Il linguaggio di Totò

Linguaggio Toto


🗣️ Totò: Il Teatro delle Parole

Totò, il Verbo si fece Uomo (e che Uomo!)

📜 1. Il linguaggio prima della mimica Dimenticate pure il Totò a scatti, quello delle smorfie fulminee e delle gambe molli. Totò non fu un mimo. Non fu Charlot, non fu Ridolini, non fu Buster Keaton. Totò fu voce, verbo, parola incarnata. Il suo regno non era il gesto, ma la battuta: quella detta con una cadenza calibratissima, quel tono improvvisamente spezzato, quelle pause cariche di tempesta. Era una partitura, non una pantomima. Se il cinema muto fosse durato un altro decennio, Totò sarebbe rimasto inchiodato ai palcoscenici dell’avanspettacolo, come un dio antico relegato nei templi in rovina. È solo con l’avvento del sonoro che il miracolo si compì: il linguaggio divenne corpo, e il corpo trovò nel suono il suo doppio espressivo, moltiplicando le possibilità dell’attore e rivelando quella che era, a tutti gli effetti, la sua arma segreta.

🗣️ 2. La lingua come arma (non convenzionale) Chiunque abbia provato a doppiare Totò - in qualsiasi lingua, compreso il napoletano depurato - ha ottenuto solo un disastro: una specie di manichino semovente che farfuglia battute che paiono uscire da un dizionario tecnico della lavastoviglie. Totò è intraducibile. Perché Totò non recita: investe, sfonda, devasta col linguaggio. Non si limita a dir parole: le crea, le sovverte, le incanta. Chi è riuscito ad avvicinarsi alla sua essenza? Carlo Croccolo. Enrico Montesano. Ma non sono Totò. Sono al massimo dei medium, degli sciamani fonetici, sacerdoti minori di un culto irripetibile. Totò è una lingua in sé, un idioma che non ha equivalenti, un dialetto dell’anima.

🔁 3. La ripetizione creativa Totò prendeva una scena e la impastava come pizza napoletana. Da un impasto di 10 minuti ne usciva una margherita da 45, lievitata a furia di battute, entrate, uscite, risate che si sentiva da solo. Sì, perché sul set c’erano i tecnici pagati per applaudire. Non per piaggeria, ma per ricreare la sensazione del teatro. Il pubblico era il suo doping, la sua musa, il suo deus ex machina invisibile. Ogni scena diventava un laboratorio, una cucina dell’assurdo dove gli ingredienti erano pause, inflessioni, sguardi, sospensioni vocali. E ogni ciak era un quadro diverso.

⏱️ 4. Il tempo, la pausa, l’orologio interiore Totò era una sveglia umana. Sapeva quando parlare, quando tacere, quando interrompere. E soprattutto sapeva farlo all’impronta. Era un funambolo del silenzio, un giocoliere della sospensione. È questo che spiazzava tutti i suoi compagni di scena, specie quelli abituati al copione come fosse la Bibbia. Totò cambiava le battute, aggiungeva congiunzioni, metteva sospensioni: il teatro dell’assurdo prima che Beckett sapesse che era assurdo. E, soprattutto, sapeva quando prendersi un tempo per se stesso, per ascoltare l’eco della risata che ancora non era nata.

👥 5. Peppino, Fabrizi e il meccanismo perfetto Con Peppino De Filippo e Aldo Fabrizi si raggiunge l’apoteosi: il dialogo diventa coreografia verbale. Due o tre attori, un testo apparentemente scritto, ma in realtà ogni scena è un minuetto improvvisato, uno scambio all’arma bianca con stoccate di nonsense. E tutto fila. Preciso. Perfetto. Millimetrico. Totò non sbagliava mai un tempo. Ogni pausa era una nota musicale, ogni inflessione un colpo d’archetto. Era una danza verbale, una tarantella di silenzi e fulminazioni, un’opera buffa dove il libretto cambiava a ogni replica, ma la musica rimaneva sublime.

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📚 6. Dalla scuola di Napoli al cinema d’Italia Dietro c’è un archivio umano: Gustavo De Marco, Viviani, Martoglio, Scarpetta, i vicoli di Napoli. Totò li ha respirati, masticati, trasformati. Il suo anarchismo linguistico - non ideologico, ma sonoro - parte da lì. La lingua ufficiale? Un’ipocrisia. Le regole grammaticali? Gabbie. Lui preferiva liberare la parola come un uccello pazzo che vola in diagonale. Il suo parlare era un mosaico di idiomi, un melting pot vocale che fondeva latino maccheronico, inglesismi arraffati, napoletano puro, italiano burocratico, tedesco grottesco. Totò era la Babele in un uomo solo.

📝 7. La lettera più celebre della storia del cinema "Veniamo noi con questa mia a dirvi...". La celebre epistola di Totò e Peppino è la summa teologica della destrutturazione linguistica. Un capolavoro di assurdità formale che fa implodere la sintassi e la trasforma in sinfonia. Virgole, punti, parentesi, errori grammaticali: tutto si fonde nel caos sublime del comico perfetto. È la Magna Carta del nonsense, il manifesto del disordine poetico, il Vangelo secondo Totò, dove l’unica legge è: più sbagli, più sei giusto.

📣 8. Battute, neologismi, nonsense Chi può dimenticare "a prescindere", "pinzellacchere", "eziandio"? E il "commendatorissimo maresciallo superiore"? Totò inventava titoli e li imponeva con la forza del carisma. La supercazzola, molti anni dopo, è figlia sua: un Totò scorporato, filtrato, travestito da toscano. Eppure lui lo faceva con una maestria tale che anche il nonsense aveva senso. Ogni parola era una mina, ogni frase un paradosso, ogni discorso un labirinto da cui si usciva solo ridendo. E ridevi anche quando non capivi: perché la risata nasceva dal ritmo, dal suono, dal respiro stesso della voce.

🧠 9. Comico sì, ma mai banale Nemmeno nei film peggiori (sì, esistono) Totò scade nel volgare. Anche quando grida l’unica vera parolaccia della sua carriera – "E ci si pulisca il...!" – non è una volgarità, è una catarsi. Un urlo liberatorio che sovverte l’ordine del potere. Perché Totò era anche questo: un ribelle travestito da comico. Uno che poteva parlare di monarchia e di moria delle vacche nella stessa frase, e farti riflettere mentre scoppiavi a ridere. L’irriverenza era la sua religione.

🌕 10. L’attore ovunque, ma sempre a casa sua Totò sulla Luna? Totò all’inferno? Totò nel deserto? Totò in Egitto? Sempre credibile. Perché porta Napoli con sé. Ovunque. L’effetto comico nasce dallo scarto fra l’ambientazione surreale e il linguaggio concreto. È un napoletano che resta napoletano anche su Marte. E non è mai ridicolo. È universale. E Napoli, con lui, diventa centro del mondo. Totò è come Pulcinella proiettato nel cinema: simbolo arcaico e moderno, concreto e metafisico, radicato e galleggiante.

🎬 11. Conclusione: Totò, o il teatro delle parole Totò è l’attore italiano che ha rivoluzionato l’uso della lingua al cinema. Ha fatto della parola la sua arma, il suo specchio, la sua maschera. L’ha fatta esplodere, l’ha destrutturata, l’ha resa carne e spirito. Nessuno prima di lui. Nessuno dopo. Nessuno mai. E tutto ciò a prescindere. Eziandio! Ed è proprio questa la sua grandezza: non aver mai avuto bisogno di spiegarsi, perché si spiegava da sé, con un gesto, un fonema, un’interiezione. Totò è il comico che ha fatto della lingua un palcoscenico. E il cinema? Solo il sipario.



Il grande sogno che Totò coltivò nei suoi ultimi anni di vita fu quello di realizzare un film completamente muto. Racconta Franca Faldini, dopo la partecipazione a film d’autore come "La mandragola":

Fu allora che gli si ridestò dentro un briciolo di ambizione combattiva e trovò la forza di proporre un’idea che accarezzava da tempo: girare un film muto, ricco di gag e di situazioni come le vecchie comiche, internazionalmente comprensibile poiché, come sosteneva, «io non ho il dono della parola e nel caso mio il dialogo smonta e immeschinisce tutto. Sono un comico muto, né antico né moderno perché non esiste la comicità antica o moderna, esiste la comicità, punto e basta. E meglio che con i dialoghi so esprimermi con la mimica». La proposta cadde nel nulla.



Così la stampa dell'epoca

Totò ha insegnato la lingua italiana

I giochi di parole di Totò hanno aiutato le masse a conoscere meglio la lingua italiana, insegnando termini poco conosciuti ed equivoci, aiutando a evitare i trabocchetti lessicali e sbeffeggiando le forme burocratiche e obsolete. E' la tesi annunciata a Pisa al convegno degli storici della lingua italiana dallo studioso Enzo Caffarelli. Il ruolo svolto da Antonio De Curtis nella diffusione dell'idioma nazionale sarebbe stato pari, grazie al successo dei suoi film visti da milioni di persone, a quello svolto dalla radio e dalla televisione per ridurre l'influenza del dialetto.

«Corriere della Sera», 1 maggio 1997


Quando Totò ci aiutava ad imparare l'italiano

[...] Adesso, il mito di Totò ha trovato una ragione in più per esistere: Antonio De Curtis non ci ha fatto solo ridere, ma, grazie alle sue battute, ci ha insegnato anche la lingua italiana. Il suo linguaggio, oggi, oltreché comico viene giudicato anche «educativo», soprattutto quando metteva alla berlina alcune antiquate forme di comunicazione.

È il linguista Enzo Caffarelli a sostenere questa tesi in un saggio che verrà pubblicato sulla «Rivista italiana di onomastica». Lo studioso prende in esame alcune celebri gag del comico e le definisce «un sano sberleffo» alle «forme più obsolete», ai modi di dire che col passare del tempo erano venuti perdendo significato. Procedendo nella sua analisi, Caffarelli osserva che «Totò con i suoi giochi di parole ha accompagnato i suoi spettatori nel processo di appropriazione della lingua italiana, riuscendo a riflettere il difficoltoso rapporto esistente allora fra questa e il dialetto».

Dunque, dovremo ricordarci del grande comico come di un maestro che aiutò proprio nell'enorme lavoro di creare una lingua nazionale che unificasse gli italiani, che rendesse possibile la comprensione fra un veneto e un siciliano. È proprio negli anni Cinquanta e Sessanta che si compie questo miracolo e Totò, segnalando i trabocchetti contenuti in certe frasi, o sghignazzando su alcune espressioni in burocratese, ci ha dato una mano a capire dove potevamo sbagliare. Storpiando ad arte le parole, ha, per converso, segnalato la loro versione giusta.

E, infine, sempre usando autoironia, ha fatto sì che gli italiani capissero che non dovevano abusare dei termini stranieri.

«L'Unità», 8 agosto 1997


Con la lingua di Totò

Novantasette film, tanti ne interpretò Antonio De Curtis, in arte Totò, tra il 1937 e il 1968. Un forziere di giochi linguistici, battute, figure retoriche, che Fabio Rossi, studioso di linguistica, analizza in questo saggio. Non l'ennesimo «libro su Totò», ma un’analisi serissima, e dai risultati a volte sorprendenti, della rivoluzione verbale, grammaticale e sintattica che Totò perseguì mentre ci faceva ridere. Dall'umorismo surrealista dei primi film al funambolismo verbale degli anni Cinquanta, dal pastiche di lingue straniere deformate e dialetti alla famosa lettera di «Totò, Peppino e... la malafemmina», dall’irrisione dell’arcaismo e del linguaggio burocratico allo stravolgimento dei nomi propri, il percorso di un artista della parola. Nella prefazione, Tullio De Mauro parla di un Totò «grande drammaturgo e onomaturgo».

«L'Unità», 31 agosto 2002


Lei è senza alcun vincolo... Sono in un vincolo cieco...

I giochi di parole e le figure retoriche nei film di Totò, l'infrazione della frase fatta, il fraintendimento: «ai postumi, l'ardua sentenza», «non tutti i mali vengono per suocere».

Ricordo che Totò in un film sta per sposarsi ed avere una suocera, che nell'eventualità che muoia, gli fa dire "non tutti ì mali vengono per suocere". Amava infinitamente giocare con la lingua. Nei suoi film sì possono cogliere le figure retoriche più complicate. Il gioco consisteva anche nello sfruttare moltissimo, come del resto ogni comico, alcuni elementi distintivi del parlato. Tipico l'effetto d'eco, che sì riscontra a volte in lingua o nei dialetti quando uno stesso enunciato viene concluso con la ripetizione della sua parte iniziale, spesso spezzata, un fenomeno ancora corrente nel romanesco; noi lo chiamiamo "foderamento" o "frase foderata" o "frase ad eco", tipo romano "si t'acchiappo, sitta", che Totò richiama in "mi ci costringi mici", "il babbo non si frega nonsi".

Da una parte il rispecchiamento, dall'altra l'allontanamento dai modi di dire correnti, l'infrazione ("È meglio cento giorni di galera che un sol giorno con il leone"), il discostarsi dall'automatismo della frase fatta, dal modo normale dì parlare, ora invertendo l'ordine della collocazione ("Desto o son sogno?"), ora sostituendo vocali, consonanti ("volare è potare"; "i pacchi sono pacchi") o una parola (una "sedia a gas", le "mutande dì forza", "in maniche di mutande"). A Peppino che chiede una penna biro, "chi usa biro campa cent'anni" risponde, a Lucia Zoppelli che gli dice "lei è senza alcun vìncolo" intendendo che non è sposato, Totò risponde "sono in un vincolo cieco", e di un tale Totò riferisce che è morto dì "infarto maligno", e dì un altro "Lei per me rappresenta un caso chiuso. E se vuole ricorra pure alla senatrice Merlin", oppure "Ai postumi, l'ardua sentenza".

Ma qui sì tratta già dì fraintendimento. Perché da quando c'è commedia, sulla scena si cerca sempre di non far funzionare la conversazione. Sì mettono continuamente in gioco le figure dell'ambiguità e del fraintendimento. Tipico caso, l'interpretare in senso traslato quello che l'interlocutore interpreta in senso reale. Quando in un film Carlo Ninchi dice a Totò "Mi ha messo una pulce nell'orecchio", Totò risponde "ma che so' scherzi che sì fanno. Si mette la pulce nell'orecchio a un signore galantuomo. [...] La pulce può forare il timpano e va sulla tromba d'Eustachio"; così quando Gino Cervi dice "soprassediamo" Totò subito risponde, benissimo, "sediamoci sopra", e al sentir l'espressione "due miliardi e rotti" Totò domanda "chi lì ha rotti?", e quando Nino Taranto gli chiede ma "perché hai menato il can per l'aia?" Totò stupito subito chiede "quale cane?". Fraintendimenti continui: quando in Le sei mogli di Barbablù il padrone illustra la dignità storica della propria dimora, "un castello dei Medici" dice, Totò immediatamente: "era un ospedale?".

Gian Luigi Beccaria, «La Stampa», 21 giugno 2003


«Parli come badi». Il meglio di Totò gratis con "Specchio"

Tormentoni, paradossi e calembour, il tutto organizzato per temi Un'appendice riporta le trame dei film e i giudizi critici d'epoca «Questo è uno strumento insostituibile per le tribù dei totò-logi»

«Avrei preferito lavorare al tempo del cinema muto», aveva confessato una volta Totò, «perché tutto quello che ho da dire mi viene meglio con la faccia» («la faccia, le orecchie, il naso, le mani, tutto»). E in un'altra intervista aveva lamentato che «il nostro cinema comico, siccome è povero, è basato sulle battute», quasi asfissiato da un ipertrofico accumularsi di «parole, parole, parole».

Eppure quel (molto) che resta di Totò, nella nostra vita di tutti i giorni, sono anche, soprattutto, le parole, i tormentoni, i tic verbali, i paradossi fulminanti, i calembour surreali, le esplosioni nonsense. «Sono un uomo di mondo: ho fatto tre anni di militare a Cuneo» ; «Una mano lava l'altra. E tutt'e due lavano la faccia»; «Ogni limite ha una pazienza»; «Audax fortunajuventus»; e poi: «chicche e sia», «eziandio», «tampoco». Quante volte le abbiamo sentite ripetere, quante volte le abbiamo citate, magari inconsapevolmente? Una buona scelta delle «battute» (ma il termine, ripetiamolo, è riduttivo) di Totò è raccolta nel volume «Parli come badi» (altro tormentone) che «La Stampa» offre ai suoi lettori per lanciare la nuova collana «ComicaMente».

Curato da Matilde Amorosi con la collaborazione di Liliana de Curtis, la figlia del grande comico, il libro (uscito la prima volta dieci anni fa da Rizzoli) è una sorta di full immersion in pillole nel magma ribollente del Totò-pensiero, organizzato per temi, con un'appendice che riporta le trame dei film e i giudizi critici d'epoca. Uno strumento utile per le tribù di totòlogi-totòfili, da usare come guida, come spunto per rammemorare quella mimica facciale, quella voce, quelle pause nella cui azione combinata con il gioco verbale deflagra l'ordigno comico.

Ed è un'esplosione devastante, una fissione nucleare che riproduce a catena i suoi effetti nella coscienza del pubblico che sa capire. La gag, e corrispondentemente la risata, sono soltanto il punto di partenza. «Il rigido, il bell'e fatto, il meccanismo in opposizione all'agile, a ciò che è perennemente mutevole, al vivente, l'automatismo in opposizione all'attività libera, ecco ciò che il riso vorrebbe correggere», ha scritto un secolo fa Bergson. Con i suoi giochi di parole, apparentemente stucchevoli («Moet Chandon? Mo' esce Antonio»; «Se a Milano quando c'è la nebbia non si vede, come fanno i milanesi a vedere se c'è la nebbia?»; «È una piccola forca, è carina, è ima forchetta»), con i suoi lazzi discendenti direttamente dalla tradizione etrusco-latina dell'atellana, dei fliaci, degli «iocularia», Totò mette in crisi le nostre tronfie certezze, a partire da quelle linguistiche, le più innocue. Scava dall'interno luoghi comuni, giudizi e pregiudizi, come un tarlo implacabile, li riduce in polvere, poi ci soffia sopra e la disperde.

Come succede al povero Mario Castellani, alias onorevole Trombetta, nel celebre sketch del wagon-lit (nato a teatro e poi, via via improvvisando, dilatato fino a diventare uno spettacolo a sé, quindi trasportato di peso in un paio di film). Incocciato con tutta la ridicola supponenza del proprio ruolo nel terribile maestro Totò-Scannagatti, viene aggredito nella sua prosopopea, disseminato di microcariche esplosive che sono fatte brillare una dopo l'altra fino a dissolvere, con la rispettabilità sociale e la dignità politica («Onorevole? Ma mi faccia il piacere!»), la stessa identità del malcapitato. Alla fine l'«onorevole» non è più nessuno, non esiste più. È ridotto a una figuretta isterica e penosa, ormai inutile, di cui non resta che sbarazzarsi in fretta: «In galera! In galera!» invoca Totò, tosto accontentato.

Il Genio Comico prende per le corna una situazione consolidata, ne individua il punto critico e la fa saltare in aria. Un'operazione squisitamente eversiva, da «bombardo» appunto. Ma un bombarolo benefico, perché rovesciando le apparenze ne mostra l'intima insussistenza, spazza via dalla nostra mente le incrostazioni e le inerzie intellettuali, fluidifica gli irrigidimenti, ci indica che nessuna realtà è mai definitiva e un'altra interpretazione è sempre possibile. Rimette tutto (e ci rimette) in discussione. E ci restituisce così una straordinaria prerogativa: «Terribile è la potenza del riso», ha scritto Leopardi in ima pagina dello Zibaldone. «Chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire».


Una serie infinita di gag per un genio comico immortale

LA GUERRA

Il danaro fa la guerra, la guerra fa il dopoguerra, il dopoguerra fa la borsa nera, la borsa nera rifà il danaro, e il danaro rifà la guerra. Guerra era un corridore ciclista, perciò noi gridiamo in coro: via Girardengo! evviva Edison, che scoprendo la bussola disse: eppur si muove! («I due orfanelli»)

Hai perso un occhio per la causa? Mi dispiace, ma chi te lo fa fare di perdere tempo con le cause? Vanno sempre per le lunghe, e poi gli avvocati costano cari. Non fare il causillo! («Totò sceicco»)

UOMINI E CAPORALI

L'umanità io l'ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali: La categoria degh uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, la minoranza. I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l'autorità, l'abilità e l'intelligenza, ma con la sola bravure deUe loro facce toste, della loro prepotenza («Siamo uomini o caporali?»)

LE DONNE

La donna è mobile e io mi sento mobiliere («Signori si nasce»)

Signora, sono a sua completa disposizione: corpo, anima e frattaglie («Totò cerca moglie»)

LA MORTE

Avete fatto caso che l'ultima domenica di Carnevale i cimiteri sono un mortorio? («Totò cerca pace»)

Abbiamo vegliato la salma tutta la notte: è stato un veglione («Il monaco di Monza»)

DUBBI

Le manca un polmone? Un altro se ne sta andando? E lasciamolo andare, mo' ci mettiamo a correre dietro a un polmone! Piuttosto, mi tolga una curiosità: lei è vivo? («Gli onorevoli»)

Che mani meravigliose che ha? Ma, mi dica, sono proprio le sue? («Totò lascia o raddoppia?»)

CONSIGLI

Sono tre anni che lei dice di essere un perito, ma non perisce mai. Ma perisca una buona volta, mi faccia il piacere! («Chi si ferma è perduto»)

Terra ai contadini, ferrovie ai ferrovieri, cimiteri ai morti («Totòtarzan»)

OFFESE

Lei è un cretino, si specchi, si convinca («Totò le Mokò»)

Lei è un cretino, s'informi («Totò, Eva e il pennello proibito»)

Maurizio Assalto, «La Stampa», 6 maggio 2004



Totò, il distruttore di lessici (a prescindere)

🎬 1. Totò e il cartone animato parlante (ma solo se strettamente necessario)
Nel 1940, in una memorabile intervista con Cesare Zavattini, il nostro Antonio de Curtis sgancia una bomba semiotica in guanti bianchi: «Vorrei essere un cartone animato. Anche perché parlerei pochissimo». A quanto pare, il Principe della risata sognava un’esistenza fatta di silenzi eloquenti, smorfie metafisiche e gestualità surreali – altro che monologhi. Eppure – ironia della sorte – verrà ricordato come il più potente sovvertitore del linguaggio italiano, l’uomo che trasformò l’aulico in ridicolo e la parola in esplosivo comico. Una specie di Walt Disney del lessico, ma con Napoli al posto di Topolinia.

📚 2. Tullio De Mauro e il lessico “a prescindere”
A conferma che la sua non era solo comicità ma anche rivoluzione linguistica, arriva il timbro blu della filologia: La Storia linguistica dell’Italia unita (1963) di Tullio De Mauro. E cosa ci scopriamo? Che Totò, tra una pinzellacchera e una quisquilia, ha contribuito a disinnescare la carica intimidatoria dell’italiano aulico. Come? Inserendo paroloni da melodramma in contesti da salumeria, generando cortocircuiti linguistici da standing ovation. La lingua, prima granitica, ne esce sbriciolata, ridicolizzata e – miracolosamente – democratizzata.

🧞 3. “Ha d’uopo”? No, ha Totò
L’esempio è lussureggiante: L’Imperatore di Capri. Totò si avvita in un balletto lessicale con l’interlocutore su “ha d’uopo” ed “è d’uopo” con una serietà così serissima da sprofondare nel surreale. Questo è il gag-aulicismo all’ennesima potenza. Il linguaggio, travestito da nota ministeriale del 1882, si autodistrugge nel momento stesso in cui viene pronunciato. Il risultato? L’implosione delle illusioni linguistiche. E il pubblico, ignaro, ride – senza accorgersi che sta assistendo a un sabotaggio del vocabolario.

🕊️ 4. Totò, il San Francesco delle parole inutili
Secondo De Mauro, le parole auliche – così amate dai prigionieri della Prima Guerra Mondiale e dai burocrati del dopolavoro – avevano un futuro promettente... fino a quando non ci ha messo lo zampino Totò. Da allora, un “eziandio” non è più stato lo stesso. La sua comicità ha operato come una fiamma ossidrica sull’uso irriflesso: ha bruciato le certezze lessicali, ha annichilito il prestigio linguistico dei notai e degli zii boriosi. È stato il Robespierre del barocco verbale. La ghigliottina per il “dianzi” usato a sproposito.

🧪 5. Totò, esperimento espressionista da laboratorio
Non è un caso che Gianfranco Contini – mica un recensore del Radiocorriere TV, ma il sommo sacerdote della filologia italiana – lo inserisca a pieno titolo nella tradizione dell’espressionismo italiano, accanto a Gadda e Eduardo. Se togli Totò dal canone dell’assurdo linguistico italico, mutili l’anima stessa della nostra lingua teatrale. Il suo modo di parlare è uno strappo permanente alla logica, un volo pindarico sul burrone della grammatica. È il grammelot elevato a metodo critico.

🔄 6. Dialetti, caos e napoletanità liquida
Entra in scena Raffaele La Capria e alza il livello dell’analisi esistenziale: Totò (insieme al Pappagone di Peppino) è il sintomo e il simbolo della crisi linguistica napoletana. Un misto di italiano approssimato, dialetto contaminato, latinismi fuori fase e surrealtà domestica. La confusione lessicale è il sintomo di un’insicurezza ontologica, di una napoletanità in crisi di identità, spaesata, ma sempre elegantemente ironica. Un barocco verbale per anime in cerca d'autore (e dizionario).

🔍 7. Edgar Radtke, l’archeologo dei giochi di parole
Nel 1983 arriva Edgar Radtke, che fa quello che ogni germanista innamorato dell’Italia prima o poi sogna: un trattato scientifico su Totò. Lo analizza come fosse un codice da decifrare. Un enigma linguistico di portata galattica. E cosa scopre? Che la comicità di Totò è una pirateria linguistica che deruba e devasta ogni forma di serietà semantica. Gli “eziandio” e i “chicche e sia” non sono solo vezzi comici, ma armi linguistiche di distruzione di massa.

🚫 8. Contro l’istituzione linguistica, a suon di paroloni sventrati
Totò prende il linguaggio istituzionale, quello delle aule parlamentari, dei consigli d’amministrazione e dei bollettini militari, e lo profana. Gli toglie l’aura, lo sveste, lo lascia nudo e ridicolo. “A prescindere”, “è d’uopo”, “dianzi” e compagnia bella: non sono più strumenti di distinzione, ma bersagli mobili del suo umorismo. E così facendo, Totò compie un atto rivoluzionario: libera il popolo dalla soggezione linguistica. Chi lo guarda, da quel momento in poi, ogni volta che sente un “nondimeno”, ride dentro.

🎭 9. L’uomo che mise in ridicolo l’italiano (e fu ringraziato)
Il paradosso è gustoso come una sfogliatella: Totò, che voleva parlare pochissimo, è diventato il padre spirituale di una nuova consapevolezza linguistica. Ha elevato il nonsense a strumento di analisi socioculturale. Ha spinto l’italiano verso un nuovo stadio evolutivo, dove l’aulico e il prosaico si mescolano come prosecco e gassosa. Il tutto, mentre rideva. E noi con lui.

🔚 10. Conclusione: Totò e la grammatica ribaltata
Totò è stato la zanzara nel sonno lessicale dell’Italia postunitaria. Ha distrutto la compostezza del linguaggio paludato. Ha profanato il latino delle élite. Ha ridotto in pinzellacchere le quisquilie del formalismo verbale. E lo ha fatto mimando, dicendo, sbagliando apposta. La sua lingua non è un errore: è un miracolo. È il dialetto che diventa linguaggio universale. È la burla che diventa poesia. È – per dirla con lui – un’opera a prescindere.


Mappa concettuale dello stile linguistico di Totò, con al centro il suo approccio teatrale e verbale rivoluzionario, e tutti i principali rami che lo compongono: dalla mimica subordinata alla parola, alla distruzione del linguaggio aulico, fino all’eredità linguistica lasciata a tutta l’Italia. (seleziona per ingrandire) 

Totò, Glottodissidente Planetario

Viaggio semiserio nella Babele Comica di un uomo solo contro l’Accademia della Crusca

🧩 1. La Torre di Babele? Totò l’ha già buttata giù
Nel dopoguerra, mentre gli italiani ancora si chiedevano se il congiuntivo fosse un mobile dell’IKEA o un attrezzo agricolo, Totò anticipava tutti con una visione degna di Erasmo da Rotterdam e di Alberto Sordi insieme: la lingua italiana è un grande patchwork di dialetti, arcaismi, finto latino, tecnicismi da manuale di istruzioni e slogan pubblicitari mal digeriti. E lui? Li prende tutti, li mastica con l’aria di chi ha appena letto Orazio al caffè e li sputa fuori sotto forma di gag, frasi sconclusionate e apoteosi comiche. È come se avesse letto tutto il De Vulgari Eloquentia di Dante e lo avesse riscritto con un pennarello sul retro di una locandina del Teatro Jovinelli.

🌀 2. L’anarchia linguistica come missione divina
Il suo è un talento da linguista-cannibale, un antieroe dell’Accademia, che non si limita a parodiare gli usi e gli abusi dell’italiano: li metabolizza, li astrae, li contrae, li amplifica. Insomma: li totòizza. Totò è come un minestrone linguistico sul punto di esplodere: dentro ci trovi la réclame e l’editto, la ricetta e il decreto, l’annuncio teatrale e il verbale del vigile urbano. Eppure, tutto viene tenuto insieme da un filo rosso: la parodia consapevole, chirurgica e spietata dell’ignoranza ambiziosa. Quella dei semicolti, dei borghesi improvvisati, degli autodidatti che, con una “Egregio” buttata lì, si sentono Verga in persona.

📡 3. Frequenze sfasate, comunicazione scassata
Ma Totò non si limita a ridere della lingua. Totò denuncia. Smaschera. Mostra come la lingua italiana, dietro la maschera dell’unità, sia un frankenstein di varianti regionali, idioletti e accenti che rendono la comunicazione tra due italiani del Nord e del Sud più complicata di una chiamata interstellare. Il suo è un mondo linguistico dove la parola non unisce, ma separa. Dove l’italiano è come un menù trilingue letto con la pronuncia della nonna. Un campo minato di formalismi, regole fluttuanti, aulicismi da terza liceo e dialetti mimetizzati da italiano corretto.

E quando le cose si complicano troppo? Totò ride. E noi con lui.

🎭 4. L’attesa sovvertita: il cuore del comico
Tutto il sistema comico di Totò si basa su una legge inviolabile: smentire ciò che lo spettatore si aspetta. Se pensi che il barone parli forbito, Totò gli fa dire “le vacche morenti di tristezza”. Se credi che l’inglese sia un ostacolo, ecco Totò che parla un francese inventato, un tedesco da salumeria e uno spagnolo che sembra un inno alla Sagrada Confusione. Ma attenzione: il suo nonsense non è mai casuale. È un codice interno. Un gioco di prestigio. Sotto ogni battuta assurda, c’è sempre un’intuizione geniale sulla miseria della comunicazione e sulla goffaggine dell’ascensore sociale a base linguistica.

🌍 5. Geografie linguistiche parallele
Nel mondo mentale di Totò, l’Italia non è quella che impari a scuola. Non ci sono regioni, province o confini linguistici chiari. Ci sono invece pianeti semantici in conflitto. C’è il napoletano che finge di essere italiano standard. L’italiano standard che imita il latino scolastico. Il latino scolastico che si mimetizza tra gli slogan pubblicitari. E poi ci sono i forestieri, i turisti, i poliglotti improvvisati: per loro Totò ha un vocabolario speciale, fatto di gesti, sguardi, suoni gutturali e grida universali. Laddove l’italiano fallisce, Totò inventa la lingua dei popoli uniti dalla risata.

🗺️ 6. Dialetto vs. Straniero: la vera guerra fredda è dentro i confini italiani
Un francese che parla un improbabile italiano si capisce più facilmente di un milanese che cerca di farsi capire da un calabrese. Questo è il verdetto dell’universo totòesco. Le barriere più solide non sono quelle tra le nazioni, ma tra i dialetti italiani, o meglio, tra le “italianità” locali, ciascuna convinta di essere la vera erede dell’italico idioma. Il comico napoletano demolisce le gerarchie linguistiche con la precisione di un chirurgo e l’allegria di un bambino che gioca a fare il professore. Il risultato? Ogni idioma diventa intercambiabile. E tutto può diventare pretesto per una battuta.

⚖️ 7. Il sublime e il ridicolo sotto lo stesso cappello (a bombetta)
Laddove Leopardi scriveva: “la lingua è viva, muta con gli usi”, Totò risponderebbe: “Eziandio, muta troppo, e io ci faccio le imitazioni”. Con quel suo misto di aristocratica indifferenza e popolare sapienza, il Principe ci mostra che ogni varietà linguistica – alta, bassa, media, arrampicata – è soggetta alla stessa legge comica: se la usi male, scivoli. Se la usi troppo bene, inciampi. Se la usi troppo e basta, diventi ridicolo. E la risata è lì, pronta, come una trappola semantica piazzata tra le righe.

📜 8. Conclusione: Totò, campione olimpico di linguistica applicata (alla comicità)
Totò non è solo un attore. È un filologo travestito da maschera. Un linguista applicato alla battuta. Un comico che ha trasformato le disfunzioni dell’Italia linguistica in un’epopea dell’assurdo. Dove gli italiani si scoprono forestieri in casa propria. Dove il latino suona come un ritornello da varietà. Dove il formalismo burocratico viene smontato come un mobile svedese montato al contrario. E dove ogni parola, anche la più banale, può trasformarsi in un’esplosione di senso, o meglio: di non-senso.

E tutto questo, ovviamente, a prescindere


Riferimenti e bibliografie:

  • Giuseppe Romeo, Totò critico dei linguaggi, in Totò partenopeo e parte napoletano: il teatro, la poesia, la musica, Venezia, Marsilio, 1998
  • Valentina Ruffin, Identità italiana ed identità europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico: "Totò, un napoletano europeo", Ed. Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996
  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977
  • "Totò attore" (Ennio Bispuri) - Gremese, 2010
  • Franca Faldini - Goffredo Fofi, Totò, Roma, Tullio Pironti Fallaci 1963
  • Archivio Storico quotidiano "La Stampa"
  • Archivio Storico quotidiano "l'Unità"
  • Archivio Storico quotidiano "Corriere della Sera"