Gli anni 70 e la RIscoperta di Totò
Vedrai, quando sarò morto e non più scomodo per nessuno, daranno la stura ai paroloni e, rispolverando la mia vis comica, affermeranno che se non me ne fossi andato mi avrebbero visto giusto per questo o quel personaggio, chi meglio di me avrebbe potuto farlo? Non vanno sempre cosi le faccende a casa nostra? Questo è un bellissimo paese in cui però uno ha da morire per essere compreso.
Omaggio a Totò
Il fenomeno Totò non appartiene soltanto al passato, ma anche al presente. Infatti oggi, attraverso riedizioni di alcuni suoi popolari film e le trasmissioni televisive di altre pellicole da lui interpretate, anche i giovani e i giovanissimi hanno avuto modo di conoscerlo e di apprezzarlo, tanto da sperare che attraverso l’immagine umana di questo grande attore comico napoletano la parte ansiosa di questa natura dolente umanità possa affrancarsi dai mali moderni che l’affliggono.
Fu una carriera trionfale, quella di Totò, maestro del macchiettismo, inimitabile mimo, interprete comico d’eccezione, sostenuto dall’umorismo irrazionale ed istintivo del grande istrione; supernapoletano di Cinecittà, supermarionetta teatrale e cinematografica la sua figura è rimasta sempre viva nel ricordo di tutti. Quand’era in vita, non gli furono resi gli onori che meritava. Rendiamogli dunque, pienamente, almeno oggi, tutto l’omaggio che merita.
Succede spesso ai grandi artisti: diventano più «grandi» dopo la morte. E’ accaduto anche per Totò, che in vita fu «soltanto» popolare. Oggi, trascorsi oltre sei anni dalla sua scomparsa, critici, saggisti e storici del cinema e del teatro lo hanno «riscoperto» parlando finalmente di lui come di un grande attore comico. Il fenomeno si è verificato specie l’anno scorso, da quando cioè abili noleggiatori hanno pensato bene — ma purtroppo soltanto a scopo commerciale — di riportare alla luce ie «pizze» di alcuni suoi film, non certo tra i migliori. Ebbene: quelle vecchie pellicole hanno fornito ai botteghini incassi sorprendenti: gli spettatori anziani e di mezza età sono stati felici di rivedere Totò sullo schermo, mentre per i giovani è stato una «novità», una felice «scoperta». Ecco così spiegate le cause del «Totò-revival». E’ un filone che potrà durare ancora a lungo se si pensa che il celebre comico partenopeo interpretò oltre cento film — da «Fermo con le mani» nel 1937 a «Operazione San Gennaro» nel 1966 — mentre finora ne sono stati riproposti (anche alla televisione) appena una ventina.
E’ da considerare tuttavia che Totò ebbe di rado la fortuna di «girare» con provveduti registi; cosicché, della sua abbondante produzione, solo poche pellicole possono essere gustate nella loro pienezza artistica, mentre nelle altre c’è da apprezzare soprattutto l’istintiva arte umoristica dell’indimenticabile attore. E’ questa una delle ragioni per cui egli, ancora vivo, era spesso ignorato dalla critica ufficiale (le recensioni apparivano quasi sempre a firma «vice») ma non dal grosso pubblico. Nessuno, in realtà, disprezzava la forza comica e poetica dello straordinario interprete; era piuttosto il contesto di quei vecchi film — ingenerosamente, allora, ritenuti commerciali — realizzati in fretta, spesso in un mese, a degradarne la qualità. Fortunatamente, oggi, viene resa giustizia a Totò. E noi, con il «Premio de Curtis», cerchiamo di contribuire degnamente a ciò.
Enrico Carlo Zambelli, 1973
Amiamo in lui l'uomo tutto libero
In Italia la riscoperta filmica di Totò è iniziata, quasi per caso, negli anni settanta ed è dovuta all’attualità che ha questa marionetta «umana» per gli italiani di tutti i ceti, che si trovano a vivere fra contestazione e superlativismi di tecnicismo, fra la pesantezza viscerale della burocrazia, l’altoparlante oratoria di promesse sociali, e la libertà pornosessuale. Totò è per gli italiani più attuale del geniale Charlot perché rilassa e diverte, non incita alla rivoluzione con la sua maschera di fame atavica, di predestinato all’inguaiamento, che vive con una speranza carica di sole napoletano fatta di piccoli espedienti, che non è rassegnazione poiché lui, un piccolo di statura, è un non minore.
Totò, con l’essere marionetta non razionalmente ma biologicamente snodabile, capace di fare vedere, al forte ed al cattivo, che lui è talmente libero da riuscire persino a rendere ogni parte del suo corpo autonoma da un’altra, esprimeva con virulenza una reazione elementare di difesa fisica e sentimentale alla civiltà della macchina. Nei suoi film, anche nei più scadenti, ciò che conta è solamente lui, proprio per questo suo modo biologico di difesa che egli manifesta con l’essere irrazionale, aggressivo, scettico e crepuscolare, con l’amore stupefatto di un troglodita.
Egli vive e fa ridere spontaneamente anche oggi perché era e rimane un omino incredibile che, non avendo da comunicare nulla di logico, in quanto la logica è sempre battaglia anche in tempo di pace, voleva personificare a suo modo il polemico assurdo petroliniano. Il principe de Curtis, il burattino snodabile, di gesti iterati ed irripetibili, capace di fissarsi in pose di astratto e metafisico stupore, si ricomponeva improvvisamente in una dignità di uomo che amava con le lacrime agli occhi, pieni di speranza, la propria libertà nel rispetto degli altri.
Nel cinema di Totò l'attingere ai repertori del suo teatro, è la norma. Molti film saranno palesemente basati sulla riproposizione di interi quadri di riviste, perché la loro stessa riconoscibilità può essere utile nell’attrarre pubblico che quello sketch aveva visto a teatro, o di cui aveva sentito parlare. Il trasferimento di testi teatrali all'interno del cinema di Totò va molto oltre l’occasionalità di uno spunto, un confronto con i copioni teatrali mostra che l’attore portava in dote al ‘testo’ del film contributi di repertorio parecchio più ampi di quanto si creda; singole battute, scene, sketch, anche interi film sono basati su lavori già fatti a teatro, e rodati talmente bene da riuscire infallibili anche sotto l’occhio algido della cinepresa, senza un pubblico da provocare e da cui farsi eccitare. Anche da questo punto di vista il lavoro cinematografico di Totò è una propaggine, quasi un’appendice di quello teatrale.
L’utilizzo di materiale già rodato risponde in genere al desiderio dei produttori di organizzare e girare un film in tempi strettissimi: ingaggiando Totò come interprete ci si assicura al tempo stesso — e gratis — anche Totò come un vero e proprio co-autore. Si va da semplici spunti (come il nome dimenticato di qualcuno che ha telefonato, nella rivista Belle o brutte mi piaccion tutte, che in Totò e le donne diventerà un intero straordinario episodio) all’ossatura sostanziale di un lavoro trapiantata in un altro (come la rivista L’ultimo Tarzan che fornirà buona parte del materiale al Tototarzan di Mattoli). L’impossibilità di rivedere i lavori teatrali di Totò, completi delle variazioni via via apportate al copione, ha fatto perdere una quantità di riferimenti che negli anni Quaranta e Cinquanta apparivano evidenti, quasi un’orgogliosa rivendicazione del proprio lavoro d’attore davanti allo spettatore (ricordate il mio famoso sketch? ora ve lo rifaccio), e che oggi potrebbero sembrare dei furbi ricicli o addirittura degli autoplagi.
Erano tempi in cui la volatilità del concetto di diritto d’autore permetteva facilmente certe operazioni, ed era lo stesso Totò a concederle e spesso a suggerirle, preferendo esibirsi su canovacci già noti e sperimentati piuttosto che saltare nel buio di testi che gli erano estranei. Si parla qui beninteso di sceneggiature senza valore, perché quando i testi buoni — di Zavattini, di Flaiano, di Pasolini — ci sono, l’attore è in grado di farli propri e di dar loro il giusto peso.
Pier Angelo Morlotti, 1972
Totò? E' un eroe dei fumetti
Bonvi, il noto «cartoonist» inventore di Sturmtruppen, «striscia» dichiaratamente antimilitarista, ha scritto per il «Corriere d'informazione» un articolo nel quale elogia Totò, definendolo un vero e proprio eroe del fumetti e attacca tra i critici chi lo ha scoperto solo da poco tempo come grande artista.
Focas Flavio Angelo Ducas Commeno de Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio Giuseppe di Luigi Napoli, Principe Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, Nobile Altezza Imperlale, in arte «Totò». «L’artista più amato, più esaltato ma anche più ignorato e vilipeso. Questo è stato Totò nei suoi cinquantanni di carriera strepitosa consumata tra teatro e cinema e questo continua ad essere dopo la clamorosa '"riscoperta" esplosa qualche anno dopo la sua morte avvenuta nel 1967 e tuttora in atto».
Così, testualmente, il Bollettino Radio e TV, notiziario interno della Radiotelevisione Italiana, si scarica la coscienza con un ennesimo «...l'avevo detto, io!». Da quando la Rete 2 sta trasmettendo ogni sera i 40 minuti de «Il pianeta Toto», tutti i vecchi tromboni della critica italiana si sono riscatenati in una tardiva e sciacallesca opera di recupero, a base anche loro di tonanti: «...l'avevo detto, io!... Chissà che cose meravigliose avrebbe saputo fare il povero Totò, se solo fosse stato diretto da un qualche grande regista!». E qui, oltre a mentire spudoratamente, visto che quando Totò era vivo non «avevano detto proprio un bel niente, anzi, si erano sempre rifiutati di prendere in semplice considerazione l'attore napoletano, definendo, spregiativamente, «Totoate» l’intera sua produzione, dimostrano anche di non aver capito un accidente. Se Totò fosse capitato tra le grinfie di un qualche grande regista, non sarebbe stato «Totò». Proprio i registi minori, rudi artigiani del cinema di serie «B». I vari Mattoli e Bragaglia, confezionando le tanto deprezzate «Totoate», hanno permesso all'attore d'interpretare genuinamente se stesso, al di fuori d’ogni condizionamento e pastoia di falsi intellettualismi da salotto culturale. [...]
Chissà se i signori critici, quegli stessi che anni fa snobbavano le «Totoate» e che ora si affannano a tessere elogi al video ed alla «riscoperta culturale» di Totò, si accorgono di stare recensendo albi di fumetti a puntate, con protagonista un personaggio popolare e popolaresco come può essere Tex Willer o Nick Carter.
Sono sicuro che di lassù (o di laggiù, secondo i punti di vista) il principe Antonio De Curtis sta ridendo come un matto. A prescindere...
Bonvi, «Corriere dell'Informazione», 6 gennaio 1981
E' tornato Totò
Perchè ridiamo come matti rivedendo i suoi vecchi film?
Uno dietro l'altro tornano i film di Totò e le sale cinematografiche si riempiono. I noleggiatori avevano cominciato timidamente, ma adesso non ci sono più dubbi: il successo si va facendo clamoroso. In platea si trovano d’accordo spettatori d’ogni età, e certo è questo il fenomeno più rilevante, in un momento che vede giovani e anziani nettamente divisi nelle preferenze. A cinque anni dalla morte, Totò riesce a conciliare i gusti di due o tre generazioni, e in quest’opera di raccordo appare davvero un caso unico. È difficile dire con esattezza quanti siano i film che ha realizzati dal 1937 al 1967: non meno di 120, comunque, e quasi tutti mediocrissimi dal punto di vista della sceneggiatura e della regia. Molti appaiono invecchiati, altri erano già povere cose all’epoca della loro prima uscita sugli schermi. Ma quello che conta è soltanto lui, la gente vuole vedere lui.
È sufficiente la sua presenza a suscitare ilarità nelle platee che avevano dimenticato da tempo la risata facile e spontanea. Si può addirittura affermare che alcune pellicole riscuotono oggi maggiori consensi di quanti ne ebbero vent'anni fa. Anche questo è un sintomo, e conferma che la comicità di Totò non è legata ad una particolare epoca e che il suo personaggio è al di fuori delle mode. Le battute che ha rese famose - « Siamo uomini o caporali? », « Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo », o iterazioni come « È ovvio », « Chicche e sia », « Ma mi faccia il piacere » - non avrebbero alcun senso pronunciate da altri. Come nessuno potrebbe ripetere le sfilate in passerella al termine degli spettacoli di rivista, quando Totò guidava la sua compagnia in una sfrenata corsa alla bersagliera.
Totò e il suo cinema. Pensieri e parole...
Embè, e vabbè, quando c'è la salute ... C'agg' a fa' mo'? [il primo provino di Totò]
Il mio incontro con il cinema avvenne in un ristorante. Due signori e una signora mi guardavano ridendo da un altro tavolo. Stavo per alzarmi e litigare quando seppi che uno di quei signori era Gustavo Lombardo.
Gli inizi miei del cinema a differenza di quelli del teatro furono leggermente scabrosi. Fui chiamato alla Cines di Pittaluga ed esegui il regolare «provino». Soltanto, un regista ebbe la brillante idea di dirmi che sarebbe stato bene che, con la faccia che Iddio mi aveva data, facessi tutto il possibile per imitare... Buster Keaton. Presi cappello in senso proprio ed in senso figurato, dichiarando che mi sentivo soltanto di fare... il Totò. Così ripresi il mio fardello di Pellegrino e tornai al mio varietà, formando la compagnia di riviste che agisce ormai da cinque anni.
Non mi faccio capace che la gente, per vedere un mio film, esca di casa, lasci le comode poltrone, calzi un paio di scarpe, magari pure strette, e paghi il biglietto. Ci penso spesso e mi commuovo. Umilmente ringrazio il mio pubblico, con la promessa che cercherò di fare sempre meglio.
La sceneggiatura: voi mettete solo frizzi e lazzi. Al resto penso io.
Se fossi regista vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare. Sul canovaccio io ricamo, improvvisandole giorno per giorno, le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara quale è l'intonazione che ha maggior effetto, quale dev' essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c'è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l'attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata.
Faccio tanti film in cui sono costretto a inventarmi tutto; il mattino arrivo sul set e trovo che non c'è niente, debbo creare i lazzi, le battute, tutto da zero.
Molti miei film vengono proiettati nell' America del Sud, in Portogallo, in Egitto, in Svizzera e ora, anche in Francia. L'America del Nord, purtroppo, costituisce un circuito chiuso. Un po' di pazienza: chi va piano, va sano e va lontano.
La macchina da presa nei miei primi film io l'ignoravo. Recitavo come se fossi stato in scena. Certo, lo so, ero meno cinematografico di oggi, ero più teatrale. Ma non mi emozionavo durante le riprese. Mi impressiona il microfono: mi mette a disagio, mi viene la pelle d'oca, insomma mi fa paura.
Nel cinema la cosa scocciante sono i riflettori. Perché i riflettori, vedete, i riflettori incocciano, e io, io ho i capelli neri e lucidi e allora è un disastro. Poi l'attesa è snervante: quando si fa del cinema sembra che l'attesa - e il bello è che non si sa che cosa si attenda - rappresenti la parte più importante e necessaria del lavoro.
Io sono entusiasta del cinematografo, purtroppo non cosÌ dei miei film. Allora, secondo me, dei ritocchi anndrebbero fatti all' organizzazione per guadagnare temmpo e col tempo tante altre belle cose. Vedete, in fondo, il mio grande amore è ancora il teatro. Mi dovete credere, le più grandi soddisfazioni è stato il teatro a darmele e sapete perché? Perché il teatro è molto ma molto più difficile del cinematografo e quassù, su queste tavole, giochetti e finzioni non se ne possono fare.
Sono commosso, veramente sono lusingato e, come si dice a Napoli, questo premio che mi viene tra 'o capo e 'o cuollo cioè fra la testa e il collo, mi ha un po' commosso Sono veramente riconoscente alla critica cinematografica che me lo ha assegnato e a tutta la gente che è intervenuta. [Dopo aver ricevuto il «Nastro d'argento» per il migliore attore in Guardie e ladri]
Dei miei quarantadue film, sono rimasto soddisfatto di pochissimi. Giustamente la critica è stata spesso dura con me; se per l'avvenire sbaglierò, reciterò il mea culpa... ma spero proprio che questo non accada. Ho «chiuso» molto bene con la rivista e intendo fare altretttanto con il cinematografo. Non voglio più fare film «vietati ai minori di sedici anni», ç:ome non voglio più interpretare soggetti scadenti e di pessima lega ... Quanndo ho potuto, mi sono rifiutato di lavorare in film non di mio gusto. In questi ultimi tempi ho rifiutato diversi contratti: mi sono state fatte offerte per film come Totò e la balia, Totò-calcio, Pane, burro e marmellata... Ma, lo ripeto, non ho più nessuna intenzione di continuare la mia carriera cinematografica interpretando lavori dove non mi è offerta la minima possibilità artistica. Cercherò di profondere tutte le mie energie nella nuova produzione con la speranza di finire il mio capitolo cinematografico in bellezza.
Ottantaquattresimo film... purtroppo. Perché sono pochi ottantaquattro film. lo voglio arrivare per lo meno a duecento, duecentocinquanta... adesso vediamo.
Avrei potuto fare qualcosa di molto meglio di quello che ho fatto e invece, vede, ho fallito per aver fatto film troppo dozzinali, mentre credo di avere una vis comica non dico unica, ma rara. lo con la faccia posso esprimere tutto, invece ho trascurato questo e mi sono buttato a fare dei filmetti dozzinali che non mi hanno permesso di poter diventare internazionale. E ho fatto male. Un po' per pigrizia, un po' per i produttori italiani, i quali vogliono andare a colpo sicuro, perché quando il film incassava poco, cinquecento milioni, loro guadagnavano sempre perché rientravano bene nei costi. Quindi siccome i miei film andavano, loro giocavano sul sicuro. Poi un'altra cosa: noi non abbiamo i mezzi che hannno gli americani, i quali fanno i film comici con i mezzi meccanici. Noi no, il nostro cinema comico, siccome è povero, è basato sulle battute, sulle parole, sulle situazioni che non possono aver successo all' estero perché nella traduzione i significato si perde. E siccome il film deve durare un'ora e mezza, e si deve chiacchierare sempre, a un certo momento non si sa più cosa fare. Viceversa mi ricordo i simpaticissimi Stanlio e GIlio, che andavano a finire con i piedi nella pece, l'aeroplano cadeva quando uno era sopra e l'altro sotto, il somaro suonava il pianoforte, insomma tutte queste cose che in Italia non si fanno, perché da noi è tutto parole, parole, parole, con sceneggiatori da tre soldi i quali credono che sia sufficiente buttar giù delle pagine.
I produttori pare che abbiano trovato la formula per far quattrini: mettiamo Totò e tutto andrà bene. Per chi fa l'attore comico in Italia si cerca di sfruttare la situazione del momento, perché questo è il carattere della nostra comicità, il lazzo gratuito, lo spirito da fare sugli altri, su una situazione criticabile... Proprio perché la nostra comicità è di «attualità», giro film legati al temmpo con un filo sottilissimo: basta poi la forza di qualche anno che passa e questo filo si spezza, e il fatto vissuto comicamente perde la sua carica di divertimento.
Sono vittima di una situazione poco simpatica. Produttori senza scrupoli, soggetti decadenti, sceneggiatori improvvisati hanno creato il Totò dalla risposta facile. Quando ho voluto lamentarmene, c'è sempre stata una levata di scudi contro di me. Senta, lasciamo perdere, perché voglio restare amico con tutti ... Ma come si può dire che non avevo la buona volontà di fare dei buoni film? Ero il produttore, il regista? Quando Age e Scarpellli hanno scritto Guardie e ladri sono stato ben contento di interpretarlo. La critica dapprima non fu favorevole neanche a quello, e poi dovette cambiare parere.
Adesso il pubblico è molto più facile. Una volta si sudava sangue sui palcoscenici per strappare un applauso. Oggi mi sembra invece che ci siamo abituati a una certa mediocrità. Quel che è successo in fin dei conti annche in altri campi dello spettacolo. A molti cantanti atttuali vent'anni fa non gli avrebbero neppure lasciato aprire la bocca, li avrebbero arrestati. Questa facilità, questa mediocrità non sono colpa del pubblico. Siamo noi che l'abbiamo provocata. Prendiamo il mio caso. È stato il successo troppo facile a rovinarmi. Sono stati i produttori che hanno incassato un sacco di soldi con i miei film. Non ho mai avuto grandi attrici al mio fianco o buoni soggetti, per anni. Facevano delle porcherie e guadagnavano milioni, quindi non hanno mai pensato a fare meglio. Mi hanno detto che potevo diventare uno Charlot italiano. Li ringrazio, ma di Charlot ce n'è uno solo. È vero però che io sono un mimo nato, lavoro con la faccia senza trucco. Avrei potuto andare per il mondo con la mia faccia, far ridere tanta gente, com'è accaduto con L'oro di Napoli di De Sica o con Napoli milionaria di Eduardo. Mi hanno ridotto invece al ruolo di attore regionale: copioni creati soltanto per l'Italia, film che non costavano una lira. Sono stato male amministrato, il mio patrimonio di attore mi sembra che sia stato sciupato. Questo è il mio rimpianto.
Giravo quei film pensando che il mio successo sarebbbe durato poco: un anno, due, tre. Se nonché la cosa è andata avanti parecchio, nonostante tutto, e io sono rimasto così, con il desiderio di aver voluto fare qualcosa di più impegnativo sul piano artistico.
Spesso mi sono sentito dire che dovrei fare l'attore drammatico, ma io non sono d'accordo. Rappresento la vita, che è un mistero di comicità e tragedia, e quindi non capisco perché dovrei convertirmi da un genere alll'altro. La vita non si sceglie, si accetta.
Non mi sono provato mai a fare il regista, e non mi proverei mai. Fare il regista è tutta un'altra cosa. Si può essere un grande regista e un modesto attore. Abbiamo tanti esempi, il più grandioso è quello di Tulli che come attore era un cane, ma era un grande metteur en scène. Non ci ho mai pensato. E poi c'era un altro motivo: io sono un pigro, sono un uomo pigro, e invece il regista deve alzarsi la mattina presto prima degli altri, poi gli altri vanno a casa a divertirsi o a riposarsi e invece lui deve studiarsi il copione, le inquadrature ... Però per il cinema ho scritto qualche sketch, qualche cosa ... Ho scritto qualche film, ma non porta il mio nome, perché l'ho sempre ritenuto controproducente. E poi molto spesso il nostro pubblico è cattivo, crede che uno voglia darsi delle arie ... Tutti i co .. miei scrivono qualche cosa da sé e sono i migliori autori. Anch'io ho fatto qualcosa, senza che il mio nome figuri, ad esempio Totò Peppino e la ... malafemmina, Siamo uomini o caporali? e altri ancora...
Recitare, lavorare è la mia vita. E quando recito sono paziente: appena terminata una scena corro dal regista per sapere se sono stato bravo. Lo so che non ho fatto dei bei film; alcuni sono addirittura bruttissimi. Ma sono un attore, uno strumento in mano a un regista.
La colpa, soprattutto, è mia. Perché io sono stato un indolente... A me mi davano il copione, io non lo leggevo nemmeno, andavo a lavorare così... e quindi sono stato sfruttato un po' commercialmente, ma, ripeto, la colpa è mia.
Alcuni produttori poi sfruttavano il filone di successso. Per esempio, dopo "Divorzio all'italiana", c'è stato "Matrimonio all'italiana", "Ménage all' italiana", "La zia all' italiana", "Il battesimo all'italiana" e tante altre cose. Poi è venuto 007,008,009,010, doppio zero. Quell'altro film, "Un pugno di dollari", "Un dollaro falso", "Due dollari e mezzo", "Tre dolllari e 75 centesimi", fino a stancare il pubblico e, magari, rovinare il povero attore, meschino... Non vado mai al cinema: primo perché lo faccio, e secondo perché ci vedo ormai così poco che, per distinnguere le immagini sullo schermo, dovrei mettere una sedia proprio sotto al telone.
Chiudo in fallimento, caro amico. Avrei potuto diventare un attore internazionale... Credo di avere una vis comica naturale... Ma non ho fatto niente... Sono un uomo sconfitto...
Subito dopo la sua morte già si paventava una riscoperta della sua grande arte...
«Il Popolo di Novi», 4 maggio 1967
L'impareggiabile Totò commemora sè stesso
Nella sua ultima fatica il grande attore s'è confermato, nonostante la banalità del testo, comico di razza senz'ombra di declino.
Morto Totò, si è data la stura alle orazioni funebri, alle biografie dettagliate, alle rimembranze di ogni genere. Giusto. Ma si sa che senso di inutilità e spesso di fastidio si trascinino dietro gli encomi e i compianti d'occasione. Il migliore modo — l'unico modo — di ricordare un attore è quello (quando è tecnicamente possibile) di riascoltarlo e di rivederlo. Totò ha lasciato una valanga di pellicole, molte delle quali girate senza un discernimento, dove pareva che regista, soggettista e sceneggiatore fossero andati a gara per deprimere e impacciare anzichè esaltare le doti del grande comico. Probabilmente qualche casa di distribuzione riproporrà un certo numero di pellicole, scelte fra le valide che non mancano, e ci meravigliamo che l'iniziativa non sia stata già presa; probabilmente, quest'anno o l'anno prossimo per l'anniversario, la TV allestirà una delle consuete rassegne cinematografiche. Ma ora, subito, a pochi giorni dalla scomparsa, proprio la TV ha avuto da offrirci un documento di enorme interesse sull'estrema attività di Totò: questo show che impegnava l'attore da sei mesi e la cui fine di lavorazione ha coinciso con la sua scomparsa. [...] Ma in ogni caso resterà Totò e in noi resterà la convinzione — davanti a prove di vitalità artistica così inconfutabili — che il vecchio comico, sino all'ultimo, è stato un fuoriclasse.
Ugo Buzzolan,«Stampa Sera», 6 maggio 1967
Torna Totò
Un ciclo di film nell'anniversario della sua scomparsa
E' ritornato Totò sul video. Morì un anno fa e venne subito commemorato con una trasmissione, «Tutto Totò», che aveva appena finito di girare.
Non fu una commemorazione felice. Il ciclo intendeva riprendere le scene e le macchiette più famose del grande comico. Ma erano scene e macchiette d'altri tempi. pensate e scritte per il palcoscenico: sul teleschermo risultavano dilatate, stiracchiate. sforzate. Totò era bravo, bravissimo come sempre; ma si rideva poco o non si rideva affatto. Molti pensarono che la sua resa in extremis alla tv era stato decisamente un cattivo affare.
Ora. per ricordare l'anniversario della scomparsa, abbiamo Questo omaggio a Totò attore cinematografico. Meglio, in ogni caso, perché non possono sussistere equivoci, travisamenti, rifacimenti e confronti svantaggiosi. La rassegna è formata da quattro pellicole: «Il coraggio» (1955), «47 morto che parla» (1951), «La banda degli onesti» (1956) e «I tartassati» (1959).
S'è cominciato con «Il coraggio» di Paolella, una storia umoristico-grottesca ricavata con molta libertà da una vecchia commedia di Augusto Novelli, il film era mediocre ma si faceva vedere; e si faceva vedere — ci sembra quasi inutile sottolinearlo — per la gustosa interpretazione di Totò che impersonava un ometto scaltro, arruffone, rompiscatole che riesce a insediarsi nella casa di un commendatore con una scarica di figli mocciosi e un decrepito zio deficiente. Nei panni dell’antagonista Gino Cervi gli dava assai bene la replica.
«Corriere della Sera», 18 aprile 1968
«Noi donne», 20 aprile 1968
L'avaro barone
Una volta tanto Totò non fa la parte del poveraccio. Ma in 47 morto che parla di inedia rischia di morire lo stesso. Il barone Antonio Peletti, il protagonista del film diretto da Carlo Ludovico Bragaglia, è avaro, avarissimo. E‘ cosi taccagno che, per risparmiare qualcosa, non da il buongiorno alla gente incontrala per strada. Lesina su tutto: sull'acqua da bere (« mezzo bicchiere è fin troppo») e sulla biada del cavalla perché, spiega. «bisogna abituarlo a non mangiare». Pretende che gli altri siano generosi con lui. Il cameriere deve servirlo gratis.
Il mendicante, che chiede l'elemosina davanti il suo palazzo, ha da pagargli l'affitto del posto occupato, e il macellaio bisogna si adatti a consegnargli, oltre alla carne, del denaro le poche volte che ha l'onore d’avere il barone come cliente, E, nonostante possegga una cassetta di gioielli e di monete d'oro, il nobile Peletti se ne va in giro agitando un "certificato di povertà".
47 morto che parla, un film ispirato a un lavoro di Petrolini «aggiornato» da Age, Scarpelli, Marchesi e Metz, è spia del metodo usato da Totò nel disegnare un carattere. L'attore napoletano, che pure aveva il gusto dell'osservazione realistica (e lo dimostrò in parecchie comiche), evita qui il «ricalco dal vero». Preferisce rafforzare le tinte, esagerare le movenze, «scatenarsi» nelle invenzioni come si è sempre fatto sulle tavole degli spettacoli popolari.
Si veda, in 47 morto che parla, che cosa sia andato a scovare nei magazzini dello studio: un cappellaccio duro, un bastone da sbattere sulle spalle dei monelli. un mantello alla Dracula, un paio di guanti che lasciano le dita in libertà. E, dentro quei panni che farebbero la gioia di un guitto, si muove su uno scenario da operetta con l'aria più naturale di questo mondo. Sa che per merito suo, il pubblico accetterà la piu smaccata convenzione teatrale, non si preoccuperà dell'assenza d’ogni verosimiglianza.
A guardare bene. Totò non sta quasi mai al gioco del verosimile, da cui altri comici sanno ricavare occasioni d'allegria Si, dietro te spalle detrattore, che certe volte appariva nelle vesti del « pazzariello » napoletano, si scorge la faccia bianca di farina, tagliata nel mezzo dalla maschera di cartone, di Pulcinella. Ma, si badi, Totò finge d'essere il diseredato cui la gran fame torce le budella o il barone che, per non spendere, si dimentica di man fruire. Povero oppure avaro, lo è per burla, per finzione. E' l'attore che, recitando la scena della fame o dell'avarizia, sa di divertire il pubblico. E' il buffone di quella nuova, spesso crudele corte che è la platea cinematografica.
Insomma, per riprendere una intuizione del critico E. F. Palmieri Totò era un miserabile o un barone da commedia; ossia, in lui un istinto realistico era stato modificato dalla consuetudine cui varietà minore che, al rozzo ma genuino umorismo contadino, preferisce le barzellette da caserma. Eppure proprio lavorando su materiali discutibili, che oggi possono sembrarci «superati», Totò riuscì a tenersi stretto il suo pubblico per decine e decine danni.
Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968
Due comici in gara
Quanti film ha fatto Totò? Quanti Fabrizi? Chi volesse conoscerne la cifra esatta non avrebbe, per abbeverarsi, altra fonte che quella rappresentata dalla curiosa categoria di appassiunati di cinema la cui occupazione consiste nel catalogare, pazientemente e quotidianamente, i titoli di tutti i film che vengono pubblicati nel mondo, l'anno di produzione, il regista, gli interpreti. Si chiamano schedatori, e annotano senza parzialità le fatiche di Godard e quelle di Giorgio Simonelli, di Greta Garbo e di Maria Grazia Buccella. Sulle loro fitte paginette, alle voci « Totò » e « Fabrizi », si trova scritto ad un certo punto: « 1959: I tartassati, regia di Steno. Altri interpreti: Louis de Funès, Kathia Caro e Luciano Marin ».
Subito dopo l'elenco prosegue, implacabile e meticoloso: non c'era spazio per ricordare che I tartassati non è stato un film esaltante, ma neppure di quelli che si è svelti a dimenticare.
Una storia dai risvolti umani un tantino traboccanti, paciosa e prevedibile nella misura in cui, per una metà almeno, e costruita sulla pelle di un interprete col cuore costantemente in mano come Fabrizi. Fabrizi nei panni del maresciallo Topponi, agente della Tributaria, incaricato di rivedere le bucce alle cartelle delle lasse del commerciante Torquato Pezzella, che è un Totò pericolosamente tentato dai vantaggi dell'evasione fiscale. La lotta tra i due antagonisti, si capisce, è portata avanti in termini di durezza che sottintendono in modo fin troppo evidente la disponibilità alla comprensione (non sono tutti e due, ciascuno per il suo verso, dei « tartassati »?), ed è complicata dagli intrighi amorosi che riguardano la generazione ignara del figli,
Niente film esaltante, e niente storia peregrina. Ma in tema di film comici, condizioni di questo genere non sono sempre sufficienti (per fortuna) a cancellare i motivi di interesse. Nei film comici ci sono, appunto, i comici: li costruiscono per loro, e loro di giorno in giorno li inventano e qualche volta perfino li salvano, almeno per quanto strettamente li riguarda. Accade per le farsacce peggiori, ed è accaduto, in parte, anche per I tartassati.
Il film costituisce perciò una buona occasione d'incontro con due delle più spiccate personalità comiche che il nostro cinema, in questo senso tanto avaro, ha prodotto. Più immediatamente avvicinabili, se vogliamo più scontate, le qualità di Fabrizi, già tutte svelate nella sua maschera: ironia e saggezza popolaresche, stupori e ripensamenti improvvisi, un modo di guardare la realtà che, oltre gli scappi della trovala buffa, dimentica spesso gli umori autentici per volgervi ad una malinconia conclusa nell'abbraccio e nella lacrimuccia (però bisognerà ricordare il parroco di Roma città aperta, che gelava le lacrime nella dignità).
Quanto a Totò, la sua comicità aveva radici diverse. Non si compiaceva di retorica e di abbandoni, ma della loro negazione, era puntuta e acre, negava i « buoni sentimenti » invece di coltivarli. Spesso s'è perduto anche lui, per errore suo, ma più di soggettisti e registi, nella ricerca del melodramma, ha compresso la libertà dei suoi estri come vergognandosene : oppure se n'è lascialo trascinare oltre il limite, cadendo nella buffoneria bécera e gratuita. Però è difficile che nel suo film più casuale non possano ritrovarsi uno sprazzo, un lampo, che lascino almeno intuire quale avrebbe potuto essere il valore di un'esperienza come la sua, se non l’avesse tanto sovente compromesso la massacrante routine della formula.
Giuseppe Sibilla, «Radiocorriere TV», aprile 1968
Totò grazie al cinema torna sul video con dignità
Una rassegna di quattro filmetti migliore dello "show" dello scorso anno
Ho ancora nei cassetti lettere dell'anno scorso che sparano a zero contro «Tutto Totò», la trasmissione a puntate apparsa lo scorso anno subito dopo la morte del comico. Leggo qualche frase: «La Tv non avrebbe mai dovuto permettere l'andata in onda di un programma che infanga il ricordo di un attore come Totò»; oppure: «E' mai possibile che dal video Totò non riesca a farci fare una sola, dico unr sola risata?»: e ancora: «Ci domandiamo perché la città di Napoli, in blocco, non sia insorta, ecc., ecc.». A parte il fatto che un'insurrezione generale della pur generosa comunità partenopea sarebbe stata in questo caso eccessiva, bisogna riconoscere che il ciclo era stato un fallimento.
Ora, ad un anno di distanza, ecco un'altra commemorazione. Stavolta si è ricorsi a quella grande e sicura àncora di salvezza che è il cinema e si è varato una breve rassegna composta di quattro pellicole: abbiamo visto IL CORAGGIO e I TARTASSATI nelle settimane passate: mercoledì scorso abbiamo visto LA BANDA DEGLI ONESTI e mercoledì prossimo potremo assistere a QUARANTASETTE MORTO CHE PARLA. Sono, nella sostanza, dei filmetti. Ma non vogliamo riaprire qui la questione, su cui sono stati profusi ettolitri di inchiostro, del perché Totò accettasse ì filmetti («E' lavoro» mi disse nel 1956, a Torino, durante un'intervista). Piuttosto vogliamo far rilevare un'altra cesa, che nessuno ha protestato, nessuno ha scritto lettere colleriche o accorale.
I filmetti sono piaciuti. Non hanno entusiasmato, ma sono piaciuti: in realtà sono produzioni con un sacco di limiti, però dignitose, non prive di spunti e di battute dove Totò ha modo, per lo meno, di costruire compiutamente dei personaggi che sono farseschi ma non burattineschi, ossia non privi di uri certo approfondimento psicologico, di un certo calore umano. Senza contare che nei tre film già proiettati le «spalle» di Totò si chiamavano Gino Cervi, Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo.
Ugo Buzzolan, «Stampa Sera», 4 maggio 1968
Totò un anno dopo
Totò: scomparve improvvisamente un anno fa. Tra breve la televisione riproporrà agli spettatori, in un breve ciclo, quattro dei suoi film, e precisamente: 47, morto che parla, Il coraggio, I tartassati e La banda degli onesti. Non sono le pellicole più note e popolari interpretate dal grande attore scomparso, ma quelle che molti considerano le più impegnate e nelle quali rivedremo appunto un Totò meno mimo e più rivolto ai contenuti. Sono forse i film più autentici del «comico dalla faccia tragica».
«Radiocorriere TV», aprile 1968
Il film di ieri sera, «I tartassati» (1959, regia di Steno), non era certamente un gran film e non occorreva un acume critico particolare per qualificarlo.
Eppure siamo sicuri che deve aver avuto un successo unanime, vasto, caloroso. Perché? Per una ragione molto semplice. Chi sono i «tartassati»? Sono i contribuenti, i perseguitati dagli uffici delle tasse, i torchiati dal fisco, che in cento modi — leciti e qualche volta non leciti — cercano di non farsi pelare. Lasciamo stare che poi la storia si disperdesse in fatterelli secondari sentimentali e conformistici, tipo l’amore fra i due giovani e. cose simili: la base della pellicola era la lotta del cittadino «tartassato» contro l'esosltà erariale e questo è un motivo profondamente e dolorosamente sentito da ogni italiano. Totò faceva ridere, ma il suo personaggio era comico per i gesti che compiva, non per quello che rappresentava: in fin dei conti il suo personaggio, come lo vedevano almeno nove spettatori su dieci, era quasi drammatico.
Comunque, un discreto divertimento: Totò era scatenato. Ogni volta si pensa a cosa avrebbe potuto fare se avesse operato una scelta ben più rigorosa nei confronti del copioni, delle idee, del dialoghi, degli sceneggiatori, dei registi. E ogni volta viene spontaneo dire: «Ma quanto era bravo egualmente!». Aldo Fabrizi, più in ombra che in «Guardie e ladri», gli serve tuttavia da valida spalla, efficace anche e soprattutto per il contrasto fisico. Chi è nell’ombra totale è Louis de Funès che invece adesso è un attore lanciatissimo. protagonista assoluto, mattatore. Allora s'accontentava di fare il caratterista, con umiltà e moderato estro: nessuno al mondo assistendo a «I tartassati» gli avrebbe preconizzato una qualsiasi carriera.
«Corriere della Sera», 25 aprile 1968
L'umanità del clown
ore 21,15 secondo
Il rimprovero più frequente (e più banale) che» taceva a Totò riguardava la sua acquiescenza nel confronti dei «testi» per i quali era richiesta la sua collaborazione di attore, Totò, c'è detto, accettava qualsiasi soggetto, qualsiasi sceneggiatura, anche i più superficiali o volgari, senza apparai temente preoccuparsi della mediocrità di risultati che. inevitabilmente, ne sarebbe venuta. Perché diciamo che il rimprovero era banale? Perché non è affare dell'attor comico occuparsi della qualità delle storie che lo hanno a protagonista (il valore della sua esperienza è strettamente personale); e Inoltre perché Totò ha ogni volta «reinventalo» i personaggi che gli sono stali affidati, costruendoli sulla misura della propria stralunata e astratta definizione di interprete. Per questo i casi di intervento nella fase preparatoria di un film sono stati, per quanto lo riguarda. molto rari. Si può citare il titolo di Siamo uomini o caporali, nato da una sua idea, oppure quello di II coraggio, il film che si vede questa sera; e con ciò si i quasi del tutto esaurito l'elenco degli esempi.
Il coraggio nasce da una coro media scritta dal fiorentino Augusto Novelli nel '14, una delle non poche che questo autore soprattutto vernacolo compose, come si dice, «In lingua». Un bozzetto semplice e bonario, però dotato di una sua immediatezza e di riscontri risentiti, talvolta polemici. con la realtà da cui prendeva le mosse. Del testo di Novelli Totò fece, com'era giusto, una cosa sua, e quindi prima di tutto contemporanea (la modernità dei suoi umori comici). Al suo personaggio — un povero diavolo che si butta a fiume, viene salvato, e pretende che il non invocato salvatore si accolli l'onere del mantenimento suo e della sua numerosa famiglia — cambiò non soltanto il nome, ma la fisionomia psicologica, facendone un verace rappresentante della napoletana (o italiana) arte di arrangiarsi.
Se tra le molte cattive pellicole che Totò ha magistralmente interpretato. Il coraggio occupa un posticino non proprio trascurabile, la ragione è questa: che in essa Totò è acida to assai vicino alla definizione del suo personaggio-tipo, un grande personaggio.
Non quello «umano» o mutuato alla realtà che molti ancora oggi considerano il suo più valido ma precisamente opposto Tra i vari modi possibili di far ridere la gente, infatti, a Totò toccava per istinto quello che si fonda sul capovolgimento dei luoghi comuni del perbenismo, del parlare corretto e del comportarsi civilmente La sua umanità non andava cercata in direzione dell'usuale, era moderna e acre, una buffoneria geniale che superficialmente potè essere considerata «minore», criticata e tartassata, e dalla quale si voleva che egli si li beresse per trasformarsi in uno dei mille attori che nella realtà cercano modelli da imitare, e non temi da stravolgere.
Era un'umanità autentica nella misura in cui autenticamente si collocava nel suo tempo (perciò nel nostro) dimostrandosi ribelle e insofferente di esso, capace di annichilire con uno sberleffo, una smorfia o una parola le false verità. L’umanità del grande clown: istinto e lucida intelligenza puntati contro le comode bugie del sentimento.
Giuseppe Sibilla, «Radiocorriere TV», aprile 1968
Portieri si nasce
La fortuna di un film di Totò era spesso legata a una battuta che detta da un altro comico, non avrebbe probabilmente fatto ridere nessuno. Alcuni motti famosi del nostro attore: «A prescindere», «Siamo uomini o caporali ?» e, ne La banda degli onesti, «Portieri si nasce». Tali frasi, a volte di gusto discutibile, gli servivano per accattivarsi consenso del pubblico popolare che lo amava. Una volta assicuratasi l'attenzione degli spettatori, Totò gli imponeva delle osservazioni di aspro realismo. Si vedano, nel film presentato questa sera, le sequenze della morte del vecchio tipografo e della cerimonia della firma, che sono spia di una visione tragica della vita e che, riproposte da sole, difficilmente sarebbero state «digerite» dalle platee più rozze. Sono molti, nella lunga carriera dell'attore napoletano, i momenti di forte amarezza.
Si ricordino gli sguardi dell'accompagnatore di Yvonne la Nuit; le smorfie del padre di famiglia, costretto a sistemare i suoi in un cimitero, in Totò cerca casa; le sorprese dell'osservatore di Napoli milionaria: i silenzi di Salvatore Lojacono che, scoperte le ipocrisie del nostro mondo, preferisce cercare un pò di dignità in carcere del rosselliniano Dov'è la libertà?; le considerazioni umanistiche del piccolo imbroglione di Guardie e ladri ; le lezioni del «maestro» dei Soliti ignoti; le massime del poveraccio, lamentoso e felice, crudele e candido di idi Pasolini che, dalla vita, ha imparato un unico insegnamento; è bene badare a stare il meglio possibile; e, infine, si tenga presente tutto il personaggio di Antonio Bonocore di La banda degli onesti, disgraziato titolare di una «portineria ben avviata» che, per difendersi dalle prepotenze altri, è costretto a trasformarsi in falsario (pur continuando a sentirsi un «cittadino ligio alle leggi»).
Come il vecchio Pulcinella, Totò sembra sempre sul punto di ripeterci: «Sono vivo perché non sono morto ancora». In questa massima assurda, eppure vera, poteva esserci una grossa scoperta che approfondita avrebbe fatto di lui un grande personaggio del cinema comico, da mettere forse vicino a Charlot e a Keaton. Ma quasi non volesse saperne, quasi temesse cosi facendo di perdere l'applauso del pubblico, il nostro attore si scuoteva, riprendeva a snocciolare battute di conio assai facile, a ripetere lazzi dì precisa derivazione rivistaiola.
Insomma Totò possedeva una grande carica tragica, la stessa che rende tanto vive certe splendide figure che si intravvedono nei canovacci della commedia dell’arte. Poteva diventare una sorta di Ruzzante meridionale, e narrarci la storia dei discendenti dei nostri poveri costruttori di castelli e di cattedrali, degli eredi del nostro umile, muto passato contadino. Lo lasciò capire, più che nei film diretti da registi di indubbio temperamento artistico, in commediole minori, ma essenziali per intendere il suo personaggio, come La banda degli onesti, che è scritta da Age e Scarpelli e realizzata da Camillo Mastrocinque. Lo stesso Totò si rendeva conto di tutto ciò, e in una delle sue ultime interviste confessò: «La mia vita è un fallimento».
Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968
... ma dagli anni 70 in poi ritroviamo il cinema di Totò in grande forma...
Gli anni '70 e la riscoperta del mito Totò
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Prima di tutto il pubblico
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Quel Totò non lo voglio in scena!
È ritornato Totò: perchè ridiamo come matti rivedendo i suoi vecchi film
Totò 1971 - Totò al Giro d'Italia
Totò vent'anni dopo riabilitato dalle risate dei giovani
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Renzo Arbore: «È la Napoli che piace a me»
Carlo Ludovico Bragaglia: «Totò, una marionetta che ignorava la sua grandezza»
«Caro papà, grazie anche a nome dei tuoi umili fans». Liliana de Curtis
Totò, l'arte di far ridere
Totò, genio puro come Keaton e Charlot
Tuttototò: la mia vita in dieci serate
Le storielle che non racconterò alla TV
Festa per il ritorno in Italia di Liliana da Johannesburg
Un film con Fellini nelle speranze di Totò
A quasi un lustro dalla morte (15 aprile 1967: aveva 69 anni)» Totò conosce a Roma — e il fenomeno, sia pure in modo meno clamoroso, va estendendosi ad altre città — uno straordinario successo postumo. «Non ha scritto sulla sabbia», annotavamo in occasione della sua scomparsa, rovesciando una malinconica considerazione dello stesso Totò sulla caducità dell'arte istrionica. Non avesse altri meriti, il cinema (e ne ha, oh se ne ha) avrebbe questo: di preservare in sostanziosa misura, e di trasmettere a lungo, la carica vitale di un attore. Entrate in una qualsiasi sala dove si proietti un qualsiasi Totò, e dite poi se, dallo schermo alla platea, non si comunica una salutare scossa di energia, il segno di una presenza reale.
Si ride; si ride da matti: anziani, giovani, giovanissimi. Per questi ultimi, Totò è tutto da scoprire: le sue battute, le sue locuzioni preferite ridiventano popolari, proverbiali. Lo stesso Totò salvava, dell'abbondante centinaio di film interpretati, solo una decina «al massimo». Il suo rigore era eccessivo, come lo fu forse quello dei critici, anche i più attenti e plaudenti alla bravura del «buffo» napoletano, come l'illustre e a noi caro Umberto Barbaro. Rivediamo operine come Un turco napoletano (1953), Miseria e nobiltà (1954), ambedue di Mario Mattoli, e, in queste amabili trascrizioni cinematografiche del teatro di Eduardo Scarpetta (rinverdito pure, nello stesso periodo da Eduardo De Filippo sulle scene), ritroviamo anche una grazia e una misura di regia che ci erano parzialmente sfuggite; o che forse risaltano meglio al confronto di certi sottoprodotti odierni (non solo e non necessariamente le indifese farse di Franchi-Ingrassia, ma anche diversi altri oggetti di consumo, smaltati a lucido, goffi però e deformi nell'intimo).
Totò è spesso grande, talora grandissimo; dignitoso sempre. I suoi incontri maggiori — con Eduardo per Napoli Milionaria (1950), con Roberto Rossellini per il travagliato ma significativo Dov’è la libertà (1952-54), con De Sica per l'indimenticabile episodio del «pazzariello» nell’Oro di Napoli (1953), con Lattuada per il Fra' Timoteo della Mandragola (1965), con Pasolini per Uccellacci e uccellini (1966), che sconvolse perfino i francesi («ma voi, in Italia, avete un grande attore» ci dicevano a Cannes, quasi con riprovazione), ecc. — i suoi sodalizi più tenaci e felici, in primo luogo quello con Steno e Monicelli, o con Monicelli solo (Totò cerca casa, Totò e i re di Roma, Guardie e ladri, Totò e Carolina, I soliti ignoti...) non bastano a dar conto pieno della genialità sua. Poiché succedeva pure il contrario: che registi altrimenti corrivi incontrassero nel rapporto con Totò (si pensi a Totò le Mokò di Carlo Ludovico Bragaglia, a Siamo uomini o caporali di Mastrocinque, a Una di quelle di Aldo Fabrìzi, a Yvonne la nuit di Peppino Amato) il loro momento d’estro, la loro occasione d’impegno.
Il rimpianto per lo «spreco» che Totò avrebbe fatto di sé, partecipando a molte dozzinali confezioni, non ha in fondo ragion d’essere; non del tutto, almeno. «Produttori senza scrupoli, soggetti scadenti, sceneggiatori improvvisati hanno creato il Totò dalla «battuta facile» lamentava lui stesso in una intervista alla Rassegna del cinematografo, durante le riprese di Uccellacci e uccellini. Ma anche delle sue prestazioni più arrangiate qualcosa resta; e in tempi nel quali il cinema italiano lottava per sopravvivere (pensiamo al decennio '50-'60, soprattutto alla seconda metà di esso), lo sberleffo di Totò era conforto, come un simbolo e uno strumento
Aggeo Savioli, «L'Unità», 18 gennaio 1972
Il cinema riscopre il comico napoletano
«Revival» di Totò, povero per burla
Tre locali di Roma, imitati a Milano e a Torino, hanno riempito la sala per settimane con i vecchi film dell'attore. Le ragioni di un successo di critica soltanto postumo
Tre cinematografi di Roma sono andati avanti, per molte settimane di seguito (l’esperimento è stato felicemente ripreso a Milano e a Torino), proiettando i vecchi film di Totò. E il successo tra gli spettatori, giovani e anziani, non è mancato di sicuro. Con il suo inaspettato, clamoroso «rientro», l’attore mette di nuovo in imbarazzo gli esperti di cose cinematografiche. Cercando di spiegarne la «tenuta», essi possono dire che, questo nostro cinema dedito al «sempre più audace», ha perso di vista una parte, non piccola, del pubblico. Per il quale, è vero, già lavorano, le coppie Noschese e Montesano, Franchi e Ingrassia. Ma, si vede, non abbastanza bene da tenere, nel museo dei ricordi, Totò.
’O pazzariello
Forse, a dispetto dei suoi datori di lavoro e dei suoi collaboratori, Totò era attore assai più moderno di quanto si credesse. Si diceva che fosse l’eterno napoletano, l’erede avido e sbigottito di una società raffinata e plebea. Si tratta, però, di una definizione che non ci convince del tutto. Si, dietro le spalle di Totò, che in certi film appariva nelle vesti del «pazzariello», si scorge la faccia bianca di farina, tagliata dalla maschera nera di cartone, di Pulcinella. Ma il nostro comico finge di essere il diseredato a cui la gran fame torce le budella. Povero, lo è per burla, per finzione. Ha ben chiara, in testa, una cosa: recitando la scenda della fame, farà ridere il pubblico. E’ il buffone di quella nuova, crudele an-che, corte che è la platea cinematografica. Si può tentare, dell’attuale ritorno al cinema del pubblico, e ai film di Totò in particolare, una prima spiegazione. La gente sente che, intorno a essa, l’insicurezza, anche economica, va aumentando, e vi reagisce in un modo preciso. Elimina, per una sorta di autopunizione e non solo per una riscoperta del risparmio, le spese grosse e si buttano sulle modeste. Rassicuranti perché conosciute; e, per gli spettatori, nulla è più rincuorante della convenzione del povero per finta, misero e tuttavia allegro.
Per accontentare la sua corte, Totò si svilisce, si rende più misero di quanto non sia. Si ripensi a qualcuno dei suoi film. Tutta l’invenzione trae origine da un «qui prò quo» di conio assai modesto. In Totò le Mokò. il protagonista è un misero suonatore che ha sempre sognato di avere una banda ai propri ordini. Un giorno, gli amici del suo defunto zio, il terrore della Casbah, lo chiamano appunto a dirigere... una banda di malviventi. E, in un’Africa francese di cartapesta, l’attore vive le sue dozzinali avventure, troppo banali per diventare davvero parodistiche di un genere cinematografico, quello dei film sui romantici banditi alla Gabin. «Satirici», i film di Totò lo erano solamente nelle intenzioni di squallidi sceneggiatori. negli avvisi pubblicati sui giornali. Spesso, il ricordo di un film di Totò è legato, per il grosso pubblico, a frasi di una nullità disarmante. Quando non sono scurrili, le sue battute risultano spesso assurde e. se non fossero state I pronunciate da lui, nessuno avrebbe mai riso a motti or mai famosi: «A prescindere», «Siamo uomini o caporali?»- Su materiali sovente scadenti, Totò fondò la sua popolarità Ciò era, probabilmente, dovuto al gusto non proprio fine del nostro pubblico popolare lo stesso che ha portato al successo il duo Franchi e Ingrassia.
Le sue smorfie
Insomma, per riprendere una definizione di un critico troppo dimenticato, Eugenio Ferdinando Palmieri. Totò era un «marchese da commedia»; ossia in lui un istinto realistico era stato soffocato, e meglio impedito, dalla polvere del varietà minore che, al rozzo ma genuino umorismo contadino, preferisce la barzelletta da caserma. (Si discorre, naturalmente, di Totò uomo di cinema; non ci è mai accaduto, infatti, di vedere l’attore a teatro). Eppure, nonostante questi condizionamenti, il ricco temperamento portava l’attore a fornirci, ogni tanto, momenti da grande personaggio. Si ricordino gli sguardi dell’accompagnatore di Yvonne la nuit; le smorfie del padre di famiglia, costretto ad accasare i suoi in un cimitero, in Totò cerca casa; le sorprese dell’«osservatore» di Napoli milionaria; i silenzi di Salvatore Lojacono che, scoperte le ipocrisie del nostro mondo, preferisce cercare un po’ di dignità in carcere del rosselliniano Dov'è la libertà?; le considerazioni del piccolo imbroglione di Guardie e ladri; le lezioni del «maestro» dei Soliti ignoti; le massime del poveraccio, lamentoso e contento, crudele e candido di Uccellacci e uccellini di Pasolini che, dalla vita, ha imparato un unico insegnamento: è | bene andare a stare il meglio i possibile. Questa, in fondo, è la «morale» disarmante che esce dai film migliori di Totò, recuperati nei magazzini dagli organizzatori delle rassegne presentate sugli schermi italiani negli ultimi mesi.
Si ritrova in essi, anche nelle storie che paiono più compromesse, certo strabuzzare d’occhi, certo torcere di collo, certo brusco arrestarsi che rendono sorprendente l’attore. Allora, al di là di tutta la finzione farsesca che rischiava di farlo affogare, Totò si accorgeva, al modo di Pulcinella, di una cosa: «Sono vivo-perché non sono morto ancora». In questa massima assurda, eppure vera, poteva esserci una grossa scoperta che, approfondita, avrebbe fatto di lui un personaggio di notevole peso. Ma, quasi non volesse saperne, il nostro comico scuoteva le spalle, riprendeva a snocciolare battute cretine. Ecco: Totò aveva in sé un’enorme carica vitale, la stessa che rende vive, splendide le figure che si intravedono nei canovacci della commedia dell’arte.
Poteva diventare il nostro Ruzante meridionale, e narrarci la storia dei discendenti di coloro che costruirono i castelli e le cattedrali, degli eredi del nostro umile, muto passato contadino. Non è stato così, confessiamolo. Di autenticamente valido, nei film interpretati da Totò, resta poco. Quanto basta per farci rimpiangere ciò che è andato sprecato. L’attore stesso lo sapeva se, in una delle ultime interviste, osservò: «La mia vita è un fallimento». Ma quello di altri, che al massimo resistono una stagione, deve essere assai maggiore del suo.
Francesco Bolzoni, «Il Nostro Tempo», 25 giugno 1972
Totò ritorna. Sul video ci farà divertire per otto settimane di seguito con i suoi lazzi, le sue macchiette, le sue battute, con le belle donne delle quali amava circondarsi nei film e nelle riviste, con le sue ultime interpretazioni, le migliori di tutta la sua carriera. E nessuno penserà, rivedendolo, che Totò ci ha improvvisamente lasciati in un mattino di primavera colpito da infarto, il 15 aprile 1967. Lo rivedremo anche con commozione e sorpresa: commozione per chi ha una certa età, per coloro ai quali Totò ha regalato un’ora di spensieratezza dal palcoscenico e dallo schermo, per coloro ai quali le battute «Siamo uomini o caporali?» e «A prescindere» evocano gaie risate; per i giovani che grazie al cinema, ed ora anche alla televisione, stanno riscoprendo Totò. Ossia un grande attore.
Ma forse l’unica persona alla quale Totò piaceva proprio poco era sua altezza imperiale Antonio Focas Flavio Griffo Angelo Ducas Commeno de Curtis di Bisanzio, Gagliardi, principe, conte palatino, diretto discendente degli imperatori di Costantinopoli: cioè Totò stesso. Il principe de Curtis soleva dire di non avere nulla da spartire con Totò: questi era un villano, aveva un modo di gestire volgare, gli piacevano le donne coperte di lustrini, le subrettine del varietà, vestiva in una maniera ignobile. Il principe de Curtis era un uomo raffinato, riservato, non molto loquace, amava una sola donna, Franca Faldini, viveva nel magnifico appartamento dei Parioli. lontano dal chiasso e dalla gente. Il principe de Curtis era un poeta: nei momenti lasciatigli liberi da Totò, scriveva poesie: negli ultimi anni, a causa della sua malattia agli occhi, le dettava a Franca Faldini. Due dei suoi pezzi, i più famosi, sono anche stati incisi in microsolco: «A livella» e «Pasquale»; il primo è una poesia che prende punto dal seppellimento in tombe contigue di un povero spazzino e di un nobile squattrinato; il secondo più largamente noto, è una spassosa scenetta che faceva parte del suo repertorio e che lui ripropose a «Studio Uno».
Il principe de Curtis, poeta e autore di canzoni: la sua «Malafemmena» divenne un successo internazionale. Ma la fama di Totò superava quella del principe de Curtis, comunque amato da tutti, indistintamente: a tal punto che al suo funerale, fra le massime personalità del mondo dello spettacolo e della politica erano otto facchini con le tute da fatica, in rappresentanza di tutti i colleghi della stazione Termini.
Totò era nato a Napoli il 7 novembre 1897 (15 febbraio 1898, n.d.r.) da una bellissima ragazza di 17 anni, Anna Capitani (Anna Clemente, n.d.r.), di modeste condizioni e dal marchese de Curtis. Era nato con la vocazione dell’attore e cominciò la carriera artistica mentre prestava servizio militare ad Alessandria nel 1919: per vantarsi con i suoi commilitoni aveva detto di essere un attore napoletano. Fu messo alla prova, e fu così che per la prima volta Totò calcò un vero palcoscenico: nacquero, spontaneamente, alcune macchiette che in seguito avrebbero fatto ridere tutta l’Italia. Congedato, tornò a Napoli e cominciò la «gavetta» di una carriera che dai primi umili inizi dell’avanspettacolo lo portò a primo attore e capocomico delle grandi riviste del dourxruerra, a grande attore cinematografico. Una carriera culminata, un anno appena prima di morire con riconoscimenti e premi internazionali grazie alla sua interpretazione nel film «Uceellacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini: menzione speciale al Festival di Cannes «Al grande attore italiano», «Globo d’oro» dell’Associazione della stampa estera in Italia quale migliore attore protagonista, «Nastro d’argento» per il migliore attore protagonista e sempre per lo stesso film la «Conchiglia d’oro» del mondo dello spettacolo. Inoltre alcuni anni prima il consorzio della stampa cinematografica gli aveva assegnato una targa d’oro «per avere interpretato più di cento film», ed un «Nastro d’argento» Tote lo aveva già vinto nel 1951 per «Guardie e ladri» diretto da Mario Monicelli.
La carriera artistica di Totò è stata talmente lunga e densa di avvenimenti, che lo stesso attore ebbe a confessare di non ricordarne neppure gli inizi avvenuti nel teatro dell’arte con piccole compagnie napoletane nelle quali recitava su un canovaccio inventato da Pulcinella prima di entrare in scena. Di queste commedie Totò ricordava, fra le moltissime «Camera fitta per tre» e «La cam-pagnata dei disperati». Poi passò al varietà con le sue macchiette; era il 1921; nel 1925, era già una vedette, ottenne i suoi primi clamorosi successi alla «Sala Umberto» di Roma e di Torino. Dopo essere tornato al teatro dialettale recitando al «Nuovo» di Napoli, passò alla compagnia di Marisa Maresca. Infine la prima compagnia a suo nome e della quale era anche l'impresario : erano gli anni 1934-35. Poi i grandi spettacoli di Michele Galdieri; bastano pochi titoli: «Bada che ti mangio», «Che ti sei messo in testa», «Quando meno te lo aspetti», «Orlando curioso», «Disse una volta il mondo», ma già dal 1937 alternava la rivista con il cinema: il suo primo film fu «Fermo con le mani». Con «San Giovanni Decollato» il pubblico, conobbe ed imparò ad amare Totò che divenne il comico più richiesto dai registi e dai produttori cinei atografici. Il cinema italiano lo volle festeggiare ufficialmente quando interpretò il suo centesimo film, «Il comandante», efficace contributo in tanti anni all’affermazione del cinema italiano, un omaggio in segno di «stima e di affetto». Totò intervenne alla cerimonia, pallido, commosso, gli occhiali scuri, al braccio della sua fedele compagna.
Soltanto un anno prima di morire, si era arreso alla televisione: era convinto che lo spettacolo televisivo, soprattutto gli spettacoli a puntate, bruciasse gli attori. Si decise a dire «sì» dopo essere apparso a «Studio Uno», quale ospite di onore. La trasmissione «Tutto Totò», diretta da Daniele D’Anza. si articolava in dieci puntate indipendenti l’una dall’altra: le prime erano una rievocazione di alcune fra le più gustose scene create dall’attore per il teatro.
Come è noto, il ciclo dedicato a Totò avrà inizio nella seconda metà di marzo con scadenza settimanale (il mercoledì). (Ansa)
«Il Piccolo», 22 febbraio 1973
Roma, 12
Otto film di Totò saranno trasmessi in televisione a partire dalla seconda metà di marzo, ogni mercoledì. Tra questi film fanno spicco per diversi motivi, «Yvonne la nuit» con un Totò umanissimo ed una bravissima Olga Villi, «Il comandante», centesimo film del grande attore scomparso e «Uccellacci e uccellini», senz’altro da più grande interpretazione di Totò, diretto in questo che doveva essere il suo ultimo film, da Pier Paolo Pasolini. (Ansa)
«Il Piccolo di Trieste», 13 marzo 1973
Domenico Meccoli parla del principe «clown»
Totò: mai stato un'occasione mancata
Da «I due orfanelli» di Mattoli a «Uccellacci e uccellini» di Pasolini sfileranno otto film del grande comico - Una vittoria straordinaria
Roma, 19
Da mercoledì 28 marzo inizierà in TV sul secondo programma il ciclo di otto film dedicato a Totò. Il ciclo si intitola «Totò principe clown» e si propone di presentare alcuni tra i più significativi film interpretati tra il 1947 e il 1966 dal grande attore comico scomparso. Le presentazioni dei film saranno curate dal critico cinematografico Domenico Meccoli. «Totò è stato definito — dice Meccoli — l’occasione mancata del cinema italiano. Io non sono d'accordo. Anzitutto, la definizione mi pare piuttosto generica. Di quale Totò si intende parlare? Di quello d’impronta surrealistica dei primissimi film? Di quello grottescodrammatico di altri suoi film?
Oppure di quello farsesco della maggior parte delle sue interpretazioni? Nei suoi 114 film registrati nella filmografia dell'attore, a me pare che il cinema italiano non abbia mancato nessuna di queste occasioni. Si può preferire l’uno o l’altro aspetto di Totò, si può deprecare la sciatteria di molti suoi film; ma proprio questi sono paradossalmente i più significativi perché interamente suoi, sostenuti esclusivamente dal suo personaggio, dalle sue trovate, dai suoi sberleffi, dal suo dinamismo. I film in cui non contano né la vicenda né il modo come è stata realizzata, ma conta soltanto la presenza dell’attore. Un mito - direbbe Malraux - allo stato puro».
«Il ciclo — aggiunge Domenico Meccoli — non pretende di presentare ai telespettatori un programma esauriente della personalità di Totò. Esso è, più che altro, indicativo per un pùbblico che oggi, con iniziative sparse e disordinate, sta riscoprendo questo nostro grandissimo attore nei normali cinematografi.
«Tuttavia, il ciclo non è casuale, anzi ha una sua organicità. Si è tralasciato il primo Totò cinematografico: quello, surreale e metafisico, che aveva ispirato, con scarso successo, il cinema d’anteguerra. E, prima o poi, converrà fare su di esso un discorso a parte». «Il ciclo — dice Meccoli presentando brevemente il primo film — ha inizio perciò dai film dopoguerra, con ”I due orfanelli", che fu il primo di Totò diretto da Mario Mattioli, il quale ha realizzato complessivamente 16 film di Totò. "I due orfanelli”, che risale al 1947, è significativo perché apri la strada a quella folta serie di film che lasciavano l’attore libero di esprimersi come meglio credeva, seguendo la traccia di soggetti che erano un po’ come i canovacci della commedia dell’arte».
«Totò le Moko», del 1949, è un altro esempio del medesimo indirizzo ma dovuto a un altro regista, Carlo Bragaglia, Sempre nel 1949 eccoci con «Yvonne la nuit», di Giuseppe Amato, al primo tentativo di proporre Totò in chiave drammatica, un tentativo accettato dall’attore con molte titubanze, ma che poi doveva portarlo ai personaggi umani e grotteschi di «Napoli milionaria», «Guardie e ladri», «L’oro di Napoli», e via dicendo. Il quinto film del ciclo è «Totò e Carolina», diretto da Mario Monicelli su soggetto di Ennio Flajano. Fu realizzato nel 1953 ma arrivò sugli schermì soltanto nel 1955 con qualche taglio imposto dalla censura non ancora svincolata dalle remore ideologiche.
«A un certo momento l’ìndustria cinematografica sentì il bisogno di affiancare a Totò altri attori comici brillanti di prestigio: Taranto, Fabrizi, Peppino De Filippo, De Sica. Il sesto film del ciclo, "I due marescialli”, realizzato da Sergio Corbucci nel 1961, è un esempio di questo tipo di film in coppia, dove Totò, stimolato dalla preferenza di una "spalla” illustre, rimane però il dominatore della scena. Veramente singolare è il Totò proposto dal "Comandante” diretto da Paolo Heusch nel 1963,
Il ciclo si conclude con «Uccellacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini. Il mattatore di un tempo si affida ad un autore per coronare, nella favola e nella poesia, la propria vita di attore. «Uccellacci e uccellini», è, per Totò, — conclude il critico — un atto di umiltà e la più straordinaria delle vittorie.
Domenico Meccoli, «Il Piccolo di Trieste», 20 marzo 1973
Otto film del comico - Tutto Totò domani in TV
UCCELLACCI E UCCELLINI di Pier Paolo Pasolini, con Ninetto Datoli e Femi Benussi. Splendido congedo dell'attore in un'opera poetica.
IL COMANDANTE di Paolo Heusch, con Andreina Pagnani e Britt Ekland. Le manie di un alto ufficiale in congedo.
I DUE MARESCIALLI di Sergio Corbucci, oon Vittorio De Sica e Gianni Agus. Patetica e buffa lotta per sopravvivere nell'Italia occupata dai nazisti.
TOTO' E CAROLINA di Mario Monicelli, con Anna M. Ferrerò e Tina Pica. Poliziotto timido conosce ragazza sperduta: il film fu avversato da un'assurda censura.
TOTO' SCEICCO di Mario Mattoli, con Tamara Lees e Aroldo Tieri. Un distinto maggiordomo finisce tra i ribelli marocchini contro la Legione Straniera.
YVONNE LA NUIT di Giuseppe Amato, con Olga Villi e Gino Cervi. Un Totò piuttosto serio, con Eduardo De Filippo come spalla, ricostruisce l'atmosfera del caffèconcerto.
TOTO' LE MOKO' di C. L. Bragaglia, con Carlo Ninchi e Gianna M. Canale. Splendida parodia del film nero alla francese, tipo Pepe le Moko con Gabin.
I DUE ORFANELLI di Mario Maltoli, con Isa Barzizza e Carlo Campanini. Due ingenui fratelli vivono, tra sogno e realtà, nella corrotta Parigi 1865.
«Stampa Sera», 27 marzo 1973
Da domani si ride in tv. Il merito è di Totò, il solo comico italiano paragonabile ai re della risata come Chaplin, Keaton, Lloyd. La Rai ha programmato otto suoi film, compresi nell'ureo di trentanni e scelti in un elenco di 114 titoli. Ogni mercoledì un film, ogni serata il divertimento sarà assicurato. Il ciclo è a cura di Mario Mattoli, autore teatrale e regista cinematografico che con l'attore collaborò per mezzo secolo. Ecco l'elenco degli appuntamenti per j telespettatori, sul Secondo programma.
Ciclo televisivo su «Perchè Totò»
Roma, 14
Un ciclo televisivo dedicato a Totò, con la rievocazione di Eduardo De Filippo, Vittorio Gassman, Pier Paolo Pasolini, Mario Monicelli e altri attori e registi, sarà trasmesso in cinque puntate nella rubrica TV «Sapere» e andrà in onda ogni giorno da martedì 25 a sabato 29 dicembre alle 18.45 sul programma nazionale. La trasmissione, sarà presentata da Achille Millo. Totò sarà ricordato attraverso brani di film, tra i quali «Totò cerca casa», «L’imperatore di Capri», «Arrangiatevi», «Dov’è la libertà», «Animali pazzi», «Totò il buono», «Guardie e ladri», «I soliti ignoti», «Napoli milionaria», «San Giovanni Decollato», «Uccellacci e uccellini», e testimonianze di molti registi e attori. Saranno anche intervistate alcune attrici che hanno lavorato con il grande comico napoletano, come Isa Barzizza, Franca Marzi e Cieli Fiamma.
«Il Piccolo di Trieste», 15 dicembre 1973
A dieci anni dalla morte di Totò
Le tre età di Totò
Sono dieci anni che Totò ci ha lasciati, ma non c’è bisogno di riesumarlo: Totò è vivo; vivo perché i suoi film vivono di eterna giovinezza e sono continua» mente riproiettati. Totò. nel corso della sua esistenza. conobbe due momenti magici: negli anni Quaranta sul palcoscenico del teatro di rivista; negli anni Cinquanta sugli schermi.
Ma, all'inizio degli anni Settanta, sembrò che godesse di un terzo momento magico, invero eccezionale, poiché si trattava di un momento magico «post mortem», che contraddiceva tutte le tradizioni del commercio cinematografico. In base al quale gli attori defunti hanno immediatamente una misteriosa caduta di popolarità.
Quello che sei anni fa non avevamo capito, era che non si trattava di un terzo momento magico, di una folata destinata a passare. Sono trascorsi sei anni e i film con Totò tengono tuttora il cartellone. Ci sono imprenditori che hanno impostato la loro vita su di essi: distributori che si limitano a noleggiare vecchi film di Totò: esercenti che si imitano a proiettarli. Il «Mignon» di Roma è andato avanti in questo modo per anni, tanto vero che sarebbe stato giusto cambiargli il nome e chiamarlo il «Totò».
Solo da un po’ di tempo, infatti, ha smesso, ma rimanendo sempre nel circondario; proiettando cioè film italiani degli anni Cinquanta e Sessanta. Interpretati da altri comici. Tuttavia si tratta di breve licenze, dopodiché torna a Totò, come succede in questi giorni.
Cosi Totò è divenuto un caso anche per la crìtica. Diciamo pure che l’ha messa in crisi. Ricordo che nel 71, quando la stella dell'attore tornò allo zenith, andai a rivedere una di questi pellicole. Si trattava di «Totò al Giro d'Italia», diretto da Mario Mattoli, in cui egli era attorniato dai più famosi ciclisti del 1949: Bartali, Coppi e poi Magni, Kubler, Bobet, Cottur e altri. Oltre al divi del pedale vi apparivano: Isa Barzizza, la maggior soubrette dell'epoca: un Walter Chiari ancora alle prime armi: alcuni esperti attori di teatro, quali Carlo Ninchi, Carlo Mlcheluzzi e Giuditta Rissone.
La genesi di questo film era chiara. Era il momento in cui le vittorie dei nostri assi del ciclismo riuscivano ad allentare le tensioni politiche: Bartali al Giro di Francia gettava acqua sul fuoco appiccato dall'attentato a Togliatti. Magari non era vero, ma si diceva che così fosse ed era questo che contava. Si era cercato, quindi, con un'operazione abituale nel cinema, di sommare due popolarità — quella di Totò e quella dei pedalatori — per ottenere il massimo successo con la minima spesa economica e, possibilmente, anche intellettuale.
Mi domandai perché quella farsa sbeffegglata dal critici, nel '71 venisse ripresentata in una sala d'essai. Credetti di ravvisarne i motivi nella componente assurda, delirante del soggetto (si era ricorsi addirittura al «Faust» di Goethe) e nella stessa rozzezza della fattura, nel suo disprezzo per la grammatica e la sintassi del cinema «professionale», che lo rendeva paradossalmente molto moderno. Scrissi allora testualmente: «Senza offesa per nessuno, a una visione superficiale Mattoli potrebbe apparire un Godard ultima maniera: quello di "Vento dell'Est", per intenderci, dove si diffida dell'immagine e, tanto, la si combatte con tutti i mezzi (Solo che Mattoli non diffida dell'immagine, né la combatte: piuttosto la ignora. Inutile perciò sperare di vedere Totò battere Coppi e Bartall: si dice che li ha battuti e basta: si sentono i due ciclisti ripetere, come uno slogan: "Come si fa? E' troppo bravo: vince sempre!”)».
Oggi andrei più in là e mi schiererei decisamente dalla parte di Mattoli, «rivelato» da Totò. Cosi come del Carmine Gallone dei «Due orfanelli» e dello splendido Carlo Ludovico Bragaglia di «Totò-le-Mokò», tanto superiore alla sua fonte d'ispirazione, il «Pepè-le-Mokò» di Duvivier, cosi come Totò è più bravo di Jean Gabin. Vorrei però approfittare dell'occasione per lanciare un appello. C’è un capolavoro con Totò, mai rivisto, perché non si ritrova il negativo, dicono. Si chiama «Totò e i re di Roma», è diretto da Steno e Monicelli, sceneggiato da Dino Risi e Ennio De Concini sulla traccia di due novelle di Cechov: «La morte dell’impiegato» e «Esami di promozione».
Un Totò molto travet che, quando muore, non avendo soldi per il funerale, si mette un fazzoletto in testa e s'incammina verso il cimitero a piedi, attorniato dai quattro figli, ciascuno con un cero in mano. Stupendo! Chi ne sa qualcosa: chi possiede una copia positiva del film, si faccia vivo: nell'interesse suo e del cinema.
Callisto Cosulich, «Paese Sera», 17 aprile 1977
A Rivoli una rassegna di film del grande comico
I segreti di Totò
Peppino Armentano, callista, decide di cambiar casa e finisce in un ex bordello tra le risate dei vicini; un domestico sgomina una gran quantità di agenti segreti per mettersi in contatto con lo sceicco El Buzur; un ladruncolo ruba una valigia alla stazione e vi trova dentro un cadavere; un reduce dalla Russia dato per disperso ritorna e trova il letto matrimoniale occupato ma si l'assegna a trasformarlo a tre piazze. Le avventure di Totò riproposte in una breve retrospettiva di quattro film al cinema Rivoli offrono da alcuni giorni ai giovani «e a chi giovane non lo e più» l'occasione di scoprire (o di ritrovare) il nocciolo della comicità di quest’attore morto dieci anni fa dopo avere interpretato la bellezza di centoventiquattro pellicole.
Oltre ad «Arrangiatevi» (1959) di Mauro Bolognini che ha aperto la rassegna, sono in programma nell’ordine «Totò d’Arabia» (1965) di Antonio Della Lama, «Che fine ha fatto Totò Baby?» (1965) di Ottavio Alessi, «Letto a tre piazze» (1960) di Steno. Il prezzo di 1500 lire fa pensare, come si accennato prima, che l’iniziativa sia rivolta in particolar modo ai giovani, oggi molto attratti dall’ormai mitico attore dopo che i critici hanno aggiustato il tiro sulla sua importanza «politica» finora sottovalutata o apertamente negata.
Goffredo Fofi, uno dei maggiori esperti italiani di Totò, ha spiegato che i film del principe De Curtis erano «anarcoidi» dal momento che egli si permetteva di scherzare su tutto, dal bambini ai soldati, dalle mamme ai morti. Secondo Fofì, autore di un libro dedicato al comico, quella di Totò è una riscoperta che nasce da ragioni sociologiche, politiche ma anche artistiche. «I Totò di oggi ha scritto — anziché ridere fanno piangere. Gassman è sempre il solito piccolo borghese aggressivo e reazionario. Manfredi l’esaltatore di un passato agreste e bucolico con velleità bergmaniane. Sordi l’identikit della piccola borghesia romana. Villaggio e Pozzetto lo squallore televisivo.
R. S., «Corriere della Sera», 9 maggio 1977
Tutto un paese riscopre Totò
A Mirano un ciclo di film dedicato al grande comico. Sessanta proiezioni in scuole, case di riposo, cinema pubblici e ville comunali - Dibattito finale alla Barchessa con Cesare Zavattini e Goffredo Fofi.
Era partito in sordina, quasi con timidezza. Si è concluso invece con un grande successo di pubblico. Parliamo del ciclo di film dedicati a Totò (« Il linguaggio di un comico »), organizzato dal Centro di iniziativa culturale del Comune di Mirano, che è riuscito a convincere ben cinquemila dei venticinquemila abitanti del paese, con diciassette film (da San Giovanni Decollato, del 1940 a Uccellacci e uccellini, del 1966) e sessanta proiezioni, nel giro di soli otto giorni, in scuole, case di riposo per anziani, cinema pubblici e villa comunale.
Due anni di esperienze
Non è dunque esagerato dire, come ha fatto l'organizzatore dell'iniziativa (Mario Esposito, 29 anni, animatore culturale del comune miranese di nascita ma napoletano di origine, ha dato vita ad una serie di iniziative, negli ultimi due anni, che vanno dai concerti della Fenice alle sperimentazioni teatrali, al recupero della cultura del territorio) che in questi giorni, si è parlato di Totò in tutti gli ambienti di Mirano. [...] Presenti, oltre ai professori Brunetta e Tinazzi, docenti di Storia del cinema nelle Università di Padova e Venezia, e al sindaco di Mirano, Gian Carlo Tintolo, anche Cesare Zavattini e Goffredo Fofi: scopritore, il primo, della vena surrealistica di Totò e sceneggiatore di alcuni suoi film: autore, il secondo, di due monografie critiche dedicate allo straordinario attore. E' stata una sorta di incontro fra padri e figli: un vecchio profeta e un giovane intellettuale riuniti a dibattere Totò, che è poi come dire l'anima di una città e di un mondo, Napoli. Da un tato l'emiliano Zavattini (ma « gli emiliani e i veneziani hanno molto in comune con i napoletani », ha tenuto a precisare), interprete appassionato dell’anima di Totò, ricco di aneddoti sull'uomo e sull'attore (il suo rapporto vitale col pubblico, la sua insofferenza per i copioni rigidi, la sua vocazione di attore teatrale più che cinematografico, le sue doti di marionetta snodabile alta Guatavo De Marco): dall'altro lato Goffredo Fofi, lucido selezionatore delle componenti storielle, culturali e sociologiche dell’attore, dei suoi legami non solo col « varietà », ma anche con le tradizioni della farsa contadina, della maschera di Pulcinella, del teatro napoletano del '600 e '700.
Totò, insomma, come incarnazione di una forza primitiva e aggressiva, in lotta costante per la sopravvivenza. Totò come buffa marionetta azionata dalle molle potenti di fondamentali bisogni (la fame e il sesso), in sintonia con i problemi del proletariato del suo tempo, dell'epoca, cioè, dell’ideologia cattolica di Pio XII, della censura e delle repressioni di questi stessi bisogni. Tempi bui, dunque, ma illuminati dal riso irriverente di Totò verso le istituzioni, i commendatori gli onorevoli, i preti e i militari. Un riso — è stato detto — di cui il potere ha bisogno come di una valvola di sfogo di tensioni represse e che tollera sotto la forma di comicità; ma il riso del pubblico nei film di Totò si scatena — e qui sta l’altra faccia della medaglia — non nelle realtà classiche del comico, ma nei riferimenti concreti alla realtà politica e sociale contemporanea. E' dunque è un riso che morde e che è meno facilmente controllabile. Non è un caso che Totò sia ancora popolare presso il pubblico giovane. L’arte di « arrangiarsi » incarnata da Totò è tornata di moda, rivitalizzata dalla crisi e dalla disoccupazione.
Risposte a un questionario
Che Totò sia ancora attuale lo hanno dimostrato a Mirano non solo la appassionata partecipazione dei giovani a quest'iniziativa, già di per sé eloquente, ma anche le risposte ad un questionario che il Centro culturale ha distribuito in paese. Lo scopo era quello di verificare l'atteggiamento dei giovani e giovanissimi verso il grande comico. Ne è emerso che i film di Totò divertono soprattutto quando affrontano problemi drammaticamente attuali della nostra realtà contemporanea (è piaciuto, in particolare, Totò cerca casa). In sostanza, Totò « funziona » ancora, perchè molti dei problemi di ieri attorno ai quali si scatenava la comicità dell'attore, sono ancora quelli di oggi.
Toni Sirena, «L'Unità», 11 febbraio 1978
Alle sorgenti di Totò
Nei primissimi anni '30 in piena febbre di cinematografo, Arturo Lanocita, l’aristocratico «re» censore del «Corriere della Sera» in una delle sue freddure sulla comicità popolare arrivò a definire Totò «il complesso freudiano del cinema farsesco italiano». Partendo da questo paradosso, si può dire che gli organizzatori fiorentini della rassegna dedicata al cinema di Totò delle origini ('37-43') abbiano inteso risalire filologicamente proprio alle prime turbe che hanno generato quel complesso, nel momento del sottile, ma anche traumatico passaggio del comico napoletano dalla padronanza dei palcoscenici dell'avanspettacolo all’articolazione delle prime marionette cinematografiche.
Totò, il burattino di gomma, la maschera, l'uomo farsa, il principe di Bisanzio e della risata, è stato per anni voltato e rivoltato, non esiste circolo o comune che non abbia fatto almeno una decina di rassegne dei suoi 97 film, non c'è critico o sociologo che non abbia scritto qualche riga sul fenomeno, perchè allora per l’ennesima volta si riparla di Totò?
Lo spunto è venuto all'Istituto Gramsci, sezione toscana dopo uno scambio d'idee con il consorzio toscano cinematografico e il sindacato critici cinematografici: c'era l'esigenza di allargare l'intervento di politica culturale verso il campo dello spettacolo e conservare al tempo stesso la fisionomia di ricerca che caratterizza l’istituto: quale occasione migliore di Totò, divulgatissimo, colto nel suo esordio cinematografico all'interno del cinema del regime, ma con l'ipotesi tutta da verificare dei rapporti o contrasti di quel tipo di comicità farsesca e surreale con i blandi canon, dell'estetica fascista.
Ha favorito l'iniziativa il prezioso, casuale ritrovamento del rarissimo «Animali pazzi» ripescato nei fondi inesauribili di Napoli, ormai santuario consacrato di Totò. Nella settimana dall’8 al 13 maggio sarà cosi possibile vedere nella saletta di Spaziouno, in successione: «Fermo con le mani» di Gero Zambuto (1937) su soggetto e sceneggiatore di Guglielmo Giannini, il famigerato «Uomo qualunque» del dopoguerra; «Animali pazzi» di Carlo Ludovico Bragaglia (1939) da un soggetto originale dell'umorista Achille Campanile; «S. Giovanni decollato» di Amleto Palermi (1940) tratto dalla commedia di Martoglio, da Zavattini sceneggiatore, pezzo forte di Angelo Musco: «L'allegro fantasma» sempre diretto da Palermi (1941) e «Due cuori tra le belve» ribattezzato poi «Totò nella fossa dei leoni» di Giorgio Simonelli (1943), sceneggiato anche da Steno che sarà uno dei «registi» di Totò; la settimana si chiuderà con la girandolo finale di tutti i film insieme a cui seguirà una tavola rotonda di riflessione critica con la partecipazione di Fofi, Baldelli, Monicelli, Zavattini.
L’occasione è preziosa quindi per riesaminare le matrici di quel fenomeno cinematografico Totò che ancora sembra proseguire e coinvolgere gli spettatori e i critici. Passando al cinema quasi per caso, dopo gli strepitosi successi del teatro e della rivista, Totò stesso aveva coscienza sia della difficoltà interpretativa per l'attore senza la presenza e il sostegno del pubblico, sia della necessità di adeguare il suo corpo, la sua mimica ad un linguaggio cinematografico, accentuando la carica biomeccanica dei suoi personaggi e delle sue macchiette.
In un'intervista del '40 Totò affermava: «E' su questa deformazione della realtà quotidiana che io devo puntare e soltanto in questo modo, credo, potrò arrivare ad avere veramente una personalità cinematografica». E già in questi suoi primi film, pesantemente giudicati dalla critica del tempo, l'attore riesce ad attenuare certe rigidità teatrali per sprigionare una dinamica di movimenti e gags travolgenti, dall'andamento talora keatoniano (evidente l'ispirazione di Buster Kealon, per esempio, nelle situazioni assurde e surreali in cui Totò, ostinato cavaliere incollato, materialmente alla sella, tra varie giravolte, riesce a salvare l'eroina dal precipizio); il grande Totò è già in potenza in queste prime apparizioni, di una comicità paradossale che sfida le leggi dell'equilibrio e del reale, fino agii spassosi sdoppiamenti («Animali pazzi») o addirittura ai tre Totò dell'«Allegro fantasma» e si nutre di una lingua scoppiettante, inventiva, ricca di trovate e neologismi distruttivi.
E' forse in questa incontrollabile forza antinaturalistica, di sberleffo permanente a personaggi, classi e istituzioni. che andrà verificata l'originalità dei cinema di Totò durante il regime. Cinema e comicità diversa quella di Totò perché diversa era la sua ispirazione, diversa e sottoproletaria la sua formazione umana e culturale. Totò, ii Pulcinella del rione Sanità, non poteva essere la perla di un regime che doveva aver eliminato tutte le contraddizioni sociali.
«Io so a memoria la miseria e la miseria è il copione della vera comicità».
Giovanni M. Rossi, «L'Unità», 9 maggio 1978
Una rassegna di film a Jesolo
E' l'estate di Totò
VENEZIA
Con Totò nella fossa dei leoni (1943) regia di G. Simonelli, si è aperta a Jesolo la rassegna, dedicata al grande comico italiano, Totò a Jesolo - Film editi ed inediti Parodia, satira e commedia dagli Anni Trenta agli Anni Sessanta. E' una delle iniziative culturali organizzate quest'anno dal comune di Jesolo, in collaborazione con l'Azienda autonoma di soggiorno e turismo. La rassegna presenta non poche ragioni di interesse. A parte la possibilità di ripercorrere le tappe più salienti della carriera cinematografica di Totò, essa offre l'opportunità di vedere alcuni fra i più rari film del comico.
Basti citare alcuni fra i titoli più prestigiosi, come Animali pazzi, il secondo film interpretato da Totò nel 1939, oppure L'uomo, la bestia e la virtù (1953), la cui circolazione fu interdetta ancora prima della sua immissione nel circuito di distribuzione. La rassegna prosegue durante tutto il mese di luglio e di agosto con tre proiezioni settimanali presso il cinema Aurora di Jesolo paese. I film in rassegna sono: Totò nella fossa dei leoni, San Giovanni decollato, Totò all'inferno, Fifa e arena, Totò al giro d'Italia, Totò le Mokò, Totò Tarzan, Totò sceicco, Animali pazzi, 47 morto che parla, Totò cerca moglie, L'uomo, la bestia e la virtù, Totò cerca casa, Il coraggio, Miseria e nobiltà, Signori si nasce, Totò nella luna, La banda degli onesti.
«La Stampa», 20 luglio 1978
Da venerdi 8 pellicole dell'attore scomparso
Macario-Totò, un incontro sul video
Macario, 77, e non li dimostra. «Sono qua» dice, e il suo «sono qua», detto naturalmente in dialetto piemontese, significa che è sempre sulla breccia, che è pronto, che è disponibile, che ha voglia di fare. Nel teatro di via Santa Teresa è in corso la sua nuova rivista Oplà, giochiamo insieme, e da domani, per cinque settimane, è in televisione tutti i giorni, salvo il sabato e la domenica, sulla rete 2, verso le 19, in Buona sera con... [...] Questa sul video dovrebbe essere una settimana meno tragica delle solite. Qualche risata dovrebbe insinuarsi tra cattive notizie, severi dibattiti, pellicole drammatiche e sceneggiati funebri. C'è Macario, e venerdi sera sulla rete 1 parte un ciclo di film di Totò. Non è il primo ciclo di Totò (anzi, ce ne sono stati diversi) e non sarà l'ultimo, ma la miniera cui attingere è enorme: il comico napoletano ha girato più di cento film e di questi solo circa un terzo sono passati sul teleschermo. Stavolta vedremo: Animali pazzi (1939) di Carlo Ludovico Bragaglia, un'autentica rarità per gli stessi addetti ai lavori perché è il secondo film di Totò, e da moltissimi anni non è più in circolazione; Il ratto delle sabine (1945) di Bonnard, L'imperatore di Capri (1949) di Comencini, Un turco napoletano (1953) di Mattoli, Il coraggio (1955) di Paolella, Totò, Peppino e i fuorilegge di Mastrocinque, Signori si nasce (1960) di Mattoli, Totò truffa (1961) ancora di Mastrocinque.
E' un bel ciclo? Si può rispondere che è un ciclo di Totò, ossia che è composto di pellicole tagliate su misura e confezionate appositamente (e di fretta) per lui. Seguita a circolare una vecchia, falsa storiella secondo cui in vita Totò sarebbe stato snobbato, addirittura disprezzato dai critici i quali poi, versando lacrime di coccodrillo, l'avrebbero rivalutato dopo la morte anche su un piano culturale. Non è vero. Allora tutti i critici seri riconoscevano le sue straordinarie doti, ma deprecavano che venissero troppo spesso —per la frenesia di uno sfruttamento cui Totò aderiva di buon grado — sciupate o utilizzate per una minima parte in film mediocri o scadenti. Occorre mettersi li con pazienza, sopportare sequenze deboli e insulse, e aspettare la sequenza dove copione e regia smettono di dormire e danno finalmente la possibilità a Totò di tirar fuori la grandissima carica di un umorismo surreale e irripetibile.
Ugo Buzzolan, «La Stampa», 7 ottobre 1979
Totò animale pazzo
Da questa sera, una poco esauriente rassegna di film sulla Rete uno (ore 21,30)
Animali pazzi (1939) è davvero un classico. Il film ideato dal grande umorista Achille Campanile e realizzato dal ben più che artigiano regista Carlo Ludovico Bragaglia inaugura assai degnamente stasera (Rete uno, ore 21,30) un ciclo di film consacrato a Totò. Peccato che altrettanto elogio non possa attribuirsi alla rassegna nel suo complesso, otto film in tutto; Il ratto delle sabine (1945) di Mario Bonnard, con Clelia Matanla e Carlo Campanini, L’Imperatore di Capri (1949) di Luigi Comencini, con Yvonne Sanson e Marisa Merlini, Un turco napoletano (1953), di Mario Mattioli, con Isa Barsizza, Il coraggio (1955) di Domenico Paolella, con Gino Cervi e Gianna Maria Canale, Totò, Peppino e i fuorilegge (1956) di Camillo Masfrocinque, con Peppino De Filippo e Franco Interlenghi, Signori si nasce (1960) di Mario Mattoli, con Peppino De Filippo e Delia Scala, Totò-truffa '62 (1961) di Camillo Mastrocinque, con Nino Taranto.
Ma torniamo ad Animali pazzi. Sentite come ne descrive l'intreccio Achille Campanile: «E' la storia di un cavallo che impazzisce, ragion per cui bisogna ricoverarlo in un manicomio veterinario, dove naturalmente ne succedono di tutti i colori». Potrete facilmente immaginare, dunque, che razza di piroette è capace di fare Totò su un simile trampolino surrealista». Anche se, ricorda Campanile, «quei disgraziati di produttori non avevano una lira, e dovettero girare quasi tutto il film allo zoo, state certi che Totò vi si rivelerà grande animale da cinema». Un cinema non «subito con rassegnazione» come Totò usava dire per fronteggiare certo pubblico ludibrio. Un cinema prima sospirato, poi espugnato, infine assolutamente padroneggiato.
Totò veniva da lontano (c'erano una volta quei palcoscenici fetenti, dove tiravano i sorci morti e gli ortaggi, e solo in un secondo tempo vennero le gloriose ribatte che furono di Petrolini) ma questo lo sanno tutti. E’ meno risaputo, invece, il fatto che Totò, sotto sotto, ambisse a collezionare tanti «copioni di merda», pietra dello scandalo squittito dalla critica tutta, lungo l'incalzante, inarrestabile carriera cinematografica del nostro più delirante comico plebeo. D'altra parte, anche Totò, come i critici ottusi che lo bocciarono, aveva il complesso del plebeo. Però, almeno lui ne fece il sogno romantico della sua vita, spesa a rincorrere un effimero titolo nobiliare, alla stregua di un suo primissimo film, I due orfanelli di Mattoli, satira bella e buona delle Due orfanelle di Griffith. Faceva sul serio o scherzava, quando si proclamava Principe di Bisanzio? Non lo sapremo mai. Il segreto se lo è portato nella tomba, da quel campione dell'ambiguità che era.
Ricordiamoci, quindi, che Totò scelse sempre. O quasi. Certo, la sua scelta fu assai più ragionata di coloro che oggi pii rendono omaggio in TV. Prendiamo, per esempio, i famigerati film di serie B. Allora, torniamo indietro, e pensiamo che Totò seppe prendere di peso gli spettatori del varietà (aristocratici decaduti, erotomani d'accatto, gaudenti di provincia, tutti incalliti) e portarli al cinema. Fu un miracolo tecnologico. Ma affinché si verificasse questo prodigio, Totò doveva continuare a dialogare a ruota libera con il suo pubblico, senza disdegnare la volgarità e il qualunquismo. Volgarità e qualunquismo che furono certamente le indelebili cifre culturali di italietta prima fascista, poi democristiana. «Anche se dichiarava di essere qualunquista, Totò quando entrava in scena era un comico rivoluzionario per eccellenza», dice appunto di lui Roberto Benigni, il più divertente entertainer italiano degli anni 70.
Quelle scalcinate sceneggiature, per Totò significavano carta branca. Proprio in questi frangenti nudi e crudi, tra il lusco e il brusco, egli seppe far emergere i suoi traiti di assoluta distinzione, come la capacità di improvvisare, cioè di associare, quindi di inventare. E se abbiamo più volte gridato al surrealismo, rapiti dall’estasi della riscoperta di Totò in questo decennio iconoclasta, lo dobbiamo proprio a quel cimenti solo apparentemente ingrati.
Totò amava la sua arte, e poche altre cose ancora. La poesia, per esempio, che fu certamente il movente della sua unica, splendida collaborazione con un intellettuale autentico, Pier Paolo Pasolini, in Uccellacci e uccellini. Oppure la cultura napoletana, ma non quella ormai soggiogata dalle pretese antropologiche. Totò non aveva bisogna di grilli parlanti. Nelle commedie di Scarpetta (Miseria e nobiltà, Il medico dei pazzi, Un turco napoletano) allestite cinematograficamente da un regista dell'avanspettacolo, Mario Mattoli, non v'era traccia di indagine sociale, di eroi positivi. Perché c'era molto di più. C’era Napoli al centro di Napoli, e non nella periferia dell'Africa nera.
Di Totò, dunque, in questo ciclo televisivo, resta poco e niente. Una commedia di Scarpetta (Un turco napoletano), qualche intuizione surrealistica d’autore (Campanile per Animali pazzi, Comencinl per L’imperatore di Capri), e uno di quei sorprendenti «filmacci» (Totòtruffa '62) cui si accennava. Il resto è varietà di riporto, con qualche ingenuità sub hollywoodiana (Signori si nasce), oppure si tratta dì storielle edificanti (Il coraggio) che rappresentano davvero l' «anima nera» di Totò, e sono le sole parti morte della sua mirabolante filmografia.
David Grieco, «L'Unità», 12 ottobre 1979
Da venerdì 12 ottobre sulla Rete 1
Il ritorno di Totò alla TV
E' tornato in televisione sulla Rete 1, a partire da venerdì 12 ottobre, l'arte comica di quel grande maestro della risata che fu il principe Antonio De Curtis, per il pubblico Totò. Le otto pellicole che compongono il ciclo coprono un arco di tempo molto ampio, a partire da «Animali pazzi» del 1939 per finire con «Totò truffa ‘62 » del 1961, e permettono quindi di compiere una specie di panoramica totale sull’attività cinematografica della celeberrima maschera napoletana.
Totò era nato nel 1898 a Napoli; l'infanzia tra i vicoli del rione Sanità, un'esperienza ginnasiale tanto breve quanto poco esaltante, l'arruolamento volontario in Fanteria, sono gli episodi salienti della prima giovinezza di Antonio De Curtis. Poi l'incontro con il teatro, gli esordi al Salone Elena, in piazza Risorgimento a Roma (paga: due soldi al giorno), i primi passi nel mondo dello spettacolo e del successo, da cui Totò verrà allontanato solo dalla morte, sopravvenuta nel 1967.
Il teatro di varietà, la rivista, il cinema e la televisione hanno consegnato per sempre alla storia dello spettacolo e a quella del costume il patrimonio grandissimo di invenzioni e trovate satiriche che Totò, come un prestigiatore, estraeva continuamente dal cilindro magico della sua fantasia. Insieme a Petrolini certamente egli costituisce il vertice della comicità italiana, che nel napoletano nasceva dalla accorta fusione di improvvisazione ed osservazione, di spontaneità e tradizione. Una battuta poteva nascere in lui sia dal caso (la gaffe sua o di un altro attore, un movimento incontrollato) che dall'analisi istintiva ma acuta di tic linguistici o comportamentali (le frasi che rese immortali, come «a prescindere» o «siamo uomini o caporali?»), in tutto avendo sempre presente non solo i grandi predecessori, quali Petrolini o Gustavo Di Marco, artisti individuali, ma anche le voci «collettive» di Anselmo Tartaglia, animatore sommo della commedia dell'arte, Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo.
Certamente in Totò primeggiò sempre la maschera rispetto al personaggio che l'attore veniva di volta in volta interpretando: ma di che maschera grottesca e potente, graffiante ed accattivante si trattava? Il suo volto conteneva (come quello di Buster Keaton o di Stanlio) tutti gli elementi necessari perché irregolarità e piccole deformazioni somatiche diventassero docili strumenti a disposizione di una fantasia scatenata. Il tutto enfatizzato da un fisico disarticolato che faceva di Totò il re dei marionettisti più pazzi.
Certo non tutte le pellicole che il «Picasso della risata » (così lo definì il critico Sandro De Feo) interpretò possono essere definite valide; ma non bisogna però neppure dimenticare il proficuo lavoro svolto con regista di taglia, quali Monicelli, Rossellini, De Sica o Pasolini. Vorremmo concludere queste note con le testimonianze di due registi che ebbero con Totò rapporti di lavoro.
De Sica dichiarò che «Totò era veramente un grande clown, nel senso più nobile della parola. Certe sue folli improvvisazioni erano geniali ed insostituibili. Clown come lui ne nasce uno ogni cento anni».
Divertente l'aneddoto di Sergio Corbucci: «Una delle caratteristiche dei films che ho fatto con Totò e Peppino De Filippo era la difficoltà della prova. Durante la prova la scena diventava sempre penosa e per il regista tristissima. Uno si sentiva come un deficiente e si diceva: questi non faranno ridere nessuno... Poi, quando girammo sul serio, ricordo che si trattò di una scena spaventosa; spaventosa perché vedevo l’operatore sussultare dalle risa dietro la macchina, vedevo gli elettricisti, gli operai e i macchinisti sghignazzare sulle attrezzature. Era comicità allo stato puro».
Scaglione Fulvio, «La Gazzetta d'Alba», 17 ottobre 1979
Sfortunato Totò un po' patetico
Il ratto delle Sabine (1945), che va in onda stasera (Rete uno, ore 21.30), è il secondo film del ciclo dedicato a Totò. Diretto da un estroso artigiano della comicità, Mario Bonnard, e sceneggiato da un non altrettanto fantasioso autore di rivista, Mario Amendola, il film riporta Totò, ai suoi albori cinematografici, sul palcoscenico dell’avanspettacolo Ma nella buia provincia ove la storiella è ambientata, non si rappresentano allegre commediole con procaci donnine. Il ratto delle Sabine, che dà titolo al film, è un tremendo melodramma, concepito da un disgraziato drammaturgo che vuol risollevare le sorti della sua scalcinata compagnia.
Il ratto delle Sabine, con le sue piccole pretese, fu tutto sommato un copione troppo ferreo per lo scalpitante Totò, messo qui a dura prova. Del resto, il film — interpretato, inoltre, da Clelia Matania, Carlo Campanini, Aldo Silvani, Mario Pisu — non ottenne il successo sperato. Tuttavia, questo apologo straccione di guitti affamati, a quanto risulta, ispirò successivamente Lattuada e Fellini al momento di realizzare Luci del varietà. Certo. «Fellini è un’altra cosa», ma perché negare un qualche merito a questo disgraziato Ratto delle Sabine?
«L'Unità», 19 ottobre 1979
L'imperatore del kitsch
Terzo appuntamento televisivo, stasera alle 21.30 sulla Rete uno, con Totò. Il film in programma è uno del più decenti della serie. L'Imperatore di Capri (1949), sceneggiato da Metz e Marchesi e diretto da Luigi Comencini.
Proprio Comencini fu il primo regista italiano di un certo livello a voler cimentarsi con Totò. Fu cosi che Metz e Marchesi confezionarono su misura per il grande comico napoletano un abito narrativo che gli stava a pennello: Totò è un cameriere d'albergo ma viene scambiato per un principe orientale (avete presente Antonio De Curtis, principe di Bisanzio?) da una procace avventuriera, e di qui si snodano i più classici equivoci da pochade in chiave partenopea, secondo un copione alla Scarpetta. Inoltre, Metz, Marchesi e Comencini hanno escogitato un’altra trovata piuttosto sensata, destinata ad avere un seguito in molti dei successivi film di Totò. Accanto all'attore troviamo per la prima volta sullo schermo, tutto il «bestiario» dell'avanspettacolo, con le tradizionali «spalle» di Toto già collaudate sul palcoscenici del varietà, da Mario Castellani a Galeazzo Benti, che diverranno inseparabili dunque anche al cinema.
Ma è la principale interprete femminile dell'Imperatore di Capri che desta più scalpore. Trattasi dell'attrice turca Yvonne Sanson, qui riproposta in tutta la sua paradossale volgarità, lontano dai melodrammi strappacore di Matarazzo con Amedeo Nazzari. E’ appunto la Sanson che conferisce al film di Comencini l’ambita patente di spettacolo consapevolmente kitsch, e ogni effetto esilarante, si può star certi, va a segno ben oltre le apparenze. Che dire di più? Forse si può aggiungere che L'Imperatore di Capri è senz’altro uno dei film di Totò destinati a durare negli occhi degli spettatori ancora per un pezzo, mentre non si può ritenere altrettanto degli altri titoli usciti in quello stesso periodo.
Il nostro comico spontaneamente surrealista è, infatti, già legato ad una triste realtà di mercato. Per «sfruttare il momento», agli albori degli anni '50 Totò lavora come in una catena di montaggio, a scapito non certo di se stesso, ma della generica qualità dei prodotti. Chissà, magari pensava già di avere soltanto un paio d’anni di successo sul suo cammino.
d.g., «L'Unità», 26 ottobre 1979
Un turco napoletano di nome Totò
Tratto dalla omonima commedia di Eduardo Scarpetta, Un turco napoletano è il quarto degli «Ottototò» che va in onda stasera alle 21,30 sulla Rete uno. Si tratta di un titolo che fa parte di una trilogia di Scarpetta (gli altri due film sono Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi) portata sullo schermo dal grande comico in stretta collaborazione con il regista di varietà Mario Mattoli, particolarmente a suo agio in questo genere di operazioni.
Nel panni di Don Felice Sciosciammocca (personaggio chiave della cultura napoletana, tante volte incarnato anche da Eduardo De Filippo a teatro), Totò sguazzava davvero in queste pochade partenopee. Di suo, ci metteva sempre il solito guizzo surreale, senza però strafare come In tante altre occasioni, poiché sapeva che i testi di Scarpetta non meritavano certo di essere strapazzati come l copioni del film di serie B.
L'equivoco che sta alla base di tutte le commedie di Scarpetta, qui lo troviamo fin dal tìtolo. Un turco napoletano, appunto, è un farsesco stratagemma che viene in mente a Sciosciammocca, appena uscito di golena, per procurarsi un lavoro. Farà il «maestro di casa» da Don Pasquale, un riccone che ha bisogno di un eunuco. Circondato dalle grazie femminili (la padrona, la figlia, la serva). Totò -Felice rischia di impazzire nel mettere a freno l’integra esuberanza, ma fa Impazzire di divertimento pure la platea. Ogni battuta ne nasconde un'altra, ma non siamo fra triviali doppi sensi: Totò e Mattoli si stanno cimentando con il più bell'avanspettacolo della loro lunghissima carriera.
«L'Unità», 9 novembre 1979
Ci vuole coraggio a non buttarsi dal fiume
Venerdì sera consacrato a Totò. Il film di stasera sulla Rete uno è Il coraggio, del 1955, tratto da un testo teatrale dì Augusto Novelli, diretto da Domenico Paolella, e con un cast che comprende, tra gli altri, oltre il grande comico, anche Gino Cervi, Irene Galtier, Gianna Maria Canale, Leopoldo Trieste.
Di che cosa si tratta? Un industriale, certo Paoloni, per stare in pace con gli uomini e con Dio, si prodiga per salvare coloro che hanno deciso di mettere fine alla propria esistenza. Salva un suicida oggi, salva un suicida domani. Paoloni si imbatte, un giorno, in un candidato all'obitorio diverso da tutti gli altri. E' Gennaro Vaccariello, bloccato sull'orlo dei precipizio, appena in tempo. Ma Vaccariello è, appunto, un aspirante suicida di tipo speciale. All’industriale rivolge più o meno questo discorso: «Benissimo, ora che m'hai salvato, spetta a te mantenere me e la mia famiglia». Paoloni fa buon viso a cattivo gioco, nonostante che le richieste di Vaccariello diventino sempre più esose.
Nella foto: Gianna Maria Canale e Totò in una inquadratura del film di questa sera.
«L'Unità», 16 novembre 1979
«Corriere Eusebino», 19 novembre 1979
Ratto e baratto per Totò e Peppino
Totò, Peppino e i fuorilegge è il film di questa sera sulla Rete uno. Il sesto della serie dedicata al comico, lungometraggio non certo tra i migliori nella prolifica produzione di questo binomio. Totò e Peppino De Filippo appunto, che pure dette innumerevoli saggi di comicità (come ad esempio. il film della prossima settimana, Signori si nasce).
La storia di questa sera, firmata alla regia da Camillo Mastrocinque, è quella di un marito, angariato dalla moglie avara e tiranna, il quale, pur di spillare quattrini alla consorte, escogita un complicato piano di un finto rapimento. Suo complice è naturalmente Peppino, barbiere di professione, il quale dà una mano nella messa a punto del piano. I due faranno finta appunto, di essere stati sequestrati da un terribile bandito, costringendo in tal modo la donna a cacciare i soldi del riscatto. La moglie però, ad un certo punto scopre ogni cosa; ma questo sarebbe niente... Il guaio è che poco dopo Totò e Peppino vengono rapiti per davvero e la donna, naturalmente, non vuole più pagare. Cosi, i due suderanno le proverbiali sette camicie per tornare liberi. Si fa per dire. Con quella moglie...
«L'Unità», 23 novembre 1979
Una truffa che è un piacere
Finisce in bellezza, stasera alle 21,30 sulla Rete uno, il ciclo di film dedicato a Totò. Il titolo, Totò truffa '62 (regia di Camillo Mastrocinque), dice poco, o addirittura puzza di bruciato. Ma non lasciatevi ingannare. Si tratta, con ottimo margine di probabilità, della migliore commediaccia di serie B interpretata dal grande comico napoletano.
Infatti, Totò truffa ‘62 è tra i pochi film indispensabili in questa rassegna televisiva che si è dimostrata piuttosto precaria. Totò metteva sempre qualcosa di veramente suo anche nei film che meno lo meritavano, però sono state rare le occasioni cinematografiche per un ritratto a tutto tondo di questo straordinario attore. Indubbiamente, Totò truffa '62, nella sua apparente modestia, rappresenta un monumentale omaggio al suo interprete-protagonista-mattatore. Ci sono le più gustose gags riesumate dall'età d'oro dell'avanspettacolo, si rivedono alcuni tipici travestimenti clowneschi del varietà, si affaccia un uso quasi hollywoodiano delle musiche e delle coreografie, e soprattutto c'è Nino Taranto, che è una «spalla» finalmente robusta per Totò.
Ma il bello è che il tutto sta prodigiosamente in piedi. La storia ha un avvio fulmineo, con una trovata quasi geniale: Totò e Taranto, comici spiantati, se ne vanno in giro per Roma con un vespasiano, chiedendo mazzette ai proprietari di ristoranti per andarlo a piazzare altrove. Non è che la prima di una lunga serie di truffe mirabolanti, consumate sotto gli occhi di un commissario ex compagno di scuola di Totò (si tratta di Ernesto Calindri, con la sua faccia migliore), e all'insaputa di una tresca amorosa tra i rispettivi figli, molto sciocchi e perbene, e all’oscuro di tutto.
Ebbene si, bisogna parlare proprio di miracoli, poiché fra i nomi degli autori di Totò truffa '62 figurano inoltre Castellano e Pipolo ormai famosi e logori routinier cinetelevisivi nei panni di sceneggiatori. Da quasi vent'anni, ci si chiede come abbiano fatto a scrivere una cosuccia cosi acconcia e garbata.
«L'Unità», 7 dicembre 1979
Se la truffa la fanno Totò & C...
Saltato all'ultimo momento la settimana scorsa, Totò truffa '62, ultimo film della serie «Otto Totò», viene recuperato questa sera dalla Rete uno (e viene cancellato, di conseguenza, il già programmato film di Nadine Marquand Trintignant, Il ladro di crimini). Totò truffa '62 è soprattutto un omaggio al grande interprete comico. Vi si ritrovano le più gustose gags dell'avanspettacolo, si rivedono alcuni tipici travestimenti clowneschi del varietà, con Nino Taranto che fa da robusta «spalla» a Totò.
La storia ha un avvio fulmineo, con una trovata quasi geniale: Totò e Taranto, comici spiantati, se ne vanno in giro per Roma con un vespasiano. chiedendo mazzette ai proprietari di ristoranti per andarlo a piazzare altrove. Non è che la prima di una lunga serie di truffe mirabolanti, consumate sotto gli occhi di un commissario ex compagno di scuola di Totò (si tratta di Ernesto Calindri, con la sua faccia migliore), e all’insaputa di una tresca amorosa tra i rispettivi figli, molto sciocchi e perbene, e all'oscuro di tutto.
Totò truffa ’62 è tra i pochi film indispensabili in questa rassegna televisiva che si è dimostrata piuttosto precaria. Totò metteva sempre qualcosa di veramente suo anche nei film che meno lo meritavano. però sono state rare le occasioni cinematografiche per un ritratto tutto tondo.
La regia è di Camillo Mastrocinque; oltre a Totò, Taranto e Calindri, gli altri interpreti sono Estella Blain, Carla Macelloni, Lia Zoppelli, Pietro De Vico, Luigi Pavese.
«L'Unità», 14 dicembre 1979
Pagine di periodici risalenti agli anni 70. La riscoperta di Totò e dei suoi film, storia e vita della sua arte.
Il dibattito sulla rivalutazione della grandezza della maschera di Totò proseguì negli anni '80, negli anni '90, fino ad oggi.
A prescindere, viva Totò!
Totò non si dimentica: la sua morte, avvenuta vent'anni fa, ne aveva accresciuto e consolidato la fama, favorendone come spesso accade un recupero intellettuale irrefrenabile. Anche riparatorio. Fino a quando il principe De Curtis fu in vita, i critici lo snobbarono, considerando i suoi film-parodia sempre e soltanto di serie B.
Ora, in questi disincantati Anni 80, ormai passato il tempo del recupero, si può forse cominciare a capire davvero che cosa fu Totò, senza prevenzioni nell'uno e nell'altro senso e senza retorica. Anche se, almeno un poco, perchè fa moda. In quest'epoca di «totoismo», il Charlie Chaplin di via Garibaldi propone tre week-end dedicati al grande comico napoletano.
Si comincia stasera, il 5, con Totò le Mokò (proiezioni alle 18,30 e alle 24); domani Uccellacci e uccellini; venerdì 12 Totò truffa; sabato 13 Miseria e nobiltà; venerdì 19 Signori si nasce. Il 20 giugno, infine, sarà proposta una maratona notturna cinematografica: dalle 24 si potranno vedere Totò al Giro d'Italia, Totò, Peppino e la malafemmina, Totò Diabolicus. La rassegna è organizzata per festeggiare la fine della scuola (lo slogan è «Con Totò anche i bocciati ridono e i promossi piangono... dal ridere») dal Centro di solidarietà Totò in collaborazione con la Lega studenti medi di Torino e l'associazione Amici del Charlie Chaplin. Patrocinio dell'assessorato per la gioventù del Comune.
«La Stampa», 5 giugno 1987
La rivalutazione dei brutti film è snob, dice D'Amico. Replica Monicelli: «Era un genio comunque»
Totò, il clown per tutte le stagioni
SECONDA VISIONE - La rivalutazione dei brutti film è snob, dice D’Amico. Replica Monicelli: «Era un genio comunque». Il regista di «Guardie e ladri» ha un rimpianto: «Non capii la sua vena surreale, il Buster Keaton che era in lui». Enrico Montesano accusa: «Chi parla male del suo cinema dimentica le responsabilità dei produttori, veri palazzinari della pellicola». E Isa Barzizza ricorda: «Per me recitare con lui era come seguire un corso all'Accademia»
Anche per Totò gli esami non sono ancora finiti e non finiranno mai. Accusato e poi esaltato come attore «di culto» (che bei giochi di parole ci avrebbe fatto su questo termine!), snobbato dalle recensioni dei «vice» e poi mitizzato dai titolari, scartato dalla Storia dell'Arte e poi riammesso soprattutto grazie alla riscoperta di Goffredo Fofi e di Franca Faldini, è stato comunque l’«affare»» del cinema italiano dei ’50, quando le sale staccavano ogni anno 8(X) milioni di biglietti (e non 90 scarsi come oggi).
Allora gli spettatori erano freschi del ricordo del favoloso Totò rivistaiolo, quando faceva correre la compagnia in passerella, per i ringraziamenti finali, alla bersagliera e mandava in visibilio le platee con lo sketch del vagone letto. Un classico, che infatti venne inserito in Totò a colori, il primo film italiano a colori uscito nel 1951.
Passarono gli anni e il teatro gli diventò troppo faticoso: ci riprovò nel '56. l'ultima volta, con A prescindere. Poi fu solo cinema. Già, ma proprio sul Totò degli schermi verte la discussione: ieri, su queste pagine, il regista Luigi Fiippo D'Amico scriveva che il principe Antonio De Curtis, supremo comico sulle scene di teatro, fu invece impiegato in film mediocri o addirittura brutti. Che poi sono stati rivalutati come capolavori, a parziale compensazione di antichi torti critici, ma che a giudizio di D’Amico restano solo brutti.
«E' tutto vero — dice Mario Monicelli, uno dei pochi registi che l'ha preso sul serio rendendolo immortale nei Soliti ignoti —. Totò era guardato con sufficienza dai registi di valore e dai critici, ed era quindi costretto a quel cinema di serie B che oggi gli si rimprovera, l'unico che capì tutto in anticipo fu Pasolini, con Uccellacci e uccellini. Pier Paolo aveva intuito le sue qualità e la sua statura di comico astratto. pari a mio parere a quella di Keaton e di Chaplin. Un’eccezione, comunque; i film di Totò, normalmente, erano di seconda scelta, girati in fretta, improvvisati come una commediaccia dell’arte, ma destinati sempre a strepitosi incassi. Ecco, questo dato non va dimenticato: i produttori con Totò andavano sul sicuro».
E lei, invece, come lo usò? «Lo confesso, lo impiegai in un modo molto tradizionale. Rimpiango di non aver intuito il suo lato surreale, che pure egli mi aveva gentilmente indicato. ma senza insistere, com’era nel suo carattere. Certo, in Totò e Carolina e poi nei Soliti ignoti io l’ho inserito in una storia, gli ho creato addosso dei personaggi su misura, che avessero qualcosa da dire e non fossero solo macchiette. Però, ripeto, non credetti alla sua vena di stravaganza».
Totò amato dalle grandi platee, eppure sgradito alla censura del dopoguerra. Cosa ricorda Monicelli? «Due miei film con lui, Guardie e ladri e Totò e Carolina, ebbero un mare di problemi. Nel primo, anno 1951, i signori censori trovarono inammissibile che un ladro e una guardia (Totò e Fabrizi) finissero per allearsi e far comunella nell'Italia poveraccia di allora. Meno male che il premio alla sceneggiatura, al Festival di Cannes, ci diede un aiuto e una garanzia. Nel secondo film (1953), poi, c’era di peggio: Totò, questurino in un paese bigotto, deve rimpatriare una ragazza. Anna Maria Ferrero, scappata di casa e incinta; il parroco se ne lava le mani, gli unici a dargli una mano sono i comunisti. E così scoppiò la bomba: aiuto, sembrava che fossero arrivati i cosacchi in piazza San Pietro. Tagli ai dialoghi, via certe battute, al bando l’Internazionale nella colonna sonora, guai a vedere una bandiera rossa anche nel bianco e nero della pellicola. Fu una vera, forte, organizzata censura politica, manovrata dagli stessi che comandavano sotto il fascismo».
E Totò che diceva di queste censure? «Partecipava solo di riflesso alla cosa, quelli erano soprattutto guai miei e della produzione, anche perché lui era socialmente superiore, era il principe de Curtis, erede degli imperatori di Bisanzio, e gli andavano strette sia la destra sia la sinistra».
Enrico Montesano, l’attore che imita spesso Totò con affettuoso perfezionismo (gli voleva dedicare addirittura un intero musical partendo dalla sua celebre bombetta) dice con rimpianto: «Io purtroppo in teatro non l’ho mai visto, e non ho avuto nemmeno l’occasione di conoscerlo di persona. Però — e parlo al presente storico — per me è uno straordinario attore che conservo nel cuore».
Sì, ma che cosa pensa dei suoi film? «Il problema è che anche nel cinema ci sono i cineasti e i cinematografari, come nell’edilizia ci sono i costruttori e i palazzinari. E Totò ha lavorato purtroppo — salvo poche eccezioni — con i cinematografari, che l’hanno sfruttato fino all’ultimo. Un grande talento consumato biecamente. Tanto sapevano che lui era simpatico. popolare, risolveva ogni situazione e non creava problemi...».
«Io l’ho ammirato in rivista e anche in avanspettacolo — conferma Monicelli — e ho in proposito memorie grandiose. In teatro Totò era diverso, possedeva una violenza comica irresistibile perché la reazione, il respiro del pubblico in platea gli davano la forza. Sullo schermo il discorso era diverso, però per me rimane grande comunque, nonostante l’approssimazione di un certo cinema: doveva forse essere riconosciuto in tempo. non dopo la morte».
Una carriera fra miseria e nobiltà. Sentiamo la testimonianza di Isa Barzizza, la sua soubrette preferita. partner insostituibile di molte riviste, bellissima attrice che fece con lui una decina di film: «Anch’io, quelle pellicole, non le ricordo certo come opere d’arte e credo che molto del cinema che facevamo allora potremmo tranquillamente dimenticarlo, anche se allora ero molto giovane, poco consapevole, interessata ad altro che a fare la storia. Ma di una cosa sono certa: anche a Totò di quei film improvvisati e arrangiati in pochi giorni, senza sceneggiatura, non gli importava proprio niente. Diciamolo chiaro, lui li prendeva sottogamba, erano solo routine; per quelle pellicole lo pagavano anche bene, però lui le considerava robetta. Spesso non conosceva la trama e non sapeva nemmeno come andasse a finire. Per fortuna sapeva improvvisare da maestro e salvava così qualunque situazione. Ma sicuro che fu uno sfruttato! Pochi intuirono il suo genio e lo misero a fuoco, lo lo conobbi proprio nel primo dopoguerra quando ricominciò con I due orfanelli a fare cinema e senza la sicurezza del successo, perché i suoi primi film non erano stati dei successi al botteghino, e infatti si era poi dedicato esclusivamente al teatro».
La Barzizza, figlia d’arte (il padre, Pippo, è il grande musicista), lo raggiunse in punta di piedi in teatro quando lei era agli esordi, bellissima e titubante di fare la passerella magari vestita solo con tre foglioline e qualche paillettes: «Ho recitato con lui e con la sua "spalla" Mario Castellani, per centinaia di sere, il famoso sketch del vagone letto, dove buttava le valigie dalla finestra e farfugliava la gag dell’onorevole Trombetta. Per me è stato come fare l’Accademia, perché quella scenetta, nata così per caso, si allargò a dismisura per le reazioni di un pubblico sempre più esilarato: all'ultima replica era ormai irriconoscibile. E’ vero: in teatro Totò era grande perché recitava senza gli stacchi cui obbliga il cinema, in una sana continuità comica. E poi perché sapeva percepire ogni desiderio del pubblico, anticipava le sue reazioni, ne ascoltava il respiro».
Sì, però, i suoi film? Brutti senza rimedio o no? E la rivalutazione un po’ snob che ne è stata fatta regge ancora? L’ultima risposta a Monicelli: «Il gioco dello snobismo è arrivato tardi. Se qualcuno, nel cinema, se ne fosse accorto prima... Il rischio delle rivalutazioni, comunque, non è l'enfasi con cui si parla ancora oggi di Totò: è che si vadano a pescare nomi e personaggi francamente improponibili...».
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 27 marzo 1994
Alla multisala Ugc l'omaggio è per Totò
Moncalieri
Totò alla Multisala Ugc Ciné Cité (via Postiglione, frazione Vado; ingresso 2 euro), con cinque film e altrettanti appuntamenti da gustare, anche letteralmente. Così “Cineborgate” rende omaggio a Antonio de Curtis, nel quarantesimo anniversario della morte: è infatti dedicato al principe della risata e al suo rapporto con il Piemonte “Totò e i piemontesi”. Perché Totò era napoletano sì, ma non solo recitò più volte a fianco dei torinesi Erminio Macario e Carlo Campanini e dell’astigiano Luigi Pavese, ma teneva anche a dire di essere uomo di mondo per aver fatto il militare a Cuneo. Il tributo al più grande comico italiano è anche l’occasione per rendere omaggio a personaggi piemontesi di spicco e dare risalto all’importanza del Piemonte nella storia del cinema italiano, che ebbe in Torino una delle sue capitali.
I film proposti: martedì 3 luglio “Totò al Giro d’Italia” (la cui vicenda prende il via a Stresa, sulle sponde del lago Maggiore), di Mario Mattoli; martedì 10 “Totò contro Maciste”, di Fernando Cerchio (nativo di Lusema San Giovanni, in provincia di Torino, e recitato tra gli altri da Luigi Pavese); martedì 17 “Totò e Cleopatra”, di Fernando Cerchio; martedì 24 “I due orfanelli”, di Mario Mattoli (con Carlo Campanini a fianco di Totò); martedì 31 “Totò contro i quattro” di Steno (con Macario tra i mattatori).
Precedono le proiezioni, gli appuntamenti di “DegustaCinema”; cinque lezioni-degustazioni di registi torinesi (Davide Ferrario,Dario Migliardi, Franco Diaferia, Daniele Gaglianone e Massimo Scaglione) sui film di Totò in calendario. Le dissertazioni saranno accompagnate da assaggi di prodotti tipici regionali.
«Corriere di Chieri», 17 aprile 2007
Un classico "italiano" per ricordare Totò
Antonio De Curtis, o più semplicemente Totò, nell’arco della sua carriera, ha girato un centinaio di film. Tutti preziosi, sublimi e poetici, tutti quanti, dai suoi capolavori a quelli più imperfetti. Sono il ritratto di un grande artista. Lo specchio della sua umanità. Quest’anno ricorre il 40° dalla sua morte. Un film esemplare, per ricordarlo, è «Totò, Peppino e la malafemmina». La storia, poco più di un pretesto per inanellare una serie di situazioni comiche memorabili: i fratelli Totò e Peppino, che sono piccoli proprietari terrieri, hanno un nipote, Gianni, all’ultimo anno di medicina all’università. Ma il giovane presto si fa distrarre dall’amore per Marisa, un’attrice di varietà. Ai fratelli Caponi, Totò e Peppino, tocca quindi andare a richiamare all’ordine il nipote, riportandolo ai suoi doveri di studente. Gianni è Teddy Reno che, giustamente, viene sfruttato per le sue qualità di cantante, all’epoca, di grande successo: tra le altre, esegue «Malafemmena» e «Chella ‘Uà».
Totò e Peppino confezionano alcuni dei loro «numeri» più celebri. I due, in calesse, cantano: Totò, invariabilmente, frusta il cavallo e colpisce ad un occhio il distratto Peppino. Peppino che, a corto d’argomenti di conversazione, conclude dicendo «...ho detto tutto!», in realtà non avendo detto proprio nulla e non essendo stato affatto capito dagli astanti. I due fratelli sulle tracce di Gianni arrivano a Milano, dove «fa freddo» e c’è la nebbia che «non si vede», arrivano vestiti da cosacchi pur essendo in piena estate. I due che preparano la lettera per questa misteriosa amante del nipote, per dissuaderla («Veniamo noi con questa mia addirvi una parola...»).
È la celebre «scena della lettera». L’affiatamento dei due attori è perfetto, il divertimento è di testa e di cuore, e si rinnova ogni volta che si rivede, da spettatori, la sequenza. Davvero da manuale. La rifaranno poi Benigni e Troisi, anni dopo, in «Non ci resta che piangere». Briosa anche questa, ma i maestri restano insuperati. Totò e Peppino, quindi, alla ricerca di Gianni, si ritrovano in piazza Duomo «per vedere il Colosseo». Ad un «ghisa», che scambiano per un ufficiale asburgico, chiedono in un improbabile gramelot, «Scùsmi, bìttescen, nòio vulevòn savuàr l’indirìss...».
Il ritratto di una Italia semplice e ingenua, questa del film. Una perfetta esemplificazione della coppia comica. Lezioni d’arte interpretativa. Divertimento puro. Cari Totò e Peppino: «salutandovi indistintamente», grazie.
Pietro Caccavo, «La Voce del Popolo», 4 luglio 2007
Mario Monicelli in Piazza Maggiore per «Totò e Carolina»
Il festival «Le parole dello schermo» rende omaggio al grande Totò. A ricordare il principe Antonio De Curtis, a quarant'anni dalla sua scomparsa, attori, critici, registi che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui. Momento clou della giornata, la proiezione di «Totò e Carolina», alle 22 in Piazza Maggiore, presentata da Mario Monicelli. Il film, stravolto dai tagli della censura, sarà proposto nella sua interezza, grazie al recupero compiuto dalla Cineteca, mentre l'attore Carlo Croccolo - sul set con Totò in alcune memorabili interpretazioni - "doppierà" dal vivo le scene ritrovate prive del sonoro. Prima della proiezione, alle 21.45, Franca Faldini - compagna di De Curtis dal 1954 fino alla morte, ora sua biografa - leggerà un testo dello stesso Totò.
E sempre Faldini e Croccolo incontreranno il pubblico nel pomeriggio, alle 17.30 al Cinema Lumière in via Azzo Gardino 65. Insieme a loro, i critici Goffredo Fofi, Tatti Sanguineti, Giuseppe Montesano e Isa Barzizza, entrata nella memoria per il ruolo dell'affascinante ladra di «Totò a colori». In serata, le proiezioni dei film di Monicelli interpretati da Totò: «Totò e i re di Roma» (ore 20, Sala Mastroianni), «I soliti ignoti» (ore 20.30, Sala Scorsese), «Totò e le donne» (ore 22.15, Sala Mastroianni) e «Guardie e ladri» (ore 22.30, Sala Scorsese). L'ingresso è gratuito.
f.c., «L'Unità», 15 luglio 2007
Cinerassegna d’autore “I giovedì del principe”
Sono iniziati il 24 marzo “I giovedì del principe”, la rassegna cinematografica dedicata a Totò promossa dall’assessorato alla cultura del Comune di Gattinara, in collaborazione con l’Avis, l’Istituto alberghiero e il Distretto cinema. Alle 21, nella sala conferenze del “Soldati”, è stato proiettato “Guardie e ladri” (1951), film con Totò, Aldo Fabrizi, Rossana Podestà, Ave Ninchi. La presentazione era affidata a Giampiero Frasca, critico cinematografico e docente di storia del cinema all’università di Torino. Si tratta del primo di quattro appuntamenti che proseguiranno giovedì 31, sempre alle 21 all’Alberghiero, con “I tartassati” (1959), con Totò, Aldo Fabrizi, Louis De Funès; giovedì 7 aprile sarà la volta di “Signori si nasce” (1960), di Mario Mattoli, con Totò, Peppino De Filippo, Delia Scala; ultimo appuntamento, giovedì 14 aprile, con “I due marescialli” (1961), di Sergio Corbucci, con Totò, Vittorio De Sica e Gianni Agus. L’ingresso è libero.
«Corriere Eusebiano», 26 marzo 2011
Riferimenti e bibliografie:
- Che cosa ne dice lo psicologo - AMIAMO IN LUI L’UOMO TUTTO LIBERO - Pier Angelo Morlotti, 1971
- Enrico Carlo Zambelli, «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Bonvi, «Corriere dell'Informazione», 6 gennaio 1981
- «Il Popolo di Novi», 4 maggio 1967
- Ugo Buzzolan,«Stampa Sera», 6 maggio 1967
- «Corriere della Sera», 18 aprile 1968
- «Noi donne», 20 aprile 1968
- «Corriere della Sera», 25 aprile 1968
- «Radiocorriere TV», aprile 1968
- Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968
- Giuseppe Sibilla, «Radiocorriere TV», aprile 1968
- Ugo Buzzolan, «Stampa Sera», 4 maggio 1968
- Aggeo Savioli, «L'Unità», 18 gennaio 1972
- Francesco Bolzoni, «Il Nostro Tempo», 25 giugno 1972
- «Il Piccolo», 22 febbraio 1973
- «Il Piccolo di Trieste», 13 marzo 1973
- Domenico Meccoli, «Il Piccolo di Trieste», 20 marzo 1973
- «Stampa Sera», 27 marzo 1973
- «Il Piccolo di Trieste», 15 dicembre 1973
- Callisto Cosulich, «Paese Sera», 17 aprile 1977
- R. S., «Corriere della Sera», 9 maggio 1977
- Toni Sirena, «L'Unità», 11 febbraio 1978
- Giovanni M. Rossi, «L'Unità», 9 maggio 1978
- «La Stampa», 20 luglio 1978
- Ugo Buzzolan, «La Stampa», 7 ottobre 1979
- David Grieco, «L'Unità», 12 ottobre 1979
- Scaglione Fulvio, «La Gazzetta d'Alba», 17 ottobre 1979
- «L'Unità», 19 ottobre 1979
- d.g., «L'Unità», 26 ottobre 1979
- «L'Unità», 9 novembre 1979
- «L'Unità», 16 novembre 1979
- «Corriere Eusebino», 19 novembre 1979
- «L'Unità», 23 novembre 1979
- «L'Unità», 7 dicembre 1979
- «L'Unità», 14 dicembre 1979
- «La Stampa», 5 giugno 1987
- Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 27 marzo 1994
- «Corriere di Chieri», 17 aprile 2007
- Pietro Caccavo, «La Voce del Popolo», 4 luglio 2007
- f.c., «L'Unità», 15 luglio 2007
- «Corriere Eusebiano», 26 marzo 2011