La Errepì di Remigio Paone
Remigio Paone nacque a Formia (Latina) il 15 settembre 1899, da Giuseppe, medico chirurgo, e da Tullia Amante. Il dinamico impresario formiano, era conosciuto nel mondo degli spettacoli con il diminutivo di "Errepi", "Comandante" o "Re Migio" Attraverso la Spettacoli Errepi organizzò e gestì, a partire dalla stagione 1945-46, i Pomeriggi musicali del Teatro Nuovo di Milano – ne fu consigliere delegato, oltre che membro del comitato artistico – per l’esecuzione di musica da camera, avvalendosi della collaborazione di Ferdinando Ballo, pianista e direttore d’orchestra legato alle sperimentazioni internazionali. I Pomeriggi si distinsero nel presentare giovani bacchette e solisti sconosciuti confermando in ciò una caratteristica di Paone che, aperto al nuovo e vero talent scout, seppe alternare repertori classici e contemporanei, celebri opere e autori di primissima esecuzione.
Ogni iniziativa teatrale continuò tuttavia a fare i conti con grandi difficoltà finanziarie, costringendolo ripetutamente a rivolgersi a Mattioli – il banchiere ai vertici della Comit, ma anche il potente mecenate e imprenditore culturale – che lo sostenne finanziando il Teatro Nuovo. Frequentemente assediato dai creditori, poté avvalersi di molti rapporti negli ambienti che contavano e di personaggi pronti ad andare in suo soccorso. Fu il caso di Franco Libonati – noto avvocato romano, legato al gruppo de Il mondo di Mario Pannunzio – che intervenne su Nicola De Pirro (negli anni Cinquanta direttore generale dello Spettacolo) e Giulio Andreotti (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo), patrocinando il salvataggio di Spettacoli Errepi, in grave crisi per il deficit di Carosello napoletano (1950) di Ettore Giannini, costato a Paone una perdita personale di 86 milioni di lire.
Fu infatti attraverso Errepi che Paone produsse le più importanti compagnie di prosa, rivista, musical; organizzò nel 1947 la stagione italiana del Festival teatrale di Parigi; lanciò Garinei e Giovannini, primi autori di commedie musicali italiane, e ingaggiò compagnie straniere, come il Théatre national populaire diretto da Jean Vilar, l’Old Vic di Londra, la Comédie française, l’Opera di Pechino, l’American national ballett.
Ricoprì molte cariche: dal 1949 al 1964 fu gerente dell’Associazione riunita concerti e dal 1952 consigliere di amministrazione dell’Associazione lirica e concertistica; membro del sottocomitato delle manifestazioni della Biennale di Venezia, curatore dal 1959 al 1969 della programmazione del Teatro Cometa di Roma. Dal 1964 diresse a Milano il Teatro Odeon; inoltre gestì per dieci anni il Carignano di Torino e poi il Manzoni di Milano (che organizzava anche I lunedì letterari dell’Associazione culturale italiana) e il Quattro Fontane di Roma. Nel 1963, il Teatro lirico municipale di Ginevra, distrutto da un incendio, si rivolse per l’inaugurazione della nuova struttura a impresari di quattro diversi Paesi, e per l’Italia la scelta cadde su Paone. Nel 1965 fu premiato come Anziano del Teatro per la più che trentennale attività di impresario.
La Rivista conobbe grande fortuna negli anni Trenta e di più ancora durante la guerra. Via via, le rappresentazioni si arricchirono di macchinerie scenografiche e paradossi esotici: il tutto a favore di una crescita verticale dei costi di produzione. Ciò rese centrale il ruolo dell’impresario, colui che investiva denaro, curava tutti gli aspetti organizzativi, produttivi e distributivi dello spettacolo. Spesso, poi gli impresari finivano per essere anche autori o talvolta coreografi delle Riviste.
Un impresario celebre dell’epoca fu Remigio Paone che con il marchio ‘Errepi’ produsse alcuni degli spettacoli che più fecero sognare una generazione intera di italiani ricchi, vogliosi e provinciali. Il nome di Remigio Paone è legato fondamentalmente all’invenzione di Wanda Osiris (dal fascismo romanizzata in Vanda Osiri), delle sue scalinate, dei suoi strascichi e dei suoi boys (tra essi, come è noto, debuttò Alberto Sordi). Eppure, magari solo a titolo di curiosità, si deve ricordare che Paone fu produttore anche di teatro di prosa, con idee chiare e coraggio fuori dal comune: il suo primo spettacolo porta la data 1930; titolo, La veglia dei lestofanti. Moderatamente camuffata, era L’opera da tre soldi di Brecht. Ma la vera genialità di Paone fu quella di antevedere la trasformazione radicale della società italiana da prima a dopo la guerra, intuendo la necessità della creazione di un immaginario meno autarchico, guerresco e conflittuale di quello propugnato dal cinema fascista: l’esotismo si trasformò in vaga esterofilia, la beatificazione dell’eroe lasciò il posto alla mancata dannazione dell’antieroe. Spostamenti lievi, come si vede, che però trovarono campo fertilissimo nell’Italia che di lì a poco sarebbe diventata gaiamente democristiana.
Nicola Fano
Mi parlavano di crisi e allora in Italia c'erano 44 compagnie di prosa, oltre a quelle di rivista, operetta, circhi equestri. Milano aveva 14 teatri funzionanti, dal Dal Verme al Carcano, dai Filodrammatici al Manzoni, all’Eden, al Diana. L’Odeon e l’Excelsior erano nuovi e cominciavano la loro attività. Ogni compagnia era costituita come la famosa Niccodemi, con gli elementi della quale oggi si farebbero tranquillamente cinque o sei complessi. Le compagnie avevano una durata triennale. Si recitava sette sere su sette e la domenica c’era anche il matiné, la recita pomeridiana. Ci si fermava soltanto a quaresima, il Venerdì Santo. Ognuna aveva un repertorio di almeno dodici, quindici commedie e si cambiava ogni sera.
Remigio Paone
Sullo slancio di questa analisi Paone va oltre. Riesce a entrare in società nientemeno che con Angelo Rizzoli e nel 1938 apre il Teatro Nuovo, appena costruito e tuttora attivo, a Milano, fondando l’“Errepì”, una sigla produttiva che entrerà nella storia del teatro italiano (“Rizzoli-Paone o Remigio Paone?”, si chiede Emilio Pozzi, ma Rizzoli lasciò presto la società consapevole che Paone ce l’avrebbe fatta da solo). Agli inizi produce Piccola città di Thornthon Wilder e nel 1943 L’albergo dei poveri di Gorkij che, di 11 a quattro anni, sarà il testo inaugurale del Piccolo. Scrittura i più bei nomi della prosa. Ma il suo cuore è per il teatro leggero, entrando in concorrenza con la potentissima Suvini-Zerboni, che “è il nome di una società dietro la quale operano parecchi personaggi che, nel campo dell'impresariato, hanno dominato per decenni la vita teatrale di Milano: anzitutto i fondatori Emilio Suvini e Luigi Zerboni, attivi fin dalla fine dell’Ottocento; poi Luigi Riboldi dapprima legale della società e poi socio; infine Michele Suvini, succeduto al padre Emilio.
E poi ancora Paolo Giordani, nemico/partner di Pirandello nel progetto che il drammaturgo presenta a Mussolini. Si occupa di operette, come sopra scritto, “lancia” Garinei e Giovanni come autori, si assicura le principali soubrettes: Wanda Osiris, Isa Barzizza, Lauretta Masiero, Flora Lillo. La rivista è il suo mondo. Lo chiamano lo “Ziegfield italiano” e nulla potrebbe meglio adularlo; al termine degli spettacoli si fa chiamare dalle sue primedonne in palcoscenico e percorre la passerella come una star. E un impresario a tempo pieno, non ha altri interessi; vuole divertire il pubblico ma non cessa mai di aiutare la qualità artistica. Porta in Italia artisti come Jouvet, Barrault, Gerard Philippe. Riceve nel 1954 la Legion d’onore francese per la tournée parigina del Cirano di Bergerac interpretato da Gino Cervi. Nello stesso anno diventa il primo impresario dei “giovani”: De Lullo, Valli, Falk, Guarnieri, Albani. Si lascia volentieri convincere a fondare, presso il Nuovo, i “Pomeriggi musicali” con cui porta a Milano direttori come Bemstein e Celibidache. Conferma il suo legame con la musica classica quando, nel 1965, accetta la sovrintendenza del “maggio Musicale” di Firenze, dove riuscirà a tenere aperto il teatro anche nella tragedia dell’esondazione dell’Arno. Un’attività, dunque, senza limite di generi, che si conclude negli anni Settanta, quando la figura dell'impresario privato da lui impersonata, guascone ma battagliero e generoso, autenticamente “di mestiere”, non sembrava più di attualità.
Fu la fatale ricaduta della malattia agli occhi che colpì Totò al Politeama Garibaldi di Palermo nel maggio del 1957, durante la tournèe siciliana della rivista targata "Errepì" dal titolo «A prescindere», che obbligò alla decisione di sciogliere la compagnia. Saltano conseguentemente tutte le quattro tappe siciliane di Caltagirone, Catania, Messina, Palmi e il gran finale di Napoli del 21 maggio.
Anche su pressione degli impresari siciliani, visto il danno economico del mancato guadagno dovuto alla sospensione del tour, Remigio Paone fa sottoporre Antonio de Curtis a visita medica fiscale per accertarne le reali condizioni. Fu un gesto che segnò la definitiva rottura dei loro rapporti professionali, ma soprattutto termina l'amicizia e la stima di Totò che aveva sempre considerato Remigio Paone «un signore».
Nascita di un impresario
Gli esordi furono, per la verità, tutt’altro che promettenti. Nel '30 allestii, con Anton Giulio Bragaglia, l’Opera da tre soldi di Brecht, di recente rappresentata al Piccolo Teatro di Milano. Allora s’intitolava La veglia dei lestofanti: recitavano Arturo Falconi e Camillo Pilotto. Era teatro rivoluzionario, in quel tempo. Al Filodrammatici di Milano la prima sera i curiosi ci fornirono un incasso maestoso di 17 mila lire. Ma la seconda sera, la cifra cadde a duemila. Io ero praticamente rovinato.
Ebbi la fortuna, però, di entrare a far parte della Suvini-Zerboni per la lettura di copioni nuovi, mentre amministravo sempre la “Benelliana”. E finalmente, nel '33, ebbe inizio la mia paradossale avventura di “sorvegliato speciale” del regime, innalzato dal regime stesso a una carica degna di un gerarca. Come socialista ostinato, come renitente all’iscrizione al PNF, ero pedinato da agenti in borghese, soggetto a continue “intercettazioni” telefoniche, e definito “famigerato” da Starace nelle sue furiose lettere ad Alfieri (ho le fotocopie o addirittura gli originali nel cassetto, sono un divertimento: dovetti costare un patrimonio al Partito). Viceversa, come uomo di teatro e amico di Galeazzo Ciano, ero non solo lasciato in libertà, ma addirittura direttore generale dell’UNAT: agenzia teatrale quasi di Stato, alla dipendenza della Federazione dello spettacolo, che visse e prosperò fino al '43. Nel mio ufficio appesi una grande fotografia di Galeazzo Ciano con dedica
inequivocabilmente affettuosa: i marescialli che venivano a dare un’occhiata ai miei affari e a sorvegliarmi perché ero definito “sporco antifascista” negli ordini di servizio, alzavano gli occhi su quel ritratto del ministro degli esteri, leggevano la frase ultra amichevole e non capivano più niente.
(...) Le emozioni violente si apprezzano, però, quando si è molto giovani; nel ’38 decisi dunque di lasciare la direzione generale dell'UNAT e di mettermi per conto mio. Non mi preoccupavo di come potessi riuscirvi, sapevo che avrei avuto fortuna.
Una sera infatti incontrai nel corridoio di una carrozza con letti, viaggiando verso Roma, l’editore Angelo Rizzoli. Tra un discorso e l’altro gli raccontai che poco tempo prima la società di assicurazione Toro aveva chiesto all’UNAT l’autorizzazione per costruire un nuovo teatro a Milano, nei sotterranei di un palazzo in piazza San Babila. “Perché non lo prende lei, Paone?”, mi domandò Rizzoli. “Ha esperienza, entusiasmo...”. “E casse vuote”, continuai io, mettendomi a ridere. “Ci vogliono quattrocentomila lire di cauzione e quattrocento almeno di capitale di esercizio. Io finora ne ho guadagnate quattromila al mese e non ne ho mai risparmiata una”. Angelo Rizzoli si accarezzava il mento con una mano, pareva distratto. “Be’, buonanotte”, disse ritirandosi. Il mattino, all’arrivo, lo ritrovai nel corridoio. “Ci ho pensato, Paone”, mi abbordò subito. “Facciamo questo teatro, i soldi glieli do io, lei ci mette il lavoro”.
In questa stessa primavera mi fu aggiudicato dunque, dalla compagnia di assicurazioni Toro proprietaria dello stabile, l’esercizio del teatro. (...)
Inaugurai il Teatro Nuovo il 9 ottobre. Quattordici giorni dopo le autorità me lo fecero chiudere perché avevo allestito l’operetta Zizi, facendovi recitare due attori ungheresi israeliti, Rosy Barsony e Oscar Denes. In fretta ordinai a Budapest carte false per dimostrare che gli attori non erano ebrei: Rino Parenti finse di crederle vere e mi lasciò riaprire.
(...) Il 25 luglio 1943 ebbe fine la prima delle mie tante vite (ne ho ancora alcune di riserva) e iniziò la seconda. Smisi, in particolare, di essere un tollerato del fascismo e divenni un perseguitato con tanto di taglia. Fu perché sentii immediatamente il bisogno di commettere qualche imprudenza. La sera del 25 luglio ero al teatro Nuovo dove, in accordo con l’EIAR, si dava la Festa della musica leggera. Vivi Gioi, disertato per la prima volta il cinema, intonava canzoni sentimentali, sul palcoscenico si alternavano le orchestre di Angelini e Barzizza: sarei stato io, dunque, l’inventore dei Festival della canzonetta, se le autorità mi avessero lasciato usare questa parola straniera. Stava dirigendo Barzizza, ricordo, quando mi chiamarono in direzione: mi telefonava un mio cognato per avvertirmi che Mussolini (lui disse sgarbatamente “il fesso”) era caduto. Per prima cosa ritornai in platea e mandai a casa un amico, consigliere nazionale, che avevo scorto tra il pubblico. Poi mi ricordai di due attori ebrei, Arnoldo Foà e Guido Sacerdote, che avevo protetto e fatto recitare dal '40 con i relativi pseudonimi di Arnaldo Galli e Guido Sarti. Quella sera Foà era a Roma, Sacerdote ad Alba. A ciascuno, in un attimo di euforia, spedii un telegramma solo per dichiararmi: “Felice potervi chiamare finalmente col vostro vero nome”. Per finire, verso l’alba uscii dal teatro con un cartello sottobraccio e un barattolo di colla in mano. Era con me Ettore Novi, direttore del Muovo (è morto tre anni fa, povero Ettore): mi aiutò a coprire la targa stradale del “corso del Littorio”, nome che mi aveva sempre dato fastidio, con il mio cartello sul quale avevo scritto: “Corso Giacomo Matteotti”. La via si chiama ancora cosi, come io la ribattezzai.
Nei quarantacinque giorni del governo Badoglio accettai la carica di commissario straordinario per il teatro e mi trasferii a Roma. Dopo l’8 settembre aspettai la gragnuola, che non tardò: gli amici milanesi mi consigliarono di restarmene nella capitale, e ben nascosto. I telegrammi a Sacerdote e Foà mi avevano infatti fruttato un mandato di cattura per favoreggiamento di israeliti; e Buffarini-Guidi mi voleva in prigione perché ero stato “commissario badogliano”. Giocai a nascondermi con la polizia. Fuggii dall’Hòtel Excelsior, grazie al direttore commendator Armarmi che mi avverti, appena in tempo per non incappare in un’irruzione delle SS. Passavo dalla casa di un amico a quella di un altro: per qualche settimana mi ospitò generosamente l’attore Annibaie Betrone. Tutto questo non mi impediva però di darmi da fare a mio modo.
Non tralasciavo intanto il teatro. Mandavo disposizioni per le recite al Nuovo di Milano, a Roma allestii stando nascosto L'albergo dei poveri di Gorkij, a dispetto delle autorità. Fu la sera della prima di questo dramma all’Argentina, il 28 novembre, che Renato Cialente venne travolto, mentre rincasava in bicicletta, da un autocarro tedesco; e io non potei né dare un addio alla sua salma né seguirla ai funerali, povero grande amico. Organizzai però in suo onore una recita straordinaria alla quale presero parte tutti i massimi attori disponibili, a costo di fare le comparse: e potei assistervi, nascostamente, proprio dal palco blindato che era di Mussolini e al quale si accedeva, all' Argentina, da una scaletta segreta.
Il pericolo ebbe fine il 6 giugno del '44, con la liberazione di Roma. La realtà dava finalmente ragione a un altro dei miei motti prediletti, che facevo stampare fin dall’età di vent’anni sulla mia carta da lettere: basta saper attendere (Rino Parenti, a suo tempo, mi aveva dato una strapazzata ufficiale per questo: “Paone, nell’Italia fascista non c’è proprio niente da attendere, non succederà niente”, mi aveva gridato furioso, mostrandomi una mia lettera “intercettata”). Non volli perdere più nemmeno un giorno. Nella stessa estate del '44 ripresi ad allestire spettacoli uno dopo l'altro.
Insediatomi nell’appartamento di Orio Vergani in Piazza di Spagna, urlavo al telefono da mattina a sera, litigando, scritturando, invitando, protestando, per preparare La leggenda di Ognuno da dare, interprete Ruggeri, nel cortile della Sapienza. Gridare forte al telefono è la mia specialità. I coinquilini, disturbati di giorno e di notte, battevano coi manici di scopa sui muri, sul soffitto, sul pavimento. Un mattino mi telefonò una sconosciuta: “Basta, non ne posso più!”, mi investi. “Io sto proprio sopra di lei, sono un’allieva dell’accademia d’arte drammatica, ho la famiglia a Firenze, qui sono sola, cerco lavoro, sono disperata e mi tocca sentire questo impresario che scrittura gente a destra e a sinistra impedendomi perfino di dormire. È un supplizio di Tantalo. Almeno mi dia un lavoro. Mi chiamo Lea Padovani”. Mi piace la gente prepotente, l’adoro. Feci recitare Lea Padovani nella rivista Cantachiaro numero 1 a 200 lire al giorno. Era il primo copione di quattro giovani autori ai quali io per primo diedi fiducia: fu in questo modo che “scoprii” in un sol colpo Garinei, Giovannini e Lea Padovani.
Remigio Paone
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
Le opere
Volumineide (1942)
A prescindere (1956-1957)
Riferimenti e bibliografie:
- Enciclopedia Treccani
- Intorno al palcoscenico. Storie e cronache dell'organizzatore teatrale - Franco Ferrari - Edizioni Franco Angeli
- "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- http://www.cittadegliarchivi.it
- «Gente», febbraio-marzo 1974
- Rivista "Il Dramma" - Archivio Teatro Stabile di Torino
- "Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista" (Nicola Fano), Liberal Libri, Firenze 1999
- "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980