Antonio de Curtis non ama Totò
Una barzelletta? Signora cara, se lei vuole farsi quattro risate, acquisti un biglietto per la Compagnia Chiari o Dapporto. Ne raccontano di sfiziosissime. No, no, non Totò, per carità, non fanno parte del suo repertorio. Eppoi temo stia commettendo uno sbaglio di persona. Permette? Sono Antonio de Curtis.
Chi è Totò?
Caratteristiche fisiche e psicologiche
Ha una fisionomia incredibile se non fosse vera. Occhi folli e maligni, ma anche "disillusi” e animalescamente inteneriti, la linea della bocca distorta in una smorfia umiliata o ghignante, che segue l’assurda e mobilissima sporgenza della bazza, sua inconfondibile sigla. Il collo è snodabile e allungabile, le articolazioni interamente slogate in meccanismi dinamici assurdi, ma che si indovinano derivati da forzate dormite in luoghi duri e scomodissimi, come panchine e angoli di strada. Le mani vorticano in continuazione in offensive palpate, in osceni sberleffi, in inarrestabili mulinelli che suppliscono eloquentemente al suo farfugliato e improvvisato modo di esprimersi, fra dialettale e analfabetico. Il suo abbigliamento è costituito da pezzi composti, raccolti da stracciaroli e burattinai: ma a suo modo tiene al decoro dell’abito, anche se questo non riesce a ricoprirlo interamente, lasciandogli scoperte le caviglie impazzite, abituate a lunghe passeggiate e fughe precipitose. Lussurioso e affamato, non ha quasi mai potuto permettersi pasti consistenti e puttane, arrangiandosi così alla meglio, e scatenandosi quando riesce a conquistarsi un piatto di spaghetti fumanti o una serva prosperosa ("cosa serve la serva se non serve?”). Totalmente amorale, apolitico (perfettamente manovrabile dalla Destra nazionale ma anche da gruppuscoli subproletaristici, in nessun caso dai partiti "democratici”, per il suo inveterato antiparlamentarismo).
Condizione sociale e cultura
Sottoproletario, anzi, più precisamente, preproletario. Figlio di NN (il suo unico palpito di solidarietà di classe lo prova quando trova un altro illegittimo, specie se di sesso femminile). Ha provato forse orfanotrofi, carovane di girovaghi, ospizi fetidi, concependo un odio feroce per i "benefattori" spesso mascherato da esageratissimo ossequio. Non legge, non vede la televisione: conosce qualche film, perché si è infilato di straforo in localetti di periferia, magari facendosi assumere come gelataio, per poter schiacciare un pisolino in pace. Ma si incanta di fronte alle canzonette napoletane, piange alle storie d'appendice, ha riso moltissimo a qualche film di Orson Welles. Parla napoletano, impastandolo con le parole e le frasi che gli paiono più rilevanti “quisquiglie”, “pinzillacchere”, "a prescindere”, "parli come bada!” pronunciate da persone ragguardevoli (grandi aristocratici feudali, verso i quali nutre un’ammirazione incantata, attori del piccolo varietà, caporali, avvocaticchi imbroglioni, onorevoli, gagà di passaggio per Capri, burocrati sottogovernativi): particolarmente disinvolti i suoi congiuntivi, preziosissime le q. Usa doppi sensi pesantissimi, spesso evocanti il membro virile. Le sue esperienze estetiche sono il teatro all’aperto dei burattini, Pulcinella, i pupi, le bande di strada e i pazzarielli. Ama forsennatamente i fuochi artificiali. Ha una fede religiosa più animistica e superstiziosa che cattolicamente ortodossa. Vive in abitazioni fatiscenti, in baracche, o nelle case degli altri dove si intrufola volentieri con i pretesti più fantasiosi.
Non ha frequentato scuole continuativamente, la sua scuola è l’arte della sopravvivenza. Conosce Napoli, i suoi dintorni, essendosi spinto fino a Capri in cerca di gonzi, Cuneo, dove ha fatto il militare (quasi sempre consegnato, di ramazza). L’idea della morte gli è familiare, ci scherza, diabolicamente macabro, come sulla fame atavica.
Osservazioni
La figura di Totò nella storia del costume italiano è ormai ben definita, fino al libretto curato dal Fofi, che fa piazza pulita di alcuni luoghi comuni "neorealistici” e di malintesa difesa di privilegi estetici crociano-razzistici. La sua carica eversiva, la sua genialità interpretativa, la sua natura fantastica e burattinesca sono ormai dati di fatto incontrovertibili. Ma qui - senza inutili ripetizioni - varrà la pena di insistere sul Totò attore di rivista: si raccomanda allora un suo confronto con gli altri "grandi" comici del genere per notare il distacco da questi, tutti di estrazione e ispirazione piccolo borghese. Totò si inseriva nella rivista all’italiana, come elemento di disturbo, recuperato al massimo, e pericolosamente, nel rientro della fine degli anni cinquanta, come puro pittoresco. Si capisce come - istintivamente magari - Totò preferisse fare cinema, e il cinema plebeo e “volgare”, attraverso cui poteva trovare, sia pure indirettamente un pubblico complice e disteso, non curioso e “solo” divertito. Ma non si è ribadito abbastanza, e va sostenuto con forza, che il vero Totò, anche cinematografico, è quello della rivista (la rivista galdieriana, pre-garineigiovan-ninica), grazie alla libertà totale che la struttura aperta dello spettacolo di rivista lasciava a Totò, alla possibilità di scatenargli l’estro più aggressivo e oscenamente liberatorio (leggendarie le sue arrampicate sul sipario, i suoi gesti immensamente postribolari, le sue scorregge al pubblico delle prime file). “Ma la platea era con lui - scrive Vittorio Viviani - e diventava frenetica quando Totò, al finale, si metteva a fare il pupazzo, attraversava e riattraversava il palcoscenico al ritmo della fanfara dei bersaglieri, bersagliere e fanfara lui stesso, dirigeva l’orchestra con strepitosa furia o svagato puntiglio, e intimava la chiusura del sipario dopo aver imitato con gli occhi, con le mani, con tutto il corpo l’esplodere di fuochi pirotecnici in un oscuro cielo immaginario." La forza fisica dell’attore era un dato in più, essenziale e del tutto liberato (o quasi, mentre nei film la necessità di una storia, di un personaggio da far evolvere limitava di molto la carica d’urto). Anche l’accostamento di Totò al quadro “lussuoso” della rivista sortiva un effetto di contrasto prezioso. “In mezzo a tante donne belle Totò sembrava, con indosso la sua redingote color vecchio ombrello, veramente il pantin, il burattino" - annota in una sua recensione Orio Vergani - sottolineando proprio questo elemento di contrasto iperbolico su cui era costruito genialmente, anche suo malgrado, il Totò della rivista.
Chi è Antonio de Curtis?
In casa, Antonio parlava sempre a voce bassa. Lui che era così esplosivo in scena, esigeva che i familiari non pronunciassero mai parole spinte, lui che dallo schermo ne diceva di tutti i colori, si comportava in maniera estremamente compita con i domestici; il campanello elettrico, in capo al letto, lo teneva solo per bellezza, in realtà non lo adoperava mai, né permise mai che qualcuno gli pulisse le scarpe. Iniziava la giornata segnandosi devotamente e la concludeva recitando le preghiere; andava a messa quasi ogni domenica e, ogni volta che ne avvertiva il bisogno, si confessava e si comunicava. Vizi? Solo quello del fumo: ottanta e anche novante «Turmac» al giorno (e almeno 15 caffè, n.d.r.). La gola? Mangiava al massimo una minestra e il colmo della buona tavola era per lui rappresentato da un piatto di pasta e fagioli.
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Era autentico lo scetticismo di Totò sulla sua produzione artistica, sul suo stesso personaggio, sui troppi film girati?
La modestia di Antonio confinava addirittura con un complesso d’inferiorità. Del personaggio Totò, diceva: «Ma davvero vi è simpatico? Con quella faccia storta, quei monotoni gesti da burattino? Non riesco a capire perché faccia ridere». Nella vita privata il principe de Curtis non si sarebbe mai permesso un lazzo di Totò. Quanto ai suoi film, Antonio di solito si rifiutava di vederli. «Si sa», commentava, «io sono la mascheretta salvatutto, che porta soldi in cassa anche se la storia è stupida». La sua disponibilità era praticamente indifesa. Non faceva mai questione di denaro, inorridiva sentendo le cifre iperboliche pagate ad altri attori. «Se lavoro io», diceva, «lavora un mucchio di gente; questo conta e nient’altro». Negli ultimi tempi però ripeteva: «Il cinema mi ha stancato, gli avrei già voltato le spalle se non avessi incontrato un'anima libera e geniale come Pasolini. Se ci fossimo conosciuti prima, avremmo fatto insieme molte cose buone». Voleva concludere la carriera nel teatro di prosa, che adorava come una meta rimasta irraggiungibile. Aveva scritto un canovaccio in bilico tra comico e surreale. Vi puntava come sull’ultima carta. Ho frugato anni sa senza trovarlo.
Franca Faldini
Nella vita di Antonio de Curtis, Totò era un’ingombrante marionetta. Chiunque lo incontrasse o lo frequentasse, pretendeva d’identificarlo con la sua maschera. Questo è uno dei motivi per cui evitava di frequentare i salotti mondani. Le rare volte che decideva di contravvenire a quest’abitudine, racconta Franca Faldini, aveva bisogno di prepararsi all’evento con «tutto un lavoro di autosuggestione, condotto in parte in silenzio allungato su un divano, in parte ad alta voce quando, alzandosi di scatto per vestirsi, concludeva l’intima fatica con un: "Ué, eppoi chi se ne importa se immaginano che li diverta e invece si scocciano perché non incontrano Totò. Dopotutto io sono io, con tutti i difettacci miei e il cervello che mi ha dato il Padreterno. Mica ci vado perché mi pagano per fare il buffone! E allora ho il diritto di essere me stesso!"»
Il dualismo era a tal punto consapevole che c’era un momento, come raccontato da Mario Castellani, in cui il principe e il comico arrivavano a guardarsi negli occhi. “Di regola, questo accadeva dopo lo spettacolo, quando si liberava dei panni del comico snodabile e diventava il principe di Bisanzio. Esattamente, lo sfottò scattava in quei pochi minuti in cui non era più Totò ma non era ancora rientrato del tutto nei panni del principe. Si metteva davanti allo specchio con una faccia serissima e rimaneva per un lungo istante a contemplarsi. Poi, tutto d’un colpo, faceva uno sberleffo alla propria immagine ed esclamava: ‘Ehi, signor principe, è inutile che si dia tante arie e snobbi il povero Totò: si ricordi che è Totò che dà da mangiare al principe, e non viceversa’.
E che c'entra Totò tra queste mura? Mica siamo in un camerino, no? Totò è il frutto del mio lavoro di specializzato. C'è chi diventa chirurgo, manovale, amministratore delegato. E mica si appendono in casa loro le scartoffie di una diagnosi o di un contratto e le fotografie che li ritraggono all'opera... Io, guarda caso, sono diventato attore, e qui abito come Antonio de Curtis, privato cittadino, che poi esce e va a faticare, e al posto di una tuta, un camice o di un doppiopetto grigio, indossa la sguaiataggine di Totò.
Una volta ho sognato Totò che sognava di essere Antonio de Curtis. Appena sveglio, però, ho dovuto prendere atto con stupore di essere Antonio De Curtis che aveva sognato di essere Totò.
Io credo che Totò sia nato là, nel cortile di quel collegio, figlio clandestino di un incidente col precettore.
Un personaggio aggressivo, bugiardo, cocciuto e ipocrita: questo è Totò. Ecco in che cosa consiste la sua comicità da trent'anni. Quando recito ho una mia forma di civetteria, sono perfido e insinuante come una mosca cavallina. Molte volte il mio partner non ne può più di avermi accanto, non vede l'ora che la scena finisca per andarsi a riposare. Ma io continuo a non dargli pace: gli sto addosso, lo circondo da ogni lato, lo tocco e lo ritocco. [...] Nella scena del wagon-lit Castellani finiva per arrabbiarsi sul serio. Qualche sera avevo l'impressione che stesse per picchiarmi. Angariavo in ogni modo il povero Castellani, gli impedivo di dormire, gli gettavo la valigia dalla finestra, gli ripetevo una dopo l'altra le mie solite frasi di disturbo: "Sono un uomo di mondo; lei non sa chi sono io; quando c'è la salute; tampoco; a prescindere; enziandìo; comunque; appunto, dico... La stessa cosa poi è capitata con Peppino De Fiilippo nella Banda degli onesti. Giunsi fino a chiudergli la mano sinistra in una porta. Era furibondo...
Da quarant'anni il principe napoletano è il maggior «produttore» di comicità sul mercato dello spettacolo • Con il suo marchio di fabbrica qualsiasi filmetto rende milioni
Roma, settembre.
Antonio De Curtis, sessantasette anni, principe, napoletano, può considerarsi il maggior produttore di comicità sul mercato. dello spettacolo italiano. Vende a scatola chiusa. Il fatto si è che la comicità è diventata un bene di largo consumo popolare, sempre più prezioso e ghiotto, da assimilare con avidità, come una droga per uccidere l'angoscia contemporanea. Si tratta di una qualità di merce di cui il principe De Curtis è raffinato intenditore e imbattibile spacciatore. La sua invenzione-capolavoro si chiama Totò. Sono quarantanni che la maschera di Totò fabbrica ilarità e milioni: ilarità per milioni di italiani, milioni a palate per Antonio De Curtis. Si può affermare che la macchina ha raggiunto un grado di rendimento perfetto. Non fallisce colpo. Totò è un affare sicuro, un investimento ad altissimo reddito, una fonte inesauribile di ricchezza e di divertimento. Totò a colori, brutto film senza ambizioni, guadagnò un miliardo di dieci anni fa. Cambiano i gusti degli spettatori, i modelli della comicità, gli idoli della moda: non cambia Totò e fa successo. In questi giorni sta lavorando al suo centocinque-simo film. E' un primato che non potrà essere battuto facilmente, conveniamone.
L'orgoglio del principe
Si capisce che Totò costituisce l'orgoglio, la ragione di vita, la costante preoccupazione del principe De Curtis. Totò è un miscuglio di virtù e di difetti nel quale l'italiano di media cultura e di media età riconosce, le proprie virtù e i propri difetti. Totò conosce gli impulsi e gli scatti comuni all'italiano che si sente soffocare dalla regola, che vorrebbe concedersi una pazza evasione, spezzare il cerchio ferreo delle abitudini, delle mortificazioni, delle convenzioni. Totò interpreta un’idea anarchica, folle e impossibile della vita. Totò reagisce alla meccanicità degli atti quotidiani con una esasperazione grottesca, assurda della meccanicità
«Gesù, quante cose significa 'sto benedetto Totò»: serrandosi la vestaglia, il principe Antonio De Curtis sorride con persuasione. Ecco, la battuta gli è servita ad alleggerire l’imbarazzo della conversazione. Accende una sigaretta. La vestaglia è rossa e fa contrasto col pallore del viso, attento ed arguto. Porta gli occhiali neri, soffre alla vista. E’ un omino scarno, nervoso, cortesissimo. Dietro la cortesia si maschera una timidezza di natura. La timidezza è frutto d'una melanconia senza fondo. «Lo sa che in privato non sono capace nemmeno di raccontare una barzelletta?». Sono le tre del pomeriggio. Le abitudini del principe-attore sono rigide e immutabili da decenni: lo aiutano, cosi, a sopportare un ritmo di lavoro assai sostenuto. Pochi attori, anche fra i più anziani, sanno risparmiarsi come Totò. Una vita di disciplina, veramente. Appartata, casalinga, normale: la giornata di un funzionario di banca.
Sul tavolo spicca la copertina colorata di un volumetto di poesie: 'A livella. Poesie in dialetto napoletano. Già, perchè Antonio De Curtis è poeta nei ritagli di tempo che riesce a rubare a Totò. Il volumetto comparirà nelle librerie fra poche settimane. La poesia di apertura parla di morte e di fantasmi, di differenze sociali e di rassegnazione nell’eternità. In fondo al salotto, troneggia un pianoforte. La musica è l’altra evasione del principe-attore. Le sue canzoni sono sentimentali, genere melodico, di ispirazione romantica. «Le compongo col fischio» dice e sorride, ancora. Dopo che il maestro ha tradotto il motivo in note, lui si dedica al testo. La sera, in genere, quando Totò è andato a dormire.
Antonio De Curtis abita un appartamento ai piedi dei Parioli, che nulla vieterebbe di definire principesco: una fuga di stanze sontuose, di specchi, di quadri d’autore, di mobili raffinati. Qui. Antonio De Curtis vive un’esistenza di squisito tenore borghese e matura le trovate, gli sberleffi di Totò contro la regola, la disciplina, la mortificazione quotidiana.
Una chiave per spiegare il successo di Totò attraverso i decenni e le guerre e i capovolgimenti sociali potrebbe essere questo rapporto singolare fra la maschera comica e il principe-inventore. Un rapporto nel quale Totò ruba a De Curtis gli stimoli e le ribellioni dell'uomo comune e nel quale De Curtis risolve, affrancandosene, i complessi e le frustrazioni della società a cui appartiene. C’è nella identificazione fra Totò e il principe De Curtis una sorgente vitale, misteriosa, di umori beffardi e di presupposti comici: è possibile che da questo nodo scaturisca la carica che alimenta la maschera più popolare in Italia, la fabbrica di ilarità e di ricchezza.
Solo una maschera
Si è scritto che a Totò è mancato un regista che sapesse utilizzarne l’esperienza e l’ispirazione per un’opera d’arte e si è scomodato il nome di Federico Fellini, si è sottolineato il merito di Totò nel rifiutare le furberie, i trucchi fregoliani con i quali gli altri attori comici si ingegnano di divertire il pubblico, si è rimpianto che Totò abbia un po’ dissipato le sue straordinarie risorse: il principe Antonio De Curtis accetta il discorso con appena un’ombra di risentimento.
Dice cose sacrosante, che Totò è una maschera e non un attore-personaggio: ciò significa che Totò non può che interpretare se stesso, mentre qualsiasi regista di nome pretenderebbe di rivestirlo dei panni di personaggi immaginari, pretenderebbe di piegarlo a una diversa dimensione umana. Un regista con intenzioni artistiche si sforzerebbe di impossessarsi di Totò e Totò non vuole perchè non ci crede più, ormai. «D'altronde, è ancora da scoprire se esiste in Italia un regista che sappia raccontare storie comiche» conclude Antonio De Curtis.
Una soluzione ci sarebbe e sarebbe che Totò dirigesse se stesso: Totò regista di Totò in un film rispettoso della maschera comica. Certo, sarebbe l'unica soluzione ragionevole. Charlot non s’è fidato sempre di Charlie Chaplin e soltanto di Charlie Chaplin? «Sì, ma io non saprei accettare responsabilità così pesanti» dice Antonio De Curtis. Onesto fino all’autolesionismo, dal momento che sarebbe in grado di trovare credito per qualsiasi avventura che recasse il marchio dì fabbrica Totò.
Il quale, come regista, un'idea tecnica l’avrebbe per migliorare il prodotto: «Vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare: dopo averlo scomposto in teatro di posa, lo ricomporrei in montaggio». L.’idea gli è sorta sulla scorta delle esperienze personali, dovendo sempre interpretare film che lo costringono a inventare le battute davanti alla macchina da presa, «al caldo dei riflettori, già recitando», sul filo di uno scarno canovaccio scritto in poche cartelle e da Totò accettato magari con mesi e mesi di anticipo.
«Sul canovaccio — racconta — io ricamo, improvvisandole giorno per giorno, le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara quale è la intonazione che ha maggiore effetto, quale dev'essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c’è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l’attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata». Siamo andati lontano: cinema artigianale, cinema-industria, preventivi, preparazione tecnica, lavoro di tavolino: tutto un discorso che sollecita il principe De Curtis alla polemica. «I produttori sono semplici appaltatori di film, i capitali non sai mai'come arrivano sul set: questo è il guaio del cinema italiano» conclude.
Quando Totò apparve per la prima volta sullo schermo, era il '37. Il film si intitolava Fermo con le mani. Totò era già una maschera nazionale della comicità. Aveva mosso i primi passi a Napoli in spettacoli dialettali all'aperto: «Dove si recitava a soggetto, rinnovando sera dietro sera il mito della commedia dell’arte». Quarant’anni, insomma, che Totò è costretto all'improvvisazione, cinema o non cinema: una carriera ben faticata, bisogna riconoscerlo.
Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 20 settembre 1964
Con questo malizioso ritratto della maschera più popolare d’Italia iniziamo una serie di articoli dedicata ai personaggi che ci fanno divertire. Totò si confessa: «Sono un formidabile Pulcinella, rendo allegra la gente triste, non è vero che i miei film siano brutti: l’unico a sostenerlo è quel parassita del principe che fa il grande alle mie spalle». Antonio De Curtis accusa: «Totò è un burino, veste come un pagliaccio, mangia male, beve peggio, e persino con le donne dimostra un pessimo gusto»
Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966
Mentre la televisione italiana dà il via ad una serie di film del grande comico, rievochiamo un momento di singolare confidenza: il principe Antonio De Curtis non amava il suo personaggio
Totó in televisione. Non saranno solo risate. Un po' di malinconia nel cogliere la maschera di un comico geniale, perduta talvolta nelle banalità di copioni frettolosi, commediole tirate via, per fare quattrini. Di Totò ho un ricordo che risale a qualche mese prima delta morte (il 16 aprile 1967), dopo aver iniziato un film con Nanni Loy. L'unica sequenza terminata era quella di un funerale. Correvano per lui giorni di incanto. Gli intellettuali (e non solo il «suo» Eduardo) lo avevano scoperto: Pasolini, Bolognini. Si diceva che perfino Antonioni... Il «cugino di Pulcinella e nipote di Arlecchino», dopo secoli di anticamera fra le risate grasse del racconto popolare, incantava i narratori sofisticati. Immaginato di trovare un uomo felice, furbetto, con l'allegria facile.
E' il Toto del dopoguerra quello che vedremo nella prima parte del ciclo televisivo. I film di quel periodo lasciavano all'attore la massima libertà di esprimersi. Nato a Napoli nel 1898. Totò aveva debuttato sugli schermi nel 37 in «Fermo con le mani», ma solo nel '40 con il film «San Giovanni decollato», tratto dalla famosa commedia di Nino Martoglio, si rivelo al grosso pubblico. Eccolo a sinistra in questa storica pellicola alla cui sceneggiatura collaborò lo scrittore Achille Campanile. A destra lo vediamo con Vittorio De Sica ne «I due marescialli» uno dei film che televedremo.
Domenica mattina. Via Monte Parioli deserta, la casa silenziosa. Era solo. Venne ad aprirmi, piccolissimo, pallido come mai ho visto pallido nessuno. Camminava tastando i muri: gli occhi si stavano spegnendo. Sul «set» si muoveva a memoria. Come tutti i comici fuori scena era triste, un po' noioso. Molto ingenuo. Mi pareva nervoso. Quella storia detta nobiltà comprata non la volle ascoltare, il figlio di Giuseppe De Curtis e Anna Capitani (1), nato in Rione Sanità, si sentiva sul serio erede dell'impero ottomano. Sul pianoforte. con patetico orgoglio, ostentava l'autografo di Umberto di Savoia.
«Amico mio, sulle corone non scherziamo. Sono cose serie, il sangue non è acqua. Il passato se c'è, ed è glorioso, non si può dimenticare. Lei lo butterebbe via? lo no. Un titolo vale più del denaro, i titoli non si comprano». E mi guardava polemico pensando alla storia che girava sui giornali: si raccontava avesse regalato un banco del lotto al vero principe De Curtis, perché gli mollasse la corona.
Poi, d'improvviso cambiò umore. Inventò una disputa tra lui e Totò. «Qui in casa sono il principe, ma lei è venuto a parlare di Totò. Glielo dico subito: Totò non mi piace. Non mi piace la sua faccia: lunga e triste. Secondo me fa ridere perché è un po' deforme. Non lo amo neanche come personaggio. Ride sempre, mentre io non rido mai. Perché? Perché non ho più vent’annt. Faccio le scale e mi viene il fiatone. E poi, lei, in casa, fa sempre lo spiritoso? La risata non mi garba. Fa rumore, disturba». '
«Adesso non scriva che il principe è una lagna. E' solo calmo, privo d'ansia, lo l'ansia non la conosco. Sarà il sangue ottomano. Quando ascolto storie divertenti mi limito a sorridere, un po' per educazione e un po' per non assomigliare troppo a Totò. Resto sempre il principe De Curtis, un gentiluomo. Invece Totò è un villano: quando parla agita le mani, strizza l'occhio. Ha mai notato come veste? Ridicolo. Giacche strettissime, come usavano nei caffè chantants dell'altra Napoli, quella col pennacchio, che lei non può aver visto. Il principe è compassato, riservato. Il suo sarto ha l'ordine di vestirlo di scuro, disdegnando la moda: un taglio classico, non vistoso.
«Totò è greve anche nelle donne. Le vuole formose, cariche di lustrini. Gli piacciono le ballerine d'avanspettacolo. Il principe corteggia creature sofisticate, evanescenti. Ama la classe. Totò beve male. Preferisce la birra al vino: e quando cade sul vino, meglio non parlarne. Il principe beve pochissimo, ma le scelte non sono banali. Un po' di Bordeaux, due dita di champagne alla sera. Lo champagne lo aiuta a sognare. Totò non viaggia quasi mai, se naturalmente non consideriamo viaggi le gite in corriera e gli accelerati asmatici che lo portano dal paese alla città. E anche in questi atomi di movimento trova il modo di meravigliarsi di tutto. Una sola volta è finito in vagone letto, ma non ce l’ha fatta a chiudere un occhio. Per fare i ricchi bisogna essere allenati, signore mio. La prima volta che uno assaggia il caviale lo sputa fuori. Sa di pesce!
Negli anni sessanta l'arte di Totò tocco le vette più alte per merito de «Il comandante», nella foto a sinistra, e di «Uccellacci e uccellini», a destra, in cui seppe dar vita a un personaggio in bilico tra realtà e fantasia. Infaticabile, onnipresente, l'attore cominciava ad avvertire i segni del declino fisico manifestatosi con una grave malattia agli occhi. Sembrava dovesse rimaner cicco ina poi guari. L'ultima compagna della sua vita, fino alla morte (avvenuta il 15 aprile 1967), è stata l'attrice Franca Faldini. Nel 1939 l’attore si era separato da Diana Roliani (2) dalla quale aveva avuto due figli. Antonello e Diana.
«Totò vorrebbe saltare in aeroplano che gli mette, è vero, una paura d'inferno, ma soddisfa la sua vanità di contadino. Sogna un lungo viaggio in mare: il mare gli fa male, ma l'idea di passeggiare sul ponte lo sconvolge. Com'è differente dal principe! Tutti i mesi il principe va a Parigi. A cosa fare? Chiederà. Così, a Parigi. Magari per prendere un caffè in un certo caffè, c andare a teatro. In treno, naturalmente. Il principe non sopporta la velocità. E' rimasto all'antica. Subisce il fascino struggente dei treni internazionali. Ah, la 'valigia delle Indie'! La bella e misteriosa sconosciuta incontrata sull'Orient Express! Cos'è questa mania di fare in fretta? Il principe non si rende conto come in sette ore si possa correre a Nuova York. Gli fa rabbia che ci vogliano solo sette ore e non venti giorni, come una volta. quando l'America era davvero l'America: un mito, una favola, non qualcosa dove passarci il weeek end.
«Totò ama le compagnie numerose, le battute volgari. Il principe lascia che le barzellette le raccontino Walter Chiari e Dapporto. Nella sua casa c'è un'atmosfera raccolta, di chiacchiere civili. La confusione non à gradita. Chi alza la voce non e più invitato. Totò è geloso, come tutti gli uomini insicuri. Il principe ama troppo le donne; e quando si ama vuol dire capire virtù e difetti. Se una non gli vuol più bene, ne prende un'altra. Totò e il principe si trovano d'accordo su una cosa. Non credono all'immortalità degli attori. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Appena un mito muore se ne fabbrica un altro. Chi parla oggi di Petrotini?»,
E si sbagliava. Lui è ancora vivo. La sua immagine ritorna sui giornali per la felicità di quelli che l'hanno conosciuto nel buio di un cinema o applaudito a teatro. E di chi — come mi è successo — ha avuto la ventura d'essere il solo spettatore di una insolita gag, la domenica mattina nella casa vuota di Monte Parioli. L'improvvisazione amara di un uomo solo col suo fantoccio.
Maurizio Chierici, «Corriere d'Informazione», 28 marzo 1973
La maschera di Totò, ebbene, io la disprezzo. Mi è utile, certo mi è utile. Ma la maschera è al servizio del pubblico, Totò in effetti è un servitore del pubblico. E questo a me non può far piacere, è ovvio. Però non vuol dire; io a Totò sono affezionato, è parte di me stesso. Non ho mai pensato, neppure minimamente, di sopprimere la mia maschera.
Prima nacque Antonio de Curtis e solo in un secondo momento vide la luce Totò. Accadde in palcoscenico, nel periodo in cui facevo la commedia dell’arte per guadagnarmi, stentatamente, da vivere. Avevo una vecchia bombetta polverosa e una sera, preso dall’ispirazione, me la misi in testa. Ebbene, la gente incominciò a sganasciarsi dalle risate. Quel villano che era in scena, sguaiato, pronto a strizzare l’occhio e a muoversi come un burattino piaceva al pubblico. Lo chiamai Totò, il diminutivo di Antonio, che a Napoli è Totonno.
A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l'altezza imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino, mentre con Totò ci mangio dall'età di vent'anni.
La comicità si avvale spesso di accessori, indispensabili per creare un personaggio. Charlot aveva i baffetti, il bastoncino di bambù e i calzoni sformati. Per me è molto importante la bombetta. Perchè ho scelto questo tipo di cappello? Perchè sotto la bombetta ci poteva stare solo la faccia di Totò. D'altronde non sono io a comandare la mia faccia, ma la mia faccia a comandare me.
La mia faccia non ha altra tristezza che quella di un mento allungato, di un naso torto e della vita, che non è triste ma nemmeno allegra.
Tra me come sono nella vita reale e Totò, come appare in palcoscenico, c'è una differenza abissale. Io odio la mia maschera che uso solo per servire il pubblico. Però nello stesso tempo sento che è una parte della mia anima. Non ho mai pensato nemmeno per un attimo di fare a meno di Totò. Mi è antipatico, è vero, ma gli sono anche grato non una ma cento volte. Prima di tutto perchè mi ha dato il successo e poi perchè, pur essendo in antitesi con Antonio De Curtis, mi aiuta a essere veramente me stesso.
Se ricevete una cartolina così concepita: «Sto cercando casa, aiutatemi », una cartolina che reca in calce la firma autografa di Totò, non vi preoccupate. Sua Altezza Antonio De Curtis, l’uomo dalla doppia personalità, il distinto signore in abito grìgio che avete osservato più volte nella « hall » di un grande albergo o in un lussuoso bar alla moda di Roma o di Torino, non è sul lastrico. Chi cerca casa è il suo doppione; è Totò. Voi sapete già che Totò si sdoppia: è una specie del dottor Jekyll e del signor Hyde del teatro e del cinema. Il dottor Jekyll è l’uomo distinto che avete visto a bordo della sua macchina di lusso, e Sua Altezza De Curtis: ed egli non ha bisogno delle vostre modeste due camere e cucina. Ha un appartamento principesco ai Parìoli; un appartamento con i quadri degli antenati in giustacuore o in toga appesi alle pareti della biblioteca, con oggetti d’arte di un gusto squisito sui mobili, con una collezione di libri rari che farebbe girar la tetta al più difficile dei bibliofili. Ma il dottor Jekyll, cioè Sua Altezza De Curtis, cova dentro di sè un dramma: cioè tutte le sere, alle nove, diventa il signor Hyde. Da venti anni è così: ogni sera, ad eccezione del periodo estivo, quando diventa il signor Hyde ad ogni ora del giorno per la macchina da presa. Ed il signor Hyde, cioè Totò, cioè il comico travolgente che tutti avrete applaudito, indossa una vecchia «sciassa», caccia sulla testa una bombetta, infila intorno al colletto floscio della camicia un cravattino nero che è poco più di un laccio da scarpe e sale sul palcoscenico, o si avvia verso i teatri di posa.
E' questo l'uomo che cerca casa, non l'altro, non il suo doppione. Quale sia la vera personalità di quest'uomo davvero non so; perchè egli sostiene da maestro l'una e l'altra parte; è impeccabile come Sua Altezza De Curtis, è irresistibile come Totò. Forse ha due nature: e l’una ignora l'altra. Forse quando strabuzza gli occhi fa viaggiare con la velocità di un ascensore lampo il suo pomo d’Adamo, ignora di essere anche Sua Altezza De Curtis; e quando riceve ospiti nel suo appartamento ai Parioli forse non sa che la sera, per uno strano malefìcio, diventerà Totò. E per uno strano maleficio questo divertentissimo signor Hyde un bel giorno si è trovato senza casa. In questa situazione irresistibile l'han messo Steno, Monicelli e Metz che hanno scritto il soggetto del film «Totò cerca casa»; Steno e Monicelli che ne hanno curato la regia. Fracassi che ha diretto la produzione, l' «A.T.A.» che ha prodotto il film.
E da questa collaborazione è nata una vicenda divertentissima, paradossale, irresistibile: «Totò cerca casa». E' un modesto impiegato comunale, Totò, in questo film: si chiama Beniamino Lomacchio e vive accampato in una scuola assieme alla moglie Amalia (Alda Mangini) ed alla figlia Aida (Lia Molfesi). La signora Amalia però non vuol restare accampata: ed il povero Lomacchio cerca un appartamento: trova qualche posto in cui dormire un cimitero, lo studio dì un pittore, un manicomio — ma trova soprattutto donne, ovunque donne, donne per ogni gusto, lui che per le donne ha un debole. Trova donne come Marisa Merlini, come Lilo Weibel, la turca seducentissima, come Alda Mangini, e tante altre belle figliole. Assieme a Totò vi sono Enzo Biliotti, l'immancabile Mario Castellani, Luigi Pavese, Aroldo Tieri e Folco Lulli. Ma non sono loro ad attrarre Totò: sono le donne, la sua eterna ossessione. Perciò, come vi dicevo, se riceverete quella cartolina non preoccupatevi ; e lasciate che Totò cerchi casa. Gli fa piacere, in fondo: è il suo destino di «signor Hyde» del cinema.
«8Otto» 8 dicembre 1949
Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "Totò. Avventure di una marionetta" (Roberto Escobar) - Ed. Il Mulino, 1998
- Franca Faldini, «Oggi», anno XXIII, n.19, 11 maggio 1967
- "Il Principe de Curtis odia Totò" - Maurizio Chierici in "Oggi", 13 gennaio 1966
- Maurizio Chierici, «Corriere d'Informazione», 28 marzo 1973
- "Totò, principe del sorriso" (Vittorio Paliotti) - Fausto Fiorentino Ed., 1977
- Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972
- "Sentimental, la rivista delle riviste", Rita Cirio e Pietro Favari, Bompiani, Milano, 1975
- "Molte donne è riuscito a trovare, ma non due camere e cucina", «8Otto» 8 dicembre 1949
- "Il principe de Curtis odia Totò", Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966
- «8Otto» 8 dicembre 1949