Francesco De Marco, detto «nfrù»: è morto all'ospedale l'ultimo Pulcinella

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Napoletano di origine e tradizione, per quanto nato a Roma, Francesco De Marco, detto «Nfru», è rimasto fedele fino agli ultimi giorni alla maschera e al «coppolone».

Dai misteriosi recessi del palcoscenico, da quegli angoli che conservano la eco di tutte le voci che vi hanno risuonato, una teoria di ombre si accalcò al proscenio, discese in platea e giunse fino all’ingresso. Sulle tavole del piccolo e vecchio «Manzoni» hanno recitato Scarpetta e Petrolini, per non parlar che dei più illustri: i loro fantasmi in testa a tutti gli altri si fecero sulla porta mentre un modesto corteo funebre svoltava l’angolo della malinconica via Urbana. Il carro si fermò proprio avanti al teatro e una voce si levò a commemorare Francesco De Marco, detto «Nfru». Furono pronunciate poche parole molto commosse, poi il carro si avviò di nuovo. Ma quanto restava ancora di Francesco De Marco risaliva già con i colleghi la scaletta del palcoscenico: le vecchie tavole scricchiolarono e nel silenzio enorme trillò una serena risata. Quelli che seguivano il funerale non sapevano nulla e piangevano ancora.

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Era da molto tempo vecchio e stanco, povero «Nfru», e il suo grosso corpo denunciava una inevitabile decadenza. Aveva appena sessanta anni, ma appariva incredibilmente vecchio perchè veniva di tanto lontano: non sapeva neppure quando avesse mai imparato a recitare e di chi fossero quelle voci che gli si intasavano in gola arrochendola spesso. Parlavano per bocca sua le voci che un tempo erano state gloriose di Cammarano e di Petito, perfino la voce di Silvio Fiorillo che è tradizione sia States il primo Pulcinella. Parlava con le sue labbra forse anche il primo Pulcinella girovago, quel Puccio d’Aniello che divenne poi «Polliciniello» per il pubblico di Piazza Pendino a Napoli, sul finire del '500.

Maschera e «coppolone», insostituibili attributi di Pulcinella, possono restare ormai appesi ad un chiodo, non c'è nessuno che possa o voglia indossarli. Francesco De Marco era stato l’ultimo che aveva raccolto la gloriosa ma infruttifera eredità di una dinastia di principi della scena, e che l’aveva conservata amorosamente in vita. Qualche altro attore ha indossato la maschera negli ultimi anni, ma lo ha fatto più per amore di rievocazione preziosa che per convinzione: per Francesco De Marco invece la maschera e il repertorio di Pulcinella furono una cosa viva: egli fu Pulcinella ogni giorno, durante quaranta anni di carriera teatrale.

Non era figlio d’arte. Il padre venendo da Napoli aveva importato a Roma la «caccavella», quell’elementare strumento delle feste popolari napoletane che emette un lungo e singhiozzante sberleffo. Aveva avuto anche lui una certa notorietà e proprio dal suono della «caccavella» lo avevano ribattezzato «Nfru». Il nomignolo passò poi al figlio. Scelse la via del teatro così, come fanno quelli che il teatro chiama e non comprendono neppure quanto sia ineluttabile il richiamo.

Dalla ripida via Runcaglia si scendeva di corsa e ci si trovava davanti alle porte del Manzoni. Ogni giorno il ragazzo usciva dalla casa paterna e andava a fare il «clacqueur» per sbafare il teatro. Debutto a sedici anni come macchiettista in un «cafè-chantant» di terz’ordine. Allora i ruoli maschili erano solo due «macchiettista» o «dicitore» che divenivano poi «buffo» o «tenore» nell’operetta. Francesco De Marco girovagò per tre o quattro anni nelle diverse «sale» della città e della provincia. Divenne Pulcinella quasi per caso. C’era a Roma un notissimo Pulcinella, Aniello Balzano, che recitava tutto l’anno nel teatro dell’Acquario e aveva un pubblico affezionatissimo. Ammalatosi Balzano, De Marco fu chiamato a sostituirlo. Balzano non si rimise più e prima di morire trasmise la «sua» maschera al giovanotto che gli sembrò «degno di portarla».

Da allora, per trent’anni, Francesco De Marco fu Pulcinella. Aveva del personaggio il fisici: un grosso v:so ironico, delle spesse sopracciglia, lineamenti marcati, larga bocca sempre sorridente. La pelle stessa era ruvida e spessa come il cuoio di cui le maschere erano fatte anticamente. Avrebbe potuto salir benissimo in scena senza maschera, semplicemente tingendo la metà superiore del viso. Con l'andar degli anni il suo corpo ingrossò e il ventre di venne una delle sue principali risorse mimiche.

Fu un buon comico, degno discendente di quella dinastia di improvvisatori che mantennero viva la tradizione del teatro quando non c’erano autori all’infuori di quelli accademici. In un’epoca più fortunata per il teatro dialettale avrebbe potuto avere un teatro «fisso» e una compagnia raffinata. Ma aveva delle grandi, innegabili qualità di mimo. Recitavi col grosso viso, con tutto il corpo, col ventre ballonzolante, con le mani massicce. Non aveva mai avuto una grande voce, ma negli ultimi anni si era tanto arrochito da non poter contare quasi più sulla parola. Una sera che in scena lo colse un improvviso distacco di voce uno spettatore gli gridò: «Fa' le mosse che ridemo lo stesso!».

Costituì intorno al '20 una sua compagnia con la quale alternò per molti anni la commedia di Pulcinella all’operetta. Recitavano con lui il fratello Alfredo e poi le figlie Olga, Italia e Dorina Da ultimo ebbe in compagnia anche i nipoti. L’unico suo figlio maschio, invece, non volle essere attore. Passava da un teatro all'altro, sempre a Roma, e solo di rado si decideva a lasciare la città. Fece qualche giro in Sicilia e in Toscana; ma poi tornava a passare dal Salone Elena al Diocleziano, dal Baraccone di piazza Colonna al Metastasio ed allo Jovinelli. Scriveva da sè gran parte del suo repertorio. Faceva il giro dei rioni di Roma ed in ognuno aveva il suo pubblico affezionato. Per molti anni sostò due o tre mesi in una sala del centro oggi trasformata in cinematografo.

Nella sua compagnia passarono nomi che dovevano divenire notissimi: Totò e Fabrizi tra i primi. Poi De Vico, che fu sua fedele «spalla», e i tre figli, «I De Vico» che tutti conoscono. Fd altri attori noti come i fratelli Maggio, Lembo ed altri. Creò alcuni comici popolari, tra cui Alfredo Thomas detto «Pippetto», altro beniamino del pubblico romano, che fu anch’esso Pulcinella, e che è morto un giorno prima di lui, il 26 gennaio.

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Forse non era un grande attore. Ma era un «comico» nella migliore accezione della parola, un innamorato del suo mestiere e del suo mondo. Avrebbe potuto essere molto di più, solo che avesse trovato un autore o ur. regista capace di valorizzarlo. Apparve in cinema in una piccola parte nell’Onorevole Angelina e in un ruolo di maggiore rilievo in Giovanni Episcopo. In quella occasione qualcuno notò che aveva una maschera straordinariamente efficace e con un pò di costrizione si sarebbero potuti cavare da lui dei grandi effetti. Gli nocaue la eccessiva libertà in cui aveva sempre recitato, gli mancò una organizzazione, gli mancò anche, per esaurimento, il repertorio. Nessuno oggi scrive più per Pulcinella e se un Pulcinella c’è,’ gli tocca fare il comico nelle riviste.

Il fascismo gli dette qualche fastidio con la campagna contro il teatro dialettale La compagnia zoppicava economicamente e non si rialzò mai più. Ciò nonostante continuò a recitare, alternando la rivistina di avanspettacolo all’operetta, la commedia alla canzone sceneggiata. Quando lo ha colto la morte dirigeva ancora una piccola formazione che aveva agito a Terni, per l'ultima volta, il 18 gennaio.

Nello scorso settembre al «Lamarmora», nel cuore de! vecchio Trastevere, aveva indossato ancora la maschera e il «coppolone» ne L'orologio di Don Nicolino. E spogliandosi l'ultima sera non seppe di seppellire Pulcinella.

Il 27 gennaio al mattino si sentì molto male: soffriva da tempo di impoverimento dei globuli rossi. Lo trasportarono a San Giovanni, dove visse ancora poche ore. E mentre moriva, parlava di palcoscenico.

Per questo il carro funebre si è fermato avanti al Teatro Manzoni ove aveva recitato, ma dove aveva soprattutto imparato ad amare il teatro. C’erano, ad accompagnarlo, i superstiti del vecchio teatro romanesco, oggi tutti, sparpagliati nell'avanspettacolo, nelle liste, delle comparse cinematografiche e negli ospizi. C’erà anche qualche attore più fortunato. Nessuno aveva pensato di mettergli accanto-, prima di seppellirlo, la maschera e un pizzico di quella polvere acre che si alza battendo forte il piede a proscenio.

Umberto De Franciscis, «Teatro», anno II, n.4, 15 febbraio 1950


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Umberto De Franciscis, «Teatro», anno II, n.4, 15 febbraio 1950