E TOTÒ DISSE A DI GILIO: «IO FACCIO RIDERE IL PUBBLICO, TU FAI RIDERE ME»
Mario, facciamola finita. Restituisci la mia identità, se no ti taglio i viveri. Me so' scassato 'o cazzo di essere te.
Aneddoti e curiosità
La sera del debutto al Sistina
«In compagnia c’era Enzo Turco, la spalla di Totò. Ricordo che una sera venne concitato in camerino: 'Di Gilio, il Principe ti vuole'. Io gli risposi un po’ seccato: 'mi sto truccando!'. Totò, che aveva sentito tutto, chiamò Turco: 'Digli che gli do cinquemila lire'. Io lo sentii: 'Sto venendo'. E Totò sorridendo: 'Guarda adesso come corre'».
La generosità di Totò
Ci sono tantissimi aneddoti sulla generosità di Totò. Durante la tournée c’era un orefice che veniva a vendere gli ori destinati a ballerine e soubrette. Un giorno volli farmi un regalo e acquistai un anello che costava ben 240 mila lire mettendomi d’accordo sul pagamento rateale. Dopo la prima rata, però, non avevo più pagato e ogni volta che l’orefice veniva in compagnia io tra mille sotterfugi lo evitavo. Totò se ne accorse e mi chiese perché. Glielo spiegai, lui aprì il portafogli e mi diede i soldi necessari a saldare il debito».
«Lui amava i personaggi bislacchi, particolari. 'Di Gilio, mi chiamava, cosa si dice in Galleria a Napoli?'. C’è uno che addormenta le galline. Si chiama Vincenzo ’o pazzo. E glielo imitavo. E lui si divertiva. Una volta volle conoscerlo, andammo insieme in Galleria ma gli fece talmente pena che mi diede 50 mila lire da regalargli, in biglietti da dieci. Quando tornai mi chiese: 'quanto gli hai dato?'. 'Ventimila lire'. 'E io lo sapevo!'».
La scommessa
Durante la tournée facevamo ogni sera una scommessa: sul palco io interpretavo un gendarme che doveva restare fisso, immobile, mentre lui diceva delle battute. La scommessa era: se ridi tu mi dai duemila lire, se rido io le do io a te». Risultato? «Mi ritrovai con 28 mila lire di debiti che lui mi scalò chiedendomi di fargli compagnia a mangiare tubetti e fagioli al ristorante».
La disponibilità di Totò
Una volta, al Nuovo di Milano, vennero a trovarmi i miei fratelli e io glieli presentai. Lui parlò bene di me e poi chiamò l’autista, Cafiero, e gli disse: 'accompagna i giovanotti a teatro, c’è Carlo Dapporto, se vi piace restate a vederlo se no tornate qui. Oppure potete andare a vedere Erminio Macario, quello col ricciolino. Sempre se vi piace...'».
Questo viso non mi è nuovo...
"Si chiamava Margaret, era inglese, di una bellezza imbarazzante... una volta stava parlando con me e, con un costume di scena succinto, volgeva le spalle a Totò. Fu allora che nacque una battuta famosa: 'questo viso non mi è nuovo...'. La soubrette girandosi con sguardo serio e interrogativo chiese spiegazioni e io le dissi: 'no, it's your face". Scoppiò a ridere e se ne andò. Totò esclamò risentito: 'come, io ho detto viso e si è risentita, tu hai detto fessa e si è messa a ridere!'...».
La medaglia d'oro
Antonio de Curtis ottenuti oramai i suoi titoli regali e raggiunta una certa agiatezza economica, fece coniare una medaglia d'oro del peso di 50 grammi con impresso il suo profio proprio come un imperatore romano. Regalava questa medaglia ai suoi amici più intimi anche perchè osservando il suo profilo somigliava proprio ad un imperatore romano .
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
Al Teatro La Scala della Vita in Milano : Mario di Gilio ci parla del Vero Teatro ricordando i suoi intriganti trascorsi (Pietro Cutensin via YouTube)
Reciterà con Totò l’imitatore fenomeno
Mario Di Giglio, l'imitatore fenomeno, l'autentica sorpresa di «Senza titolo», che si replica al Nuovo, la sera della prima tradiva una violentissima emozione. Non si aspettava tanti applausi, nè si immaginava di poter suscitare un cosi fragoroso entusiasmo. Poi, in camerino, durante l'intervallo, sono cominciate le soddisfazioni: i complimenti dei compagni di lavoro, degli amici che gli assestavano vigorose manate sulle spalle, ili sconosciuti che gli ripetevano all'orecchio un simpatico ritornello: « Bravo! ». Ma la visita più attesa doveva essere quella di Remigio Paone, il quale è stato, secondo la sua abitudine, assai sbrigativo: «Vuoi venire con Toto?». Di Giglio ha risposto, confuso, che non sperava tanto. Al che Paone ha replicato: «Allora è affare fatto». Per quanto riguarda il compenso, si dice che il bravo imitatore percepirà diecimila lire per sera.
L. Bar., «Corriere d'Informazione», 21 giugno 1956
Ha la voce di Totò e di altri 300 ma solo Costanzo se ne è accorto
E' Mario Di Giglio: ieri ha espresso coi estrema facilità una gamma di voci, maschili e femminili, da tenore o da soprano: ma la tv non si ò accorta di lui - La maggior parte di noi non ha mai sentito parlare di Mario Di Giglio: è un testimone delle incapacità e della scarsezza di fantasia degli imprenditori dello spettacolo italiano.
DI GIGLIO è stato ieri fra gli invitati di Costanzo che è ormai il solo personaggio tv che quando destina a qualcuno un aggettivo, ti puoi fidare: e Costanzo ha definito Di Giglio uno straordinario personaggio. Anche a me sembra sia così. Di Giglio, un signore che non è più un giovanotto se già nel 1950 aveva a che fare con Totò, ha dato ieri un saggio delle sue capacità di riprodurre le voci: se lo avete visto bene; se no garantisco che al suo confronto tutti gli altri, da Noschese a Sabani a Papa sono nessuno.
Di Giglio si impossessa delle voci, di chiunque così come una macchina fotografica si impossessa dell’istante di un’immagine: la voce di Di Giglio e quella del titolare. Totò, De Sica o un tenore, un soprano, uno strumento musicale e, comunque, ben 300 altre voci. Di Giglio le rende così uguali fra loro da far pensare si impossessi anche del carattere e dell’anima della voce stessa. Eppure a questo Di Giglio, in 35 anni di Rai e in dieci di Berlusconi e compagni, nessuno ha mai dato un angolino in un programma tv.
(E.d.M)
Sessant'anni di spettacolo!
Mega-intervista del tenente Colombo a Mario Di Gilio, opportunamente definito “il re degli imitatori”
Mario tu sei di Salerno. Non sono molti i salernitani emersi nel settore Spettacolo a livello nazionale od internazionale.
«Sì, sono nato a Salerno il giorno 11 di aprile. Come salernitani nell’àmbito dello Spettacolo, che vantino una certa notorietà siamo una manciata. A parte me nel mio genere, il cantante Bruno Venturini, e tre attori: Mario Vitale, Franco Angrisano ed Augusto Di Giovanni. Angrisano lo promossi io, ci teneva a diventare attore, insisteva, e poi, infatti, vedi che ruoli è riuscito a lasciare in pellicole importanti! Mario Vitale iniziò con "Stromboli" e poi fece altri ruoli fra i "giovani e belli" degli anni cinquanta. Augusto Di Giovanni era stato il primo di tutti noi ad entrare sia nel cinema che nel teatro. Dopo la morte di Totò, mentre stavo chiacchierando con il mio concittadino Augusto, il quale aveva lavorato con Totò, a partire dal film intitolato "San Giovanni decollato"(1940), io rilevavo: "Io sono stato il secondo salernitano ad aver lavorato con Totò"; Augusto Di Giovanni, che stava ascoltando la mia considerazione, mi chiese: "Ma tu, ci parlavi?" Anche vivendo il teatro sera per sera con una persona può anche non esserci dialogo, ma da ciò che ti ho esposto in questi anni, ben sai come io fossi uno dei pochi coi quali, Antonio De Curtis parlasse, ed abbiamo dialogato per tutti i circa sei mesi di tournèe; così, risposi ad Augusto: "Sì, certo che ci parlavo". E lui: "Io no. Si giravano le scene insieme e poi basta. Ognuno per la sua strada."»
Sei figlio d'arte od hai parenti nello Spettacolo?
«Il filosofo Nicola Abbagnano era cugino di papà; ed avevo uno zio materno artista, ossìa il tenore Aniello De Chiara, appunto fratello di mamma, che andò in America, ed anche mio cugino Valentino Di Gilio che era un pianista.»
Il tuo cognome esatto è Di Gilio, come ho ribadito chiaramente altrove. In molte recensioni, ma perfino in parecchie locandine, tamburini, pubblicità, sei riportato insistentemente come: “Di Giglio": un vezzo o la modifica come "nome d'arte?
«No. E' il mio destino. Una maledizione? Una condanna? Come hai ripetuto tu, io di preciso mi chiamo Mario Di Gilio, e non ho mai scelto, nè firmato per nomi d'arte. Ho sempre preferito essere riconosciuto per chi sono. La "g" in più è un puro e semplice errore spesso ritornato nonostante le mie proteste; ad un certo punto mi sono arreso e stancato di dover correggere ogni volta. Pensa che persino nel mio periodo da carabiniere e nel passaporto sbagliarono scrivendo: " Mario Di Giglio".»
Come hai appena accennato, sei stato, in primo luogo, un carabiniere. Vuoi parlarci di questa esperienza? Come fu e perché?
«Sì, sono stato carabiniere per tre anni. Mi ero arruolato volontario perché, orfano di padre, avevo una madre e quattro fratelli da mantenere, oltre a me stesso. Nel 1995 lo raccontai alla giornalista Matilde Amorosi, la quale mi dedicò un bell'articolo nel giornale "Gente" intitolato: "48 anni dopo una testimonianza clamorosa//così vidi Salvatore Giuliano sparare". Precisamente con matricola numero 25, dai documenti che conservo, risulta che entrai nell'Arma il 14 agosto 1946, e che mi congedai il 12 settembre 1949. Mi arruolai volontario scegliendo una carriera che reputavo oltre che onesta, interessante e per più di un motivo: il bisogno di uno stipendio fisso, il fascino della divisa, il rendere omaggio e continuità al mio caro papà, Romolo, che non c'era più e che era stato un eroe della "Grande Guerra", o "Guerra Europea" o "Prima Guerra Mondiale" che dir si voglia. Papà era stato Maggiore dell'esercito con Medaglia per atti eroici nel 1917, e se ne è andato per sempre nel 1940. La sana e robusta costituzione fisica e l'altezza erano dalla mia parte. Anche se da sempre il mio desiderio ed aspirazione maggiori erano fare il cantante e magari l'attore, come già avevo mostrato a me stesso nell'età della crescita, la sua precarietà me ne aveva fatto accantonare l'idea. Così, per pratiche necessità ed orgoglio, uniti alla incoscienza giovanile, il fascino della divisa ebbe il sopravvento, anche perché ne sentivo il "luogo comune" di un maggior ascendente per la "conquista" delle ragazze. Comunque non smettevo di ascoltare i cantanti alla radio, né poi, di tentare di riprodurli con la mia voce, devo riconoscere, stupendo positivamente anche me medesimo, riuscivo a somigliare alle rispettive voci che riproponevo. Non evitai affatto di mantenere viva questa mia dote, anche in quel triennio nell'Arma, creandomi sia simpatìe, fra i colleghi ed i superiori, che qualche immancabile invidia. Feci il corso per allievo carabiniere a Gaeta, all'interno del penitenziario militare.»
Certo 3 anni nell'Arma non sono un giorno, anzi tu ne conti 1125, e sei anche stato un testimone sopravvissuto di un episodio storico, sul quale ci dilungheremo più in là. Tornando a te: quando ti sei accorto della tua dote del saper imitare? Da bambino?
«Me ne sono reso conto da adulto, ma la duttilità delle mie corde vocali la sfruttavo fin da bambino. Era come un gioco. Ricordo che accendevo la radio, ascoltavo abbastanza rapìto e concentrato, memorizzavo parole, intonazioni ed inflessioni, le quali poi mi dilettavo a riprodurre. Data la diffusione radiofonica dei suoi discorsi, probabilmente la prima fra le voci "non-cantate" che ho iniziato a "rifare", appunto imitandola, credo sia stata quella di Benito Mussolini. Quando anni dopo ero in tournée con Romano Mussolini, ultimo figlio del "Duce", musicista jazz, mentre dormiva gli imitavo il suo papà; ricordo anche che gli ho recitato il mio numero della "partita di pallone" al telefono; come si divertiva Romano, anche se si svegliava di soprassalto, e come mi divertivo io a fare ‘sti scherzi! Ho sempre avuto l’animo burlone...»
Sei un burlone del segno zodiacale dell’ariete; ma da bambino che facevi: cantavi? Imitavi?
«Avrò avuto fra i sei e gli otto anni, e nella mia Salerno, assieme a mia sorella, prendemmo parte ad una amatoriale e dilettantistica “sceneggiata di quartiere" durante la quale cantavo con pathos "Torna a Surriento", alternandovi voci maschili e femminili: credo mi riuscisse bene perché ricordo gli sguardi allibiti e gli applausi fragorosi e commossi delle persone. Poi da ragazzo iniziai a giocare imitando un postino: mi divertivo perché gli inquilini si affacciavano davvero convinti di aver ricevuto posta.»
Quindi, al penitenziario militare di Gaeta hai affrontato la selezione come allievo carabiniere.
«...e mentre ero in attesa imitavo qualche cantante napoletano in motivi celebri, dando già modo ai primi colleghi e superiori di schierarsi fra ammiratori ed invidiosi. A Gaeta feci sei mesi di addestramento.»
Salvatore Giuliano tu lo hai visto e sei anche uno dei sopravvissuti al tragico episodio di "Portella delle Ginestre", al quale eri presente! E' citato nei libri di Storia. Ci rievochi la tua versione?
«Da Gaeta fui comandato in Sicilia, nel palermitano e precisamente a Piana degli Albanesi. Appena mi vide, al Maresciallo Maggiore Portera, venne spontaneo dire: "Ma questo qui mi sembra Nino Taranto." Data la mia indole canora non mancai di farmi apprezzare; cantando " O sole mio" con un acuto ben piazzàto conquistai proprio Portèra, il quale, mi invitò a cantare a casa sua e mi elesse: "il mio carabiniere preferito". Sua moglie era americana ed adorava le canzoni napoletane: quale miglior occasione di un carabiniere canterino che le riproduceva? Al contrario, il Maresciallo Capo Parrino, proprio per questa mia passione canora, non mi sopportava. Un giorno, mentre ero in un bar per degustarmi un caffè, entrarono tre esponenti di quella che allora era la nuova Mafia locale: Badalamenti, Pisciotta e Giuliano. Lo ricordo come fosse ora. Ho impresso il viso di una signora, aveva in mano una tazzina, tremava. Ero nella mia divisa da carabiniere, ma ero disarmato. Salvatore Giuliano vistomi inoffensivo e ragazzo contro il quale, in fondo, non aveva niente di personale, ebbe pietà, ma mantenne la sua fama intimandomi: "Vattene!" Non potendomi difendere, ovviamente non osai sfidare quei tre malviventi, me ne scappai ed oggi lo posso raccontare... Ma non era finita lì. Al ripensarci mi viene la "pelle d'oca". Qualche giorno dopo era prevista una pacifica Festa con intervento di gente "comune" e rappresentanti sindacali, la località era, Portella delle Ginestre, l'occasione era il Primo Maggio 1947. Non lo dico io, è scritto nella Storia. Come carabinieri fummo comandàti io ed il mio collega Angelo Salerno, e come superiore il Maresciallo Parrino; quando un sindacalista iniziò con: "Compagni lavoratori, oggi è la festa" fu interrotto da quelli che non capimmo subito fossero spari, intendendoli per "trick track", cioè "fuochi artificiali" di festeggiamento. Ma, visti i cecchini appostati, realizzammo rapidamente l'equivoco, e scattammo; mi spostai verso il mezzo "della scena" allo scopo di proteggere con il mio petto Parrino, proprio quello al quale ero antipatico, e, che in quel frangente era il mio comandante. Come mi spostai, la ragazza che si era trovata ad occupare la posizione dove mi trovavo fino a pochi secondi prima, cadde a terra crivellata di colpi! L'inferno durò quindici minuti (primi). Una strage che ho sempre davanti agli occhi. Montai su di un cavallo mentre alcuni briganti volevano il mio fucile ma non lo cedetti, come era mio dovere di carabiniere, e ne rimasi ferito ad un braccio, però riuscirono a disarcionarmi. Caddi da cavallo, restando appiedato. Per fronteggiare l’attacco, pensai subito di chiamare i rinforzi, e per farlo, corsi a piedi i nove kilometri che mi separavano dalla caserma, dove giunsi alle 11 e 25. Qui mi aprì il carabinier Fusco, mio collega napoletano, chiedendomi, allibito: "Ma che fai?" Ma io senza perdere tempo interpellai subito il battaglione mobile. Nel frattempo, mentre il mio eroico collega Salerno inseguiva Giuliano, il maresciallo Parrino stava rientrando arrabbiato e, mentre, riferendosi a me, mi accusava: “…lui se ne è andato…è abbandono di posto…”, lo udì il Maggiore Ruscazio, il quale, disse: “…intanto, mettetelo dentro…” e, nell’attesa di chiarimenti, mi fece chiudere in camera di sicurezza, mi fece annullare tutti i turni di servizio programmati, mi furono tolti i lacci. Mi sentivo innocente, ma attesi di poter chiarire l’equivoco. Rimasi in stato di fermo due giorni con il dubbio dell’accusa di "abbandono di posto"; in quei giorni continuavo a cantare. Alcuni giorni dopo, processato a Palermo, al colonnello Luca che mi stava interrogando, risposi: "Guardi, a diciotto anni non si ha paura. Corsi il più rapido possibile allo scopo di chiamare i rinforzi". Pensavo al mio eroico padre, insignìto di riconoscimento, e volevo essere degno di lui. Ma fui trasferito e poco più di due anni dopo mi congedai. Il mio caro collega Angelo Salerno vive da decenni a Toronto, dove anni dopo lo reincontrai, come ti racconterò più avanti.»
Non mi soffermo sui tuoi ultimi due anni da carabiniere, abbastanza diciamo "routinari", ma ti faccio una domanda specifica: fra gli agenti che poi presero parte alla "caccia a Salvatore Giuliano", e la sua banda, che cosa sai di Giovanni Maimone ed il suo fedele e fenomenale cane Dox, un pastore tedesco sul quale nel 1998 è uscito un libro curato dalla, purtroppo deceduta, signora Cyta Vacanti? Inoltre, Dox e Dox Junior sono stati utilizzati, senza la dovuta pubblicità, in alcune pellicole, che ne sai?
«Li ho sentiti nominare, ma non li ho mai incontrati, nè in quel triennio e neppure dopo.»
Mario, quindi, dopo il congedo che cosa hai fatto?
«Sono tornato in famiglia a Salerno, con mamma ed i miei fratelli. Il 1950 era un "Anno Santo" per tutti i cattolici, e l'evento mi coinvolse, assieme a tre coetanei, tutti giovani di buone speranze, che dall'Alto speravano in una illuminazione sulla incertezza del loro futuro. Convinti, a primavera prendemmo una decisione destinata a segnarci per il resto della Vita: andare in pellegrinaggio a Roma. Da Salerno. A piedi. Circa 260 kilometri in otto giorni. Gli altri tre, salernitani, erano: Angelo Curicigno ed i fratelli Peppe e Francesco Zizza.»
Il tragitto Salerno-Roma e poi ritorno tutto a piedi?
«Esattamente. C'è da dire che non vi era il traffico di veicoli di oggi. Ma nemmeno le strade erano lineari ed asfaltate. E la distanza era ovviamente quella. Era un sacrificio, ma decidemmo di affrontarlo volentieri. Un voto che ci "accollammo" con entusiasmo di ragazzi. Non fu facile.»
Così poi siete stati ricevuti dal Papa di allora?
«Aspetta che racconto. Durante il tragitto facemmo varie soste, dormendo in stalle. Sostammo a Nocera Inferiore, Napoli, eccetera... Giungemmo a Roma con le scarpe rotte, le gambe gonfie ed oramai senza soldi, tanto che ci arrestarono.»(ride)
Cioè vi misero in galera? Un ex carabiniere in carcere?
«Passammo una notte in camera di sicurezza. Erano altri tempi certo, ma dovevi vedere noi quattro come eravamo ridotti: sembravamo degli sbandati. Ci interrogarono e spiegammo le nostre intenzioni. Così fummo accorpati agli altri pellegrini in lista per l'udienza dal papa. Sono divergenti le opinioni su “Pio dodicesimo”, ma per quanto mi riguarda non ne posso che testimoniare in bene. Dava veramente udienza a tutti. Un sacerdote venne verso noi 4 e saputo del nostro pellegrinaggio a piedi ne fu ammirato: " E' una cosa che vi fa onore. Mi raccomando di prepararvi una supplica da rivolgere al Pontefice, per quando vi darà udienza." Di noi quattro, Peppe Zizza era il più sensibile ai "morsi della fame". Nella attesa ci sfamavano con brodini e pasti minimi, ma non da saziare dei giovani esuberanti. Ci preparammo le suppliche personali, ciascuno da rivolgere poi al Papa per averne la benedizione, come ci era stato detto di fare. Interrogai Peppe: "Cosa chiederai tu?" E lui, ironico, ma sincero: "Santità, c'è niente da mangiare?"»
Fantastico.
«Ti assicuro che è tutto vero. Quando fummo al cospetto di Pio 12°, la benedizione ai fratelli Zizza si rivelò favorevole; uno aveva chiesto di potersi laureare e poi ci riuscì, l'altro di entrare alle Poste ed infatti, poi vi entrò. Angelo fu benedetto per una laurea, ma poi si impegnò fino al diploma. Il Papa quindi si rivolse a me: "E tu che sei il più vispo?" Gli confessai "Io vorrei fare l'Artista, mi piacerebbe cantare"; come sai avevo continuato a cantare le canzoni altrui, imitando le altrui voci, anche durante il mio triennio nell'Arma. Udita la mia inconsueta supplica un Cardinale mi intimava: "Zitto! Ti sembrano richieste?" Ma Pio 12° intervenne: "Lascialo parlare" e concluse: "Va bene pregherò per te come cantante" "Santità la ringrazio molto." Distribuì un santino ciascuno dicendoci di seguirlo nella processione; il Papa si fermò davanti la Porta Sacra poi si voltò benedicendo noi fedeli che stavamo inginocchiati.»
A proposito di Papi della fede cattolica: fanno parte del tuo repertorio di voci?
«Sì. Per un periodo concludevo il mio ciclo di imitazioni con il Saluto di un Papa. Nel 1963 a Loreto, usando il microfono nell'effetto dell'eco, che era parte integrante del pezzo, con la mia vera voce presentai: "Se mi consentite, visto che è la sede adatta" ed iniziai ad imitare Papa Roncalli-Giovanni 23°, specialmente nella sua frase più nota in assoluto: "quando tornate alle vostre case, date una carezza ai vostri bambini e dite, dite loro, questa è la carezza del papa; c’è la luna che ci guarda, stasera..." Sopitisi gli applausi un prete si inginocchiò baciandomi la mano; un altro prelato mi disse: " Lei ha il diavolo in gola: è troppo bravo."»
Tornando al 1950, dopo la benedizione papale partiste per Salerno.
«Sì. Sempre a piedi, come ci eravamo ripromesso. In località Forni, a 40 kilometri da Roma, eravamo stremati dalla fame. Sedemmo davanti ad una trattoria, non era ancora aperta, dato l'orario. Mi balenò un'idea che espressi ai miei tre "compagni d'avventura":"Sentite. Il Papa non ha detto che devo cantare? Appena aprono ci sediamo e poi lasciate fare a me." Una volta aperto entrammo assieme ad altri clienti. Sedemmo ad un tavolo ordinando piatti per saziarci, a cominciare da una pastasciutta. Quando ci fu portato il conto, mi alzai e con coraggio dissi: "Signori noi siamo stati a Roma, abbiamo visto il Papa e non abbiamo una lira." Non ti riferisco il commento incazzato dell'oste che iniziò con gli insulti indirizzati contro noi quattro. Lo interruppi: "Aspettate, voglio fare una cosa." E facendo appello alle mie corde vocali mi produssi, con trasporto, in canzoni dell'epoca. Gli altri clienti erano camionisti napoletani che rimasero entusiasti esplodendo in una serie di "Bravo! Bis!" e richieste varie, che esaudii. Al termine i camionisti, improvvisato pubblico, fecero una colletta e raccolsero 2.500 lire. Finì fra applausi, abbracci e pianto sincero. Era un'epoca veramente sentimentale. Pagammo l'oste e ci avanzò qualche cosa per il resto del viaggio di ritorno.»
Un racconto che merita attenzione. Devi molto alle tue corde vocali ed al tuo "senso musicale".
«Certo. Poi, ricordo che, a 30 kilometri da Salerno, non avendo più una lira, tradimmo le nostre intenzioni, perché stremati. Eravamo presso Cava dei Tirreni e decidemmo di salire sopra un carrettino che trasportava pomodori; per il peso, però, si ruppero le stanghe, l'asino scappò e caddero a terra tutti i pomodori. "Farabutti!" fu il commento del contadino giustamente arrabbiato, il quale, ci inseguì con il bastone. A Salerno, essendosi sparsa la eco del nostro pellegrinaggio, fummo festeggiati: ci accolse il sindaco, ci fecero un articolo, ne parlarono alla radio.»
E dopo il "pellegrinaggio" come hai vissuto?
«Convinto delle mie doti di cantante, consacrate dalla benedizione papale e confermata dai camionisti "conquistati", decisi di sfruttare la mia voce, e non più solo come diletto, o come fonte di scherzi. Mi proposi in una Compagnìa girovaga, dove fui accolto, e nella quale, ricordo che, ad esempio, nel classico testo "le due orfanelle" io interpretavo quattro parti. E dopo tale esperienza decisi di trasferirmi a Napoli.»
Una città capoluogo difficilmente non dà lavoro a chi lo cerca davvero; per vicinanza e per “temperamento”, quella a te più consona, era appunto Napoli. Finalmente eri a Napoli, raccontaci...
«A Napoli frequentavo la Galleria, più che un punto d'incontro o di appuntamenti, luogo dove gli Artisti meridionali in cerca di scritture ci vivevano, ci passavano anche giornate intere e nottate.Mi assunse un signore detto "Papele 'o marenaro". Napoletano, parlava in dialetto e con rapidità tale che accavallava i periodi, al punto che spesso, era difficile capirlo, e per questo motivo mi divertiva imitarlo. Così come imitavo pure Pasquale Pinto, che nell’ambiente degli impresari teatrali, corrispondeva al “Peppino Amato” del cinema: entrambi storpiavano le parole, riuscendo di una comicità imprevedibile nella sua semplicità. “Papele” faceva l'impresario per matrimoni, e lavorando in quell'àmbito non potevo certo contare su paghe , ma perlomeno sopravvivevo, mangiando gratis. Inoltre mi facevo conoscere, e ciò mi induceva a mantenere viva la speranza di approdare ad una occupazione redditizia. Mi sono così esibito a feste di piazza, e perfino al Teatro Apollo, sempre nella città di Napoli. Qui alla Galleria (di Napoli) conobbi vari Artisti che nel passato avevano avuto una certa notorietà nel Varietà, o nelle Compagnìe dialettali, come ad esempio il simpatico Salvatore Cafiero della ex ditta “Cafiero-Fumo”. Mi presentai a De Marco che chiestomi ciò che sapevo fare e quanto chiedessi di paga, mi rispose, che per tale cifra, anziché un imitatore, avrebbe preferito assumere “gli originali”…! Comunque, pian piano si sparse la voce sulle mie qualità canore e vocali tanto che, ad un certo punto, mi si presentò il signor Petruccioli, vale a dire quell’ impresario che mi propose: "Vuoi “fare” Beniamino Maggio?"»
E fu durante il tuo periodo a Napoli che finalmente realizzasti di essere più che un cantante un vero e proprio Imitatore con la "i" maiuscola...
«Diciamo di sì.»
Che metodo usi per imitare? Studi una voce, quante volte la riascolti?
«Niente di tutto questo. Ascolto attentamente, memorizzo e poi la riproduco a memoria, di getto. Poi la tengo a mente per andarla a ripescare dal mio repertorio mentale. Ecco perché vi sono persone che non imito: perché non hanno nulla di particolare o specifico nella voce da ispirarmene l'ascolto attento; insistere a studiarle ne porterebbe a farne solo una scialba parodìa, cosa che molti miei "diciamo" colleghi, invece, imparano a fare.»
Come te la cavi nelle imitazioni femminili? Ti ispirano? Chi ami riprodurre?
«Premetto che come uomo, per la donna ho sempre avuto una naturale attrazione fisica. Le mie spontanee imitazioni mi sono sempre state ispirate da particolari intonazioni di voci.Ho sempre trovato vano e superfluo studiare o sforzarmi nel riprodurre quei suoni, rumori e voci particolarmente difficili. Non gioverebbe al pubblico, e danneggerebbe il livello della mia "reputazione artistica". Fra le prime che ho imitato Nilla Pizzi, Katina Ranieri, Tina Pica e Maria Callas. Ornella Vanoni non la ho provata. Mina è estremamente difficile. Ho provato Patty Pravo riuscendo a duplicarla in qualche intonazione. Ma essendo franchi, non si può pretendere l'impossibile, andare contro le leggi fisiche e congènite: le voci femminili sono naturalmente più indicate per una imitatrice, così come le maschili, per quanto qualcuna azzeccabile, sono più appropriate ad un uomo.»
Loretta Goggi la serata di venerdì 17 ottobre 2008 è stata ospite su Raiuno, dove, prima di riproporre il suo successo in qualità di pura cantante, ossìa "Maledetta primavera", risalente al 1980-’81, si è esibita nelle imitazioni-caricatura di: Mina, Patty Pravo, Ornella Vanoni. Sappiamo come Loretta, con Alighiero Noschese, nei primi anni settanta, abbiano formato la prima (ed in realtà forse l’unica) e più memorabile coppia di imitatori che "la storia della tivì italiana" vanti. Ora vengo alla domanda vera e propria. Hai conosciuto Loretta? Che ne pensi?
«Certo. Loretta Goggi è molto brava, ma è come altre sue colleghe attuali "minori a lei". Vale a dire che nel riprodurre le altrui voci non sono spontanee. Ad un certo punto "si affogano": non è più imitazione, ma diventa caricatura. L'orecchio attento lo nota. Sono troppo "caricate". La differenza fra "l'imitatore spontaneo" e "l'affogato", è la medesima che c'è tra l'attore "che parla" e quello che declamava... Altra cosa ancora è il cabarettista o fantasista alla Zelig, cioè colui che creando o reinterpretando a modo proprio una ”macchietta” non fa altro che il “parodista”; Teocoli, ad esempio, quando imita suo cugino Celentano fa il parodista, e non l’imitatore! E' chiaro?»
Chiarissimo Mario. Grazie per l'acuta analisi, alla quale non avevo mai fatto caso, e credo illuminante per chiunque legga.
Tu e le imitazioni della "Casta", cioè quelle privilegiate persone che davvero meritano di vivere e nel massimo tenore di vita loro possibile, da noi che anche col nostro lavoro e le tasse manteniamo...«I primi “onorevoli” che ho imitato sono stati Aldo Moro, Giovanni Leone, Amintore Fanfani. Ricordo che stavano attenti alle battute che avessi “messo in bocca” a tali personalità politiche, ed in più di una occasione erano stati pronti a farmi arrestare in caso di presumibile vilipendio od offese. Fecero circondare il Circolo del tennis di Roma, dove mi esibivo, perché si sapeva che avrei imitato Aldo Moro, ma per fortuna, nonostante qualche battuta “forte”, evidentemente di livello tollerabile, tutto andò bene. Ma ci fu un seguito, invece, ad una mia registrazione diffusa in parecchie copie; in effetti, oggi, con il senno di poi confesso che sbagliai ad accettare di registrare il disco intitolato "Il Fanfaniere" promosso dal giornale "Il Borghese". Conteneva imitazioni politiche e satira, però aveva una etichetta di destra. Comico, attore, imitatore se nella loro propria privacy di persone hanno diritto alla personale opinione politica, non dovrebbero mai esporsi in comizi, né lasciarsi coinvolgere da schieramenti, né da battaglie per quanto teoricamente "umanitarie" perché ne va compromessa la loro credibilità e la loro "universalità". Inoltre le aree politiche opposte a quella dove ti esponi, ti chiudono le porte. Nel "fanfaniere" imitando l'onorevole Amintore Fanfani, trattavo gli elettori cittadini italiani da pecore guidate dalla Politica. Era una satira indicativa e feroce...e la gente rideva e pensava, cosa che nella televisione di oggi non si vede più: nessun pensiero espresso, solo risate grasse e qualche "affogato"... Per "Il fanfaniere" ebbi quarantaquattro "croci rosse", cioè 44 veti politici democristiani e delle sinistre che mi resero molto difficile continuare a lavorare nonostante le mie doti! Quando imitavo con qualche battuta forse "pesante"gli onorevoli, ricordo che a momenti mi arrestavano. Ed ancora mi temono, è uno dei motivi per i quali non mi invitano in tivù.»
Improvvisazioni a parte, i testi dei tuoi numeri chi li ha scritti?
«Me li sono sempre scritti io. Una volta si fece avanti un pretendente autore, ma alla fine, facevo talmente tante variazioni che si arrese, quello che lui aveva scritto era sparito, era rimasto solo ciò che avevo "messo" io.»
E forse come autore sei stato un poco severo nelle satire; di solito tutti gli Artisti hanno uno o più cosiddetti "cavalli di battaglia". E tu?
«Sì, ne ho perlomeno un paio: "la processione" e "la partita di pallone": dovresti sentire i dischi di entrambi per capire!… Nel numero della processione interpreto vari personaggi durante la Festa di un Santo. Inizio imitando alcuni strumenti della banda musicale, poi, con voci una diversa dall'altra, alterno: il prete celebrante, il suonatore di tamburo, un pensionato, il sacrestano, i quattro portantini della statua raffigurante il Santo, il trombone ed il suo suonatore Vincenzo, la moglie di Vincenzo, ragazzini e la loro madre, e i due pellegrini Pietro e Pasquale; Pasquale ha un problema, soffrendo con l'intestino ed avendo urgenza di un gabinetto, è bloccato da Pietro per via della processione, e finisce, che se la fa addosso...»
Numeri originali che andrebbero sentiti con calma e con la giusta predisposizione. Ma tornado alla imitazione vera e propria; a partire dal 1955-'56 del tuo repertorio fanno parte anche alcuni concorrenti di "Lascia o raddoppia?" Ti videro?
«Sì imitavo due avvocati: Luigi Rossi ed il Professor pluri-laureato Gian Luigi Marianini, simpaticissimo, e deceduto domenica scorsa 25 gennaio 2009. Li riproponevo in teatro quasi ogni sera, a partire dal 1956, prima nello Spettacolo "Senza titolo" subito dopo in "A prescindere" e dopo nel mio repertorio che proponevo in Avanspettacoli e Varietà. I due citati avvocati mi videro al galà delle Maschere d'Argento del 1957.»
Dopo queste digressioni sul mondo dell'imitazione, vorrei tornare alle tue vicende biografiche da dove le abbiamo interrotte. “Vuoi «fare» Beniamino Maggio” significava in gergo, vuoi “far parte” della sua Compagnìa e tu accettasti. E così, a Napoli, sei entrato nella seconda Compagnìa teatrale della tua carriera, nientemeno che quella diretta dal noto " ‘O Cardillo".
«Esattamente. Credo fosse la stagione 1950-'51.»
Che ricordi di quel periodo con Beniamino Maggio? Rammenti i titoli di qualcuna di quelle Riviste, Commedie od Operette?
«Con lui rimasi per 2 o 3 stagioni, fra il 1950 ed il 1953 e fu una piacevole esperienza. Era finalmente una compagnìa Primaria, e vi erano attori dialettali di "comprovata scuola". Che nostalgia! Rammento il balletto inglese, in particolare la cara Margaret... Che domanda difficile: chi si ricorda titoli di mezzo secolo fa??»
Dopo Maggio e prima di Totò: che stagioni hai vissuto? Finalmente qualche riconoscimento ufficiale? Cioè i critici si accorgevano di te o amavano sempre il loro letargo?
«Ebbi un contratto per alcune estati in esclusiva alla Casina delle Rose, noto locale estivo all'aperto di Roma, adiacente alla Via Vittorio Veneto. Per parecchi anni mi sono affidato all’Agente Bruno Berri, il quale, appunto, mi procurò, fra le altre, anche la opportunità del vantaggioso contratto con l’ingegner Silvestri, il quale, appunto, oltre che del Casinò di Campione, si occupava della Casina delle Rose. In seguito sarà ancora Berri, mio agente a Milano, a farmi avere il contratto con gli Harlemglobtrotters Tornando agli anni cinquanta, il giornalista e critico Nino Capriati, famoso per le sue stroncature e fra i giurati di premi, mi omaggiò con una bella recensione che includeva la frase: "il primo imitatore italiano". Imitavo anche Vittorio Gassman ed Aldo Fabrizi che mi si raccomandavano li "facessi" bene. La serata che mi vide Totò, nel 1956, mi applaudì moltissimo. Mi assegnarono per due anni consecutivi le Maschere d'Argento (subito prima e subito dopo "A Prescindere"): nel settembre 1956 (per la stagione '55-'56) e nel settembre 1957 per la stagione '56-'57.»
Quindi per gli spettacoli sui quali ci dilungheremo nelle prossime domande, vale a dire "Lascia o rattoppa/Senza titolo" ed "A prescindere". Nel giugno 1956 eri a Milano con Tino Scotti e Morando Morandini di te scriveva: "il numero più interessante è offerto da Mario Di Giglio con una serie di felici e applauditissime imitazioni: da Togliani alla Ranieri, da Totò a Fabrizi".
«Nella prima metà del 1956 facevo parte di una Compagnìa che comprendeva anche la novità di una recente campionessa di "Lascia o raddoppia?": Paola Bolognani, la quale presto se ne andò. Venne ingaggiato Tino Scotti, impresari Schiavone e Gigante. La Rivista si chiamò "Senza titolo", autori Rovi e Spiller. Sostammo anche a Milano, e precisamente al Teatro Nuovo. Proprietario del Nuovo e pure Organizzatore di variegate Compagnìe Primarie (di ogni genere, non solo "leggero") era il noto "talent scout" Remigio Paone. Quando una compagnìa (non sua) faceva tappa al suo teatro, egli ne era spettatore attento allo scopo di valutare eventuali nomi da accaparrarsi per i propri Spettacoli, un po' sulla falsariga di quello che oggi avviene nel "calcio-mercato". Quando con "Senza titolo" al Nuovo di Milano imitai nel canto Achille Togliani, Paone, come fosse ad una asta pubblica, balzò in piedi esclamando: "Questo è mio!" Alla Casina delle Rose mi vide anche Totò, che poi fu lieto di avermi in Compagnìa. Essendo io sotto contratto, Paone per avermi pagò una penale e si vantava di averlo fatto; mi diceva “sei la mia scoperta”.»
Nella Compagnìa "Senza titolo" che attori eravate? Che ricordi ne hai?
«Oltre al capocomico Tino Scotti ed a me, c'erano Concetta Palumbo, Gianni Cajafa, Umberto D'Orsi(me lo imita), un certo Pelitti piccolo-basso di statura; fra le ragazze c'era Enza Soldi, la quale era innamorata di Ugo Tognazzi. Proprio durante la tappa a Milano, Elio Gigante era in ritardo nei pagamenti ed io e Scotti avevamo bisogno di un po' di denaro. Mi venne una idea, una di quelle illuminazioni nello stile di "Amici miei". Eravamo al bar del ristorante Toro, che era di fronte al Tetro Nuovo. Da qui telefonai a Luigi Gigante, figlio di Elio, imitandogli la voce di suo padre, appunto Elio: " Senti Luigi, bisogna subito che tu dia i soldi a Scotti e Di Gilio da parte mia..."(me lo narra imitandolo) E Scotti che era presente sottolineò(me lo imita pure): " Basta la parola. Mario Di Gilio risolve la situazione." Così "fregammo" i Gigante ed avemmo le paghe prima del previsto. Quando poi raccontavo l'episodio a mio fratello Claudio non mi credeva. Tempo dopo, accompagnato da Claudio, ero ospite alla rubrica radiofonica "Rosso e nero" che si registrava a Roma in Viale Mazzini. Quella volta altro ospite era Eduardo De Filippo. Ebbene nel corridoio incontrai fortuitamente Elio Gigante, il quale disse a mio fratello Claudio: (ancora imitandone la voce:) " Questo è il più grande imitatore del secolo: mi ha sempre "inculato". Da allora Claudio ha imparato a credermi.»
Soprattutto per la tournée teatrale del 1956-'57, sulla quale, ci apprestiamo ad entrare nel dettaglio, sei rimasto molto legàto ad un uomo che hai sempre stimato tanto, e dopo capiremo il perché. Ma andando a ritroso, come hai saputo dell'esistenza di Totò?
«La prima volta che lo vidi, era attorno al 1940, forse dopo... E' un lontano ricordo legato al primo bombardamento aereo a Salerno. Non lo vidi di persona, ma ne vidi la sua comica immagine ingigantita dallo schermo "bianco e nero": assieme a mio fratello Gino, cioè Luigi, lo vedemmo nella pellicola "San Giovanni decollato", dove il ruolo del cattivo era interpretato dal mio compaesano Augusto Di Giovanni, del quale ti ho narrato. Confesso che ci colpì molto. Poi, a distanza di parecchi anni, nel corso della serata di consegna del premio Maschere d'Argento alla Casina delle Rose, oltre ad essere io uno dei premiati della stagione teatrale appena conclusa, ero fra coloro che si esibivano; Mario Riva, conduttore della serata, inizialmente mi doveva presentare tra i primi numeri in programma, ma poi passai al "sottofinale", prima del numero di chiusura di un cantante lirico. Fra i tanti Artisti presenti, mio spettatore era anche Totò, il quale, concluse: "Questo lo voglio."»
Quindi nella seconda metà del 1956, lo spettacolo dal titolo " A Prescindere", era forse quello che più creava aspettative, nel pubblico, negli "addetti ai lavori", nei colleghi: oltre a presentare il fenomeno Totò, che tornava al teatro dopo sei anni e mezzo di solo cinema ed ospitàte radiofoniche, presentava come attrazione l'imitatore per antonomasia, che avrebbe doppiato anche la voce del suo capocomico Totò!
«Anche se non era in perfetta successione cronologica, concedimi l'esempio metaforico, passare da Beniamino Maggio, a Totò, era come passare, dopo tre stagioni da Cardinale, all'inaspettata votazione a Papa. Mi spiego? Non per svalutare il buon Tino Scotti, ma più che un Comico protagonista era un Comico caratterista. La sera che Paone mi telefonò per la conferma ero felice. Il mio vasto repertorio sconcertava i grandi attori che mi temevano come una minaccia, uno in grado di “rubare la scena”. Gli altri consideravano Totò un pazzo per avermi accettato e gradito in Compagnìa. Il pericolo della bravura...»
“A Prescindere" riepilogava i titoli dei film dei quali Totò era stato protagonista fino al 1956. Fra i titoli vi era infatti anche "Totò lascia o raddoppia?", titolo che ti consentiva la scusante per fare una imitazione di Mike Bongiorno. In seguito Mike è stato il presentatore di svariati programmi che ti comprendevano. Come è stato il tuo rapporto col noto conduttore che si è recentemente raccontato in una autobiografia?
«Burrascoso. Mike Bongiorno è un professionista che si è però compromesso con il “ problema delle gaffes ”. Certo è solo una componente nella carriera di un uomo dalla vita avventurosa come la sua, ma ti segna in modo indelebile perché va a scolpire l'immaginario collettivo e quello del mondo giornalistico, che sai quanto può essere stroncante, anche se a torto. Più che burrascoso, meglio dire di "oscuramento", applicando la tecnica politica dell'ignorare, come se io non esistessi, né fossi mai esistito. E ciò è peggio del detestare. Devo confessare a onore della verità che è anche colpa mia. Infatti, un po' per leggerezza giovanile, un poco per iperbole satirica, talvolta le mie battute erano veramente cattive, e dai più sensibili possono essere state recepite come offensive. Ma oramai sono storia, che ci posso fare? Quello che è fatto, è fatto. Scusarsi ora sarebbe vana retorica.»
Spiegati meglio nel tuo personale dettaglio su Mike
«E’ presto detto. Facendo satira alla sua parsimonia nel controllare le risposte dei concorrenti, il mio numero consisteva in semplici battute. Lo imitavo nella domanda: “Qual è la capitale d’Italia?” Il concorrente rispondeva: “Roma”, ed io, con naturalezza, tornato alla voce “bongiorniana” replicavo: “Un momento che controllo”. Quando lo seppe, permaloso come è di carattere, era come se lo avessi accusato di ignorare una notizia tanto nota perfino agli extracomunitari, e se la prese talmente che nei miei riguardi “chiuse per sempre”; so che disse: “Questo in televisione non lavorerà mai!” e dove ha potuto la sua influenza, ha mantenuto la negativa promessa. Anche negli spettacoli teatrali e di piazza dove si è trovato, suo malgrado a presentarmi, ha esaurito il proprio dovere professionale nel nominarmi, ma poi se ne è sempre andato evitandomi. Credo mi abbia rimosso al punto tale che, anche se entrambi viviamo a Milano, non sappia neppure più se io vivo, né se io sia mai esistito.»
Certo Mike pur nello scherzo è sempre “lucido” e serio ed è critico anche nelle imitazioni fattegli; se l’aspirazione era una pura invenzione di Sabani a scopo caricatura, anche le versioni che ne dava il buon Noschese, Bongiorno le ha sempre osservate criticamente con malizia, commentando spesso: “Ma io non ho mai fatto così” od anche: “Io quella cosa lì non la ho mai detta.” Ed io, a mio modo di vedere, non posso dargli torto. Torniamo ad “A Prescindere”: era una Rivista e quindi, oltre ad attori ed attrazioni era composta di corpo di ballo…
«Sì, c’erano dodici ballerine inglesi. C’erano anche i cosiddetti “boys”, uno dei quali si sposò proprio nel corso della tournée.»
Della Compagnìa faceva parte anche l’attrice Franca Gandolfi, moglie di Domenico Modugno. Mimmo venne mai a raggiungerla in qualche tappa?
«Sicuramente la venne a trovare a Milano. Ed ancora una volta ebbi conferma della capacità profetica ed analitica di Antonio De Curtis nei riguardi delle persone. Modugno faceva l’attore, ma soprattutto era un buon cantante, ma era uno fra svariati che già l’epoca vantava. Eppure Totò, sentendolo interpretare ne previde il futuro successo: “ E chi lu pigghierà cchiù, chistu?” Ridevo alla battuta per l’allusione ad una strofa della canzone “U piscispada”, che appunto ripeteva: “Pigghialu, pigghialu!” Ed invece aveva, con un solo occhio attivo, visto lontano; solamente un anno dopo, infatti, Modugno trionferà a Sanremo…»
Caro Mario, e tanto per mettere qualche noticina della immensa sapienza che mi contraddistingue, ma battuta a parte, basta confrontare i quotidiani dell’epoca per le conferme ed ulteriori dettagli, una curiosità. Sabato primo febbraio 1958 nel pomeriggio di Raiuno, all’epoca ancora l’unica emittente televisiva italiana, ed ancora Pubblica, l’ennesima puntata della rubrica musicale con concorrenti ed ospiti intitolata “Il Musichiere”, era presentata sempre dal caro indimenticato "Mario “Riva”; come consueto, gli ospiti concorrevano allo scopo di poter donare il montepremi da loro “vinto” a favore di un istituto dedito alla beneficenza. I due ospiti della puntata in questione erano le due “punte di diamante” di una pellicola diretta da Monicelli, che era in lavorazione, e che sarebbe diventata premiato campione d’incassi: “I Soliti ignoti”; ovviamente non si accennava al film. Nell’ordine i due erano “niente-po-po-di-meno-che”, come amava presentare “Riva”, Vittorio Gassman(n) ed a seguire Totò. Totò partecipava con gli occhiali scuri, e presentava come sua “controvoce” Nunzio Gallo, che intervistai. Nunzio Gallo era lì per cantare una canzone composta da Antonio De Curtis in quel maledetto 1957 della malattia agli occhi, dal titolo “Chitarra mia”, strumento che richiamava, quel “Corde della mia chitarra” portata al trionfo nel Festival di Sanremo del 1957 da Claudio Villa (ne riparleremo). Nunzio Gallo, era in procinto per partecipare come cantante al polemico ed alternativo Controfestival della Canzone di Velletri, poi regolarmente svoltosi, anche se poco pubblicizzato, e recensìto solamente dai periodici più acuti. La puntata in questione è passata all’aneddotica dei libri, con eccesso di rilievo, per la lode spontanea, scappata ad Antonio De Curtis, a favore di Achille Lauro, all’epoca sindaco di Napoli, oltre che candidato politico… La curiosità sta proprio nel fatto che, la medesima serata, del medesimo primo febbraio 1958, dei detti ospiti al Musichiere, la prima serata televisiva si collegava con la finale dell’ottavo Festival della Canzone Italiana di Sanremo, quello vinto da “Nel blu dipinto di blu”, coautori il toscano Franco Migliacci ed il pugliese Mimmo Modugno, il secondo anche interprete, più che cantante della medesima.
«Scusa, tenente Colombo, ma chi è l’intervistato?»
Hai ragione Mario, mi sono lasciato prendere dal desiderio di precisare. Quindi dal 1958 torniamo al 1956. Perché il previsto Mario Castellani, abituale ed affiatato “aiutante” (odiava il gergàle termine “spalla”) di Totò, fu sostituito dal pur bravo Enzo Turco?
«Perché Mario non stava bene in quel periodo, così a me risulta… E poi, Turco, cresciuto nell’ambiente del Teatro Napoletano, era preparatissimo e dava sicurezza nel saper rispondere alle improvvisazioni di Totò. Enzo Turco stimava Totò e ne era ricambiato. Avevano condiviso la esperienza di una memorabile edizione cinematografica dello scarpettiano “Miseria e Nobiltà” nel quale, anche a distanza di decenni, restano i due più divertenti co-protagonisti. Turco mi narrava proprio di quel loro film vissuto assieme.»
Come era la coreografa austriaca “Gisa Geert”?
«Di chi mi parli! La Geert era la coreografa di “A Prescindere”: era considerata una delle migliori nel suo settore. Austriaca, era severa, rigidissima, ma allo stesso tempo una cara persona.»
Le prove di “A Prescindere” furono nel Novembre 1956 al rinomato Teatro Morlacchi di Perugia: qui la soubrette francese, Yvonne Menard, fu vittima di un furto.
«Lo ricordo. Stavamo al Morlacchi quando lei se ne scappò in albergo perché era stata avvisata del furto. Più che le prove dettagliate dello Spettacolo, che non aveva un testo articolato, né lunghe battute da mandare a memoria, essendo una Rivista e non una Prosa, Perugia fu il luogo delle presentazioni; qui, da Artisti separati si cercava di creare una Compagnìa, cioè una forza coesa volta a dare la carica al nostro capocomico Totò. A Perugia egli ci mise “sull’attenti”, per conoscerci, interrogandoci uno per uno. Giunto da me mi disse: “Tu non mi sei nuovo. Di dove sei?” “ Di Salerno, Principe.” “ Tu sei di Salerno, quindi della “Provàns”(Provence)… Ti voglio in prima fila perché mi devi “prendere in giro”. Tu puoi chiamarmi Principe, gli altri mi chiameranno Altezza.” Fra gli altri era con noi il bolognese Alvaro Alvisi, che era un bravissimo attore. Mi sorprese che, nonostante a Perugia avesse voluto conoscerci tutti, poi, nel corso di tutti i sei mesi della tournée, non lo abbia mai visto parlare con una attrice né con un attore della Compagnìa; gli unici due coi quali Totò passeggiava e chiacchierava eravamo io ed il macchinista Canardi. E ricordo anche il batterista Camillo, un napoletano di sua fiducia “che si portava” perché in sintonìa: gli sottolineava al ritmo desiderato i suoi “numeri fissi” come i fuochi artificiali o gli intonava le marce. Collaboravano da anni. Per l’invidia i compagni di quell’avventura mi soprannominarono, con una punta di malignità “il giullare del re”, cioè del Principe De Curtis… Ricordo che un giorno, l’ attore Dino Curcio(che era nella Compagnìa), figlio dell’editore Armando senior, gli chiese: “Principe, posso fare una domanda?” “Dimmi” “ Come vado?” Totò fu spietato: “ Era meglio se continuavi a fare il giornalaio.»
Fra Novembre 1956 ed Epifania ’57 la prima lunga tappa di “A Prescindere” fu a Roma al Palazzo Teatro Sistina. Alla prima, presenze di un pubblico vip fra cui Anna Magnani, Alberto Sordi e non si contano Autorità, fra cui qualche Senatore, Deputato e Ministro dell’epoca. L’inizio di un successone?
«Non proprio. Certo l’attesa del ritorno a teatro di Totò era indescrivibile. Però la Rivista aveva un testo-canovaccio banale, scarso e privo di “gusto”. Non voglio offendere nessuno, ma questa è la verità. Vi era perfino un quadro parodistico che rimandava al kolossal “Guerra e pace” uscito pochi mesi prima e che a mio parere non ci azzeccava. L’entrata in scena di Totò fu osannata con dodici minuti di applausi. Un calore che sembrava senza fine, tanto che ci ritrovammo tutti tremanti e commossi e fra le quinte ci abbracciammo tutti. Il più commosso di tutti era Totò, che stava in scena. Un ottimo inizio che invece fu la ciliegia di una serie di eventi sfortunati. Lo Spettacolo fu accolto in modo tiepido. Al termine, mancarono le strette di mano dai colleghi di Totò, che erano in prima fila durante l’esecuzione.»
Quindi nessun collega attore venne in camerino?
«L’unico che ricordo attese fu Arnoldo Foà che mi disse: “Sei molto bravo.” Ricordo che ci fu una brutta recensione generale e la frase: “il pericolante primo tempo salvato da Mario Di Gi(g)lio.” Appena lo lessi tremai.»
Perché Mario?
«Perché se poteva essere piacevole “che io avessi salvato il primo tempo” e fosse una ennesima conferma delle mie capacità, il fatto eclatante era che lo Spettacolo in sé, almeno inizialmente, non andava; ed una lode a me, anziché al protagonista della Rivista, in tal caso Totò, mi induceva a concludere che sarei stato licenziato. Infatti, mi rassegnai a preparare le valigie senza aspettare la brutta notizia. Così andai al suo cospetto per dirgli che avevo realizzato, erano le regole. Ma soprattutto volevo comunicargli il mio affetto e la mia stima, quindi con coraggio gli dissi: “ Principe è successo a tutti, me ne devo andare. E’ stato un piacere.” Ma Totò era diverso da altri suoi colleghi capocomici e sorpreso, mi fermò: “ Ma che stai facendo? Tu mi devi chiudere lo Spettacolo!” Ero commosso e tremavo: “ Principe, mi fa questo onore…? Ma, e lei, Principe? Il capocomico è sempre colui che chiude lo Spettacolo!” E lui: “Sì, poi arrivo io con la tromba dei bersaglieri.” Insomma ero confermato nella Rivista di serie A nientemeno che dal suo esponente più atteso e carismatico. Così, da quella sera in poi, facevo il numero del finale, e dopo di me siglava la chiusura Totò con un suo cavallo di battaglia come “i fuochi artificiali”. Un uomo ed un Comico così, non mi meraviglia affatto che oggi, tutti continuino a saccheggiarne! Grazie al nostro congiunto impegno, ottenemmo successi confermati in ogni tappa successiva, nonostante la struttura dello Spettacolo fosse traballante e senza testi convincenti. Certo non vorrei essere frainteso: erano bravi e meritevoli anche gli altri componenti della Compagnìa, ma di professionisti sia come attori caratteristi, belle ballerine ed abili boys erano ricche le Compagnìe di ogni teatro o teatrino d’Italia e non erano sufficienti per dare al pubblico quel “quid” di ulteriore o particolare per meritarne la preferenza su altri Spettacoli simili e concorrenti. Io con il mio impegno professionale nelle imitazioni, che aggiornavo e modificavo ogni volta necessario, e Totò, sul cui carisma non vi sono termini adatti, costituivamo quel “quid”. Ho reso l’idea? Non vi fu un cambiamento nella struttura, né nei quadri: modificavamo solo qualche sketch e ciò che veramente era flessibile era il mio numero delle imitazioni. Alle mie “novità” che celermente presentavo spesso Totò mi gratificava senza ironìa, né retorica, ma con convinta emozione: ” Tu sei grandissimo, ma come fai?”Tanto è che ne divenni il confidente di aneddoti di vita vissuta: per questo sono fra i pochi che possono parlare di Antonio De Curtis uomo.»
Numeri particolari della Rivista quali erano? Vi furono aggiunte?
«Lo sketch a mio parere più bello era quello del commissario interpretato da Totò; Enzo Turco faceva il brigadiere, io e Dino Curcio eravamo due guardie. Gli autori Nelli e Mangini non avevano fatto un buon lavoro rielaborando, ma non troppo, l’ossatura stesa da Michele Galdieri. Eravamo in una cittadina fra le tappe “minori”, quando fui chiamato da Nelli, Mangini e Paone; i tre per dare più vigore alla Rivista, mi proposero di fare uno sketch nuovo, intitolato “il sosia”. Accettai e facemmo tre giorni di prove, lo scenografo si occupò della preparazione di due scalinate ai lati del palcoscenico. Io ed Antonio De Curtis truccati e vestiti da “maschera Totò” eravamo il corpo di tale numero. Alle prove accadde che, Paone ed altri seduti in platea, io strappavo più applausi e facevo più ridere di Totò. Veramente questa cosa avrei preferito censurarla, perché temevo di far torto alla memoria del mio amico Totò, e per paura possa ingenerare equivoci, ma quando ne abbiamo ragionato assieme, abbiamo convenuto che non ne infanga la memoria, né ne scriviamo per sfruttamento(come certe persone amano fare senza sapere come avvennero i fatti), e che ne sarebbe contento anche lui; e tu mi hai convinto a rivelare questo piccolo segreto perché io c’ero e lo ho vissuto in prima persona sulla mia pelle, quando mi hai ripetuto: “Mario non c’è niente di male, se tu sai che è la Verità, e non fa del male a nessuno non vedo perché tacerla: è la Verità?” Quindi rinunciammo al nuovo sketch. Perché un conto è provocare più risate, o farsi applaudire più del capocomico quando lui stesso è fuori-scena, o dietro le quinte(e già questo fatto non tutti i capocomici lo tollerano e te la faranno pagare), altro conto è avere più successo del medesimo con lui in scena assieme a te.E se ciò capita con persone della Compagnìa, figurarsi quanto poteva essere rischioso se avveniva con il pubblico pagante. A proposito di sosia, nel numero dei due Commenda’, a Milano, ero truccato in maniera da poter essere scambiato per “Totò” ed un brigadiere dei Vigili del fuoco ci confuse scambiandomi proprio per Totò, e Totò per “Di Gilio camuffato da Totò”. Mi chiese l’autografo ed io lo stavo per accontentare, quando intervenne il vero Totò: “Ma che fate? Totò sono io” Ma il brigadiere insistette e gli disse: “ Voi Di Gilio sarete pure bravo, ma Totò è lui!”. Totò non era il monologhista alla Zelig, né il barzellettiere alla Dapporto, né alla Bramieri; Totò era il comico della battuta reattiva, della satira e della parodìa, della quale divenne un Maestro. Era e resta il comico dello slancio estemporaneo e spontaneo, spesso irripetibile ed unico. Tu sai che tipo di fumatore accanito egli fosse; bene, per esemplificare la sua proverbiale spontaneità che tocca l’assurdo e le contraddizioni quotidiane, e che tendiamo a banalizzare senza rendercene conto, ricordo che, durante una pausa, ad un vigile del fuoco chiese a bruciapelo: “Mi fai accendere per favore?”»
Mario ciò che mi dici lo so bene; dicci quindi, come è stato lavorare con Totò per circa sei mesi, giorno dopo giorno?
«Lui era riservato e non era facile alle confidenze. Alle 18 si chiudeva nel camerino destinatogli e non accettava telefonate. A fine spettacolo ci ringraziava tutti e dava la “buonanotte”, e poi, rivolto a me, scherzava invitandomi: “ Fetente accompagnami alla macchina”. Una volta concessi un bis chiesto dal pubblico e Paone mi diede una multa: quando Totò lo seppe, oltre a farla togliere, mi fece, al contrario, aumentare la paga. Totò-Antonio mi ha voluto molto bene. Questo era Totò.»
Tu dunque viaggiavi nell’auto che guidava Carlo Cafiero: era una Alfa Romeo? Di che colore?
«Era una auto di colore nero, adatta ai suoi problemi agli occhi.»
Lo Spettacolo terminava fra mezzanotte e le due. Al termine andavate a cena, subito a letto o partivate? Da una città alla successiva come vi spostavate: in pullman, auto, in treno?
«Al termine andavamo a cena in locali trattorìe dove Paone o l’amministratore avevano prenotato per tutti. Poi si filava a letto, Totò in albergo e noi in pensioni prenotate. Per la nuova città si partiva in mattinata. Io, “suo giullare”, viaggiavo in automobile con lui e Franca Faldini, alla guida vi era Carlo Cafiero. Gli altri con treno od altre auto.»
Sai, Mario, che ho avuto la fortuna di trovare ed intervistare anche il caro Carlo Cafiero, purtroppo scomparso, il quale si era autodefinito “le scarpe di Totò” ?
«Ah, sì? Beh, dato che gli è stato autista per parecchi anni, direi che la definizione è azzeccata.»
Fra le persone che seguivano “da vicino” l’amato Totò, vi era il suo misterioso cugino materno: Eduardo Clemente, il quale, oltre ad occuparsi della burocrazia, di compravendite (per esempio le automobili che cambiavano ogni anno), gli fu segretario, amico e confidente; dopo la morte di Antonio De Curtis, ne fu il fedele custode del suo baule, il baule-archivio della sua “Vita artistica”, gelosamente ereditato ad uno dei figli, il caro Federico. Quale ricordo personale hai di Eduardo Clemente?
«Certamente che lo ricordo. Non viaggiava in auto con noi, ma seguì fedelmente il cugino in tutta la tournée; si occupava del lato amministrativo come hai ben riassunto, ed infatti, lo sfottevamo perché, sembrava quasi si “facesse vivo” solamente quando aveva necessità di soldi spicci: era proprio perché gli occorrevano per tutte quelle necessità alle quali noi Artisti ci tenevamo estranei… Che nostalgia. Come stanno i suoi figli? Mi piacerebbe parlarci.»
Federico del quale ti ho accennato sta bene. Se fa piacere ad entrambi, vi metterò in contatto. Vi era un suggeritore?
«Sì era uno basso di statura, tale Brambilla mi pare»
In qualche città o paese particolarmente bigotto avete avuto problemi di censura?
«No, non ch’io sappia.»
Nelle confidenze che Totò ti fece sul suo passato artistico, in realtà poco conosciuto e poco indagato, ti accennò a tale Scaglione Montenotte Umberto, deceduto nel 1933, e che risulta esser stato suo Agente nel periodo 1920-’22 circa?
«Sì, come lo sai? Mi diceva che era stato il suo primo agente; prima aveva sempre “fatto da solo”, da autodidatta.»
Fra Roma e Napoli faceste una breve tappa nella tua Salerno, come la ricordi?
«Fu memorabile quella serata al Teatro Augusteo. Applausi a scena aperta. Al termine Totò, osannato dal pubblico, mi omaggiò dicendo: “Signori, non ci sono solo io in palcoscenico, c’è anche un vostro concittadino: Mario Di Gilio!” Qui vennero tre miei fratelli, uno dei quali disse: “ Principe, sono trenta anni che mi fa ridere!” e lui di rimando: “ E vostro fratello che inizia ora, farà ridere per altri trent’anni.” Poi, aggiunse: “ Se venite a Milano vi faccio avere dei biglietti per andare a vedere quel comico col ricciolino, come si chiama, Mario ?” Fece finta di non saperlo, era per fare una gag, anche perché era un suo collega che conosceva molto bene; gli risposi ovvio: “Macario” Lui concluse: “Sì, Macario: quello lì sì che fa ridere!” Totò aveva stima di Macario, hanno anche poi lavorato insieme, e pare addirittura che Macario abbia “lanciato” Totò….»
Più precisamente nel settembre 1927 Totò sostituì Macario in una delle due Compagnìe gestite da Achille Maresca, esordendo così, dopo anni in dialettale, Varietà, Caffè Concerto ed operette, anche nel settore della Rivista; è pubblicato in periodici specializzati dell’epoca. E dalle memorie di Macario pare il medesimo abbia fatto vedere Totò ad Achille Maresca.
«Sì era una cosa alla quale mi aveva accennato.»
Da venerdì 11 a domenica 20 gennaio 1957 la tappa a Napoli. Il panorama teatrale napoletano proponeva: al Tarsia, fino a domenica 13, la Compagnìa Stabile della Rivista nel testo “Siamo donne o…caporali?” di Pinto, con “Trottolino”, Wilma Zavart, Nino Formicola, Ezio Tomei; al San Ferdinando la Scarpettiana di Eduardo De Filippo; all’Apollo la Compagnìa Bruno; al Margherita la compagnìa di Riviste Masini ed al R. Mercadante voi con “A prescindere”. Nel quotidiano “Il Roma” di Napoli dell’epoca vieni elencato finalmente col cognome corretto Di Gilio (anziché il consueto “Di Giglio”) e si cita che domenica 13 hai imitato Tina Pica, l’avvocato Rossi e cantanti; per domenica 20 invece è annunciato: “ora imita anche Totò”. Nel medesimo quotidiano “il Roma” numero per sabato 12 gennaio 1957, nel correre della recensione sul debutto partenopeo, fra il resto, il giornalista annotava: “i cronisti fedeli erano col cronometro.” E: “anche se un po’ invecchiato il ciclone Totò, sorpreso, ha deglutito parecchie volte prima di poter dire <Grazie, sono commosso>” E: “formidabile mimo, per tre ore fa scordare il resto, Totò è lo Spettacolo, non serve copione.” Insomma a Napoli Totò giocava “in casa”, dove da un certo momento in poi è sempre risultato efficace ed amato. Tanto che è stato scritto e pubblicato in libri, a lui postumi, che Napoli, sarebbe stata anche la tappa di chiusura della tournée: quindi un successo tale che ci sareste tornati dopo pochi mesi, come talvolta accadeva?
«No, è un errore: oramai la piazza partenopea era fatta e vi erano altre città previste da accontentare. A Napoli Totò sbarcò poi a causa della malattìa che lo stremò a Palermo, quale tappa di passaggio fra Palermo e Roma, ma non era più prevista; dopo la Sicilia e la Calabria la stagione terminava. Qui a Napoli incontrai un buffo personaggio che già conoscevo, e che voleva essere presentato a Totò. Era tale Vincenzo “’o pazzo”, che si esibiva nello strano numero di “addormentatore di galline”, numero che il più delle volte gli riusciva. Lo portai da Totò, ma sfortuna volle che quella volta, non solo il numero non gli riuscisse, ma il pollo beccò Vincenzo facendolo sanguinare: una carriera stroncata in pochi secondi!!»
Martedì 22 e mercoledì 23 gennaio la tappa a Livorno, dove Otello Bacci, ex ballerino in precedenti stagioni teatrali con Totò, filmò alcuni minuti muti dalle prove di “A prescindere” al teatro Gran Guardia, restando così autore di un raro filmato amatoriale. Qui, il recensore del quotidiano “Il Tirreno” di Livorno, annota un tuo successo personale.
«Certo, ricordo Otello Bacci. Ma di Livorno ricordo soprattutto l’episodio dei fan marinai. Vennero da me sei ragazzi che prestavano servizio in Marina, alla rinomata Accademia Navale di Livorno. Erano tre napoletani e tre siciliani ed ambivano vedere Totò di persona. Mi chiesero: “ ma ci riceverà?” Oramai confidenza e stima fra me e lui erano tali che mi potevo permettere di bussargli al camerino: “Principe ci sono alcuni marinai”. “ Bene, bene, Mario, falli entrare.” Erano un po’ emozionati e lui cercò di sdrammatizzare improvvisando una freddura: “Sc-kusate, ma e la nave dove l’avete lasciata? ”I ragazzi risero. E noi con loro.»
Dal 25 gennaio ai primi di febbraio 1957 la tappa a Torino, dove, all’inviàto del quotidiano “La Stampa”, Totò, clamorosamente confidava la propria paura per la reazione del “freddo pubblico” della capitale piemontese. Quale è la tua versione?
«A Torino invece, avemmo più successo che a Roma. Fu qui (e non a Bologna) che improvvisai la voce di Claudio Villa nella canzone che aveva vinto il settimo Festival della Canzone di Sanremo la sera precedente: “Corde della mia chitarra”. Non ritenermi immodesto, ma il pubblico andò in delirio. E Totò affascinato: “ Ma come fai? Chillo ha cantato ieri sera!”»
Da martedì 5 febbraio a domenica 10 marzo 1957 la sosta a Milano. Eravate nel capoluogo lombardo quando il 9 febbraio si diffuse la notizia della assegnazione del Nastro d’Argento in qualità di miglior attore “non protagonista” per l’anno solare 1956, a Peppino De Filippo per “Totò, Peppino e i fuorilegge”. Era la prima volta che si assegnavano i Nastri non più per Stagioni cinematografiche(da agosto-settembre di un anno al giugno del successivo), ma per anno solare(dal primo gennaio al 31 dicembre). Fra l’altro Peppino De Filippo a capo della propria Compagnìa di Prosa Italiana proprio in quel febbraio ’57 era pure a Milano in una lunga tappa di successi al Teatro Olimpia iniziata già verso il finire del 1956. Come era il clima per quella notizia? Si incontrarono in quell’umida Milano i due comici napoletani, reduci da tre pellicole del 1956 come coppia di successo anche cinematografico?
«Totò adorava Peppino, ma non andava a cercarlo. Ed in quella i due non si incontrarono, perlomeno al Nuovo.»
Sempre durante quei 34 giorni a Milano, a Roma moriva la sorella dell’impresario Remigio Paone. Ciò incise o no con l’andamento della tournée?
«Volevano sospendere lo Spettacolo in segno di lutto, ma Paone disse che non ne era il caso.»
La tappa al Nuovo di Milano avrebbe dovuto essere più breve. Il prolungarsi della sosta qui, con conseguente taglio di alcune piazze previste in cartellone fu dovuta alla forma influenzale particolarmente virulenta che colpì Totò De Curtis. Rimase bloccato da giovedì 14 a venerdì 22 febbraio. Imbottito di antibiotici e per la propria esemplare, ma fatale, determinazione potè e volle riprendere a far “scompisciare” il pubblico. Foste in altri i contagiati dalla malattìa di stagione? Si usava all’epoca il vaccino anti-influenzale tanto di moda oggi?
«No, non si usava vaccinarsi, si prendevano aspirine al bisogno. Non fummo contagiati dal virus, lui fu l’unico della Compagnìa ad essersi ammalato. Quando volevo andare a constatare il suo stato di salute, egli mi rimproverava: “Non venirmi a trovare, che t’ammali anche tu!”»
Il 12 ed il 13 marzo 1957 la tappa di “A prescindere” prosegue con Biella, cittadina ove nacque Riccardo Gualino, mecenate e poliedrico imprenditore, fondatore della “Lux Film”. Qui a Biella Totò, è stato intervistato dal locale giornalista Ugo Salvatore.
«Sì, ricordo che qui parlavano il tedesco. Totò mi chiese: ” Ce l’hai ‘o passaporto?” ed io:”Sì” “Càccialo, che andiamo a piglià ‘o cafè”.»
Sabato 16 e domenica 17 marzo tappa a Bergamo
«...dove si infortunò Franca May»
Da lunedì 18 a domenica 24 marzo ben una settimana a Bologna al Teatro Duse. Qui il pomeriggio di venerdì 22 Totò e Franca Faldini accettarono esser “testimonial” per un vermouth pubblicitario a favore della Cisa-Lambretta, come documentato da una illustrazione nel quotidiano “Il Resto del Carlino” dell’epoca e poi confermato dagli Archivi Lambretta…
«Una pubblicità come tante altre per recuperare un po’ di spese. A Bologna “cadde il teatro” specialmente quando proposi Claudio Villa imitandolo nella canzone “Luna rossa”, stesso “pezzo” con il quale avevo concluso la mia breve serie di imitazioni nel mio primo film, appunto, “Primo applauso”.»
Lunedì 25 e martedì 26 marzo ’57 a Ferrara
«Non ne ho ricordi particolari.»
Mercoledì 27 e giovedì 28 marzo la tappa a Mestre. Perché Mestre e non Venezia?
«Mah, non saprei. Qui mi confessava, riguardo ai dialetti locali: “Anche i mestrini parlano strano…”.»
Sabato 30 e domenica 31 marzo la tappa a Verona al teatro Nuovo, teatro nel quale si era esibito perlomeno altre sei volte, dal 1928. Verona è fra le città che non lo aveva avuto tantissime volte, ed escludendo eventuali soste in Varietà non recensìte, sicuramente, contando due soste al teatro Ristori nel corso degli anni trenta, con “A prescindere” toccava Verona perlomeno per la nona (ed ultima) volta, nell’arco di trenta anni, come ho ricostruito analizzando numero per numero quotidiani locali dell’epoca.
«Verona era una città che amava; ricordo che voleva visitare la tomba di Giulietta, ma Franca Faldini non volle…»
Vabbè, scelte di coppia sulle quali è sempre sbagliato andare a metter naso. E poi credo che, durante le sue soste precedenti qui, alla tomba di Giulietta abbia probabilmente fatto visita nel suo passato. Quindi riepilogando, il Marzo del 1957 vi aveva visti spostarvi dalla Lombardìa, all’Emilia-Romagna, toccando qualche sito del Veneto. Aprile vi avrebbe fatto toccare la costa italiana opposta, vale a dire quella ligure: da venerdì 5 a domenica 14 aprile eravate al teatro Augustus di Genova. Il recensore del quotidiano “Nuovo Secolo XIX°” di Genova ti dedicava una citazione : “Mario Di Giglio eccezionale imitatore”; non è un mio errore, ti riportava, classico, colpa anche dei manifesti errati, proprio con la fatidica “g” in più.
«A Genova furono una serie di esauriti…»
La seconda metà di aprile, e dai giornali dell’epoca non è facile, per ora, stabilire con precisione le date effettive ed indiscutibili, però vi è almeno la certezza della tappa, alcuni giorni a Sanremo. Qui alcuni mesi prima aveva trionfato la canzone “Corde della mia chitarra”eseguita da Claudio Villa.
«Certamente. Ricordo bene l’avvocato Achille Cajafa, che ho ben conosciuto. Era un meridionale di raro acume e capacità. Anche qui vi furono delle interessanti recensioni. Qualche anno dopo, l’avvocato Cajafa stava per organizzare una edizione del Festival con me e Noschese…»
Mario, ne specificheremo dopo; restando nel 1957: dal 27 aprile al primo Maggio eravate ad esibirvi nel capoluogo della Toscana. Il recensore del quotidiano “La Nazione” di Firenze, nel numero per Domenica 28 aprile ’57, dopo le lodi a Totò, alla “spalla” Enzo Turco, e fra gli altri aver citato la Faldini, Elvy Lissiak, Anna Frigo, Luana Silli…e finalmente citandoti con il cognome scritto esattamente, aveva testualmente ammesso: “piacevole e acclamato l’imitatore Mario Di Gilio.”
«Il pubblico fiorentino reagiva in modo strano, non capivano il numero dell’Otello. Della sua vita privata, Totò mi raccontava dell’importanza e delle coincidenze di Firenze: qui oltre ad aver visto per la prima volta Diana, sua unica moglie, la nota “Malafemmena”, e madre nel ’33 della sua unica figlia Liliana, era stata la città galeotta, dove aveva incontrato, prima della fatidica Napoli del periodo passionale e tragico, la nota Castagnola, “femme” fatale e Vedette degli anni venti, suicidatasi per amor di lui, nel lontano marzo 1930. Non ci metterei la mano sul fuoco, ma credo si fossero incontrati alle Follie Estive, importante Varietà di Firenze.»
Dopo Firenze l’approdo in Sicilia, partendo da Palermo, dove siete giunti venerdì 3 con la motonave “Calabria”, comandata dal capitano Tullio Nocca, che entrò presto in confidenza col “Principe” Antonio De Curtis, ed accolti anche dal Professor Lelio Rossi, Provveditore agli Studi, che vi accolse nella motonave detta. A Palermo ricordi oppure no, fra i fan, un ragazzo di cognome Buzzanca?
«Sì, come lo sai? Ah mi dicevi che lo hai intervistato. Venne un ragazzo disinvolto, puro, un siciliano veràce, ossìa non quello “stereotipato” nei telefilm, e ricordo che si fece avanti con(lo dice imitandolo): “Ho l’onore di presentarmi al Principe De Curtis: sono onorato e commosso.” Ed a me disse: “Che grande imitatore, siete!” Era un semplice fan, ancora nessuno avrebbe potuto immaginare che sarebbe diventato uno degli attori più quotati nei “box offices” degli anni sessanta; era Lando Buzzanca. Lando lo rividi in radio, a “Rosso e nero”, rubrica condotta da Corrado, dove eravamo fra i pochi ospiti. Corrado mi adorava. Inoltre, sempre a Palermo in quei primi giorni del maggio 1957, io ricevetti un biglietto che recitava: “Caro Di Gilio, sapendoti a Palermo, un caro saluto. Pensavi ti avessi dimenticato. Ti ricordo che sei stato il mio soldato. Il Comandante Ragusa.” Carmelo Ragusa era stato un mio superiore nel periodo in cui ero stato nell’Arma dei carabinieri. Perfino Totò, che mi riteneva un pochino “ricamatore”, si dovette ricredere, ed anche sui miei racconti relativi a Salvatore Giuliano, che furono poi confermati da Carmelo, quando ci reincontrammo in quell’occasione.»
Dal 3 al 6 Maggio a Palermo il fatidico epilogo, imprevisto, della tournée in anticipo di poche settimane, ma drammatica ed in quei frangenti preoccupante.
«Sì, preoccupante per la salute di Totò, già scossa per l’influenza pesante e parzialmente trascurata a Milano, per le conseguenze alla sua vista, già minata da tempo, per le conseguenze su paghe e contratti da rispettare, e per il futuro della sua carriera. Inoltre, nonostante il suo fisico giovanile e curato, era comunque un uomo che stava toccando i sessanta anni e certe cicatrici e malanni possono cronicizzare. Negli ultimi giorni, fra Genova, Sanremo, Firenze e Palermo, sempre cercando di evitare che trapelasse qualche indizio ai giornalisti, era stato visitato da vari esperti, che gli avevano prescritto o confermato terapie. Anche a Palermo iniziò gli esauriti con memorabili trionfi, nonostante non fosse affatto in forma, faticava, ma riusciva a nasconderlo, soprattutto al pubblico pagante, pubblico che, attendendolo con aspettative ed affetto, era reso miope ai malesseri che il Comico celava da Maestro. Si sforzava il più possibile, ma durante lo sketch dell’Otello svenne in scena. Rapidamente lo portammo dietro le quinte, mentre il pubblico, che credeva facesse parte dello Spettacolo, chiedeva il bis, era domenica. L’indomani mattina, tornammo a Napoli, non piangeva solo lui, eravamo tutti commossi, anche perché, la paura maggiore era che andasse verso una irreversibile cecità. Mi aveva preso sottobraccio per centosessanta giorni, raccontandomi episodi di vita, recitandomi le sue poesie precedenti e nuove, ci confidavamo “la bontà” delle belle ragazze, che guardavamo volentieri. Molti hanno scritto e detto falsità su di lui. Lui ha sempre lavorato, pure quando non vedeva quasi più e che film ha reso pure così “limitato”: rimane il suo esempio più grande. A me regalò tre orologi ed un anello di brillanti. Durante “A prescindere” in auto insieme io, Totò e Carlo Cafiero siamo stati gli improvvisati ed autentici coautori della poesia dal titolo: “Me so sunnato ‘e Napule”, anche se ovviamente, risulta lui l’unico autore.»
Per la malattìa all’occhio che causò la brusca interruzione della tournée a pochi giorni dal previsto congedo, Totò ricevette anche le visite dai medici fiscali per volere degli impresari siciliani e calabresi, i quali, avevano perduto gli incassi per le tappe saltate. Fra i nomi che conosciamo, vi era l’impresario catanese Salvatore Mazza, il quale cercava di “rifarsi” su Paone, e Paone, sul povero Totò. Salvatore Mazza è un nome famoso a Catania, faceva parte della Società C.M.C., e nel quotidiano “L’Ora” di Palermo dell’epoca, la intervistata Franca Faldini riferiva di avergli chiesto: “Se lei avesse un occhio solo che vede e rischiasse di perdere pure quello, esiterebbe a lasciare tutto?” Mazza avrebbe risposto che certo non esiterebbe. In quei momenti era ancora da dimostrare clinicamente se davvero Antonio De Curtis rischiasse la vista per sempre; i medici delle diverse controparti confermarono i danni oculari, ma fra di loro vi era chi era più cauto e preparato, e chi sdrammatizzava con leggerezza poco degna e poco professionale. I fatti daranno ragione, purtroppo ad una ipotesi abbastanza grave. Al di là delle loro “ragioni economiche”, e del cercare il recupero dei parecchi soldi da recuperare, ma a tuo parere, questi signori si resero conto oppure no della entità effettiva del problema? Cioè continuarono a perseguitare un uomo che, facendoli ridere, e per decenni, aveva trasfuso anche a loro un benessere psicofisico, per i milioni (di lire) persi o alla fine capirono che Totò non aveva certo finto, né fatto apposta, ma realmente stava male?
«Non so come sia poi finita fra lui e Paone, avevano collaborato insieme per anni. Però sì, decisamente alla fine si resero conto dell’entità del problema fisico toccato a Totò.»
Nel 1957 accettasti di prendere parte al lungometraggio “Primo applauso”. Il titolo era omonimo alla rubrica televisiva dell’epoca, antesignana progenitrice della successiva “Corrida”. Il film, come la rubrica aveva un nòcciolo narrativo che prevedeva alcuni presunti concorrenti in gara; tu figuri fra i concorrenti, tale signor Cocuzza o Cucuzza(non si capisce), ovviamente imitatore, e quale tipo di imitatore! Da strumenti musicali, introduci un tenore ed una soprano che si alternano scambiandosi “arie” da opere liriche differenti; quindi un dialogo lievemente alterato fra Tina Pica e Totò; e l’epilogo nella voce di Claudio Villa che canta una canzone. Raccontaci.
«Mi fecero la proposta, ma per correttezza, prima di accettare, ne volli parlare con Totò, mio capocomico, e mio amico. Gli dovevo molto, ero, e sono rimasto molto legato a lui, e nonostante la consapevolezza delle mie capacità, volli interpellarlo per un consiglio. Fu lui a pregarmi di accettare e non lasciarmene scappare l’occasione. Infatti, io all’inizio, sono sincero, non me la sentivo. Totò, generoso ed oculato come sempre, mi spinse ad accettare. Accettai il consiglio del “Maestro” e lo presi come buon auspìcio: era infatti il primo film al quale partecipavo. Se Totò non si fosse ammalato, non avrei mai partecipato al film Il film “Primo applauso”, come trama e con protagonista un beniamino del pubblico come Claudio Villa, reggeva lo stesso, non aveva certo bisogno di me, e di mie imitazioni, ma sarebbe stato privo della ciliegina e di quello che oggi tu consideri un documento d’epoca delle mie doti. Lo girai a Roma nella prima metà del 1957, non ricordo bene in quale mese, se durante la sosta della tournée di “A prescindere” a Milano, a febbraio, oppure se a Maggio, appena conclusa la stagione teatrale, ma so per certo, che andai a chiedere consiglio a Totò, durante il suo riposo a letto per la malattìa agli occhi. Uscì quell’estate. Era il mio esordio al cinema.»
Claudio Pica, in arte Claudio “Villa”, è stato un emblema delle voci italiane; vanta da mezzo secolo non so quanti fanclubs sparsi nel mondo. Come è stato il tuo rapporto con “er reuccio”, del quale si narra non avesse un carattere “facile”?
«Amichevole. Claudio lo conobbi durante la lavorazione di “Primo applauso” nel 1957, film del quale, come ben sai, lui era il protagonista. Ci siamo sempre stimati a vicenda. Dopo le mie affermazioni nel corso della tournée di “A prescindere”, le mie quotazioni salirono, tanto che nell’estate ’57 fui invitato alla Festa del santo Vincenzo “o monacone”, quello del Rione Sanità di Napoli; era il quartiere dove era nato Totò, che quell’anno fu assente perché, stava curando il suo grave problema alla vista, scoppiato proprio nel corso di “A prescindere”, stagione ricca di note e di sorprese. A curare e gestire la tradizionale Festa rionale era una Associazione, paravento del capo-guappo locale Campoluongo detto “Nas’e cane” e non è né un mistero, né oramai neanche più uno scandalo, anzi. Nonostante per la Festa fossero già assunti importanti Artisti, primo fra tutti Claudio Villa, i figli di “Nas’e cane” vennero a parlarmi: “ Signor Di Gilio, non potete farci l’affronto di non venire”. Accettai. Una volta giunto,al contrario di certi suoi colleghi invidiosi, Claudio Villa, anziché sentirsi offeso, poiché data la sua presenza, partecipassi anche io, che di sicuro lo avrei imitato, mi manifestò la sua stima ed il proprio piacere nell’essere anch’io “ della partita”, esprimendosi con una frase tipica del suo modo di fare: “Perché non volevi venire? Volevi fare cantare solo a me?” Al contrario di altri suoi colleghi non temeva quando lo imitavo, anzi, il fatto che io lo imitassi come feci in quell’occasione, lo faceva sentire come essere con la voce in una specie di stereofonìa…»
Mario, sei poi stato invitato altre volte alla Festa alla Sanità?
«Sì altre cinque volte.»
Durante la tua straordinaria partecipazione alla pellicola “Primo Applauso” hai incontrato un altro Mito, un uomo dal talento eccezionale, attore, comico, conduttore validissimo ed indimenticabile: Mario Riva. Anche lui come te di nome Mario, il destino lo vide morire a Verona nel 1960 per un brutto incidente che si sarebbe potuto evitare, ahinoi, in Italia, “un classico”.
«Riva lo avevo già conosciuto alla Casina delle Rose, dove mi esibivo da tempo. La sua morte per l’infortunio accadutogli all’Arena di Verona, credo abbia colpito tutti. Ma non lo scorderemo mai.»
Dato il vostro tipo di rapporto, perché non hai mai preso parte a nessuno dei films con Totò? Avevate litigato?
«No, non abbiamo litigato. Credo pensasse io non ne avessi bisogno, essendo egli sicuro del mio pronosticato successo nelle Americhe. Comunque sia, non mi ha mai chiamato. Se lo avesse voluto, avrei condiviso con lui, qualche sequenza volentieri, anche non per forza in numeri di imitazioni. Durante quei 160 giorni per ben due volte, mi bloccò, ripetendomi convinto: “ Tu sei nato per l’America: comprati uno smoking, ‘na cammisa bianca, nu papillon e vai; qui non capiscono niente e poi, hai lavorato con me e sono gelosi: non te faranno più lavorare. Vai in America.” Comunque ci siamo rivisti anche dopo “A Prescindere” anche se non abbiamo più avuto occasioni di lavorare assieme. Lo andai a trovare assieme a Giacomo Rondinella. E come incontri relativi a retroscena o fuori-set per esempio potrei raccontare l’aneddoto franco-italiano…»
Come l’aneddoto franco-italiano, Mario?
«Ecco il racconto. Una volta, ero in albergo a dormire, erano le sette del mattino e sento bussare: - Chi è? “ Come chi è, sono Carlo” Era Carlo Cafiero, l’autista di Totò, il quale a sorpresa, senza anticiparmi niente mi disse solamente: “ Il Principe ti vuole in macchina con noi…sbrigati” Così, di fretta mi diedi una lavata, e mi vestii, e senza radermi la barba, scesi. Quando stavo per entrare nell’automobile vidi un signore in abiti da gendarme che mi accolse con: “ Bonjour monsieur ” Aveva già gli abiti “di scena” ed il sorriso era inconfondibilmente il suo: era Fernandel, e Totò completò lo scherzo amichevole dicendomi: “E adesso parlaci un po’ tu”. Mi aveva preannunciato a Fernandel come il suo traduttore (franco-italiano)! Mentre invece io la lingua francese la sapevo poco, rimasi imbarazzato, ma cercai di destreggiarmi; Fernandel aveva capito tutto, e capiva bene anche l’italiano, ed era pure lui un burlone che “sa stare allo scherzo”. Così entrammo tutti e tre nel ruolo: i due attori parlavano nelle loro rispettive lingue, io traducevo improvvisando a modo mio, e ad ogni frase, finivamo a ridere tutti e tre a crepapelle. Andammo in un paesino dove giravano un film assieme; io non ho preso parte al film, ma ero nell’auto guidata da Cafiero, fra Totò e Fernadel. Mentre giravano io ero assieme a Carlo Cafiero, il quale poi, mentre ero in bar ad aspettarlo, andò a “prenderli”, e facemmo il tragitto del ritorno.»
Caspita, certo che è un vero peccato nessuno abbia filmato quella unica e ghiotta occasione!!! Sarebbe rimasto un documento eccezionale. Totò, Fernandel e Di Gilio in auto insieme, battuta dopo battuta, fuori-set. Si preparavano od iniziavano gli esterni della satira alla burocrazia, nel co-prodotto franco-italiano “La loi c’est la loi”/“La legge è legge”: però tu non vi hai partecipato!
«No non ho partecipato al film, non sono mai stato interpellato per farlo, né Totò me ne ha mai accennato. Il cast era già formato, credo fosse una coproduzione italo-francese già programmata; ed io lo sai, non sono tipo di persona che va ad elemosinare o chiedere di fare ruoli; semmai valuto se accettare le offerte.»
Che ricordi dell’articolo di Sergio Sollima, futuro regista (e sceneggiatore per lungometraggi di vario tipo, sempre interessanti, ma noto specialmente per il suo Sandokan televisivo), e relativo ad “A Prescindere” ?
«E’ vero. Non sono sicuro, ma credo fosse a Roma, Sollima, che non era ancora conosciuto, fece un articolo molto interessante: un vero innamorato sia del cinema, che del teatro; all’epoca era uno dei tanti giornalisti, la sua professionalità esplose dopo.»
Tornando all’ordine cronologico, tu, subito dopo lo scioglimento della Compagnìa diretta da Totò, per Paone, che cosa hai fatto? Te sei comprato il tight per conquistare le Americhe?
«No, non subito. Partecipai a qualche Spettacolo occasionale, numeri di Avanspettacolo da fine-settimana per sopravvivere e mangiare, anche a Milano, ma oramai…»
Ti interrompo per seguire più o meno un certo ordine cronologico; per esempio, nel giugno 1957 partecipavi a Milano(un anno dopo la tappa al Nuovo con Scotti e quattro mesi dopo la fatidica sosta con Totò) ad un recital di Frankie Lane che cantava “Jezebel” ed “Annabel Lee” e con Carosone ed il suo complesso
«Sì era al Palazzo del Ghiaccio. Frankie Lane cantava anche “Ok Corral” che aveva buona presa sul pubblico. Sì, ma come ripeto erano spettacoli brevi, “di sopravvivenza”, ma alle tournée lunghe o stagionali con le Compagnìe Primarie non pensavo più. Magnifica e variegata esperienza ormai conclusa. Credevo e mi rassegnai tutto fosse finito e me ne tornai a Salerno.»
Ma come finito, Mario, “A prescindere” non era stato un grande “trampolino” di lancio?
«Non proprio. A volte una serie di successi non basta a dare sicurezza nella continuità di una carriera. Ero combattuto da un doppio sentimento e mi rimbombavano dentro le parole di Totò, mio compagno di lavoro e maestro, del quale avevo goduto la stima. Dopo qualche mese mi recai a Roma da Salvatore Cafiero che lavorava come microfonista; Salvatore non era l’omonimo attore napoletano obesuccio, ma il fratello di Carlo. Carlo è stato l’ultimo degli autisti personali del Principe Totò. In breve mi ritrovai al suo cospetto: dopo mesi di riposo al buio per curare la vista menomata, era tornato attivo protagonista cinematografico. Rividi dunque Totò a Cinecittà, e lui, riconosciutomi dalla voce, mi chiese: “Hai comperato lo smoking?” Era il suo attestato di stima. E l’incoraggiamento a non arrendermi.»
Come ha ricostruito Marco Giusti nel suo prezioso testo, tu hai anche fatto Carosello. Giusti ne riporta anche una lode di Achille Campanile pubblicata in “L’Europeo”: «ma Di Gilio è così bravo che riuscirebbe a imitare anche una bottiglia d’olio». Ti aveva scambiato per un rumorista? Nel tuo ciclo di Carosello eri con il Maestro Giovanni D’Anzi e ne abbiamo pubblicato varie illustrazioni nel capitolo dedicato alla tua carriera: “il re degli imitatori!” Chi ti aveva contattato? Ne conservi il contratto? Dove avete girato?
«Dunque, era attorno al 1958-’59 ed ero in una Compagnìa che sovvenzionavo io, cioè ne ero il capocomico. Mi pare che da Napoli partimmo per il debutto ad Alessandria. Mi telefonò tale Borghezio? Borghesio?, che era il regista del Carosello. I colleghi non volevano io lasciassi la Compagnìa, ma la paga di Carosello era così alta e ne avevo proprio bisogno, che accettai, pagando la penale. No, il contratto non ce l’ho. Andai a Torino e con D’Anzi girammo la serie degli sketches dove imitavo volta per volta Marianini, Modugno, Natalino Otto, Sergio Bruni, Peppino Di Capri… Agenzia e produzione erano torinesi, così come a Torino era il set dove ho lavorato. Achille Campanile era un fine umorista e la sua lode surreale mi piacque: gli avrei baciato la mano, ma purtroppo, non ci siamo mai incontrati. Questo fu l’unico ciclo di Caroselli cui lavorai ed è un vero peccato che non lo trasmettano più. Mi ha fruttato anche tre premi!!! Dici che lo avranno conservato in qualche Archivio o perduto? Mi piacerebbe rivedermi in ogni numero. E sarebbe molto bello mi vedessero gli spettatori!»
Hai ragione Mario, concordo, ma sai non è facile tirino fuori dagli Archivi ciò che non ha attinenze politiche o utile ai condizionamenti commerciali. Come sai la tivù si basa sui diktat imposti dagli Sponsor ed è quasi impossibile sia in grado di “fare Cultura”. Rassegnamoci. E nella primavera 1958 hai preso parte ad un Giro D’Italia, no?
«Sì, ma non come ciclista. Presentava Silvio Noto. Ricordo vinse il romagnolo Ercole Baldini; io facevo uno spettacolo serale, e fui anche filmato dalla Rai.» Luglio 1959 presentato da Mike Bongiorno (che non ti ha mai perdonato) a Trieste eri l’attrazione in un Varietà nel quale fra gli altri numeri erano: Marisa Del Frate, l’emergente Adriano Celentano e tale Riki Sanna; che cosa ricordi? Chi organizzava? «Ricordo che ero quello a riscuotere più successo, e che Bongiorno non mi degnava di uno sguardo. Ma a Trieste sono stato ancora successivamente, pure assieme alla coppia Teddy Reno-Rita Pavone!»
Ho trovato traccia di uno fra i tuoi molti Spettacoli “di sopravvivenza”: sabato 2 gennaio 1960 al rinomato Teatro Lirico di Milano eri in un avanspettacolo (al quale seguiva appunto la proiezione di un film); oltre a te gli altri erano: “I Campioni”, il cantante “di colore” Lonnie Satin e Tony Dallara che trionfava con “Ghiaccio bollente”.
«Sì, è esatto. I Campioni erano il complesso che accompagnava Dallara. E lo sai chi c’era fra di loro, e che, timido, mi disse: “che bravo è lei!” ? Un certo Lucio Battisti, che io, per errore nella “prima impressione”, ti assicuro svalutavo; ed invece, guarda un po’ che livello di cantautore ne è emerso!»
Nel 1960 il tuo secondo film: “Crimen”diretto dal famoso Mario Camerini
«In quel periodo lavoravo a Roma con Kramer Gorni, in qualità di “attrazione”. Venne a parlarmi Dino De Laurentiis, accompagnato da Alberto Sordi: “Senta, lei dovrebbe fare un poliziotto. Abbiamo visto che lei è bravo e ci metterà dieci secondi. Mi offrì da bere, senza farmi nessun contratto. Accettai e raggiunsi il set al “binario morto” della stazione ferroviaria. Il regista mi accolse: “Ah, caro Di Gilio, noi sappiamo della sua bravura. Vada a farsi vestire.” Dovevo arrestare tutti perché qualcuno aveva tirato il freno a mano di una carrozza. Non mi fecero nemmeno provare. Battuto il ciak recitai: “Chi ha tirato il freno a mano?” e Sordi: “Oh! Sono stato io, ma che vòi?” Preso dal contesto improvvisai continuando nel mio ruolo, ma Sordi mi fece tagliare ed io me la presi a male. Nino Manfredi commentò(lo dice imitandolo): “ma lascia perdere” E Vittorio Gassman(n), più o meno mi disse(imitandolo): “ Ma cos’hanno combinato? Te tajano! Oh, te che vai a Sanremo famme bene l’imitazione!”.»
E fra i numerosi e “sparsi” Spettacolini e Spettacoletti qua e là, che ti hanno dato modo di lavorare “con tutti” che mi sai dire?
«Prima di tutto debbo ringraziare due persone, due maestri di musica, che mi hanno accompagnato spesso nelle esecuzioni dei miei numeri: il maestro Martinelli ed il maestro Ubaldi. Dunque, fra gli altri, ho lavorato con il Quartetto Cetra. Ricordo a Viareggio, mentre Carosone si esibiva alla Bussola, mi avevano assunto in un locale concorrente per strappargli pubblico e quindi incassi. Ho lavorato con Ric e Gian. Negli anni sessanta ero anche “fuori programma” in uno Show dove Vedettes erano “i Brutos”; Ettore Bruno mi ha confidato che ha avuto l’impressione io sia un poco snob. Se viene percepito un certo “snobismo” nel mio modo di pormi, non è mia intenzione: quando mi concentro calandomi nei soggetti che sto per imitare, mi isolo dal resto del mondo, ed in quel momento, per me non esiste altro. Ma credo ciò sia normale, no?»
Al Càrcano di Milano con Peppino Di Capri e Romano Mussolini. Come era il pubblico del Càrcano?
«Sì te ne ho spedito una foto, no? Credo fossero i primi anni sessanta. Beh il pubblico milanese di quel dopoguerra è già composto da molti meridionali come me.»
Di tale Manfredi Cotone che mi dici? Il cognome è Cotone o Manfredi?
«Ci siamo conosciuti nell’epoca che vivevo e lavoravo a Napoli. Il cognome è Cotone; Manfredi, in qualche caso è anche un cognome, ma in questo caso è il nome, ed era un nome molto diffuso in passato: se consulti testi di storia, ed archivi di chiese e comunali, ne avrai conferma. Una cara persona, faceva l’impresario teatrale e “non navigava certo nell’oro”. E’ stato impresario anche per Wanda Osiris. Mi ha organizzato qualche Spettacolo, vivendone assieme le avventure; ricordo questo Spettacolo che ci organizzò dove vi era anche Peppino Di Capri, che non lo conosceva ed era un poco titubante, ma io lo rassicurai; facemmo tournée in Sicilia, fummo a Napoli, ricordo alloggiavamo all’hotel Londra, e ci pagava ogni due settimane, anziché la consueta una; se pigliavamo insieme un caffè mi pregava: “ Non tengo spicci: paga tu.” Gli piacevano i panini con mortadella e mozzarella, ed io gli chiedevo: “ Manfre’, ma ‘sti panini non te fanno acidità de stomaco?” e lui: “ mi dà acidità di stomaco, ma quanno ce sta 'a mozzarella, me piace assaje !!” e ci facevamo sane risate. Il figlio Mario Cotone, con il quale sono in contatto, ed al quale ho accennato della mia decisione di “presentarmi” su internet (prima inviandoti locandine e foto d’epoca per Polesineonline.com, e adesso per raccontarti la mia vita, rispondendo alle tue domande), lavora come stimato Organizzatore cinematografico…»
Ma vi è un altro al quale sei legato, no?
«Esattamente, trattasi di Febbraro, che ha qualche anno più di me; lavorava quale “direttore di scena”; il suo intercalare era: “dieci minuti!” “fra dieci minuti in scena!” Una cara persona.»
Nel 1963 ad Alassio il tuo incontro con un amico estero?
«Qui fui assunto per lavorare un certo lasso di tempo ed infatti, ci presi casa. Una sera suonò il campanello di casa mia, ad Alassio, era buio. Aprii e chiesi chi fosse. Per risposta sentii intonare(lo imita): “A-a-a-rivederci, dammi la mano e soridimi…” Era l’amico Marino Barreto!»
E poi credo questi aspetti umani e teneri, facciano sempre piacere. Martedì 9 febbraio 1965 ti consegnavano il premio “Cimone d’Oro” con la motivazione: “primo fra gli imitatori italiani”. Dove avvenne? Che ricordi della serata? Rammenti il nome di qualche giurato? E soprattutto, che cosa avevi fatto di così speciale e nuovo nel corso del 1964 per meritare quel tipo di premiazione?
«Non ricordo»
Mentre nel 1966 Noschese portava in tournée il suo repertorio con il fortunato Spettacolo “La voce dei padroni” tu che facevi?
«Ero arrabbiato. Si può dire che avessi incoraggiato io Alighiero, all’epoca molto timido, ad uscire dal “guscio”. Io nel frattempo vivevo una lunga stagione fra i nights.»
Dato che ho accennato al tuo diciamo “rivale” o meglio collega più famoso in Italia, che rapporto hai avuto con lui? Vi siete incontrati, vi stimavate od odiavate?
«Ci siamo conosciuti e ci siamo stimati; lo ho incoraggiato ad iniziare, e nel complesso ci siamo incontrati 5 o 6 volte. Pensa che Noschese mi chiamava “maestro”.»
Mentre tu trionfavi all’estero, Alighiero faceva scoprire al vasto pubblico televisivo l’imitazione, grazie anche a rubriche e talk-showes studiati per diffonderne il tema. Perché non avete mai fatto spettacoli in coppia, dividendovi ruoli e compiti, forse per la inappropriata ma diffusa morale dei “due galli in un pollaio”?
«Come ti accennavo, dovevamo lavorare fianco a fianco per un Festival della Canzone di Sanremo, che io dovevo addirittura condurre: era organizzato dall’amico avvocato Achille Cajafa, il quale però stava male e morì, così l’idea interessante andò a monte e purtroppo non fu mai più ripresa. Certo a Sanremo mi sono esibito più volte, ma non al Casinò, bensì al “Ruf Garden” e per pubblico “vip”… Ed invece di uno spettacolo con una coppia di imitatori, filmato anche dalla televisione, accadde purtroppo che, nel corso di un evento teatrale, io e Noschese ci ritrovammo ahimè ad essere rivali, nostro malgrado. Così non avemmo più occasioni di poter lavorare insieme e si diffuse l’opinione giornalistica che ci detestassimo, è un classico nel nostro ambiente; ma non era vero.»
Lo Spettacolo al quale accenni vantava fra gli organizzatori il cantante Nunzio Gallo, già controvoce per Totò; serviva un imitatore, ma, per errore, ne furono appunto interpellati ed assunti due: eravate tu ed Alighiero Noschese. A parte che, non capisco perché, data l’occasione, più ghiotta che sconveniente, non potevate restare e dividervi il lavoro in due, evitando la sciocca sfida, so però che non fu così: uno di voi due era “di troppo”, come mai?
«Presentava Alberto Lupo, che non mi conosceva. Per cacciarmi, mandarono nientemeno che il Commendatore Peppino De Filippo, che era nell’organizzazione e che “parteggiava” per Noschese(lo imita): “Signor Di Gilio, scusate, voi siete una persona intelligente. Allora voi mi dovete fare una cortesia, è vero, siccome Alighiero Noschese è stato assunto per fare questo numero di imitazioni…” Ma io gli replicai: “No Commendatore, io lavoro: sono stato pagato ed è giusto esegua il mio numero…” Per fartela breve, alla fine, per quieto vivere cedetti io, e lasciai il campo al collega. Ma se vuoi la verità io Alighiero lo ho conosciuto bene: era una persona davvero fragile; sua figlia è caratterialmente più forte di lui! Alighiero mi mandò una cartolina che mi fece commuovere. Una volta mi fece un assegno per riconoscenza dato che gli avevo procurato un lavoro. Era signorile, studiava le voci in modo ossessivo ed era più portato a riprodurre quelle femminili che quelle maschili: intendiamoci, voglio dire come dote “artistica”! Noschese si registrava tutto, ogni persona; pretendeva però troppo da sé stesso! L’impresario Milazzo, quello che mi fece esibire per tre volte alla Sala Vip di Sanremo, mi riferiva, che Alighiero, nel suo ultimo periodo, aveva avuto dei problemi: non ricordava più le battute, ed aveva commesso degli errori; oltre a questo, che già lo aveva messo in crisi con sé stesso, quando vide Sabani, all’epoca emergente nuovo “imitatore”, il quale aveva “azzeccato” tre voci, fra le quali Iglesias, ci rimase molto male. Era troppo emotivo e fragile, appunto. Quando seppi della sua brutta fine ne rimasi molto impressionato e mi dispiacque moltissimo.»
Ripeto la mia opinione: è stato un peccato; ed un peccato “mortale” la dipartita dell’avvocato Cajafa, geniale organizzatore.. E poi con te portato prevalentemente per le voci maschili e lui per le femminili, sareste stati una coppia “inossidabile”! Nei nights hai lavorato al fianco di molte persone fra note e meno note, come accennavo poco fa.
«Certamente, mi sono trovato sia con colleghi di una certa “longevità artistica”, che con le cosiddette “meteore”. Io ero sempre scritto “con la partecipazione di”… A Milano lavorai con Fred Buscaglione. Mi disse: “Sei grandissimo. Peccato non riesci a fare la mia imitazione.” La sera stessa mi esibii in “Guarda che luna” rispondendo alla lamentela. A Genova mi ritrovai in uno Spettacolo che condividevo con il grande Walter Chiari, autentico “latin lover”. A Rimini mi sono trovato con “ I Nomadi”, quando ancora viveva e cantava lo storico loro primo leader Augusto Daolio. Fra le meteore ci includo un certo Gianfranco Funari, il quale, aveva ambizioni di monologhista, comico, attore, filosofo, ma francamente, riscuoteva scarso successo. Il successo, all’epoca inimmaginabile, l’avrebbe poi avuto grazie alla tv. Qualche anno fa, ho conosciuto anche Patty Pravo della quale non posso che dire bene.»
A proposito di teatri, a Milano ti sei esibito in molti: una medesima metropoli, e poi Milano, nota “capitale” italiana del Teatro “leggero”, pubblico sinottico o diverso?
«Fra i teatri milanesi che sicuramente ho calcato: il Nuovo (= il “numero uno”), il Càrcano, il Manzoni, il Puccini, lo Smeraldo, ed altri cosiddetti “minori”. No, ma anche in altre città, ogni teatro ha un suo proprio pubblico distinto e diverso…»
Credo che per te lo Smeraldo (di Milano) abbia una certa importanza, no?
«Esattamente. Ci ho lavorato parecchio tempo, trovandomici come a casa. Qui ho incontrato svariate persone. Fra i tanti ricordi un giovane Gino Bramieri che pesava quasi duecento kg, e che mi diceva: “Mario, forse stasera, mi fanno lavorare…” L’impresario dello Smeraldo di Milano era un Marchese… Ero con altri due colleghi: l’attore Elio Crovetto e Lucio (?) allo Smeraldo quando venne Celentano che in camerino mi venne a dire: “Io…io devo fare <Il tuo bacio è come un rock>” Lo squadrai chiedendogli: “Ma vorresti entrare con quei pantaloni, qui dentro? No, con quei pantaloni lì io non ti faccio entrare.” Ci fu una riunione, e decisero di farlo entrare: ebbe un successone e fu pure premiato, tanto che, mi arresi all’evidenza, ma quando volli andarmi a complimentare con lui, Celentano, che è un vendicativo, mi voltò le spalle. Forse non aveva ancora avuto l’illuminazione sulla via Gluk, e non sapeva bene cosa fosse il perdono…»
Quando, come, dove hai incontrato Franco e Ciccio? Ti ammiravano od erano fra gli invidiosi? Li imiti?
«No, non ho mai trovato interessante imitarli. No, non erano certo invidiosi; erano decisamente fra quelli che mi ammiravano.»
Dopo l’Italia hai conquistato la romantica France?
«Conquistai i francesi all’Olimpià di Parigi quando imitai Mitterand ed Yves Montand…»
Tu sei stato anche a Toronto, in Canada, giusto?
«Attorno al 1965-’66? mi scritturò Sandro Giglio, direttore del teatro Casolare Giglio. Credeva fossi un suo parente, solamente in seguito si rese conto io ero Di Gilio e non Giglio. A Toronto lavorai anche nel locale denominato “Il Musichiere”. Con Nilla Pizzi e Massimo Ranieri fummo alla Comunità Italiana di Montreal. Ci esibimmo al Cinema Teatro Riviera che straboccava di pubblico. La proprietaria era Palmina Puliafito che invitò me e Massimo nella di lei casa che ricordo molto lussuosa. Se provassimo a chiederlo a Massimo Ranieri, sentiresti la conferma ed i dettagli… A teatro ricevetti un bigliettino: “Primo maggio 1947. Non ti ricorda niente? Sono in sala. Se vuoi ci possiamo incontrare. Salerno Angelo.” Non ci potevo credere, dopo quasi un ventennio rivedevo l’ex collega di Portella delle Ginestre! Quando raccontavo quell’episodio passato, in pochi mi credevano. Ma in quella occasione canadese Angelo mi fu di conferma. Poi in altra occasione al Columbus di Toronto con Giuseppe Di Stefano, che già mi aveva conosciuto e che mi chiese: “tu fai sempre il cabarettista?” ed io, semplicemente “ Sì”. Mi accompagnava il maestro Pino Ubaldi e mi esibii in un acuto lirico che Di Stefano non si aspettava: lo stupii.»
Che ci dici del Festival della Canzone al Teatro Radio City con Nando Prato, Monica Del Po, Bob Vinci, Dino Gicca?
«Anche questo era uno degli Spettacoli che feci a Toronto.»
Del continente americano hai conosciuto anche gli Stati Uniti, no?
«Sì. Sono stato negli U.S.A. alcune volte, a New York. Landi mi scritturò assieme a cinque cantanti dei quali quattro napoletani ed il divo Luciano Tajoli. Erberto Landi ci scritturò per una tournée a New York: era la prima volta che alloggiavo nel prestigioso Wellington Hotel che dava sulla Fifth Avenue, la Quinta Strada. Io e Tajoli ci affiatammo, lui era un risparmiatore, e ricordo che mi soprannominava affettuosamente “vecchio leone”. Giungemmo e la prima sera non avevamo spettacolo, ma solo la sistemazione nell’albergo e la cena. In alcune tournée pranzi e cene erano detratte dalla paga lorda e Tajoli ne aveva esperienza personale. Con i colleghi cantanti napoletani ci stavamo apprestando per recarci a cenare, quando vedemmo Luciano che si incamminava verso l’ascensore, gli chiesi perché non si aggiungesse a noi, e lui riferì di accusare acidità di stomaco… quando gli dissi “Ma è gratis!” lo convinsi dal desistere dalla rinuncia e, quasi per accontentare la proposta dello stare a tavola in compagnìa, mi rispose: “ allora vengo a prendere un brodino, vai!” Poi gli feci lo scherzo di legargli uno spago alla sedia… Sarà stata la compagnìa, lo stare piacevolmente assieme fra connazionali, o semplicemente l’acidità sopitasi, mangiò molto volentieri e superò noi tutti nell’apprezzamento dei piatti che ci venivano portati. Luciano era un risparmiatore, un cantante “confidenziale” appassionato, ed a Milano aveva una propria azienda che produceva vino. La nostra tournée a New York, che era il mio debutto negli U.S.A., iniziava il giorno dopo: lo Show era in due parti, la prima commovente, della quale il divo era appunto Luciano; la seconda, per contrasto ed equilibrio, comica, dove l’attrazione, modestamente ero io con le mie imitazioni. Ci esibivamo al Carnegie Hall. Un quarto del pubblico erano americani, ma per gli altri tre quarti erano italo-americani, e quindi eravamo ben compresi nella nostra lingua. Avevamo un pianista italiano al seguito con noi; inoltre vi era l’orchestra del locale diretta dal loro Maestro. Quella sera, durante il suo numero, Luciano disse: “ Vedo in fondo alla sala…una testa con i capelli bianchi…sembra mia madre… e allora, le dedicherò questa canzone” e prese a cantare “Mamma” coinvolgendo il pubblico al punto che sembravano una sola testa… Erano tutti commossi, ottenne un successone personale indimenticabile! Quando arrivò il mio turno, Luciano Tajoli si posizionò dietro le quinte, nascosto alla vista della folla, ma messo in modo da poter vedere il palco, posizione dove solitamente si colloca il macchinista (del teatro), perché voleva vedermi e sentirmi; appoggiò il bastone e sedette. Al termine delle imitazioni di artisti e personalità italiane più o meno note, ebbi la felice idea di presentare l’Opera lirica con gli strumenti musicali, il tenore, il soprano in “Butterfly”: oltre alla ovazione del pubblico, la sorpresa inaspettata fu vedere il direttore d’orchestra, battere tre colpi di bacchetta e dedicarmi l’Inno di Mameli. Tajoli aiutandosi col bastone si alzò dalla sua postazione e venne ad abbracciarmi, confermandomi: “ Sei davvero un vecchio leone! ” L’indomani era giorno di riposo in quanto non avevamo Spettacolo; avevamo la replica il giorno successivo. Stavo salendo ed ammirando la “scala della lirica” dove erano appesi i quadri raffiguranti personalità italiane che si erano distinte in America: Giacomo Puccini, Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Tito Schipa, eccetera. Mentre li osservavo, sento “ Mister Mario”…e mi si avvicina un signore di origini campane, che mi parlava in “italo-americano”: “ Mister Del Ghiglio, I am Jack Petrillo. Io sono un agente e voglio fare te una proposta; tu lavori tomorrow?”. “ No domani non lavoriamo. ” “ Tu vuoi lavorare domani? Tu dove dormi? ” “ Certo che voglio lavorare. Alloggio al Wellington. “ “Allora domani ci vediamo alla hall del Wellington, alle 11 precise, per un caffé, poi vieni con me. Non raccontare niente ai tuoi amici, non dire niente a Tajoli. Ma ricorda essere puntuale perché cinque minuti di ritardo sono mille dollari persi. “ Non accennai nulla ai miei colleghi, come accordato. Fatalità volle che essendo orario “di punta” e molto “chiamato” l’ascensore, si aprì al mio piano soltanto alle undici in punto, e riuscii a scendere alla hall alle 11 e cinque. Petrillo me lo rinfacciò: “ …per questo tuo ritardo ho già perso mille dollari.” Con Petrillo fummo a casa di Johnny Higens (non so se scritto precisamente così oppure no), un signore alto e magro, “grande impresario” americano, lo era anche per John Wayne. Higens mi accolse: “ Hallo Mario. I listen you…Io posso fare qualche cosa per te. You like Las Vegas? ” Risposi “Yes” Mi aveva visto ed osservato nella mia esibizione della sera precedente, gli ero piaciuto, e tramite Petrillo mi aveva contattato per propormi lavoro extra. Ero entusiasta. La moglie era una fan dell’Opera lirica ed alla richiesta non potei esimermi dalla esibizione privata, anche perché trattavasi di una specie di provino per il mio nuovo datore di lavoro a suon di dollari.Mi accennarono al fatto che avrei dovuto imparare la lingua americana, avrei avuto due mesi per studiarmela in Italia, al rientro dalla tournée nella quale ero impegnato con Tajoli; poi, sarei tornato in America, con Petrillo, per firmare un contratto in esclusiva per due anni a cinquemila dollari a settimana. Cifra favolosa, mi sentivo prossimo alla cima, il pronostico di Totò si stava avverando. E potevo sognare ad occhi aperti. Alle 16 io, Higens e Petrillo eravamo al noto ristorante “Mamma Lucia” a New York. Mentre eravamo alla tavolata, entrarono Dean Martin e Jerry Lewis e l’impresario volle facessiloro udire quanto fossero conosciuti in Italia, così feci loro la voce di Dean che canta, e quella italiana di Lewis nel doppiaggio italiano proposto da Carlo Romano, come vocina infantile ma popolare… Ai due piacqui tanto che mi stavano proponendo di essere ospite al loro Show, però subito li disilluse Higens: “ No, Mario io lo porto a Las Vegas.” Stavo quasi per commuovermi. Sentendoli parlare imparai così pure a riprodurli con le loro vere voci. A bruciapelo mi chiesero se in quel momento mi sentissi più italiano oppure se più americano; impulsivo confessai ai nuovi amici: “ In this moment I like be american!” e ridemmo assieme. Ma accadde un fatto spiacevole al quale io non avrei dovuto esser testimone. Fra le persone della tavolata vi era una giovane attrice, purtroppo ubriaca (non so se per abitudine od occasionalmente), che ad un certo punto si scatenò in una scenata rovesciando il caffé in un occhio dell’impresario. Colse tutti di sorpresa, allibiti; mi affrettai al proporre di mettere subito del ghiaccio nell’occhio ustionato dal caffé caldo. Passati i primi secondi, il mio nuovo promesso impresario mi porta in disparte spiegandomi con voce calma, ma ferma e decisa, che io non avrei dovuto aver visto una simile scena, che anche se non ne avessi fatto parola con nessuno, la cosa non andava. Per una banalità del genere, persi quella opportunità che mi era appena offerta, prima ancora di poterla assaporare. Ancora oggi mi pare incredibile, ma sono disposto a metterci il collo, per confermarlo, dato che è una mia esperienza vissuta. Non posso rivelare il nome di quella attrice, che forse era solo una amante, o pedina di quelle persone, ma a distanza di decenni, perlomeno svelare il fatto, sì. Il mattino dopo, Luciano, mi chiese dove fossi stato, mi attendeva per fare colazione assieme… Mi vide taciturno, ed arrabbiato. Minimizzai, e bevendo io un caffé, lui un cappuccino, Tajoli mi promise del vino di quello da lui prodotto (che ancora non ho avuto la possibilità di assaggiare). A New York tornai una seconda volta, con Orietta Berti, e poi ancora una terza con Massimo Ranieri. E sempre alloggiando allo Wellington. Negli U.S.A. nei primi anni settanta, ero con Mario Abbate e Orietta Berti: a Wellington con Francoise “o malommo”, tutti mi chiesero di imitare Mario Merola, che è sempre stato un mio pezzo “forte” nelle trasferte all’estero…»
Chi ti invitò, che cosa ti chiesero, le domande erano tutte preparate prima, quella volta che fosti ospite al “Perry Como Show”? Ne conservi una copia filmata?
Che voci hai proposto alla tv statunitense? «Prima ti offrivano da bere, poi ti rassicuravano dicendoti che, anche se non conoscevi la lingua, bastava tu stessi al gioco delle bonarie “prese in giro”, e tutto sarebbe andato bene. Mi chiamavano Mister “Del Ghiglio”; che voci ho fatto? Voci liriche, ed ho riproposto Dean Martin e Jerry Lewis: feci un successone.»
Oltre al “Perry Como”sei stato invitato ad altre famose rubriche della televisione U.S.A., che so l’ “Ed Sullivan Show” o che altre?
«Ma avrò partecipato in tutto ad una decina di trasmissioni americane: ma chi lo sa i filmati dove sono finiti? Ma erano cosucce così, qualche voce, ma soprattutto qualche battuta in italo-americano o in americano “maccheronico” adatto allo spirito dello humor anglosassone…»
Nel 1974 con gli Harlemglobtrotter, oltre che fantasista imitatore tu anche presentavi; inoltre fra gli ospiti vi era pure Gustavo Thoeni.
«Gustavo Thoeni lo imitai, e lui “ci rimase”. Hahha-hhà. Comunque, io quale presentatore e fantasista ho lavorato per vent’anni con gli Harlem, dal 1962 al 1982!»
Al Carnegie Hall sei stato anche nel 1972 con Mario Abbate, Giulietta Sacco, eccetera…già me ne accennavi prima…
«E’ vero…che te devo raccontà…?»
Altri successi esteri?
«Così alla rinfusa come ricordo… A Belgrado assieme a Tony Dallara fummo da Tito e la sua moglie, Jovanka, la quale adorava le canzoni napoletane, che le cantai, col consueto impegno.»
Il Carnevale dei Piccoli 1971 con Aldo Fabrizi e con i tuoi concittadini: Franco Angrisano e Bruno Venturini; vi era inoltre tale Mimmo Schiavone: chi era?
Come fu quel Carnevale? Dopo anni che ti conosceva, come era qui il tuo rapporto con Aldo? «Mimmo Schiavone era un attore; ai bambini io proponevo le voci a loro più consone e rese familiari dalla tv di allora: “Topo Gigio”, “Calimèro”… Aldo Fabrizi, si camuffava da “bambino” in quella macchietta che all’epoca rifaceva pure nello schermo televisivo. Mi conosceva da anni…»
Agosto 1971 all’Astoria di Ravenna per il concorso Lady Universo presentato da Daniele Piombi e con: Renata Tebaldi, Giulia Shell, “Dino” ed “er reuccio” Claudio Villa. Inoltre vi era il tuo collega Franco Rosi. Era la prima volta che incontravi il soprano Tebaldi? E del tuo collega Rosi quale opinione hai?
«Certo che mi ricordo. La Tebaldi è la base della voce alla quale mi ispiro quando debbo fare un soprano; di solito, improvviso “un bel di’” dalla Butterfly. Franco Rosi è un buon imitatore, non certo ottimo; non è migliore di Noschese.»
Tu nelle voci liriche, che restano parte del tuo repertorio come base, ti ispiri a qualche Artista in particolare?
«Esatto. Oltre al trombone, mi esibisco in tre voci maschili ed in una femminile: tenore, baritono, basso e soprano. Per la voce soprano mi ispiro a due donne eccezionali: Renata Tebaldi e Maria Callas; per la voce da tenore, la mia base resta Beniamino Gigli.»
Franco Rosi gestisce da anni una scuola per imitatori: perché non lo hai fatto anche tu? Rosi ti ha mai invitato alla sua scuola quale docente o perlomeno in commissioni esaminanti- giudicanti?
«No, non mi è mai venuta la ispirazione a gestire una scuola perché non ho mai creduto a chi si camuffa, si traveste, e fa parodìa, a chi eccede nello studio e rischia di bruciarsi per strafare; il mio metodo è quello del calarmi, entrare interiormente nella persona della quale imito la voce. No, Rosi non mi ha mai invitato come docente alla sua “scuola”.»
Al dodicesimo Galà dell’Arte in Mexico: con chi eri? Che numeri facevi?
«No, non era in Messico, ma in Venezuela!»
Nel corso degli anni settanta, con la rivoluzione sessuale, nei nights trionfavano gli “striptease”: come era per un Artista del tuo calibro condividere il palco con le “bonone” degli spogliarelli?
«In quegli anni, i locali, ed i cinema-teatri erano in crisi, in calo di incassi, e per risollevare le loro economie, e quindi anche le paghe a noi Artisti, l’ingaggio delle spogliarelliste fu una idea che ne salvò molti; mi adeguai, come tutti, magari anche coloro che oggi “fanno finta di snob”.»
In che occasione hai conosciuto Barry White?
«Ci incontrammo al Nuovo di Milano.»
Assieme al tuo amico Claudio Villa ed ai Platters eri perlomeno in una occasione nel 1973. Ce la vuoi raccontare?
«Eravamo allo Smeraldo di Milano. Claudio arrivava in scena sempre in ritardo. I Platters erano colpìti dal fatto che non mi facessero lavorare nella tv italiana: “Mario no works in tv” e scuotevano la testa.»
Estate 1973 in Calabria, conduceva Daniele Piombi, il quale, dopo perlomeno tre volte che ti presentava, oramai ti conosceva, no?
«Beh, Daniele Piombi si è sempre dimostrato come uno dei presentatori più bravi e professionali, molto preferibile ad altri suoi colleghi, e garanzia di conduzioni signorili e mai banali: peccato sia stato messo da parte e venga sfruttato solo per spot pubblicitari, merita molto di più; nel tempo, conoscendoci, abbiamo instaurato un rapporto amichevole, sono stato anche a pranzo a casa sua; purtroppo non ci vediamo da anni, pur se entrambi viviamo a Milano.»
Una coppia canterina: Carla Boni e Gino Latilla, che ti rammemora?
«Due care persone, come caro amico era Achille Togliani.»
Descrivi il tuo incontro con Elettra Marconi
«Niente di particolare. Un incontro emozionante da entrambe le parti; te ne ho spedito l’articolo. Bevemmo insieme e lei mi fece i complimenti: “Lei è un fenomeno”.»
Sei stato a Venezia?
«Certo. Mio fratello Claudio venne al “La Perla” di Venezia dove ero inserito in una serie di numeri con vedette Mimmo Modugno. Claudio era timoroso di presentarsi a Modugno del quale era fan. Ricordo che Mimmo, collocato come ultimo numero di uscita, e quindi il più importante del programma, non voleva uscire dopo di me!»
Hai lavorato con la imitatrice Isabella Biagini
«Sì, avevo la direzione artistica dello Spettacolo e vi era anche Umberto Bindi. Te ne ho spedito una foto. Isabella Biagini era veramente una brava collega.»
Federico Fellini è ricordato anche per il suo utilizzare molti generici, circensi, attori minori e dimenticati dagli altri, ed ogni tipo di persone curiose, particolari ed uniche. Come unicità e dote vocali mi e ti chiedo, possibile che non abbia cercato anche Mario Di Gilio?
«Sì, mi chiamò per un doppiaggio, per voci di animali, sicuramente un leone… Non ricordo che film fosse, forse “E la nave va” o forse “le notti di Cabiria”? Probabile fosse quando partecipai a “Primo applauso”… Mi disse (lo imita): “ Che forza, lei! Fa la Pica precisa!” Io non ho mai elemosinato il lavoro. Ho accettato quello che mi è stato offerto.»
Nel 1989 la Rai trasmetteva unitamente alla versione “seria” de “I promessi Sposi”, con un insolito Alberto Sordi as Don Abbondio, una comicissima versione parodia con un trio di successo meritato: Anna Marchesini, Tullio Solenghi e Massimo Lopez. Che ne pensi?
«Erano bravi ed affiatati anche se poi si sono separati. Ma devo confessarti che, personalmente, non mi entusiasmavano; erano più comici che imitatori; più parodisti e satirici, che interpreti credibili.»
Hai conosciuto “Mina”?
«No, a Mina non ho avuto il piacere di stringere la mano, e mi sarebbe piaciuto moltissimo.»
Il tuo rapporto con Pippo Baudo?
«In apparenza mi stima; mi ha promesso più volte di farmi fare qualche spettacolo televisivo, ma sono ancora qui che aspetto.»
Che mi dici di Enzo Tortora?
«Persona di rara sensibilità. Quando lo arrestarono ho pianto molto. Ricordo quando fui suo ospite in televisione: al termine della mia esibizione fece un commento che è uno dei migliori complimenti io abbia ricevuto: “Ancora una volta Mario Di Gilio ha dimostrato che i tetti della televisione sono molto bassi.”.»
Hai conosciuto Umberto Onorato?
«Proprio Onorato mi fece delle belle caricature e pure un quadro, quadro che ho prestato a qualcuno…»
E Forattini?
«No, non mi pare di averlo (ancora) conosciuto.»
Ci racconti di quando Josephine Baker venne apposta per te? Dove era: in France, a Roma??
«A Roma. Al Margherita di Napoli, per lei venne il principe di casa Savoia ad ammirarla. Non la avevo riconosciuta e le chiesi di lasciarmi concentrare per fare il mio numero; lei mi replicò: “Je suì Josephìne Bakèr” ed aggiunse che mi ammirava. Vedi, gaffes causate dal mio amore per l’imitazione e che si ricollega alla impressione che di me aveva avuto Ettore Bruno…»
Nel 1989 lo Spettacolo “luci del varietà” al teatro Parioli; vi erano due coppie di attori: Alfonso Tomas e la moglie Elettra Romani, Pia Velsi e Giulio Massimini… e con l’imitatore Mario Di Gilio. Oltre alle voci liriche, qui i tuoi numeri più forti erano Totò, del quale mantieni viva la memoria, Aldo Fabrizi…ma veramente stupefacenti perché restano credibili, ascoltandoti ad occhi chiusi paiono proprio loro ed in ogni sfumatura, o cambio di tono: Renato Rascel, Vittorio De Sica, Paolo Stoppa. E poi al secondo tempo ed al finale, sottolineato da una ironica “cucaracha” condita con le battute di ciascuno di voi, riproponevi le tue voci in “lirica”: come nacque quell’avventura?
«Maurizio Costanzo stava organizzando uno Spettacolo che rendesse omaggio al Varietà; aveva già ingaggiato uno del Varietà che “tartagliava”, no, non era Pietro De Vico, era un altro, che rifiutò; cercava un fantasista, una attrazione, e ne parlò con Ruggero Orlando. Ruggero Orlando, era mio amico da tempo, ed infatti fu proprio lui a fare il mio nome a Costanzo, il quale, entusiasmato mi fece chiamare: alle prove fu un successo. Quel 17 novembre 1989 Sandro Bolchi, prima dello Spettacolo, quando mi aveva udito alle prove nei gorgheggi dalla “Butterfly”, commentò: “ è una cosa fantastica: lui non è che fa l’imitazione della donna, fa il soprano! E…e…e…”, mentre a Maurizio Costanzo cadde la cartellina coi fogli. Costanzo disse che io gli potevo fare per davvero “la passerella da Spettacolo di Rivista!” Così, iniziato a novembre, lo Spettacolo proseguì fino alla epifania del 1990. Hanno filmato anche una videocassetta. In sala era fra gli ospiti “vip” Renato “Rascel”, il quale alla fine si complimentò con me: “finalmente qualcuno che mi imita, invece di farmi la caricatura” una giornalista scrisse: “Di Gilio ha il teatro in gola”. Era prevista anche una tournée, che poi purtroppo non ebbe luogo. Costanzo mi disse: “Maestro, non ho mica capito: nei giornali si parla solo di lei”; chi lo sa forse non siamo poi stati in tournée per le solite invidie che rovinano ciò che ben inizia? Vi è un precedente riguardante Paolo Stoppa…»
Cioè che cosa accadde fra te e Paolo Stoppa?
«Preciso che non ci siamo mai incontrati. Credo dopo tale episodio mi odiasse. Fui chiamato per imitarne le voce in uno spot pubblicitario “bondì motta”, e la paga era alta, come uso nel mondo pubblicitario; mi presento e mi chiedono se volevo prepararmi e provare. Risposi che era meglio non provare e non perdere tempo, dato che ero pronto. Andarono bene le prime due, poi un giorno, mi dissero: “ Senta ha telefonato Paolo Stoppa, ed ha detto che viene a farla lui.» Quindi questo nel corso degli anni ottanta…?! Grazie anche alle tue doti liriche, sei stato anche a Catania in un pezzo classico: “La serva padrona” «fu organizzato dall’Opera Lirica di Roma nel 1990: abbiamo avuto sette repliche al Bellini di Catania.»
Ma fra i cantanti che imiti, od anche non, vi è qualcuno che ti piace, in qualità di fan?
«Certamente. Pur stimando i napoletani in genere, sono sempre stato affascinato dalla voce di Fred Bongusto, voce che adoro, e che mi piace imitare.»
E parlando di cantanti non posso non accennare a Mino Reitano, recentemente scomparso: lo hai conosciuto?
«Reitano lo ho incontrato parecchi anni fa. Mi parlava di Sinatra, ricordo che “correva” senza sosta, entusiasta, infervorato. Una mia cognata “impazziva” per lui, come si è soliti dire; ragazzo calabrese pensava alla propria carriera di cantautore senza pretese, umile e sempre modesto, modesto a rischio di essere sottovalutato, come feci io. Ed il tempo ed i successi, non lo hanno cambiato, credo non si sia mai “montato la testa”; si entusiasmava e “caricava” con cose quotidiane e temi semplici, per trovare la voglia di vivere e coinvolgere gli altri non aveva bisogno di chi lo sa quali complicazioni o tematiche eccezionali... Non sentivo il bisogno di imitarlo, anche se non è difficile farne caricatura.»
Il tuo rapporto con Liliana De Curtis come iniziò?
«Dopo “luci del Varietà”, ho partecipato a Spettacoli dedicati a Totò. Quando Liliana De Curtis nel 1991 tornò in Italia dal Sudafrica, dove viveva dalla morte del padre, non si aspettava l’amore postumo che fan, e personalità dimostravano verso Totò. Ci abbracciammo e stringemmo una amicizia. Abbiamo organizzato varie cose assieme. Con lei a Bellizzi sono da anni promotore dello Spettacolo: “Totò 110 e lode”.»
Nel 1997 con Aldo Giuffrè ed i coniugi attori Clara Bindi ed Aldo Bufi Landi avete portato in tournée “il medico dei pazzi”, commedia dialettale, in duplice omaggio ed onore: all’autore, l’immortale, Eduardo Scarpetta che al Comico dei Comici, Totò. Come nacque e da chi l’idea? Imiti Aldo Bufi Landi ed i due fratelli Giuffrè?
«Ci scritturarono per idea di due giovani artisti. Io facevo la parte di un personaggio “minore”, un violinista, ma nonostante questo, ebbi molti consensi, in particolare dal pubblico bolognese. Aldo Bufi Landi non ha voce “particolare”, e nemmeno i Giuffrè; imito un pochino Aldo, nella voce “roca” che ha assunto dopo l’intervento alle corde vocali, ma non è una imitazione che mi entusiasmi. Sono attori cari amici.»
Mario, in oltre mezzo secolo di esperienze, rivelaci: Torino, Bologna, alcune zone di Roma od altrove, insomma, quale è la piazza “più fredda”, il pubblico più difficile?
«In verità ti confido che tutti i pubblici sono “caldi” se li fai ridere. Quelli che raccontano di una città in particolare “più fredda” è perché non la hanno saputa divertire o colpire a sufficienza; oppure se vi sono motivi di ostracismo o manovre per boicottare testi o Compagnìe. Anche allo Jovinelli ricordo che mi presentai col classico “italiano”: “Buonasera, signore e signori”; uno spettatore mi interruppe: “Aò, rompikojoni, parla come magni!” Mi adeguai imitando Lino Banfi nel suo pseudo-barese e risero tutti. Se al pubblico dài ciò che vuole, lo conquisti.»
Certamente entrare nel dettaglio impiegherebbe parecchio tempo e forse scriverlo qui sarebbe “fuori luogo” od eccessivo; ma a parte le città, i centri minori, che magari contano un unico teatro che alterna cinema, Rivista, Varietà, Operetta, prestigiatori e spogliarelli? E nello specifico, essendo ospitati in un sito polesano, la domanda viene spontaneo finalizzarla al luogo: se mai sei stato in tournée fra Ferrara e Padova, che impressioni porti dentro di te del Polesine?
«Qualche anno fa ho incontrato anche la Ricciarelli. Il polesano è un pubblico fenomenale, non per retorica, ne sono convinto. Ho visto persone Venete intervistate in qualche telegiornale: con la loro cadenza dialettale, sembra che non sappiano nulla, e poi invece ti raccontano tanti particolari. Cambiano i dialetti, ma quale è mai la differenza fra un polesano ed un napoletano? Ma, e detto fra noi, i teatrini locali potrebbero essere interessati nel 2009 ad ospitare Mario Di Gilio in qualche suo numero? Magari quel teatro che mi dicevi riaperto un anno o due fa, come si chiama, Ballarìn?»
Sì il teatro Ballarin di Lendinara: beh credo che sia qui, che ad Adria, od anche in altri teatri del Polesine, se grazie anche a questo “questionario” imparano a conoscerti, non potranno che essere onorati di ospitarti! Comunque nel tuo paragone fra polesano, veneto e campàno vuoi ribadire che, tutto sommato, “tutto il mondo è paese”. Torniamo a parlare di tuoi colleghi, veri e supposti o presunti tali. Che mi dici di Sabani? Personalmente ricordo che la base della sua vera voce rimaneva “sotto” ogni voce che imitava, che ne dici?
«Era bravo, ma non era un imitatore, era un parodista. Esordì facendo ottima impressione, ma poi, con il suo voler fare da autore che aggiunge una sua personale nota caratteristica a ciascun ruolo, per favorirne il riconoscimento da parte del pubblico, invece che imitare persone reali, ha finito per creare delle “macchiette”, dei personaggi con una sua impronta personale. Infatti poi, si è presto stancato di “imitare” finendo per fare il conduttore, e poi ha avuto la sfortuna di morire abbandonato da tutti, anche quelli che, prima, per comodità, lo avevano osannato.»
Che mi dici del “povero” Alfredo Papa?
«Ecco Alfredo Papa mi piaceva; quando fu ospite a “Fantastico”, fra Massimo Ranieri ed Anna Oxa, mi sorprese e molto. Quello lì sì, avrebbe potuto essere il mio “erede artistico”.»
Fra gli imitatori attuali uno dei migliori è Manlio Dovì: tu che cosa ne pensi?
«E’ il migliore in un repertorio di voci “moderne”, attuali, però…»
Che pensi di Fiorello? Faresti uno spettacolo assieme a lui?
«Certamente che lavorerei con lui, è una forza della natura; come sono io d’altronde! Fiorello ha l’arguzia di saper sfruttare la propria dote del coinvolgere le persone. Ma lavorerei con tutti e sedici i migliori imitatori di oggi, i quali, chi più e chi meno, chi ben imitando e chi da “affogato” fanno il loro lavoro e si sono preparati nelle “voci di oggi”; ma io su di loro ho un vantaggio: so imitare parecchie voci di ieri, che nessuno conosce più.»
Detto ciò, caro Maestro, ci fai un riepilogo di coloro che sono nel tuo repertorio?
«Premetto che non ho mai imitato alcuni presentatori come Pippo Baudo, Daniele Piombi, od altri senza “voce particolare”, oppure anche come il signor Dino De Laurentiis; Giulio Andreotti ti confesso che mi viene “così così”… Considera comunque che ne scordo qualcuno. Nel mio repertorio: Louis “Satchmo” Armstrong, Marino Barreto, Umberto Bindi, Sandro Bolchi, Fred Bongusto, Gino Bramieri, Sergio Bruni, Fred Buscaglione, Franco Califano, Calimero, Nicolò Carosio, Walter Chiari, Maurizio Costanzo, Tony Dallara, Carlo Dapporto (nel parlato e nel canto), il tenore Di Stefano, Pietro De Vico, i De Filippo: Titina, Eduardo, Peppino, Luigi (Luigi: “lei lo imita ancora mio patre?!”); Johnny Dorelli, Mirna Doris, Umberto D’Orsi, Amintore Fanfani, Federico Fellini, Vittorio Gassman(n), Elio Gigante, Beniamino Gigli, Adolf Hitler, Giovanni Leone, Erminio Macario, Nino Manfredi, Gianluigi Marianini, Mario Merola, Mitterand, Mimmo Modugno, Yves Montand, Aldo Moro, Roberto Murolo, Benito Mussolini, Natalino Otto, Ruggero Orlando, Wanda Osiris, Maria Paris, Edith Piaf, Papele “o’ marenaro”, “papi”: Pio 12°, Giovanni 23°, Giovanni Paolo 2°, Benedetto 16°; Pasquale Pinto, Nilla Pizzi, Sandro Pertini, Alberto Rabagliati (fra i primi che ho imitato), Renato Rascel, il doppiatore Carlo Romano, sia nella voce italiana di Jerry Lewis, che in quella di Fernandel-Don Camillo; i fratelli Rondinella Giacomo e Luciano, Tino Scotti, Luciano Tajoli, Renata Tebaldi, Gustav Thoeni, Achille Togliani, Topo Gigio, Enzo Tortora, il “principe” Antonio De Curtis quando si cala nella maschera Totò; Paolo Villaggio quando “si cala” in Fantozzi Ugo... e vari altri!»
Se qualche “addetto” della Medusa distribuzione, o della Filmauro, o della “Mari Film”(B), società cinematografica di Massimo Boldi, o della “Video 80” dei Vanzina, o qualsiasi altra, od anche i medesimi registi Neri Parenti, Ruggero Deodato, Carlo Vanzina, Christian De Sica, o chiunque altro ti proponessero un ruolo, a te consono da imitatore, oppure anche un semplice cameo attoriale recitativo da guest star, in una commedia, comico, od in uno di quei lungometraggi comici di attualità (che dati gli incassi che fruttano da quasi trenta stagioni, denotano il bisogno che ne avverte il pubblico di ogni età e ceto sociale, anche quelli che si beano nel denigrarli, novelli “snob”), che, dato il periodo di uscita nelle sale, per comodità, i giornalisti hanno definito banalmente: “cinepanettoni” accetteresti oppure no?
«Certo che accetterei. Perché dovrei rifiutare? A parte che “il lavoro è lavoro”, e non andrebbe quasi mai rifiutato, non ho personali prevenzioni su alcun genere di film, sempre nei limiti della decenza; un ruolo è un ruolo, e per il pubblico, sono ben pronto e disposto a mettermi sempre alla prova. Non elemosino il lavoro, ma le proposte ben vengano.»
Ok Mario, te lo, ma soprattutto, includendomi fra gli spettatori, ce lo auguro. Sei disposto a vagliare tutte le proposte che ti giungono, esattamente come fa “Mina” con ogni canzone le arriva, da nomi noti e da perfetti sconosciuti (sconosciuti sì, ma non ignoranti in materia, e quindi purché abbiano un minimo orecchio musicale e conoscitori del pentagramma); e Mina non è una qualsiasi, ma fra le rare, una delle voci (altro che Frank Sinatra Senior, lei merita l’appellativo “The Voice”!) più duttili e fantastiche che l’Italia, ed il mondo possa vantare. Quindi accetteresti anche eventuali ruoli drammatici o da “cattivo”, o da mafioso, da “serial killer”, eccetera?
«Dunque caro amico, non ci sarebbe bisogno di queste domande specifiche; considera una cosa: un imitatore, si cala in coloro che imita perché li deve reinterpretare, e nel modo più fedele possibile, senza parodiarli “a macchietta”, ma se ci mette testi propri come battuta, recitarli, o modularli come se li parlasse o cantasse la persona imitata; e quindi è evidente che un imitatore, è prima di tutto essenzialmente un attore ed un cantante. Certo che sono ancora disponibile anche per eventuali ruoli drammatici. Questa risposta completa ed integra la tua domanda precedente.»
Quindi Mario, in procinto dell’epilogo di questo amichevole e confidenziale interrogatorio ti domando qual è, se c’è, il tuo rammarico?
«Non so imitare i dollari; e neanche gli euro, mannaggia!»
Quali sono stati i migliori anni della tua vita?
«i migliori anni, come ama cantare Renato Zero, dove sono finiti i migliori anni della mia vita? Fra invidie e gelosie…intanto il tempo e la salute fanno il resto. Ma sai una novità? Mi hanno dedicato una voce nel terzo volume, contenente la lettera “D”, della Nuova Enciclopedia Illustrata della Canzone Napoletana, anche se, ebbene pure qui il mio cognome risulta, ahinoi, “Di Giglio”: è proprio il mio destino; comunque, aldilà dell’errore, sono molto felice e lusingato di essere stato incluso in una Enciclopedia. Inoltre il 2008, mi ha portato vari riconoscimenti e premi. Nel 2008 sono stato l’attrazione al Giffoni Film Festival alla sezione della Settimana Teatrale: che bello, ragazzi ventenni che mi volevano abbracciare! E nel 2009 la mia Salerno mi consegnerà il premio letterario “I Barbuti”, del quale sono già stato informato.»
A proposito di premi, Mario, non che siano determinanti, perché i Premi sono solamente l’indice di quanto i critici si accorgono di ciò che accade al di là del loro naso, ma tanto per completezza: riusciamo ad elencare, se possibile cronologicamente tutti quelli che hai ricevuto? Li conservi ancora tutti o no?
«Sono parecchi, contando sia quelli di “una certa importanza”, che i minori, o quei riconoscimenti legati ad eventi specifici o particolari… Beh, potremo fare una pagina apposita a parte no?»
D’ accordo. E se preparassero una tua cine o tele-biografia a quali attori ed a quale imitatore affideresti la tua parte?
«A Robert De Niro…»
Ah! Beh, però certo che per le voci, lo dovresti comunque doppiare tu! E probabilmente sarebbe il primo caso di un protagonista doppiato dall’originale del personaggio che il medesimo attore interpreta!
«Certo. Pensa: un'altra curiosa invenzione, no?»
Per concludere, Mario, perché fra tanti hai scelto di accettare di lasciarti tartassare di domande proprio da me?
«perché con la tua competenza e preparazione eri l’unico a poterle fare in maniera così dettagliata. Sei il mio biografo. Il baule per ora lo richiudo… al prossimo aggiornamento. Anche perché confesso a tutti che ogni tanto, mi torna presente qualche ricordo: quando la memoria è stimolata da immagini e persone ripescate da tv, giornali, o da domande, eccetera. E comunque buon 2009 a tutti!»
Tenente Colombo (Simone Riberto)
Riferimenti e bibliografie:
- Simone Riberto alias Tenente Colombo, intervista realizzata a Mario Di Gilio ottobre 2008 - gennaio 2009