Antonio de Curtis non ama Totò

Totò


Una barzelletta? Signora cara, se lei vuole farsi quattro risate, acquisti un biglietto per la Compagnia Chiari o Dapporto. Ne raccontano di sfiziosissime. No, no, non Totò, per carità, non fanno parte del suo repertorio. Eppoi temo stia commettendo uno sbaglio di persona. Permette? Sono Antonio de Curtis.


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Totò

Occhi folli e maligni, ma anche "disillusi” e animalescamente inteneriti, la linea della bocca distorta in una smorfia umiliata o ghignante, che segue l’assurda e mobilissima sporgenza della bazza, sua inconfondibile sigla. Il collo è snodabile e allungabile, le articolazioni interamente slogate in meccanismi dinamici assurdi, ma che si indovinano derivati da forzate dormite in luoghi duri e scomodissimi, come panchine e angoli di strada. Le mani vorticano in continuazione in offensive palpate, in osceni sberleffi, in inarrestabili mulinelli che suppliscono eloquentemente al suo farfugliato e improvvisato modo di esprimersi, fra dialettale e analfabetico. Il suo abbigliamento è costituito da pezzi composti, raccolti da stracciaroli e burattinai: ma a suo modo tiene al decoro dell’abito, anche se questo non riesce a ricoprirlo interamente, lasciandogli scoperte le caviglie impazzite, abituate a lunghe passeggiate e fughe precipitose. Usa doppi sensi pesantissimi, spesso evocanti il membro virile. Le sue esperienze estetiche sono il teatro all’aperto dei burattini, Pulcinella, i pupi, le bande di strada e i pazzarielli. Ama forsennatamente i fuochi artificiali. Ha una fede religiosa più animistica e superstiziosa che cattolicamente ortodossa. Vive in abitazioni fatiscenti, in baracche, o nelle case degli altri dove si intrufola volentieri con i pretesti più fantasiosi. Non ha frequentato scuole continuativamente, la sua scuola è l’arte della sopravvivenza. Conosce Napoli, i suoi dintorni, essendosi spinto fino a Capri in cerca di gonzi, Cuneo, dove ha fatto il militare (quasi sempre consegnato, di ramazza). L’idea della morte gli è familiare, ci scherza, diabolicamente macabro, come sulla fame atavica.

Antonio de Curtis

In casa, Antonio de Curtis parla sempre a voce bassa. Lui che è così esplosivo in scena, esige che i familiari non pronuncino mai parole spinte, lui che dallo schermo ne dice di tutti i colori, si comporta in maniera estremamente compita con i domestici; il campanello elettrico, in capo al letto, lo tiene solo per bellezza, in realtà non lo adopera mai, né permette mai che qualcuno gli pulisca le scarpe. Inizia la giornata segnandosi devotamente e la conclude recitando le preghiere; va a messa quasi ogni domenica e, ogni volta che ne avverte il bisogno, si confessa e si comunica. Vizi? Solo quello del fumo: ottanta e anche novante «Turmac» al giorno (e almeno 15 caffè, n.d.r.). La gola? Mangiava al massimo una minestra e il colmo della buona tavola era per lui rappresentato da un piatto di pasta e fagioli.



E Antonio rinnegò Totò?

La conseguenza più grave della svalutazione che il principe fece del cinema di Totò fu la sua decisione di scindere la loro simbiosi, fino a giungere a rinnegare la loro identità unica, dandone una fisica rappresentazione neH’intervista televisiva della Rai con Lello Bersani nell’ottobre del 1963, quando il principe ricevette a Napoli, in occasione degli Incontri internazionali del cinema, la Sirena d’Oro, accolto da un pubblico in delirio che lo fece scoppiare in lacrime22. Contemporaneamente, il principe ribadiva la sua antipatia per Totò nell’intervista del 1963 con Oriana Fallaci, e la confermò ancora nel gennaio del 1966.

La scissione della simbiosi, così apertamente proclamata dal principe, non comportava in realtà la rinnegazione della sua identità con Totò, che attraverso i personaggi dei film rappresentava la sua visione della vita e della Storia. Per questo, il principe dichiarava di non avere preferenze fra i personaggi di Totò: «li ho amati tutti. Un artista non può affezionarsi a questo o a quel personaggio. Dirò, tuttavia, che sono affezionato a quei personaggi che hanno consentito di proiettarmi al di fuori della realtà di ogni giorno, insomma a quei personaggi che già facevo trent’anni fa». In realtà, il principe voleva bene a Totò: anzi, come aveva detto a Fabrizio Sarazani nel 1956, riconosceva a Totò il merito di avergli dato la possibilità di esprimere la sua visione della vita:

Io devo tutto a Totò e se non lo avessi incontrato un giorno, per la strada e non l’avessi riconosciuto come il solo amico della mia vita, Dio sa quale sarebbe stato il mio destino. Cugino di Pulcinella, nipote di Arlecchino? Io non l’ho mai saputo, e ne hanno scritte tante a proposito di lui. Certo è un buffone serissimo, il quale come tutti i buffoni che si rispettano maschera la ragione da follia e la follia da ragione. Ne abbiamo passate insieme di tutti i colori. Mi disse, incontrandomi per la prima volta, di non perdere tempo, che avevo proprio la faccia che serviva a lui, e che lo avessi accompagnato, perché saremmo andati a morire di fame insieme. Io fui insomma, il primo spettatore di Totò, come dire di me stesso. «Vedrai che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere». Disse proprio il verbo patire, quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di guai, di beffe subite, di appetito arretrato, esperienze che servono alla legge del contrasto comico. [...] Tutto quello che so fare me lo ha insegnato Totò che sapeva l’arte di guardare da vicino la verità della strada. Questo impareggiabile buffone ha uno sguardo come l’obiettivo di una macchina fotografica.

Esattamente dieci anni dopo, nel maggio del 1966, il principe, celiando, ribadì che fra Antonio e Totò c’era conflitto, perché il principe non amava Totò, mentre «Totò ama molto il principe, gli è devoto, ossequioso, rispettoso, non gli rinfaccia niente, gli dà da vivere, gli fa fare il principe», ed era perciò migliore del principe. Alla fine, però, Antonio ammise che il conflitto con Totò era «una barzelletta, che dico così, tanto per dire qualcosa. Il principe de Curtis è d’accordo con Totò, è d’accordo che bisogna lavorare, che non esistono privilegi di casta. Sa quale privilegio esiste oggi, signora? Il privilegio dell’intelligenza. Oggi non contano i titoli, oggi conta il cervello per diventare qualcuno. Questo è il vero privilegio».

Forse la scissione della simbiosi Antonio/Totò, come l’ammissione di aver fatto film brutti e bruttissimi, era una forma di autodifesa contro le continue critiche all’attorus interruptus, un uomo timido, che confessava di essere «afflitto da un brutto complesso: il complesso di inferiorità. Inferiorità fisica, inferiorità intellettuale, inferiorità culturale». E in effetti, quando si sentì valorizzato da registi come Lattuada e Pasolini, maggiormente apprezzato dai critici, e più considerato dalla stampa, il principe si mostrò risoluto nel rivendicare l’originalità del suo Totò. Era fiero di affermare: «non ho frequentato nessuna accademia, nessuna scuola mi ha avuto come discepolo. D’altra parte, sarei stato un cattivo scolaro: ho sempre amato crearmi le “mosse” da me», come disse in una intervista pubblicata nel gennaio 1966 su «Rivista del cinematografo». Con l’umiltà degli uomini veramente grandi, osservava:

Diversi critici hanno detto che io, Totò, sono un grande attore. Sarei proprio curioso di sapere a quale parte dei miei atteggiamenti comici possa attribuirsi l’aggettivo “grande”. Sono un buon attore, questo sì, anche se sfortunato [...]. Se in fonde a quelle sciocche cose che mi hanno fatto fare si vuol vedere un senso di umanità della mia natura, allora sento il dovere di ringraziare tutti quanti sono carini con me nel dare delle definizioni della mia arte. Però, spesso mi domando come mai solo ora i critici cominciano a scoprire di avere un vero “comico” in casa. Non sono ingiusto se dico così. [...] Sapevo che prima o poi, avrebbero scoperto Totò. Intendiamoci, io non sono per il “mito di Totò” perciò non gradisco molto l’aggettivo “grande” accanto al mio nome, ma una giusta valutazione, mi piace. Sa, io ho sempre lavorato, e duramente, per riuscire a far dimenticare al pubblico - anche per poche ore - le cose che lo tormentano durante il giorno. E stato sempre questo, per così dire, il mio pensiero fisso: divertire il pubblico. Cominciai a farlo nel 1920, con le «periodiche napoletane». Senza attenuare le sue responsabilità per i brutti film che aveva accettato di fare, con legittimo orgoglio il principe concludeva: «nonostante tutto, non sono mai stato un comico di bassa lega. E questo ci tengo a dirlo».

Emilio Gentile


Era autentico lo scetticismo di Totò sulla sua produzione artistica, sul suo stesso personaggio, sui troppi film girati?

La modestia di Antonio confinava addirittura con un complesso d’inferiorità. Del personaggio Totò, diceva: «Ma davvero vi è simpatico? Con quella faccia storta, quei monotoni gesti da burattino? Non riesco a capire perché faccia ridere». Nella vita privata il principe de Curtis non si sarebbe mai permesso un lazzo di Totò. Quanto ai suoi film, Antonio di solito si rifiutava di vederli. «Si sa», commentava, «io sono la mascheretta salvatutto, che porta soldi in cassa anche se la storia è stupida». La sua disponibilità era praticamente indifesa. Non faceva mai questione di denaro, inorridiva sentendo le cifre iperboliche pagate ad altri attori. «Se lavoro io», diceva, «lavora un mucchio di gente; questo conta e nient’altro». Negli ultimi tempi però ripeteva: «Il cinema mi ha stancato, gli avrei già voltato le spalle se non avessi incontrato un'anima libera e geniale come Pasolini. Se ci fossimo conosciuti prima, avremmo fatto insieme molte cose buone». Voleva concludere la carriera nel teatro di prosa, che adorava come una meta rimasta irraggiungibile. Aveva scritto un canovaccio in bilico tra comico e surreale. Vi puntava come sull’ultima carta. Ho frugato anni sa senza trovarlo.

Franca Faldini


Nella vita di Antonio de Curtis, Totò era un’ingombrante marionetta. Chiunque lo incontrasse o lo frequentasse, pretendeva d’identificarlo con la sua maschera. Questo è uno dei motivi per cui evitava di frequentare i salotti mondani. Le rare volte che decideva di contravvenire a quest’abitudine, racconta Franca Faldini, aveva bisogno di prepararsi all’evento con «tutto un lavoro di autosuggestione, condotto in parte in silenzio allungato su un divano, in parte ad alta voce quando, alzandosi di scatto per vestirsi, concludeva l’intima fatica con un: "Ué, eppoi chi se ne importa se immaginano che li diverta e invece si scocciano perché non incontrano Totò. Dopotutto io sono io, con tutti i difettacci miei e il cervello che mi ha dato il Padreterno. Mica ci vado perché mi pagano per fare il buffone! E allora ho il diritto di essere me stesso!"»


Da un lato Totò, maschera irridente e plebea, golosa di cibo e di donne, dall’altro il principe Antonio de Curtis Griffo Focas, che indossa camicie di seta e fuma sigarette aromatiche. Il pupazzo indemoniato che zompava sul palcoscenico e sul set appariva talmente diverso dal signore che abitava ai Parioli da diventare irriconoscibile anche nei tratti fisiognomia. Lo stesso attore ama raccontarli in opposizione fra loro: sogna di farne i protagonisti di un film, con il nobiluomo che vive a spese del gemello comico, e infine li metterà in scena nell’intervista a Lello Bersani per Tv Sette, dipingendo il principe come un signore compassato che convive nello stesso appartamento con il servo Totò, costretto a mangiare in cucina e a lavorare per mantenere l’aristocratico.

Il dualismo era a tal punto consapevole che c’era un momento, come raccontato da Mario Castellani, in cui il principe e il comico arrivavano a guardarsi negli occhi. “Di regola, questo accadeva dopo lo spettacolo, quando si liberava dei panni del comico snodabile e diventava il principe di Bisanzio. Esattamente, lo sfottò scattava in quei pochi minuti in cui non era più Totò ma non era ancora rientrato del tutto nei panni del principe. Si metteva davanti allo specchio con una faccia serissima e rimaneva per un lungo istante a contemplarsi. Poi, tutto d’un colpo, faceva uno sberleffo alla propria immagine ed esclamava: ‘Ehi, signor principe, è inutile che si dia tante arie e snobbi il povero Totò: si ricordi che è Totò che dà da mangiare al principe, e non viceversa’.


E che c'entra Totò tra queste mura? Mica siamo in un camerino, no? Totò è il frutto del mio lavoro di specializzato. C'è chi diventa chirurgo, manovale, amministratore delegato. E mica si appendono in casa loro le scartoffie di una diagnosi o di un contratto e le fotografie che li ritraggono all'opera... Io, guarda caso, sono diventato attore, e qui abito come Antonio de Curtis, privato cittadino, che poi esce e va a faticare, e al posto di una tuta, un camice o di un doppiopetto grigio, indossa la sguaiataggine di Totò.


Una volta ho sognato Totò che sognava di essere Antonio de Curtis. Appena sveglio, però, ho dovuto prendere atto con stupore di essere Antonio De Curtis che aveva sognato di essere Totò.


Io credo che Totò sia nato là, nel cortile di quel collegio, figlio clandestino di un incidente col precettore.


Un personaggio aggressivo, bugiardo, cocciuto e ipocrita: questo è Totò. Ecco in che cosa consiste la sua comicità da trent'anni. Quando recito ho una mia forma di civetteria, sono perfido e insinuante come una mosca cavallina. Molte volte il mio partner non ne può più di avermi accanto, non vede l'ora che la scena finisca per andarsi a riposare. Ma io continuo a non dargli pace: gli sto addosso, lo circondo da ogni lato, lo tocco e lo ritocco. [...] Nella scena del wagon-lit Castellani finiva per arrabbiarsi sul serio. Qualche sera avevo l'impressione che stesse per picchiarmi. Angariavo in ogni modo il povero Castellani, gli impedivo di dormire, gli gettavo la valigia dalla finestra, gli ripetevo una dopo l'altra le mie solite frasi di disturbo: "Sono un uomo di mondo; lei non sa chi sono io; quando c'è la salute; tampoco; a prescindere; enziandìo; comunque; appunto, dico... La stessa cosa poi è capitata con Peppino De Fiilippo nella Banda degli onesti. Giunsi fino a chiudergli la mano sinistra in una porta. Era furibondo...


«Vidi le auti sui tetti delle case»

Tornato al lavoro dopo un lungo periodo di inattività al quale e stato costretto per sfuggire alla cecità, Totò racconta la sua esperienza

Roma, novembre 1957

Qualcuno mi ha invitato a scrivere o, per meglio dire, a dettare la storia della mia malattia. Quasi un memoriale sul guaio che mi è capitato e che ho dovuto sopportare al buio per lunghi sette mesi. Nell'invito era beninteso nascosta la speranza che io, raccontando, dicessi cose spiritose, quasi barzellette. Mi sia permessa, in primo luogo, una semplice chiarificazione intima. E, per una volta tanto, mi voglio prendere il gusto di parlare come un personaggio pirandelliano. Tra me e la mia maschera, cioè a dire Totò, esiste una parentela strettissima, una indissolubile alleanza che dura Dio solo sa da quanti anni. Ci aiutiamo a vicenda, nel lavoro, ma appena calato il sipario o spente le luci dei riflettori nello studio cinematografico, Totò se ne va per i fatti suoi ed io per i miei. Anzi vi debbo confessare che Totò, come tutte le maschere che si rispettano, ha un cuore di cartone ed ha uno spirito cosi geloso da non regalarmi, quando siamo soli, nemmeno un istante di buonumore. Il discorsetto che sto facendo sembra difficile. Totò, appena ha esaurito il suo compito, mi pianta in asso e mi toma vicino soltanto al momento in cui proprio non può fare a meno di me.

Durante i sette mesi che sono stato al buio questo mio ingratissimo complice non è venuto mai a trovarmi. Nemmeno una telefonata. Mentre ricevevo migliaia e migliaia di lettere nelle quali tanta cara e brava gente mi offriva occhi e conforto, Totò taceva lontano e dimentico, in viaggio per i fatti suoi. Non appena ha saputo che, bene o male, con un occhio ancora ci vedevo e che avrei dovuto ricominciare a lavorare, me lo sono visto di nuovo vicino, armato di cinica distrazione, allegrissimo, sto per dire ringiovanito come se la mia malattia gli avesse addirittura fatto bene. E m’ha detto: «Caro principe, siamo uomini o caporali, e allora quando si ricomincia? Sette mesi di guai sono un lusso che non ci possiamo permettere, a questi lumi di luna. Le tasse chi le paga? E chi paga i dottori, le medicine consumate in questi sette mesi?».

Nemmeno una paroluccia di comprensione o di interesse sulle pene che avevo dovuto passare. Abbiamo quindi ripreso il filo della nostra amicizia, se amicizia può chiamarsi quella che Totò nutre per me, e insieme abbiamo ricominciato a lavorare. Ma non ho potuto far a meno di dirgli quanto segue: «Ma un pizzico della tua comicità me la potevi pur lasciare in un cassetto prima di squagliarti come un ladro. Lo sai tu, che per sette mesi sono stato uno degli uomini più infelici? Sempre al buio, con l’anima piena di pensieri neri' come ragni e bacarozzi. Un giorno che la malinconia mi era arrivata alla gola ho persino dovuto domandare il permesso al dottore di farmi un pianto, un piccolo pianto. E il dottore me lo ha proibito. Anzi, il dottore mi ha risposto: "Ma che le salta in testa, caro principe? Si faccia invece una bella risata! Chiami vicino al letto Totò! Provi a recitare una volta soltanto per se stesso". Così mi ha detto il dottore, sbagliando ricetta. E mi ha lasciato solo. Ed io allora ti ho chiamato; e tu non mi hai risposto. Nè, d’altra parte, potevo scriverti, perchè squagliandoti non mi avevi lasciato nemmeno l’indirizzo».

A queste mie parole, Totò ha allungato il collo e mi ha fatto un gesto con il braccio, alla napoletana, come per farmi capire che la sua comicità, il suo spirito, non si possono mai regalare ad una persona sola. E poi, ridendo, freddamente ha esclamato: «Se lo vuoi proprio sapere, anche io da solo non riesco mai a ridere. Durante questi sette mesi ho dormito dentro un baule, in letargo, e mi sono riposato perchè sapevo che da un momento all’altro tu avresti avuto di nuovo bisogno di me. Ora eccomi qui. E, per carità, non farmi discorsi difficili, discorsi simili a quelli che servono la comicità di quei comici così detti intellettuali che si credono bravi soltanto perchè raccontano bene le barzellette». Se ripenso oggi alla mia malattia debbo per forza ritornare con la memoria al primo curioso avvenimento che segnò il principio del mio dramma. E non posso chiamarlo che dramma. Era la vigilia di Pasqua di quest’anno e mi trovavo con la Compagnia a San Remo. Una mattina decisi di recarmi in gita a Montecarlo. C’era il sole. Il mare pareva dipinto, tanto era liscio e fermo.

Mi pareva il mare di Napoli ch’io considero il più bel mare del mondo. Montecarlo ancora una volta mi apparve come uno scenario finto. Ad un certo momento vidi davanti a me come un improvviso cambiamento di scena. Sul paesaggio calò un velario di nebbia. Case capovolte, come un quadro futurista, e la gente che camminava sulle strade, senza testa. Quasi per vincere la paura che si impadroniva di me, dissi a me stesso una battuta che avrebbe potuto servire a Totò: «Mica sarà di moda, adesso, a Montecarlo, andare in giro senza testa». Stavolta il sipario calava sulla mia vita e non sulla platea piena di spettatori. Mi sentivo smarrito. E confessai a Franca, che sedeva vicino a me nell’automobile, quello che mi succedeva. Il paesaggio si trasformava magicamente nel gioco assurdo di prospettive impazzite. Vidi ad un certo momento le automobili sui tetti delle ville, gli uomini in cima ai fanali, gli alberi che salivano in cielo come in volo. Rientrammo subito a San Remo. Durante il breve viaggio di ritorno la "sequenza", se si può dire, seguitò a passare davanti al mio sguardo oscurato in una collana di inquadrature surrealiste. Il sentimento della cecità somiglia tragicamente al sentimento della solitudine nel deserto. Anche le voci, i rumori, diventano ciechi quando non ci si vede più. Decisi tuttavia di nascondere agli altri, più che a me stesso, almeno per quei primi momenti, la realtà del mio stato. Sapevo che sessanta persone della Compagnia dipendevano dal mio lavoro. E decisi di affrontare la nuova situazione a dispetto del male che mi aveva colpito a tradimento. Lavorai lo stesso, lasciandomi portare per la mano dalla indiavolata volontà di Totò. Recitavo davanti ad una platea in ombra. Le luci della ribalta mi ferivano, come punture d’ago. E da quel giorno tutto mi apparve dietro un sipario nero. Viaggiando, di lì a qualche giorno, verso Firenze, la luce del sole mi bruciava le palpebre. Sentivo la luce, senza più distinguere il paesaggio. Purtroppo mi dovetti arrendere, mentre recitavo a Palermo. Ritornai nella mia casa di Roma con nel cuore il sentimento di una disperazione, mi sia concesso dirlo, cieca e fredda nello stesso tempo. Sul portone della mia casa sentii che Totò se ne era andato per i fatti suoi. Rimasi così solo con me stesso.

Adesso posso dire con le parole di D’Annunzio: «E pur con l’uno, vedo». Perchè con un solo occhio, sia pure a fatica, mi è possibile rivivere nella realtà. Domando scusa per le parole difficili, delle quali stavolta non posso proprio fare a meno. Dopo sette mesi di guai, pochi giorni fa, sono ritornato o per meglio dire siamo ritornati, Totò ed io, a lavorare assieme. Il film che sto interpretando con De Sica ed Abbe Lane, per la regia di Camillo Mastrocinque, si intitola "Mia moglie dottore". Vi debbo confessare che ho ritrovato Totò in piena formai Quello che non vedo io, vede lui. Io credo che il film sarà molto divertente. Nelle mie avventure mi segue Salvietti, che è un comico di buona razza. Il titolo del film parla di una moglie dottore. Ma si tratta di una dottoressa, dalla quale, in veste di Totò, stavolta è proprio un piacere farsi curare.

Antonio de Curtis, «Tempo», 21 novembre 1957


I PERSONAGGI CHE CI FANNO RIDERE

Totò a scatola chiusa

Da quarant'anni il principe napoletano è il maggior «produttore» di comicità sul mercato dello spettacolo • Con il suo marchio di fabbrica qualsiasi filmetto rende milioni

Roma, settembre.

[...] «Gesù, quante cose significa 'sto benedetto Totò»: serrandosi la vestaglia, il principe Antonio De Curtis sorride con persuasione. Ecco, la battuta gli è servita ad alleggerire l’imbarazzo della conversazione. Accende una sigaretta. La vestaglia è rossa e fa contrasto col pallore del viso, attento ed arguto. Porta gli occhiali neri, soffre alla vista. E’ un omino scarno, nervoso, cortesissimo. Dietro la cortesia si maschera una timidezza di natura. La timidezza è frutto d'una melanconia senza fondo. «Lo sa che in privato non sono capace nemmeno di raccontare una barzelletta?». Sono le tre del pomeriggio. Le abitudini del principe-attore sono rigide e immutabili da decenni: lo aiutano, cosi, a sopportare un ritmo di lavoro assai sostenuto. Pochi attori, anche fra i più anziani, sanno risparmiarsi come Totò. Una vita di disciplina, veramente. Appartata, casalinga, normale: la giornata di un funzionario di banca. [...]

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[...]  Quando Totò apparve per la prima volta sullo schermo, era il '37. Il film si intitolava Fermo con le mani. Totò era già una maschera nazionale della comicità. Aveva mosso i primi passi a Napoli in spettacoli dialettali all'aperto: «Dove si recitava a soggetto, rinnovando sera dietro sera il mito della commedia dell’arte». Quarant’anni, insomma, che Totò è costretto all'improvvisazione, cinema o non cinema: una carriera ben faticata, bisogna riconoscerlo.

Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 20 settembre 1964


I comici non ridono - Il principe de Curtis odia Totò

Con questo malizioso ritratto della maschera più popolare d’Italia iniziamo una serie di articoli dedicata ai personaggi che ci fanno divertire. Totò si confessa: «Sono un formidabile Pulcinella, rendo allegra la gente triste, non è vero che i miei film siano brutti: l’unico a sostenerlo è quel parassita del principe che fa il grande alle mie spalle». Antonio De Curtis accusa: «Totò è un burino, veste come un pagliaccio, mangia male, beve peggio, e persino con le donne dimostra un pessimo gusto»

Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966


A Totò non piaceva il «burattino» Totò

Mentre la televisione italiana dà il via ad una serie di film del grande comico, rievochiamo un momento di singolare confidenza: il principe Antonio De Curtis non amava il suo personaggio

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[...] Domenica mattina. Via Monte Parioli deserta, la casa silenziosa. Era solo. Venne ad aprirmi, piccolissimo, pallido come mai ho visto pallido nessuno. Camminava tastando i muri: gli occhi si stavano spegnendo. Sul «set» si muoveva a memoria. Come tutti i comici fuori scena era triste, un po' noioso. Molto ingenuo. Mi pareva nervoso. Quella storia detta nobiltà comprata non la volle ascoltare, il figlio di Giuseppe De Curtis e Anna Capitani (Clemente, n.d.r.) , nato in Rione Sanità, si sentiva sul serio erede dell'impero ottomano. Sul pianoforte, con patetico orgoglio, ostentava l'autografo di Umberto di Savoia.

«Amico mio, sulle corone non scherziamo. Sono cose serie, il sangue non è acqua. Il passato se c'è, ed è glorioso, non si può dimenticare. Lei lo butterebbe via? lo no. Un titolo vale più del denaro, i titoli non si comprano». E mi guardava polemico pensando alla storia che girava sui giornali: si raccontava avesse regalato un banco del lotto al vero principe De Curtis, perché gli mollasse la corona.

Poi, d'improvviso cambiò umore. Inventò una disputa tra lui e Totò. «Qui in casa sono il principe, ma lei è venuto a parlare di Totò. Glielo dico subito: Totò non mi piace. Non mi piace la sua faccia: lunga e triste. Secondo me fa ridere perché è un po' deforme. Non lo amo neanche come personaggio. Ride sempre, mentre io non rido mai. Perché? Perché non ho più vent’anni. Faccio le scale e mi viene il fiatone. E poi, lei, in casa, fa sempre lo spiritoso? La risata non mi garba. Fa rumore, disturba».

«Adesso non scriva che il principe è una lagna. E' solo calmo, privo d'ansia, lo l'ansia non la conosco. Sarà il sangue ottomano. Quando ascolto storie divertenti mi limito a sorridere, un po' per educazione e un po' per non assomigliare troppo a Totò. Resto sempre il principe De Curtis, un gentiluomo. Invece Totò è un villano: quando parla agita le mani, strizza l'occhio. Ha mai notato come veste? Ridicolo. Giacche strettissime, come usavano nei caffè chantants dell'altra Napoli, quella col pennacchio, che lei non può aver visto. Il principe è compassato, riservato. Il suo sarto ha l'ordine di vestirlo di scuro, disdegnando la moda: un taglio classico, non vistoso.

«Totò è greve anche nelle donne. Le vuole formose, cariche di lustrini. Gli piacciono le ballerine d'avanspettacolo. Il principe corteggia creature sofisticate, evanescenti. Ama la classe. Totò beve male. Preferisce la birra al vino: e quando cade sul vino, meglio non parlarne. Il principe beve pochissimo, ma le scelte non sono banali. Un po' di Bordeaux, due dita di champagne alla sera. Lo champagne lo aiuta a sognare. Totò non viaggia quasi mai, se naturalmente non consideriamo viaggi le gite in corriera e gli accelerati asmatici che lo portano dal paese alla città. E anche in questi atomi di movimento trova il modo di meravigliarsi di tutto. Una sola volta è finito in vagone letto, ma non ce l’ha fatta a chiudere un occhio. Per fare i ricchi bisogna essere allenati, signore mio. La prima volta che uno assaggia il caviale lo sputa fuori. Sa di pesce!

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«Totò vorrebbe saltare in aeroplano che gli mette, è vero, una paura d'inferno, ma soddisfa la sua vanità di contadino. Sogna un lungo viaggio in mare: il mare gli fa male, ma l'idea di passeggiare sul ponte lo sconvolge. Com'è differente dal principe! Tutti i mesi il principe va a Parigi. A cosa fare? Chiederà. Così, a Parigi. Magari per prendere un caffè in un certo caffè, c andare a teatro. In treno, naturalmente. Il principe non sopporta la velocità. E' rimasto all'antica. Subisce il fascino struggente dei treni internazionali. Ah, la 'valigia delle Indie'! La bella e misteriosa sconosciuta incontrata sull'Orient Express! Cos'è questa mania di fare in fretta? Il principe non si rende conto come in sette ore si possa correre a Nuova York. Gli fa rabbia che ci vogliano solo sette ore e non venti giorni, come una volta. quando l'America era davvero l'America: un mito, una favola, non qualcosa dove passarci il week end.

«Totò ama le compagnie numerose, le battute volgari. Il principe lascia che le barzellette le raccontino Walter Chiari e Dapporto. Nella sua casa c'è un'atmosfera raccolta, di chiacchiere civili. La confusione non à gradita. Chi alza la voce non e più invitato. Totò è geloso, come tutti gli uomini insicuri. Il principe ama troppo le donne; e quando si ama vuol dire capire virtù e difetti. Se una non gli vuol più bene, ne prende un'altra. Totò e il principe si trovano d'accordo su una cosa. Non credono all'immortalità degli attori. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Appena un mito muore se ne fabbrica un altro. Chi parla oggi di Petrolini?»

E si sbagliava. Lui è ancora vivo. La sua immagine ritorna sui giornali per la felicità di quelli che l'hanno conosciuto nel buio di un cinema o applaudito a teatro. E di chi — come mi è successo — ha avuto la ventura d'essere il solo spettatore di una insolita gag, la domenica mattina nella casa vuota di Monte Parioli. L'improvvisazione amara di un uomo solo col suo fantoccio.

Maurizio Chierici, «Corriere d'Informazione», 28 marzo 1973


La maschera di Totò, ebbene, io la disprezzo. Mi è utile, certo mi è utile. Ma la maschera è al servizio del pubblico, Totò in effetti è un servitore del pubblico. E questo a me non può far piacere, è ovvio. Però non vuol dire; io a Totò sono affezionato, è parte di me stesso. Non ho mai pensato, neppure minimamente, di sopprimere la mia maschera.


Prima nacque Antonio de Curtis e solo in un secondo momento vide la luce Totò. Accadde in palcoscenico, nel periodo in cui facevo la commedia dell’arte per guadagnarmi, stentatamente, da vivere. Avevo una vecchia bombetta polverosa e una sera, preso dall’ispirazione, me la misi in testa. Ebbene, la gente incominciò a sganasciarsi dalle risate. Quel villano che era in scena, sguaiato, pronto a strizzare l’occhio e a muoversi come un burattino piaceva al pubblico. Lo chiamai Totò, il diminutivo di Antonio, che a Napoli è Totonno.


A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l'altezza imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino, mentre con Totò ci mangio dall'età di vent'anni.


La comicità si avvale spesso di accessori, indispensabili per creare un personaggio. Charlot aveva i baffetti, il bastoncino di bambù e i calzoni sformati. Per me è molto importante la bombetta. Perchè ho scelto questo tipo di cappello? Perchè sotto la bombetta ci poteva stare solo la faccia di Totò. D'altronde non sono io a comandare la mia faccia, ma la mia faccia a comandare me.


La mia faccia non ha altra tristezza che quella di un mento allungato, di un naso torto e della vita, che non è triste ma nemmeno allegra.


Tra me come sono nella vita reale e Totò, come appare in palcoscenico, c'è una differenza abissale. Io odio la mia maschera che uso solo per servire il pubblico. Però nello stesso tempo sento che è una parte della mia anima. Non ho mai pensato nemmeno per un attimo di fare a meno di Totò. Mi è antipatico, è vero, ma gli sono anche grato non una ma cento volte. Prima di tutto perchè mi ha dato il successo e poi perchè, pur essendo in antitesi con Antonio De Curtis, mi aiuta a essere veramente me stesso.


Se ricevete una cartolina così concepita: «Sto cercando casa, aiutatemi », una cartolina che reca in calce la firma autografa di Totò, non vi preoccupate. Sua Altezza Antonio De Curtis, l’uomo dalla doppia personalità, il distinto signore in abito grigio che avete osservato più volte nella « hall » di un grande albergo o in un lussuoso bar alla moda di Roma o di Torino, non è sul lastrico. Chi cerca casa è il suo doppione; è Totò. Voi sapete già che Totò si sdoppia: è una specie del dottor Jekyll e del signor Hyde del teatro e del cinema. Il dottor Jekyll è l’uomo distinto che avete visto a bordo della sua macchina di lusso, e Sua Altezza De Curtis: ed egli non ha bisogno delle vostre modeste due camere e cucina. Ha un appartamento principesco ai Parìoli; un appartamento con i quadri degli antenati in giustacuore o in toga appesi alle pareti della biblioteca, con oggetti d’arte di un gusto squisito sui mobili, con una collezione di libri rari che farebbe girar la tetta al più difficile dei bibliofili. Ma il dottor Jekyll, cioè Sua Altezza De Curtis, cova dentro di sè un dramma: cioè tutte le sere, alle nove, diventa il signor Hyde. Da venti anni è così: ogni sera, ad eccezione del periodo estivo, quando diventa il signor Hyde ad ogni ora del giorno per la macchina da presa. Ed il signor Hyde, cioè Totò, cioè il comico travolgente che tutti avrete applaudito, indossa una vecchia «sciassa», caccia sulla testa una bombetta, infila intorno al colletto floscio della camicia un cravattino nero che è poco più di un laccio da scarpe e sale sul palcoscenico, o si avvia verso i teatri di posa.

E' questo l'uomo che cerca casa, non l'altro, non il suo doppione. Quale sia la vera personalità di quest'uomo davvero non so; perchè egli sostiene da maestro l'una e l'altra parte; è impeccabile come Sua Altezza De Curtis, è irresistibile come Totò. Forse ha due nature: e l’una ignora l'altra. Forse quando strabuzza gli occhi fa viaggiare con la velocità di un ascensore lampo il suo pomo d’Adamo, ignora di essere anche Sua Altezza De Curtis; e quando riceve ospiti nel suo appartamento ai Parioli forse non sa che la sera, per uno strano malefìcio, diventerà Totò. E per uno strano maleficio questo divertentissimo signor Hyde un bel giorno si è trovato senza casa. In questa situazione irresistibile l'han messo Steno, Monicelli e Metz che hanno scritto il soggetto del film «Totò cerca casa»; Steno e Monicelli che ne hanno curato la regia. Fracassi che ha diretto la produzione, l' «A.T.A.» che ha prodotto il film.

E da questa collaborazione è nata una vicenda divertentissima, paradossale, irresistibile: «Totò cerca casa». E' un modesto impiegato comunale, Totò, in questo film: si chiama Beniamino Lomacchio e vive accampato in una scuola assieme alla moglie Amalia (Alda Mangini) ed alla figlia Aida (Lia Molfesi). La signora Amalia però non vuol restare accampata: ed il povero Lomacchio cerca un appartamento: trova qualche posto in cui dormire un cimitero, lo studio dì un pittore, un manicomio — ma trova soprattutto donne, ovunque donne, donne per ogni gusto, lui che per le donne ha un debole. Trova donne come Marisa Merlini, come Lilo Weibel, la turca seducentissima, come Alda Mangini, e tante altre belle figliole. Assieme a Totò vi sono Enzo Biliotti, l'immancabile Mario Castellani, Luigi Pavese, Aroldo Tieri e Folco Lulli. Ma non sono loro ad attrarre Totò: sono le donne, la sua eterna ossessione. Perciò, come vi dicevo, se riceverete quella cartolina non preoccupatevi ; e lasciate che Totò cerchi casa. Gli fa piacere, in fondo: è il suo destino di «signor Hyde» del cinema.

«8Otto» 8 dicembre 1949


Riferimenti e bibliografie:

  • "Caporali tanti, uomini pochissimi: la storia secondo Totò", Emilio Gentile, Editori Laterza, 2020
  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "Totò. Avventure di una marionetta" (Roberto Escobar) - Ed. Il Mulino, 1998
  • Franca Faldini, «Oggi», anno XXIII, n.19, 11 maggio 1967
  • "Il Principe de Curtis odia Totò" - Maurizio Chierici in "Oggi", 13 gennaio 1966
  • Maurizio Chierici, «Corriere d'Informazione», 28 marzo 1973
  • "Totò, principe del sorriso" (Vittorio Paliotti) - Fausto Fiorentino Ed., 1977
  • Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972
  • "Sentimental, la rivista delle riviste", Rita Cirio e Pietro Favari, Bompiani, Milano, 1975
  • "Molte donne è riuscito a trovare, ma non due camere e cucina", «8Otto» 8 dicembre 1949
  • "Il principe de Curtis odia Totò", Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966
  • «8Otto» 8 dicembre 1949