I Fratelli Schwarz presentano...

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La Rivista conobbe grande fortuna negli anni Trenta e di più ancora durante la guerra. Via via, le rappresentazioni si arricchirono di macchinerie scenografiche e paradossi esotici: il tutto a favore di una crescita verticale dei costi di produzione. Ciò rese centrale il ruolo dell’impresario, colui che investiva denaro, curava tutti gli aspetti organizzativi, produttivi e distributivi dello spettacolo. Spesso, poi gli impresari finivano per essere anche autori o talvolta coreografi delle Riviste.

E il caso, per esempio, degli austriaci fratelli Schwarz, autori e produttori delle riviste più famose e di maggior successo degli anni Trenta. Forti della loro esperienza nell’àmbito dell’Operetta, i due allestirono rappresentazioni ricche, fantasiose, talvolta complesse anche dal punto di vita drammaturgico. Ma sempre privilegiando la matrice originaria del varietà: non si fecero scrupolo, all’occasione, di scritturare artisti celebri e popolarissimi del vecchio Varietà o dell’Avanspettacolo, consentendo loro di esibirsi nel proprio repertorio, del tutto svincolati dal tema centrale della Rivista. Avevano il difetto d’essere ebrei e d’essersi rifugiati da noi per sfuggire le persecuzioni razziali del nazismo. Dovettero scappare in fretta anche dall’Italia: morirono senza un soldo e sconosciuti in America.

Nicola Fano


- Ma dove va a prenderle, donne così furiosamente belle? Questa domanda veniva rivolta, al marito, da una spettatrice già per proprio conto molto graziosa, alla prima rappresentazione in Italia della Compagnia dei Fratelli Schwarz, all’«Excelsior» di Milano, una ventina d’anni fa.

Famoso in Vienna per i suoi spettacoli di Rivista e di Varietà nella felpata bomboniera del «Femina», Schwarz arrivava fra noi con una doppia celebrità: la sua e quella delle sue «48 - ragazze - 48». Sì, d’accordo, in alcuni quadri quelle 48-48 non apparivano perfettamente vestite; anzi... Ma fra le smaccate nudità delle riviste parigine e il seminudo delle quarantotto ragazze del balletto del «mago» (anche lui veniva chiamato così, come il nostro «Caramba») correva la stessa differenza che corre fra l’anatomia e la suggestività, fra i colori d’un’insegna d’osteria e quelli delicati di un pastello.

Schwarz presentò allora due spettacoli: Donne in Paradiso e Donne all’Inferno, con grande successo: e gli spettatori maschi dell’«Excelsior» pensarono che se Dante Alighieri avesse veduto quelle donne avrebbe dato tutt’altra intonazione alla Divina Commedia, magari abolendo senz’altro il Purgatorio. Non passò molto tempo, ed ecco il trionfo del Cavallino bianco; mesi di repliche a Milano, a Roma, a Torino, dovunque: tutti i primati degli incassi teatrali venivano battuti. Un anno, due anni, tre anni... E sempre acclamazioni e sempre «cassetta» gremita. Tutta Italia fischiettava i motivi del Cavallino. Schwarz era fatto commendatore. E quando il Cavallino, dopo tanto girare attraverso la Penisola, si guadagnava il diritto a un po’ di riposo, ecco Casanova, ecco Danubiana. La stella di Schwarz toccava lo zenit. E dico «di Schwarz», mentre dovrei dire «degli» : perchè gli Schwarz erano due, Emilio e Arturo, e i manifesti recavano invariabilmente : «La Compagnia dei Fratelli Schwarz presenta...»; ma Emilio (il commendatore) era molto noto, mentre Arturo non poteva esserlo altrettanto, chiuso com’era in uno sgabuzzino, giorno e sera, ad allineare colonne di cifre su colonne di cifre. A un certo punto, poi, Arturo veniva preso dalla nostalgia di Vienna, e vi tornava stabilmente; sicché sui manifesti si lesse soltanto: «Emilio Schwarz presenta...». E naturalmente continuava a «presentare» come lui solo, nel suo genere, sapeva.

A molti sembrava impossibile che spettacoli tanto ricchi di fantasia, di vivacità, di letizia, di finezza, pieni d’estro, di garbo, di signorilità, di squisita grazia, di gentile eleganza, scaturissero dalle fatiche di un uomo che a vederlo si sarebbe scambiato per un buon commerciante qualsiasi: un uomo solidamente tagliato, alto, smunto e malinconico, glabro, mezzo calvo, vestito senza particolari ricercatezze; un uomo che parlava poco e diceva spesso: «Come?», quasi non avesse sentito o capito (e aveva sentito e capito benissimo, ma quel «come?» gli serviva a preparare una risposta sottile e ironica, il cui senso non veniva afferrato che dalle persone di spirito).

Ai primi di novembre del 1936, Schwarz decideva di mettere in scena entro dicembre una rivista di Falconi e mia: Bertoldissimo. Un convegno di poco più di un’ora, con lui, in un caffè (da ima tasca del soprabito spuntava il furbesco muso di faina del suo inseparabile cagnolino-ma-scotte), quattro affrettate note buttate giù su un foglio di carta, e via: Schwarz di corsa a Vienna, e noi due chiusi in casa a lavorare: trenta quadri, perbacco, non uno; e il copione doveva essere finito in un mese. Non passa una settimana, e riceviamo una sua lettera da Londra (ma non era a Vienna?), nella quale, in un francese che certo non avrebbe incontrato l’approvazione di Claudel e di France, Schwarz ci informa di aver messo le mani su un «numero» eccezionale e ci chiede notizie del lavoro, «che sperava ormai a buon punto». Illusione che noi ci guardiamo bene dal togliergli. Quattro giorni dopo, lettera da Parigi : «Io benissimo (non alludeva alla salute, ma a ciò che stava facendo per noi e per la rivista): e voi? Rassicuratemi scrivendomi a Vienna». Gli scriviamo a Vienna e lo rassicuriamo dicendogli che lavorando giorno e notte e consumando chilogrammi di caffè siamo giunti a metà strada (non è vero: e siccome questa è la prima menzogna della nostra vita, nell’intimo ce ne vergognamo). Ci risponde da Praga: «Troppo poco: accelerate!».

Acceleriamo. Nelle scarse ore di sonno, sognamo Schwarz che si affaccia al Brennero ed ergendosi ingigantito sulle montagne ci grida: «Il copione! Dov’è il copione?». Quando ci svegliamo, troviamo infatti sul tavolo un mucchietto di «espressi», il cui raggelante senso è questo : «Schwarz sarà a Milano in settimana e vuol trovare tutto, ma assolutamente tutto, pronto e finito». Che fare? Telegrafargli che mancano ancora quattro quadri e di rimandare il viaggio. Stiamo combinando faticosamente il testo del telegramma, quando squilla il telefono.

- Buon giorno. Comment ca va? Vi aspetto subito in albergo. Io sono pronto, natiirlich: voi anche, no?

- Le abbiamo scritto che ci manca ancora il quadro della sfilata delle opere di Wagner, il finale della prima parte (riduciamo del settantacinque per cento il numero dei quadri di là da venire).

- Quadro Wagner pronto, finito, parole, canzoni, musica, messa in scena, costumi: molto bene.

- Ma chi l’ha fatto?

- Io. Genug, au revoìr, vi aspetto.

In tassì, noi due continuiamo a guardarci in faccia, sbalorditi. Era vero: il quadro lo aveva fatto lui, insieme al suo coltissimo direttore d’orchestra maestro Hahn. Non si trattava che di togliere qualche fronda qua e là, di eliminare qualche esuberanza, di «italianizzare» il sapore di certi accenni parodistici; per il resto, un quadro perfetto, ideato con gusto aristocratico. Schwarz ha fatto lavorare pittori e disegnatori di mezza Europa, celebrità della sua Vienna, artisti famosi e artisti sconosciuti, dei quali si compiaceva di scoprire il talento. Le cartelle dei disegni sono una specie di padiglione delle meraviglie, e a guardarci in faccia stupiti, ora, siamo in tre: il terzo è Luciano Ramo, il regista della rivista. Ora si tratta di trasformare le due dozzine di bozzetti in scene e le centinaia di figurini in costumi: osiamo osservare a Schwarz che mancano quattro settimane alla data fissata per la prima rappresentazione e che difficilmente... Non ci lascia finire:

- Ma qui siamo in Italia, miei cari. Gli Italiani sanno fare in quattro settimane ciò che gli altri fanno in tre mesi.

Immediatamente egli telefona a scenografi, vestiaristi, sarti grandi e piccoli, calzolai, attrezzisti: e cinque giorni prima della data, tutto è pronto. Tutto, meno una complicata scena dipinta dal povero Guido Galli, il quale nel suo più espressivo vernacolo meneghino recrimina:

- Uè dn disaster... Non asciuga... La suga minga... Tempo umidissimo, mai dn fil de vènt... Ho acceso anche la stufa: oh, sì! (che in milanese significa: «Macché»). Ci vorrà una settimana.

- Caro Guido — fa Schwarz — basta far funzionare una decina di ventilatori.

- Dòmà? (Soltanto?). E le «prese» elettriche?

Prima di sera, non si sa attraverso quale miracolo, i dieci ventilatori funzionavano. E quella sera arrivava la Compagnia.

Imponente: una quantità di «solisti» (Schwarz chiamava così le prime parti) e le 48 - magnifiche ragazze - 48. Il palcoscenico e parte della platea venivano occupati militarmente. Non si creda che con l’avverbio «militarmente» io voglia fare dell’umorismo ; no : è perchè quell’avverbio è il solo adatto. Basta una sillaba, gettata là da un certo signor Prokop (Procopio? Nome? Cognome?), e si vedono i solisti raggrupparsi in un punto, le ragazze schierarsi in un altro, gli elettricisti e i servi di scena correre ai loro posti. Tutti pronti agli ordini. Prokop è un uomo sul tipo del «Gambrinus» che si vede dipinto sulle insegne delle birrerie bavaresi; le ragazze, sono tipi completamente diversi. Prokop è viennese, le ragazze sono di tutti i Paesi conosciuti e parlano tutte le lingue; ma hanno un minimo comune denominatore: la statura (metri 1,68-70) e la bellezza. Bionde, brune, castane, platinate. Schwarz va a cercarle dappertutto; le cerca dove di solito nessuno cerca le ballerine: nei cosiddetti ceti medi, nella piccola borghesia. Molte hanno un diploma di canto; una — giovanissima — è la moglie di un medico boemo; un’altra ha studiato pittura. Parecchie escono dalla Scuola di Ballo di Monaco. Tutte hanno un requisito affascinante: una plastica perfetta e delle gambe stupende (lato fisico), un contegno impeccabile e un linguaggio (per chi le capisce) estremamente castigato (lato morale). Malgrado questo, troveranno poi qualche poliglotta col quale intrecciare un flirt: e il flirt è finito più volte con matrimoni di prim’ordine, magari con professionisti di grido (a Milano, cinque casi del genere, notissimi).

Tanto che Schwarz diceva sovente, con la massima serietà, come d’abitudine:

- Quando sarò vecchio, e avrò finito col teatro, metterò un’agenzia matrimoniale.

* * *
Alle sette di ogni sera, Schwarz sale la scaletta che dalla ribalta porta al palcoscenico e mormora qualche cosa a Prokop. Prokop si porta davanti alla cuffia del suggeritore e annuncia, con un movimento rotatorio dell’indice, che nelle sue intenzioni significa «Domattina» :

- Ganz Personal, neun Uhr («Tutto il personale, — ripete in un italiano da brividi — alle nove»).

Un mormorio generale di «arrivederci», e tutti sciamano a scaglioni affiancati verso il centralissimo albergo che ospita l’intera Compagnia: una specie di requisizione. Uscendo dal teatro, fra un discorso e l’altro, troviamo modo di far capire a Schwarz, molto riguardosamente, che malgrado la sua prestigiosa bravura e la perfetta organizzazione di Ganz Personal, quattro giorni di prove ci sembrano pochini.

- Quatre jours? Ma noi, a Vienna, proviamo da un mese, natiirlich! Via via che mi mandavate i quadri, io li mettevo in prova. Siamo prontissimi. Jawohl. Dupont (un grande coreografo americano) ha preparato dei «balletti» che... Domattina li vedrete.

- Ma gli attori italiani (perchè c’erano anche attori italiani: primi fra i quali Ermanno Roveri e i due De Rege), che non sono affiatati col resto della Compagnia e non hanno ancora «provato» una sillaba?

- Voi non conoscete gli attori italiani: fanno in due ore ciò che lutti gli altri attori del mondo fanno in venti giorni.

Il festoso abbaiare del cagnolino-faina approvava la risposta del padrone. Ma per una volta tanto il cagnolino non era nella tasca di Schwarz: era nella borsetta da passeggio della bella, biondissima e bravissima prima ballerina della Compagnia, Maly Podszuck, che poi diventava sua moglie. Già: perchè per una volta che in vita sua si era innamorato di ima delle sue danzatrici (aveva sempre dimostrato di non accorgersi neppure che esse appartenessero all’altro sesso), Schwarz non aveva potuto fare a meno di ricorrere alla Marcia Nuziale di Mendelssohn.

Il Personal sapeva di doversi trovare in teatro per le nove, — e alle otto e quarantacinque erano già tutti lì — ma non sapeva a che ora, da quel teatro, sarebbe uscito. Perchè l’ora variava: una volta erano le ventitré, una volta la mezzanotte, una volta le due, una volta le quattro. Senza interruzione. Si ripeteva la rivista tutta di séguito, prosa e musica, canzoni e balletti, finché l’intero Personal non crollava, inebetito. E poiché alle nove del mattino Ganz era convocato un’altra volta, le ragazze dormivano nei palchi, i «solisti» nelle poltrone; qualcuno andava in albergo, prendeva un bagno, si impadroniva di un pollo e tornava indietro. Il bar del teatro non chiudeva mai: era servito da squadre a turno, come gli altiforni. Lisi Ander, «solista» (e una delle più belle donne d’Europa), mangiava normalmente in dodici ore una trentina di panini imbottiti. Calmissimo, instancabile, in piedi nel mezzo della platea, il paltò sulle spalle, il cane nel paltò, le dita nel taschino del panciotto, Schwarz dirigeva a modo suo. Con brevi cenni, con poche sillabe: «Non... Nein... Gut... Più adagio... Riflettore rosa... No: rosa e arancio... Gut... Gomme ga... Prego, gnadige Frau, ancora una volta... Merci...». Non alzava mai la voce. Non gli sfuggiva niente. Un intuito infallibile gli faceva distinguere d’acchito fra ciò che avrebbe conquistato il pubblico e ciò che poteva lasciarlo indifferente. Creava lui stesso quadri di spettacoloso effetto coreografico; spettacoloso, ma non mai separato dal buon gusto. Odiava la paccottiglia, l’orpello chiassoso, il trompe-l’oeil; era un regista e un uomo di teatro nato.

La prova generale di Bertoldissimo, incominciata alle sei del pomeriggio, finiva alle cinque e mezzo del mattino. Immaginare lo stato del «Personale». I soli ad apparire freschissimi erano Schwarz e Dina Galli, che alzandosi dalla sua poltrona di prima fila, esclamava:

- Cotti’è? Uè gemo finii? (Traduzione: «Ma come? È già finito?»).

Prokop «ordinava» alla Compagnia di dormire difilato fino alle diciotto; le ragazze, soltanto fino alle diciassette, perchè avrebbero dovuto sottoporsi alle cure di una mezza dozzina di parrucchieri. Credo che tutti obbedissero.

La sera, — un pubblico enorme, di quelli che dànno agli autori i sudori freddi — la rivista otteneva uno straripante successo (lo diciamo per onorare Schwarz: noi due siamo notoriamente molto modesti): e al finale volemmo ad ogni costo che il nostro amico e patrono venisse alla ribalta con noi. Dovemmo trascinarlo per mano, come un bambino riluttante (i «solisti» trascinavano noi alla stessa maniera); e schermendosi e puntando i piedi mormorava: «Wanim? Pourquoi? Perchè?». Ma per la prima volta i suoi occhi opachi, un po’ velati, brillavano, e la sua voce dissimulava male l’emozione.

Ho detto che era un uomo di sottile spirito. Quello che i francesi chiamano un pince-sans-rire. Un giorno, un notissimo autore di canzoni gli fa sentire la sua ultima creazione, nella speranza che egli se ne serva nella nostra rivista, e quando ha finito di eseguirla al pianoforte, ripetendone più volte il ritornello, in verità non originalissimo, gli dice:

- Vedrà, commendatore, che questo ritornello entrerà in tutti i cervelli.

E Schwarz, impassibile:

- Ma c’è già, mio caro, c’è già.

L’artista era uguagliato in lui dall’uomo d’affari, agguerritissimo. Egli aveva creato una strana parola, gano (qualcosa di franco-spagnolo, che significava «il guadagno»), nella quale si compendiava il fine ultimo di ogni attività umana. «Senza gano, non si fa niente». Oppure: «La chestione è tutta nel gano». Gli piaceva guadagnare perchè era venuto dal nulla, era stato poverissimo e non gli sembrava di essere mai sufficientemente al riparo dalle incognite del destino. Ma non era nè un avido nè un avaro. Per le sue messe in scena spendeva sempre il più possibile «per risparmiare», perchè un costume di stoffaccia non resiste, ma la vera seta, il vero velluto, sono sempre seta e velluto anche dopo duecento repliche, e, quando si debbono rifare, si rifanno in seta e in velluto. I suoi tendaggi in laminato d’oro e d’argento costavano centinaia di migliaia di lire (di allora, non di oggi). Sempre a scopo di risparmio.

Seguiva gli incassi con occhio estremamente attento, sera per sera, recita per recita: le mille lire in meno sotto la colonna «ingressi» lo allarmavano come un segno minaccioso. Il lunedì di Pasqua del ’37, appunto con Bertoldissimo, tornava a Milano dopo aver girato la Penisola e aver fatto registrare centododici «esauriti» su centoventi recite. Milano, nei due giorni delle feste di Pasqua, si svuota tutta in campagna o sui laghi ; quelle sere il «Lirico», come gli altri teatri, non si riempiva che per metà. Schwarz, disperato, faceva finire lo spettacolo mezz’ora prima e tornava a casa avvintissimo, mormorando: «Spaventoso... È spaventoso...». La sera seguente, teatro gremito: il sorriso tornava sulle sue labbra sottili; valeva dunque ancora la pena di vivere e di lavorare.

Una città per lui disperante era Roma : «Pensate — diceva — che per ogni spettacolo io devo riservare una ventina di poltrone e cinque o sei palchi al Ministero della Cultura Popolare, a quello degli Interni, a quello della Guerra! È il colmo! Forse i miei spettacoli sono conferenze d’alta cultura? Giovano ai prefetti del regno? Insegnano strategìa? Cest fou! Senza contare i giornali, i funzionari, le mille persone importanti alle quali è impossibile dire di no. Gratis, tutti. Come dite voi?... Ah: “cose da pazzi!”».

Certo, date le consuetudini della Capitale, il gano era intaccato non poco.

Diceva : «L’Italia non dovrebbe avere una Milano sola, ma tre. Ne mancano due.»

Quest’uomo abitualmente serissimo, come potrebbe esserlo un preside di Liceo, amava la burla. Sapeva, ad esempio, che un ricco patrizio milanese, già anziano, dedicava particolari attenzioni, ogni anno, alla sua nuova soubrette; e siccome il patrizio frequentava il palcoscenico, Schwarz faceva apposta ad assegnare alla soubrette il camerino più lontano dal palco di proscenio del corteggiatore, le cui generose premure erano spesso accompagnate dalla fortuna: fra andata e ritorno, egli doveva compiere una vera passeggiata, sotto gli occhi di molta gente. Una volta, finalmente, Schwarz destina alla nuova soubrette il camerino numero 1, a due passi dal palco, e trova modo di farne dare subito notizia all’interessato, che ne gioisce. Gioia breve: nel camerino c’è una diciassettenne inespugnabile, Edith Tolnay, e sulla soglia del camerino chiuso a chiave, quasi non bastasse, c’è una gigantesca madre-gendarme di guardia.

Gli piaceva di scoprire e «lanciare» gli artisti ; dopo aver cantato per lui nel Casanova, Tatiana Menotti passava nientemeno che alla «Scala». Lotte Menas e Clara Tabody, che con lui avevano esordito nel Cavallino, diventavano notissime nel Teatro e nel Cinematografo.

Vedeva lontano. Nell’estate del ’38 lo incontriamo a Sanremo (moglie al fianco, cagnolino in braccio). Parliamo di molte cose, compreso il progetto di una nuova rivista, e ci fa, assorto in misteriosi pensieri:

- Ne riparleremo in autunno. Purché non ci sia la guerra.

- La guerra? Ma andiamo, caro Schwarz, chi ci pensa?

- Fra un anno, quel pazzo criminale di Berlino tanto avrà fatto da scatenare la guerra.

Purtroppo, il suo presentimento doveva diventare realtà.

Affezionatissimo al fratello (assai più vecchio di lui), quando i nazisti invasero l’Austria, pronti ad applicarvi spietatamente le leggi razziste di Norimberga, trepidava per la sua sorte. Emilio era a Venezia.

- Arturo è vecchio, — diceva agli amici, scuotendo il capo — è debole, è solo: lo arresteranno, lo uccideranno, non lo vedrò più...

Pochi giorni dopo, passando dal Caffè Quadri, egli scorge un signore che sta leggendo il Neues Wiener Journal, il giornale che nasconde la faccia del signore si abbassa:

- Arturo!

- Emilio!

- Tu! Ma come hai fatto?

- Non mi crederai, ma te lo racconterò lo stesso.

Fu un abbraccio commovente.

Sopravvenne tutto ciò che sappiamo. Schwarz riparò dapprima a Parigi; poi, sempre con Arturo, in America. A New York, aperse due locali dove allestì minuscoli spettacoli. Buon esito, dapprima; poi l’America entrò in guerra, i momenti divennero difficili. Emilio ammalato, stanco, fiaccato. Arturo inchiodato su una poltrona, paralitico. Il denaro che Emilio aveva potuto portare con sè (ne possedeva moltissimo, ma si trovava disperso nelle banche di varie nazioni belligeranti, o addirittura invase e soggiogate, ed era tutto denaro perduto) si esauriva di giorno in giorno. Chiusi i due locali. Il dissesto. La povertà. Quella povertà dalla quale era venuto e della quale s’era liberato lavorando accanitamente tutta la vita. Quella povertà di cui, anche nei momenti della piena fortuna, sembrava temere, irragionevolmente, il ritorno. Molte volte concludeva un discorso con un lungo silenzio, fissava lo sguardo in un punto, intrecciava le dita: «Tutto bene: — diceva finalmente — ma domani? Demain?...».

È morto nel ’47. Per provvedere alle spese del funerale sono state vendute le pochissime cose che aveva difeso, a costo della fame, fino al giorno innanzi. Arturo, che non ha potuto seguire i suoi funerali, lo ritroverà nei Campi Elisi.

E dei fratelli Schwarz «che presentano» non resterà che il ricordo: il ricordo di una favola, di una bella favola dorata, con un epilogo triste.

Dino Falconi e Angelo Frattini


Il trionfo degli austriaci: storia degli Schwarz in Italia

Ebbene, il varietà è finito. È morto, o, se non proprio morto, sta morendo. Chi l’ha ridotto cosi? Come in un romanzo poliziesco, l’assassino è anche qui uno straniero: l’artista straniero, non importa di quale nazionalità. È lui che ha cominciato col melange-art, un numero in cui l’acrobazia si mescola alla prestidigitazione, il giocoliere al contorsionista e la bizzarria musicale alla danza. È lui che ha fatto indossare i pantaloni da tennis e la camicia alla Robespierre, se non addirittura la marsina e lo sparato inamidato, ai ginnasti. È lui che con la step-dance, la danza di punta e tacco, ha seminato i germi del jazz e del sincopato tra i placidi ritmi delle orchestrine. È lui che ha raddoppiato la danzatrice creando le sisters e l’ha moltiplicata per sei immaginando la troupe di girls. È lui, infine, che ha pensato di fondere in uno spettacolo più o meno logico lo spezzatino dei numeri di varietà, ed ha messo in iscena la rivista a gran spettacolo che doveva trionfare a Parigi, far entusiasmare a Londra ed estasiare a New York. E intanto il povero varietà, questo che nella famiglia dei teatri era il fratello minore, candidamente discolo, il povero varietà, dissanguato, depredato, abbandonato, muore... dobbiamo proprio dirlo?... muore di fame.

Gonfio, pomposo, rutilante di gemme ed ori, sebbene altrettanto inconsistente, ha preso il suo posto il teatro di riviste. Gli anzianotti habitués che un tempo succhiavano la loro ghiacciata seduti ai tavolini di prima fila ed asserivano cosi il loro diritto di priorità sulle più graziose canterine, ora si riuniscono in una barcaccia di proscenio, ognuno sorvegliando una ballerinetta polposa e biondiccia che, a recita finita, li chiamerà mein Lìeber o mein Schatz. Fino a pochi anni fa si udivano anche dei moncheri e qualche darling, dovuti alle graziose donnine che militavano sotto lo stendardo di Madame Rasini o alle sgambettanti pupattole di un gruppo di Tiller’s, Jackson’s o Gib-son’s girls. Ma ora la voga vuole la tedescheria. Arbitri di tale voga, uno alla porta del teatro stropicciandosi le mani grassocce in vista dell’appetitoso incasso, l’altro in fondo alla platea a sorvegliare con occhio di gendarme la disciplina del corpo di ballo, sono i fratelli Schwarz, detti anche i “signori delle dame viennesi”. Tra le quinte, piccolo ed elettrico, minuscolo Cerbero latrante in orribile favella contro le danzatrici in fallo, è l’eminenza grigia di questi spettacoli: il maestro di ballo Rudi.

Ma anche la rivista a gran spettacolo rischiava di affogare nel vieto e nel trito. Ed è forse per questo che spuntò fuori il Wunder-Bar, che a tale rivista aveva preso la beata stupidità della trama e ne aveva mutato il gran spettacolo in uno spettacolo d’eccezione. L’eccezione era data dal fatto che si poteva ammirare Armando Falconi insieme a Ines Lidelba, Arturo Falconi accanto a Titina e altri egregi attori di prosa uniti ad artisti di varietà. Naturalmente anche in questo curioso cocktail l’immancabile vermutte erano le girls. La ricetta non era priva d’un suo sapore pimentato, ma il prezzo della bevanda era esorbitante. E poi, via, c’è da sperare che in fondo in fondo, al pubblico non andassero molto a genio quelle ibride mescolanze. Sicché si è tornati al super-spettacolo Schwarz. (N.B. Il super non ce l’abbiamo aggiunto noi.) E l’ormai vecchio teatro di varietà, séguita nella sua lenta agonia.

Dino Falconi, Oreste Biàncoli


Il 4 dicembre del 1929 debutta al Lirico di Milano Donne all’inferno di Emil Schwarz Lehner, lo slogan pubblicitario è “le 48 donne più belle d’Europa”. L’accoglienza è entusiastica. Nei dieci anni della loro presenza in Italia i fratelli Arthur e Emil Schwarz hanno presentato dieci spettacoli: riviste, riviste-operette e riviste-varietà. Gli Schwarz mettono assieme grandiosi quadri coreografici, scenografie pompose, corpi di ballo, sketch recitati in italiano da attori e attrici viennesi.

Nel 1930 dopo aver reclutato nuove bellezze in giro per l’Europa tornano alla carica con Donne in paradiso (lo slogan questa volta è “le 60 donne più belle d’Europa”) che naviga nel lusso delle strabilianti coreografie di Lloyd Dupont, già autore di grandi spettacoli a Broadway. Ma il vero successo è raggiunto però nel 1931 con Al cavallino bianco di Hans Miiller, riduzione italiana di Mario Nor-dio. Lo spettacolo resterà in piedi per tre stagioni girando le maggiori città d’Italia e riscuotendo successi ovunque. Dopo una parentesi di riviste-operette, come Wunder-Bar (1933), Ballo al Savoy (1934), Casanova (1934-36) ritornano alla rivista nel 1937 con Bertoldissimo di Dino Falconi e Angelo Frattini, che aveva fra gli interpreti Ermanno Roveri e i fratelli De Rege.

Il successo degli Schwarz è legato principalmente all’accoglienza loro riservata dalla buona società, dalla ricca borghesia che si riconosceva nel lusso proposto dalle loro riviste. Ben visti anche dal regime fascista che preferiva gli spettacoli di evasione a quelli polemici di Galdieri o di Nelli e Mangini, segnarono comunque una svolta nella rivista italiana: molte compagnie furono costrette ad adeguarsi al tipo di spettacolo da loro proposto, tanto che la rivista, dagli anni Quaranta in poi, fu sempre segnata dal lusso e dalla fastosità della messa in scena. Cosi la rivista satirica ha sempre meno spazio e il ruolo dell’attore passa definitivamente in second’ordine: gli attori si fanno ormai strada affidandosi allo sfarzo dei costumi e al numero di boys o di donnine in scena.

Si avvia cosi un lento processo di perdita di quella cultura che fino a quel momento aveva caratterizzato il mestiere dell’attore.

"Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980


Così la stampa dell'epoca

Serata festosissima, pieno successo, bello spettacolo. Alla gaiezza dello spettacolo ha corrisposto il caloroso consenso degli spettatori che gremivano il teatro. La Compagnia viennese Schwarz ha offerto magnificenza di quadri e allegria di esecuzione S’è preparata da tempo. Ha provato e riprovato lo spettacolo dopo essersi riunita a Vienna e ne ha fatto l'esperimento sul pubblico in un teatro di Francoforte. E’ arrivata da noi affiatata, intonata, armoniosa, addestrata alla precisione, alla vivacità, al buon guato. Numerosissima, si muove agile, snella, elegante. Non una incertezza, un intoppo. Disciplina congiunta con l'ardore determinano una rappresentazione nel «suo genere ammirevole.

La rivista combinata è divertente, ricca di quadri, di trovate, di invenzioni, di sorprese. Si intitola «Tutto per l’amore» e svolge una sua buffa storia. Un ricco americano vorrebbe che suo figlio sposasse una bella ragazza; ma ai due non si conoscono e interpellati separatamente, rifiutano di fidanzarsi.

Il padre va su tutte le furie; ma non . ottiene nulla. Il giovanotto 6’è innamorato d’una splendida creatura che la sua volta lo ama. Non sanno i due che il caso ha giocato loro un ameno tiro: poiché sono proprio essi quelli che dovrebbero sposarsi. Per evitare ciò che credono un pericolo fuggono insieme incaricando l’uno il proprio domestico, l’altra la propria cameriera di farsi credere rispettivi padroni. Ma l’inganno non dura a lungo; i due domestici scoprono reciprocamente le loro modesta identità e l'equivoco, in cui sono caduti i loro padroni i quali fuggono sè stessi. Li inseguono, li raggiungono e tutto si chiarisce alla fine.

Ma il viaggio dello due coppie offre a larghi e pittoreschi motivi a quadri ideati con fantasia, finezza e letizia che si susseguono con un gioco di scene rapide e di magnifico effetto facendo passare il pubblico di sorpresa in sorpresa con l’inaspettata invenzione coreografica, con le danze del numeroso ed esatto corpo di ballo. Visioni di paesi, di soggetti comici, numeri interessanti. I giochi ben pensati e mirabilmente attuati dalle masse, ricchezza e abbondanza di costumi, bella scelta di colori e di fogge. Una gioiosità instancabile rende ogni episodio lucente e fantasmagorico. Ogni tema è svolto con larghezza di metodo e varietà di sviluppi. Vita di spiaggia, avventure fra i Pellirosse, notti a Montmartre, frenesia di Broadway, baldanza di Spagna, si alternano a quadri delicati quali «Autunno», pittoreschi quali «Il trionfo dei fiori». Colori e morbidezze di piume chiudono le due parti della rivista recitata, cantata e danzata con la foga propria di questa Compagnia. Gran parte della rivista è recitata in italiano. Gli artisti viennesi l’hanno appreso appositamente. Le musiche di Lehner sono piacevoli. Orchestra, danze, canti, tutto procede con sincronia perfetta. La indiavolata Litt Sweet, Maly Podszuch, Lo Ethof, Ria Waldan, l’Unterkirche; il Ferrari e il Castellani nelle parli a principali sono stati di calda efficacia. Tutti gli altri, e i balli preparati da Floyd du Poud con ingegnosità, hanno concorso al fortunato esito dello spettacolo. Il pubblico ha applaudito ripetutamente ai quadri, agli interpreti ed alla fine degli atti. La rivista si replica.

«Corriere della Sera», 19 ottobre 1930


Riferimenti e bibliografie:

  • "Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista" (Nicola Fano), Liberal Libri, Firenze 1999
  • Roberto De Monticelli, Lilly Minas, «Epoca», n.41, 21 luglio 1951
  • "Guida alla rivista e all'operetta" (Dino Falconi - Angelo Frattini), Casa Editrice Accademia, 1953
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • «Corriere della Sera», 19 ottobre 1930