare a trovare Totò alle tre di notte in quella specie di santuario che si era costruito. Ci si trovava davanti questa specie di gufone simpatico vestito di velluto rosso, che t’aspettava dicendosi "chissà che stupidaggini mi faranno ascoltare” e poi leggergli la sceneggiatura cercando di imitare la sua voce, in modo naturalmente maldestro, e Totò non rideva mai. Qualche volta soltanto faceva quel suo “uh, uh,” e allora voleva dire che avevamo fatto centro. Io credo di essere stato, a quanto so, uno dei pochi registi che riusciva a tanto. Ovviamente poi la sceneggiatura in teatro di posa cambiava completamente. Una volta siamo arrivati non solo a cambiare di sesso al personaggio, ossia Totò diventò una donna, ma la storia stessa diventò completamente diversa, cambiò epoca, cambiò tutto, fu un altro film. Mancava solo che cambiasse anche il regista.
Totò era proprio felice di avere accanto nel film un attore come De Sica. E quando era felice, dava davvero il massimo. Il rapporto tra i due metteva tenerezza, perché da principio da parte di Totò c’era una grande deferenza e anche una certa timidezza. E lo stesso si riscontrava da parte di De Sica nei confronti di Totò. Insomma, era un minuetto di “Prego, Principe!”. “Ma si figuri, Commendatore!”. Poi, dopo un po’ di giorni attaccarono con il Vitto’ e l'Anto’ e fu una lavorazione straordinaria, fu una gara nobilissima a dare tutte le possibilità di pretesto comico all'altro. Fu un film che feci in un tornado di gioia e anche uno dei più rapidi che abbia mai girato.
In fase di sceneggiatura Totò praticamente non dava nessun apporto. Ma appena arrivava sul set, partoriva un’idea dietro l’altra, inventava battute e situazioni comiche, ti trasformava di sana pianta anche la scena più banale. Totò, Peppino e la dolce vita era un film incasinatissimo, prodotto da parenti suoi, la figlia con il marito, tanto è vero che io arrivai in sostituzione di Camillo Mastrocinque che aveva litigato e se ne era andato. Non sapevo niente, non avevo neppure letto il copione, e c’era una scena di una specie di bar con un tavolino, e su un foglio lessi che Totò e Peppino avrebbero dovuto sedere attorno a questo tavolino chiacchierando. Ma di che cosa non era specificato. Gli dissi: “lo sono piombato qua, questo è quanto mi trovo tra le mani, però sono all’oscuro di tutto, e adesso che facciamo in questa scena del bar?”. E Totò, calmo calmo, mi disse di lasciarlo fare. Così, di sana pianta, mentre lo seguivo con la macchina e Peppino ordinava dello champagne al cameriere che gli suggeriva il Moét Chandon, Totò inventò uno sketch straordinario svisando Moèt Chandon in "Mo’ esce Antò" andando avanti sull’equivoco per diversi minuti. Tutti della troupe schiattavamo dal ridere, in quei casi spesso i macchinisti e gli elettricisti finivano con l’applaudirlo perché si divertivano come pazzi, inaspettatamente.
Totò e... Sergio Corbucci - Le opere
Chi si ferma è perduto (1960)
I due marescialli (1961)
Totò, Peppino e... la dolce vita (1961)
Il giorno più corto (1963)
Lo smemorato di Collegno (1962)
Totò di notte n.1 (1962)
Gli onorevoli (1963)
Totò contro i quattro (1963)
Riferimenti e bibliografie:
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977