Le poesie di Totò - Approfondimenti e Stampa
La necessità della poesia: le liriche di Totò
«'A livella» e le altre...
Non ho hobby, non vado a pescare e non raccolgo francobolli. In quanto a scrivere versi o canzoni, quello non è un hobby ma una necessità.
Totò
E adesso, se non vi dispiace, vogliamo parlare di Totò compositore? Da buon napoletano, perché è una cosa che abbiamo nel sangue. A Napoli, anche gli analfabeti sono in grado di improvvisare. Le poesie che preferisco lo ho scritte nel mio dialetto e hanno un’ispirazione fondamentalmente triste che si ripete come un leit-motiv. Molte poesie, che io stesso ho musicato, hanno trovato la strada del successo: di queste, la più nota è «Malafemmena».
Totò
Totò e la poesia
Non si può essere sempre Totò, neanche quando si è Totò. Ogni tanto bisogna riprendere fiato, concedersi un po’ di riposo, cercare e (se è possibile) trovare un po’ di pace. Così il dissennato e delirante Totò, fra un lazzo e una capriola, un sogghigno e una piroetta, un inseguimento e un trescone, un guizzo e uno scarto, tornava ogni volta a cedere il passo alla persona chiamata Antonio de Curtis. La quale, com’è noto, era una persona molto seria, molto educata, talvolta un po’ triste e malinconica, talaltra appassionata e tormentata, sempre affettuosa e un po’ sentimentale. Insomma l’esatto rovescio del frenetico, sconsiderato, ingovernabile pupazzo superumano e oltreumano che sulla scena sgusciava come un’anguilla dal corpo del signor de Curtis per travolgerlo con lui in quel gioco di geometrie pirotecniche che fu la sua vera opera.
Questa persona amabile e gentile scriveva infine versi, ed è probabile che pensasse che questa attività — considerata da tutti, ma certamente non anche da lui, marginale e collaterale — gli appartenesse più intimamente delle imprese e delle gesta di Totò, giacché in quei versi poteva infine dar voce a tutto ciò di cui l’astratto e astrale Totò non voleva saper niente: l’innamoramento e l’amore, la gelosia e il tradimento, gli occhi e il cuore delle donne, la saggezza dei proverbi popolari, la concretezza e delicatezza dei sentimenti terrestri. Accadde così che proprio della poesia — nella quale comunemente si vede il medium di un’assoluta, inconfondibile originalità — Totò invece si servisse per rivelarsi capace anche lui di sentire e di pensare come tutti. Stiamo sfiorando, come si vede, il topos romantico del clown che per nostra suprema vergogna e afflizione è dopo tutto anche un uomo. Dopo di che, ci si potrebbe anche abbandonare a una lettura del caso in termini di dissidio, contraddizione e lacerazione. Ma poiché Totò e Antonio de Curtis erano due entità distinte e separate, così abissalmente diverse che di esse non possiamo neanche dire che avessero due differenti coscienze, giacché se il primo ne aveva ovviamente una, l’altro è per noi doveroso immaginarcelo del tutto incosciente, ne consegue che lacerazione e dissidio, se mai ci furono da qualche parte, si manifestarono soltanto nell’umano e consapevole de Curtis.
Leggeva Totò, l’immortale, le poesie del suo doppio mortale? A questa indiscreta domanda coerenza e logica dovrebbero indurci a rispondere con un secco e deciso no. Ma se ci è consentita l’ipotesi del tutto fantasiosa di un Totò assorto nella lettura o addirittura nella scrittura di quelle poesie, allora dovremmo sforzarci di immaginare un geroglifico che sogna di essere un uomo, un segno araldico che desideri di procurarsi un corpo, o un extraterrestre che in un momento di noia, di curiosità o di distrazione ceda ogni tanto alla tentazione di prodursi sulla scena dei sentimenti umani. Ma sognano i geroglifici? Hanno desideri gli stemmi? Sono sentimentali i marziani? L’umano, dunque, si cela e sonnecchia dovunque? L’aspirazione del non-umano all’umano è certamente la più incomprensibile delle ambizioni, ma non per questo è infrequente. Tanto per fare un esempio, è diffusissima fra le scimmie, che da miliardi di anni non fanno altro che tentare di passare dalla specie dei quadrumani a quella dei bipedi. E inoltre condivisa persino dall’Eterno, che s’incarnò in un uomo come noi. E soprattutto fu il sogno del fratello gemello di Totò, ossia di quel Pinocchio che verso la fine della sua vera vita, si lasciò sfuggire, davanti alla fatina, quella battuta suicida («gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!») che sembra concepita per Totò.
Non sappiamo dove e quando fosse solito scrivere i suoi versi. Non è escluso che ciò potesse accadere fra le quinte di un teatro, in un camerino personale o ai margini di un set durante le pause di una ripresa. Ma è molto verosimile che la stesura definitiva avvenisse nella quiete di uno studio o di un salotto perfettamente arredato secondo il gusto esigente di un uomo la cui eleganza era quasi leggendaria, e del quale era altrettanto noto il bisogno di garantirsi una “privacy” inviolabile. Seduto, serio, pensoso, incantato, assorto, due dita appoggiate al mento, forse una gamba accavallata all’altra, un taccuino aperto sul ginocchio: è così che preferiamo immaginarcelo mentre cercava una rima, o ritoccava un verso, o soppesava un’immagine. E ovviamente attento, scrupoloso, diligentissimo, come un bambino immerso nei suoi compiti, o in uno di quei giochi solitari che esigono più serietà di qualsiasi compito. Giacché tutto lascia supporre che il poeta Antonio de Curtis fosse infinitamente più infantile dell’irresponsabile Totò, che era un essere senza età.
Per quel piccolo vecchio principe innamorato, prim’ancora delle molte donne che ispirarono gran parte dei suoi versi, della poesia come tale, quest’ultima dunque era anche una scatola dei giochi, o meglio di un unico gioco: quello del quale si sa che i pezzi sono metafore e metri, immagini e suoni, sillabe e analogie. E con quale imperiosa umiltà, con che temerario candore, egli tornava ogni volta a cercarvi i pezzi più familiari, e per ciò stesso più amati, e a combinarli nei modi più rinomati, e proprio perciò prediletti! Che cosa sono quegli occhi? Due finestre, non c’è dubbio. E che cos’è quel loro colore smeraldino? È certamente il colore del mare. E che cosa può accadere a chi s’incanta a guardare il mare? Caderci e affondarci dentro, naturalmente. E il rosso scintillante di quella bocca non è forse il rosso di una melagrana? E che specie di rosa potrà mai essere questa se non una rosa di maggio che però, per fare rima con “paese”, diventerà “maggese”? E se la donna è una serratura, che cosa ci vorrà, per farla funzionare, se non una chiave o un “chiavino”?
A sollecitare senza posa il gioco — di una sublime innocenza — di queste metafore risapute era sempre, ovviamente, la donna. E in tutte queste metafore circolava un solo desiderio: la brama inestinguibile di perdersi e sparire nell’oggetto di quella brama. ’Nfunn’a stu mare, e assaje cchiù ’nfunno ancora (“in fondo a questo mare e assai più in fondo ancora”): con quale voluttà l’autore di questi versi giocava con l’immagine della caduta, del tuffo, dell'affondamento nel corpo femminile. Del quale, in questi versi, si celebra dunque anzitutto quel potere di inghiottimento che sembra condividere appunto con il mare. Signora delle acque inghiottitrici e, come tale, perenne evocatrice della discesa alle fonti primordiali di una felicità che si confonde con la dissoluzione: questo è anzitutto la donna di cui parlano queste poesie: persino quella dove la donna, anziché inghiottire il proprio adoratore, si limita a prenderlo in braccio come un cagnolino, giacché cos’è quel grembo se non il luogo in cui l’innamorato si dissolve e si cancella nella figura di una bestiola?
Per stare vicini alla donna occorre insomma abolirsi, cancellarsi, inabissarsi o almeno sparire sotto il vello di quel barboncino nero e riccioluto che in una fra le più leggiadre di queste poesie — Pe sta vicino a tte — s’infila nella vetrina di un negozio per farsi notare e comprare da una padrona disposta a mettergli un collarino pieno di campanelli, a permettergli di accucciarsi su un cuscino posto ai suoi piedi, e soprattutto a farlo saltare sulle sue ginocchia, a dirgli tante parole “azzeccuselle”, e a farsi leccare le mani e la faccia, facendogli sbattere, così, ’e rrecchie e sta curella (“le orecchie e questa codina”) — dove si vede, fra l’altro, che il dèmone della metamorfosi non abbandonava del tutto Totò neanche quando non era più lui, ma un comune gentiluomo innamorato e voglioso di cangiarsi in un lieto, eccitatissimo, scodinzolante “batuffolino”.
L’amore di cui si parla in queste poesie non è certo sempre leggero e scherzoso come quello che trovò una felice espressione nella similitudine del barboncino. Ciò che esse mimano più volentieri è piuttosto la fatale serietà della passione. Ma forse è proprio in poesie come quella, e in alcune altre più o meno simili, che si manifesta meglio quella deliziosa miscela di lubricità, infantilismo, comicità e tenerezza che fu (o si può immaginare che fosse) il peculiare erotismo del nostro gentiluomo innamorato.
Ruggero Guarini
Antonio de Curtis si considerava ben distinto da Totò. La separazione tra l’uomo e la maschera è stata espressa in modo esemplare in un’intervista televisiva rilasciata a Lello Bersani. Dapprima a prendere la parola era il principe de Curtis che rispondeva così alla domanda di Bersani:
- Che differenza c’è tra lei e Totò?
- C’è una grande differenza. Io sono de Curtis e lui è Totò, che fa il pagliaccio, il buffone. Io sono una persona per bene, infatti lui in casa, lui normalmente mangia in cucina, mentre io mangio nella stanza da pranzo. Io vivo alle spalle di Totò, lo sfrutto. Lui lavora ed io mangio.
In seguito la domanda viene rivolta a Totò, che viene mostrato in cucina:
- Chi vi ha mandato? Lui, il Principe de Curtis, buono quello! Mi fa mangiare in cucina con il pappagallo e ci devo mettere solo dieci minuti. Disgraziato, mi tiene sotto. Questo mese non mi ha pagato nemmeno le marchette. Ma io mi rivolgo ai sindacati.
Vincenzo Mollica, 1982
Se le differenze tra la produzione teatrale e cinematografica prevalentemente comica e la produzione lirica di impostazione più seria sono evidenti, si può tuttavia notare come vi siano dei motivi ispiratori di fondo che attraversano tutta l’opera di Totò. Ad esempio la filosofia della divisione dell’umanità in “uomini” e “caporali” non ha ispirato soltanto molti film, ma anche varie poesie, in primo luogo ’A livella. Inoltre alcune poesie presentano divertite caratterizzazioni di personaggi macchiettistici, che possono essere ricondotte al Totò “comico”.
LE TEMATICHE
L’attenzione alla tematica della morte è caratteristica di alcune delle poesie più riuscite di Totò, accostabile in questa tematica tanatologica ad altre grandi voci della poesia dialettale di questo secolo, dall’abruzzese Alessandro Donmarco ad Albino Pierro (De Mauro 1987, p. 143). La poesia principe di questo filone è ’A livella (p. 32), con la sua visione della Morte come grande uguagliatrice delle differenze economiche e sociali. È la più celebrata poesia di Totò, che la recitò anche su un disco. Una testimonianza ci mostra come l’attore avesse avuto dei dubbi sulla buona riuscita del disco, dovuti alla mancanza in vinile della dimensione mimico-gestuale:
[Totò] trascorse la giornata di giovedì 13 aprile 1967 [due giorni prima della morte] sul set [del film I padri di famiglia, diretto da Nanny Loy], interpretando la scena di un uomo che segue un funerale. A sera, l’autista Carlo Cafiero gli aprì con deferenza lo sportello della Mercedes, aveva una busta fra le mani e, prima di piazzarsi al volante, gliela consegnò. «Altezza», disse Cafiero, «mi hanno portato or ora questo disco. E per voi», e avviò il motore.. [...] Totò si mise a contemplare il disco [...] conteneva su una faccia l’incisione della poesia ’A livella e sull’altra quella della poesia [sic; in realtà è uno sketch] Pasquale e doveva essere il primo di una lunga serie di registrazioni, tutte curate dalla Cetra. «Cafié, sai che sto pensando?», fece d’improvviso Totò. «Lo regalo a te questo disco. A me non mi va di ascoltarlo. Manca la mimica, capisci, nei dischi, e se a me mi si toglie la mimica addio». Tacque un attimo, poi aggiunse: «Cafié, ma tu lo accetti volentieri questo disco?». «Ma per me è un onore, altezza» «A prescindere dall’onore, Cafié, dimmi la verità. Ti sei scordato la storia di Malafemmena? La feci sentire a te per primo, in macchina, quella canzone, e tu mi dicesti che era una lagna. Cafié, confessa: nemmeno ’A livella ti piace?» «Altezza vi giuro che mi piace»
Vincenzo Paliotti, 1977
Totò poeta
A fine stagione, incontrai Totò al «Lido Azzurro» di Torre Annunziata, la sera del gran gala per l’assegnazione dell’«Ippocampo d’oro»: sedeva fra due eleganti signore nella tribunetta riservata ai premiati. Gli occhi riparati dagli occhiali scuri, sbirciava — visibilmente emozionato — il palco dove da lì a poco sarebbe stato chiamato per ricevere il trofeo oplontino; e quando udì il presentatore pronunciare il suo nome «principe Antonio De Curtis», s’alzò quasi di scatto, e col sorriso impacciato d’uno scolaro che s’accinge a ricevere l’encomio del signor preside, mormorò: «Mammia mia, e adesso che succede?...». Poi mi disse che in quel momento se avesse potuto farlo, se la sarebbe data a gambe: perché le cerimonie ufficiali lo intimidivano e perché, tutto sommato, fra «tanti valentuomini», lui si sentiva quasi un intruso. Ma un lungo applauso gli disse che lui, Totò, era bravo e caro al cuore del pubblico che gli voleva bene.
Quando il presentatore lesse la pergamena di motivazione del premio, Totò fece quel suo gesto largo, caratteristico, che voleva dire: ma non esageriamo; poi cominciò: «Signori, vi ringrazio, sono veramente commosso...» Ma dal pubblico gridarono: «A livella! Recita ’A livella». E Totò allora si commosse davvero, fu intensamente grato a tutti per quell’invito, un riconoscimento che lo collocava fra i grandi della poesia napoletana. Perché la poesia era per Totò molto di più d’un «hobby» marginale, un distensivo destreggiarsi fra rime e immagini in versi: creata nel raccoglimento lontano dai clamori del pubblico, dall’applauso dalla risata fragorosa, la poesia era per Totò il momento della sincerità, la confessione con se stesso, l’ora della melanconica saggezza tutta partenopea che lo conduceva, con naturalezza, a meditare sulla fragilità delle fortune terrene. «’A livella», divenuta in breve tempo popolarissima, costituisce l’espressione più limpida d’una vena che per anni aveva cercato il suo corso, distratta da un’intensa attività di attore, dai successi d’una brillante carriera, dallo splendore del mondo dello spettacolo.
Totò ha amato la poesia fin dagli anni giovanili, quando intrecciava epigrammi sui personaggi popolari del rione Sanità dove trascorse l’infanzia: «Don Rafele è troppo guappo — ca ’mulletta e co’ ribotto — ma si sente meza ’botta — nun ’o truove-, piglia e scappa...».
Dal suo estro bonariamente satirico nacquero le gustose macchiette che fin da quando recitava a Roma nel teatrino di Francesco De Marco detto «’O ’nfru», avevano creato una ricca galleria di personaggi visti attraverso il filtro della caricatura popolaresca.
Le creazioni di Totò poeta approdarono al mondo della canzone: con poca fortuna, forse, ma certo con sincerità di intenti. Negli anni della maturità il principe De Curtis colse un notevole successo anche nel difficile campo della musica leggera con «Malafemmena» che è del 1951: una canzone che, per spontaneità del tema musicale e per l’impostazione gagliardamente passionale, spicca fra tutta la sua produzione: che non fu eccezionale, ma, comunque, sempre improntata a sincerità di cuore. «Dincello», «Mamma mia», «Casa mia», «Sulo», «Core analfabeta», «Tu si tutto pe’ ’mme», «Cun te», «Nemica», «Nun si ’na femmena», «L’ammore avesse a essere» sono tra le poesie scritte negli ultimi vent’anni e alcune furono da lui stesso musicate, altre affidate semplicemente alla pagina scritta. Si ricordano di Totò anche due poesie in linga: «Passione», e «Non voglio amare più».
E’ probabile che molte poesie del principe De Curtis non passeranno al Parnaso; ma è innegabile che i suoi versi nascevano da sentimenti profondi e sofferti che aprono squarci di meditazione su esperienze vissute e sovente fra le rime s’incontra l’ombra della morte che lui temeva soltanto se l’avesse incontrata lontana dalla sua Napoli; e con la quale scherzava con garbo e la tipica familiarità del napoletano che sa essere cordiale di spirito anche con una compagna sgradevole.
Giuseppe Di Bianco
Così la stampa dell'epoca
Un disco di Antonio de Curtis
Totò recita le sue poesie
Totò: Poesie di Totò dette da Totò; Ufficio di collocamento (Corbucci); Lallo, parrucchiere per signora (De Curtis); Serafino Bolletta premio Nobel (Corbucci); Vagone letto (De Curtis); Medaglia al valore civile (De Curtis-Galdieri), Fonit-Cetra LPP 99.
Sono pochi mesi soltanto da quando in questa rubrica avevamo parlato di un piccolo disco a 45 giri di Antonio De Curtis-Totò. Disco che faceva divertire ma che lasciava perplessi per aspetti puramente tecnici. Nel frattempo il grande artista è scomparso e prendendo in mano questo bel long playing a lui dedicato, ci si sente a disagio.
Il disco è un omaggio alla inconfondibile voce di Totò, un suo recital postumo destinato a rimanere immutato per sempre. Quanta magia nella nostra moderna capacità di eternare la voce umana, la sua cadenza, lo sue flessioni personali, l'indiavolato spirito di un artista dialettale come Totò.
Nella prima facciata c'è una serie di poesia di Totò da lui stesso recitato: come poeta egli si era riallacciato al miglior filone della poesia dialettale; forse confrontato con un Di Giacomo al quale i suoi versi fanno pensare continuamente), Totò ha il grande vantaggio di averci recitato la propria poesia lui stesso, facendosi forte della doppia arte di poeta e di attore. Come in tutto ciò che egli faceva, l'ascolto di queste poesie ci tiene in bilico tra il ridere e il piangere. Felicità, Statuetta, La filosofia del cornuto, non ci si stanca a riascoltarle.
Ma sulla stessa prima facciata ci sono anche due sketch, uno più buffo dell’altro, nei quali Totò è affiancato dall'inseparabile Mario Castellani e da Cesare Gelli e Corrado Olmi. Lallo, parrucchiere per signora è irresistibile.
Sulla seconda facciata altri sketch, anche questi divertenti e ottimamente recitati. Peccato che il disco non sia accompagnato da una nota sul protagonista.
r. la., «La Stampa», 21 luglio 1967
La vita? Per fortuna è una livella
Gentile Dott. Fiorentino, la ringrazio infinitamente per i complimenti e per le felicitazioni che ha voluto inviarmi a proposito della mia poesia "A Livella ”, complimenti che mi sono giunti particolarmente graditi appunto perché provenienti da lei, che io tanto stimo come editore di gran gusto e cultura. Riguardo al suo invito di pubblicare eventualmente le mie poesie sarei certamente oltremodo felice di dare la precedenza alla sua bella seria e stimata Casa Editrice, sempre che lei naturalmente (e senza alcun complimento) le ritenga all'altezza.
Parto domani per una breve vacanza all'estero e sarò di ritorno a Roma verso il 20 novembre, pertanto se per quell'epoca lei sarà sempre del parere di mettersi in contatto con me, potrei sottoporle i manoscritti. La ringrazio nuovamente e gradisca i miei saluti più cordiali».
Firmato: Antonio De Curtis.
Così il principe attore scriveva, non senza qualche trepidazione, all’editore napoletano Fausto Fiorentino nell’autunno del 1963. Totò, e non era un segreto, si dilettava moltissimo nel comporre versi. Amava trascorrere le notti insonni seduto alla scrivania in compagnia di penna e calamaio. Scriveva e correggeva. Ma non amava far circolare o leggere in pubblico le sue poesie. Pare che questa confidenza fosse riservata soltanto al suo autista, che sapeva amante profondo dei versi di Salvatore Di Giacomo.
Le poesie vennero pubblicate dall’editore Fiorentino soprattutto grazie alla sua intraprendenza. Avutane notizia, scrisse una lettera a Totò chiedendogli un incontro. L’incontro avvenne e dopo un breve scambio epistolare (da cui la lettera sopra trascritta e gentilmente dataci dal figlio di Fausto, Stefano) Fiorentino si trovò fra le mani l’atteso manoscritto. Da lì alla pubblicazione il passo fu breve. Le paure e le ansie subito superate. Fiorentino studiò con grande cura il progetto. In copertina volle una foto con la vera «maschera» di Totò: lo sguardo un po’ triste, le labbra serrate in una smorfia, l’immancabile sigaretta fra le dita e l’anello nobiliare distrattamente mostrato. Prezzo popolarissimo e distribuzione mirata. In pochi mesi tutte le edicole delle grandi stazioni metropolitane ne furono invase. Ed è qui, nelle sale di attesa delle stazioni e sui vagoni dei treni ferroviari che fulmineamente si costruisce la fortuna editoriale delle poesie di Totò. Dal ’64, anno della prima edizione, si sono susseguite numerose ristampe e le copie vendute sono state migliaia e migliaia. Ci fu anche, e come poteva mancare, un falso. Visto Io straordinario successo qualcuno pensò di stamparne una edizione pirata. Non fu mai dato sapere quante furono le copie falsificate, anche se qualcuno giura su una tiratura non inferiore alle 50 mila.
Fortuna completamente diversa ebbero invece le poesie postume di Totò, Dedicate all’amore, (Colonnese editore). Scritte in gran parte alla compagna Franca Faldini, furono ritrovate circa dieci anni dopo la scomparsa dell’artista, e stampate nel ’77 con una testimonianza di Gassman e una nota di Ghirelli. Il libro non andò oltre qualche piccola ristampa.
La maschera di Totò ispira anche i poeti: il grande attore Franco Manzoni ha recentemente intitolato una raccolta di versi (Totò, Fonèma edizioni, pagine 92, lire 15.000).
Antonio Troiano, «Corriere della Sera», 11 novembre 1990
Quell'altro Totò che scriveva versi
Poesie e canzoni del grande comico
Ho scoperto Totò al cinema. In teatro non ho mai avuto occasione di vederlo. I gran finali, le passerelle delle sue riviste compiute a tu per tu con la Magnani, con Lucy D’Albert o Wanda Osiris, gli scoppi di grancassa, i contorsionismi fisici appresso alle ragazze del balletto: so lutto da racconti altrui. Ero un ragazzino di dodici o tredici anni, andavo al cinema e vidi «Fifa e arena». Ricordavo in modo confusissimo un altro film, visto anni prima: «San Giovanni Decollato». Ne avevo riso fino alle lacrime. Diventai un fan di Totò. Per anni non persi un suo film. «I pompieri di Viggiù», «Totò a colori», «Yvonne la nuit», «Totò cerca casa», «L’imperatore di Capri», «Totò cerca moglie», «Totò Tarzan», «Totò sceicco»: tornai a vederli più volte. Anche quel magnifico «Guardie e ladri» di Monicelli, dove la fuga e la rincorsa con Fabrizi, Totò pataccaro e ladro, e Fabrizi guardia, è un vertice ineguagliato di commedia, un momento di fuggevole magia in cui i due attori riescono a esprimere, con la casualità di un'arte che è rivolta e vittoria, le astuzie, i bisogni e le possibili derive di un popolo che faticava a girare il volano della «ricostruzione».
Allora non capivo niente di tutto questo: andavo al cinema per vedere Totò e per sentirmi: investito o posseduto dalla necessità di ridere. E ridevo. Nei film che ha girato, si poteva pensare che Totò disperdesse il proprio talento. Lui stesso lamentò la routine faticosa cui la macchina del cinema lo aveva condannalo. Per lo più produzioni di nessuna qualità, spesso registi mediocri. In una recentissima intervista, Fellini ha detto: «Che assurdità. Quante volte s’è sentito dire: peccato che Totò non abbia trovato un grande regista. Un po’ come dire: peccato che la giraffa non abbia trovato qualcuno che abbia saputo farle fare la giraffa. Lui era un fenomeno naturale, da fotografare così com’era. Un gatto, un bradipo. L'albero di Natale. O Venezia».
E' così. Cosa di diverso ha compiuto Pasolini con Totò in «Uccellacci e uccellini», ne «La terra vista dalla luna» o in «Che cosa sono le nuvole»? Lo ripete spesso: ritrovare in Totò il dato naturale che certa corrività cinematografica poteva aver offuscato in lui, «opporre esistenza a cultura, innocenza a storia».
Ma chi era Totò? Rispondere è un esercizio non da poco. Dario Fo, in un libretto fresco di stampa, «Totò. Manuale dell’attor comico» (Aleph ed.), argomenta che Totò sia stato l’incarnazione di un eterno Arlecchino: «Dell’Arlecchino delle origini, egli ha saputo ripetere la versatilità, la disponibilità a far tutto». Per quanto Dario Fo cerchi di renderla screziata, e sappia sostenerla con esemplificazioni tecniche, a mio giudizio, quella definizione va stretta a Totò. Proprio nel suo libro, Fo riporta una citazione di Flaiano che schiude l’argomento verso altro: «Nella frantumazione della commedia dell’arte, mentre i "servi" Brighella, Arlecchino, Pulcinella si sono dati a rappresentare il mondo possibile nelle vesti dei loro padroni, Totò si è dedicato a illustrare, come in una striscia comica, l’assurdo della sua presenza in quel mondo».
Chi era Totò? La risposta, una risposta intrisa di veritieri umori novecenteschi, dialettica, la argomenta Ruggero Guarini nella prefazione a un «TuttoTotò» dove l’editore Gremese ha raccolto poesie, canzoni, sketch del geniale comico.
E' proprio la natura umbratile, piccolo borghese, dei versi di Totò a scatenare Guarini. Totò, dice Guarini, aveva con il proprio personaggio un rapporto di «assoluta estraneità». Nessun rapporto fra quel personaggio «sulfureo e mercuriale, plebeo e fallico, acrobatico e ingovernabile» che saliva in scena e dava la febbre al pubblico giocando con se stesso, la propria faccia, come un automa soggiogato da Dionisio, e l’elegante, silenzioso gentiluomo napoletano che scriveva «'Na vota sulamente t'aggio visto / e chella volta sola m'è bbastata, / pe nun te scurdà cchiù».
Il Totò che scrive versi ha un’imprevedibile natura crepuscolare: è il principe De Curtis che si stupisce, come ha scritto, se il portiere del palazzo romano dove abitava, dopo averlo visto in scena, invece di salutarlo con deferenza come al solito, gli ha riso in faccia: «Da allora, non fui più per lui una persona rispettabile, ma un saltimbanco». Guarini spiega molto bene la rifrazione profonda e ambigua, ispirata a sincerità e a menzogna psicologica che correva fra quella «persona rispettabile» e il «saltimbanco».
Totò diventa Totò nel momento in cui scopre, sdoppiato, di poter intraprendere un «derisorio rapporto con se stesso», con quel se stesso che è un guscio di buone abitudini e che diventa materia di una parodia à suivre, una parodia infinita di tipi esumati da quel paese d’enigmi che è «il Perturbante». Ciò che Totò portava alla luce era la festa anarchica del vivere, la festa che percuoteva l’Italia dell’immediato dopoguerra. E se si obietta che Totò, con i suoi «grandi numeri» d’avanspettacolo era un eroe del varieté fin dagli anni Trenta, Guarini risponde che «occorreva solo un grande evento — come la generale follia del dopoguerra — perche in quello spirito... ci riconoscessimo tutti».
Insomma, Guarini, ci disegna sotto gli occhi un Totò folgorato dal male del secolo, la schizofrenia. «Leggeva Totò, l’immortale, le poesie del suo doppio mortale? A questa indiscreta domanda coerenza e logica dovrebbero indurci a rispondere con un secco e deciso "no"». Immaginare Totò assorto nella lettura di se stesso sarebbe come «immaginare un geroglifico che sogna di essere un uomo, un segno araldico che desideri procurarsi un corpo, o un extraterrestre che in un momento di noia, di curiosità o di distrazione ceda ogni tanto alla tentazione di prodursi sulla scena dei sentimenti umani. Ma sognano i geroglifici? Hanno desideri gli stemmi? Sono sentimentali i marziani?».
Enzo Siciliano, «Corriere della Sera», 24 dicembre 1991
Tredici canzoni in un cd
Da morto, nel 1967, Totò aveva parecchi nomi (Antonio De Curtis Gagliardi Griffo Focas Comneno di Bisanzio), da neonato, cent'anni fa il 15 febbraio, ne aveva solo uno: Antonio Clemente. E come tale il futuro comico scoprì il teatro imitando Gustavo De Marco, artista famoso che faceva la marionetta. Così nacque la maschera di Totò: superando il maestro, il successo arrivò nell'avanspettacolo con Guglielmo Inglese (anni Trenta) e poi nella rivista (anni Quaranta) con Anna Magnani e Michele Galdieri. Al cinema, dopo il debutto in «Fermo con le mani» (1937), la consacrazione giunse nel 1947 con «I due orfanelli». Da qui parte una cascata di titoli celeberrimi, da solo o in coppia con altri grandi attori, da Peppino De Filippo a Aldo Fabrìzi, fino all'esperienza finale con Pier Paolo Pasolini in «Uccellacci ed uccellini». La creatività di Totò fu multiforme e fatta anche di versi, musiche e canzoni. A questa produzione è dedicato un cd edito da «l'U», intitolato «Totò, il Principe e la malafemmina» che riunisce le versioni inedite, delle canzoni di Totò interpretate da Enzo Moscato, Giacomo Rondinella, laia Forte e Maria Pia De Vito. Il cd sarà presentato da Liliana De Curtis, figlia di Totò, domani a Roma, nella sede dell’Eti in via in Arcione.
«L'Unità», 11 febbraio 1998
Canzoni e poesie del grande attore in una raccolta a cura delle iniziative de «l'Unità»
«Il principe e la Malafemmena»: ecco Totò in cd
Versioni classiche e incisioni inedite affidate a giovani artisti. Liliana de Curtis: «se la RAI non lo celebra, c'è sempre Mediaset»
«Altezza, mi pare una lagna»: così il lapidario giudizio di Salvatore Cafiero, autista del principe De Curtis, dopo il primo ascolto di Malafemmena. E Totò, di rimando: «E tu sei un fesso». L'aneddoto è tornato a circolare durante la conferenza stampa di presentazione di Totò, il Principe e la Malafemmena, un cd di canzoni e poesie del grande attore, realizzato da l'U, in occasione del centenario della nascita che si celebra il 15 febbraio. Il cd viene distribuito in edicola, a 20.000 lire, assieme ad una maglietta riproducete immagini e parole di Totò. Le magliette sono realizzate dalla Rebibbia Jail Cooperative, un gruppo di ragazzi e ragazze recluse nel carcere minorile di Casal Del Marmo di Roma. «Una parte dei ricavi delle vendite - ha spiegato la figlia di Totò, Liliana De Curtis, presente alla conferenza stampa -serviranno a questi giovani per aiutarli quando usciranno dal carcere. È una bella iniziativa che speriamo di ripetere anche col carcere minorile di Nisida».
Le incisioni del cd, realizzato da Flaviano De Luca e Alessandro Spinaci, sono quasi tutte inedite e sono eseguite da un gruppo di artisti napoletani: dalle neomelodiche Ida Rendano, Maria Nazionale e Pina Cipriani a Consiglia Licciardi, Enzo Moscato, Giacomo Rondinella, Maria Pia De Vito. Alle canzoni, tra cui ovviamente c'è anche la classicissima Malafemmena, si aggiungono 3 poesie di Totò, recitate dall'attrice Iaia Forte, e la celeberrima 'A livella, declamata dallo stesso Totò. Una miscela di interpretazioni classiche e rivisitazioni con sensibilità odierne, e persino qualche sperimentazione vocale, come quella di Maria Pia Fusco che si lancia in vocalizzi jazz ne II cigno di Caianello.
Il cd realizzato dalle iniziative editoriale de l'Unità, è una delle tante iniziative per il centenario della nascita del grande attore napoletano. Un anniversario che si porta dietro anche qualche pole-
la Rai non si decide in tempo, rischia di saltare tutto. Comunque abbiamo fiducia». Positiva conclusione, invece, per il museo dedicato a Totò che, come ha annunciato la Agostini, finalmente si farà. Dovrebbe aprirsi entro quest'anno, in un palazzo del rione Sanità, a pochi passi da dove nacque Totò. E mentre una bella mostra sul Totò letterato sta girando l'Italia e fa tappa al Teatro dei Dioscuri a Roma, ancora nulla di fatto per un progetto di una grande mostra sull'attore che dovrebbe tenersi al palazzo delle Esposizioni di Roma. «Il progetto l'abbiamo presentato da tempo - ha spiegato Paola Agostini - all'assessore Gianni Borgna che ora lo ha girato al neopresidente del Palaexpo, Renato Nicolini. Ma fino ad oggi non abbiamo avuto risposte. Anche in questo caso abbiamo fiducia e pazienza. Ma come direbbe Totò, ogni limite ha una pazienza».
Renato Pallavicini, «L'Unità», 13 febbraio 1998
La poesia inedita di Totò
E lo sfogo di uno scapolo che vuole fuggire alle nozze E testo in mostra a Napoli
Quaranta versi in tutto, mai letti fino a oggi e composti dall’artista-attore-poeta-e-principe della risata per antonomasia: Totò. «Pecché m’aggia ‘nguaià? / M’aggia spusà ‘na femmena / ca nun saccio chi è...». Titolo della poesia, ‘O matrimonio. Tema, l’atteggiamento canzonatorio di un «ommo anziane», scapolo impenitente, di fronte alle nozze auspicate da mammà.
Quaranta versi — perlopiù settenari e ottonari con rime libere, in dialetto napoletano — appartenenti a uno dei quattro componimenti poetici inediti di Antonio de Curtis, spuntati fuori in questi giorni in occasione del cinquantenario della morte dell’artista (15 aprile 1967) nonché pezzo forte della mostra Totò Genio che giovedì apre i battenti a Napoli in tre diverse sedi: Palazzo Reale, Maschio Angioino e Convento di San Domenico Maggiore.
Tre, le sedi, come tre furono i funerali (uno a Roma e due a Napoli) per Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, uomo d’eccezione fin dalla chilometrica anagrafe (Abbondandis in abbondandum! avrebbe potuto dire il principe citando se stesso nella famosa lettera dei fratelli Caponi).
Dunque una monumentale antologica che, spiegano i curatori Alessandro Nicosia e Vincenzo Mollica, «intende mettere in luce la grandezza di uno dei maggiori interpreti italiani del Novecento, artista universale, figura poliedrica che ha giocato la sua vita gomito a gomito con l’arte dello stupore». Un’arte ora ricostruita con centinaia di testimonianze — inedite, rare, note e meno note — a partire dal celebre baule di scena che Totò portava sempre con sé nei teatri e sui set e ora esposto nella sala Dorica di Palazzo Reale, la stessa che ospita i testi delle quattro poesie appena depositate alla Siae.
Tra i partner di questa triplice esposizione anche Rai, Istituto Luce e Archivio centrale dello Stato, da dove provengono i materiali relativi al rapporto tra Totò e l’implacabile censura del tempo, sia in epoca fascista, sia con i vari governi democristiani (ben 82 tagli solo sul film Totò e Carolina di Mario Monicelli). E c’è anche una sezione sul Totò testimonial pubblicitario, con varie campagne tra cui quella per la Fiat Gran Luce, l’automobile che negli anni 50, era pre boom, rappresentò il sogno di tanti italiani.
Edoardo Sassi, «Corriere della Sera», 8 aprile 2017
I suoi stereotipi su noi donne che continuiamo ad amarlo
Dolore - Ma nelle sue parole ci sono rimpianto e disillusione per alcuni rapporti
Grandissimo artista del quale nessuno discute i meriti, Totò è anche un «poeta laureato»: alcuni giorni or sono l’università Federico II di Napoli gli ha giustamente conferito una laurea honoris causa. E oggi alla sua produzione poetica si aggiungono dei versi inediti: una vera fortuna per chi, come chi scrive, ha sempre amato le sue poesie, e in particolare (per amore dello straordinario dialetto), quelle scritte in napoletano. Intitolato ‘O matrimonio, l’inedito parla di uno degli argomenti più ricorrenti nella produzione di Totò: le donne, che egli amava molto e delle quali spesso si innamorava. Ma qui stava il problema:
«L’ammore — scrive ne L’imbroglio — è ‘nu signore/ travestito ‘e gentilezze e poesia,/ vase, abbraccie e gelusia. S’e presenta comme uno/serio, onesto, cunsistente/ e te nganna a tanta gente,/quanta ggente fa cadè!»
La ragione è ovvia: «A femmena — nella poesia omonima — è na bella criatura/ e quase sempe è ddoce comm’ ‘o mmele;/ ma è vvote chistu mmele pe sventura,/perde ‘a ducezza e addeventa fele».
Da miele a fiele: una trasformazione quasi inevitabile che induce il protagonista dell’inedito a rifiutare il matrimonio con motivazioni che svelano un’opinione non esattamente positiva delle donne: leggere, volubili, traditrici... Dispiace dirlo, i luoghi comuni della più trita, banale antichissima misoginia. Ma a ben vedere in questo quadro non si legge il disprezzo che di regola sta dietro la misoginia. Si legge piuttosto dolore, disillusione, rimpianto per quello che un rapporto d’amore avrebbe potuto essere e troppo spesso non è stato. Salvo in un caso: la sua storia d’amore con Franca Faldini, la donna con cui ha diviso gli ultimi anni della vita e alla quale ha dedicato una dolce, bellissima poesia. E questo è bello, per lui e per noi (donne) che lo amiamo.
Eva Cantarella, «Corriere della Sera», 8 aprile 2017
Versi e canzoni così raccontava l'uomo oltre Totò
L’artista affidava spesso allo scritto la malinconia esistenziale
In un gioco di ruoli che riconducevano sempre a lui, ai mille aspetti della sua arte, durante l'intervista Rai concessa al giornalista Lello Bersani nel 1963, un elegante Principe Antonio de Cur-tis nella sua casa romana raccontava che Totò, con tutto l'armamentario di sberleffi, la maschera plastica, la battuta sagace che ribaltava ogni situazione, si trovava di là in cucina, insieme alla servitù.
Totò, insomma, era un altro. Quello che andava in scena, pronto quando il regista gridava ciak. Però poi c'era un ulteriore lato della sua personalità, oltre il set, lontano dal teatro.
Il Totò intimo, che affidava una malinconia esistenziale, lo sgomento d'amore per una donna, la nostalgia per la lontananza da Napoli, le riflessioni sulla morte, alla pagina, componendo poesie, versi scritti su foglietti o dietro i pacchetti di sigarette, le immancabili Turmac.
L'INTERVISTA
Nell'intervista Rai fatta da Lello Bersani nel 1963, Antonio de Curtis gioca con il giornalista, sdoppiando la figura dell'uomo da quello della maschera di Totò
'A LIVELLA
Nel 1964 l'Editore Fiorentino pubblica la raccolta di poesie in napoletano scritte da Totò: la raccolta si arricchirà di altre composizioni nel decennale della morte dell'artista
LA LINGUA
Nelle liriche e nelle canzoni Totò scelse di utilizzare il napoletano: scriveva su foglietti e dietro i pacchetti di sigarette nella lingua madre, legame continuo con Napoli
Nel 1964 fu pubblicata, dall'Editore Fiorentino di Napoli, 'A livella, raccolta che si arricchirà, in occasione del decennale della morte di Totò, di un corpus di liriche d'amore dedicate all'amata Franca Faldini.
In ognuna delle poesie la lingua è quella madre, il napoletano, che riannoda il filo mai rescisso con la città, strumento, come per Di Giacomo, che suona le corde più intime, riproducendo dell'amore un fragore inarginabile. «Schiuppanno all'intrasatta dint' ' a 'stu core / he dato vita nova a chesta vita», in All'intrasatta.
E poi la morte, tema ricorrente, spietata e nuda, che senza artifici diventa unica occasione per annullare ogni divisione sociale, come nella più celebre 'A livella, il suo manifesto poetico, quando in un cimitero battibeccano le anime del netturbino e del marchese.
«A morte 'o ssaje ched'è?... è una livella. / 'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo, / trasenno stu canciello ha fatt' 'o punto / c'ha perzo tutto, a vita e pure 'o nomme».
Pier Luigi Razzano, «Repubblica», 15 aprile 2017
Riferimenti e bibliografie:
- Le poesie di Totò sono state citate da "TuttoTotò", a cura di Ruggero Guarini, Roma, Gremese, 1991.
- Consiglio 1986 - Alberto Consiglio, "Spiriti e forme della poesia napoletana", introduzione Id., Antologia dei poeti napoletani, Milano, Mondadori
- Tullio De Mauro, "L’Italia delle Italie", Roma, Editori Riuniti Gassman 1982
- Vittorio Gassman, Testimonianza, in "Totò, Dedicate all’amore", Napoli, Colonnese
- "Tutto Totò" (Ruggero Guarini) - Gremese, 1991
- Giuseppe Di Bianco, «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973
- Vincenzo Mollica, "Totò parole e musica", Roma, Lato Side Paliotti 1977
- "Totò, principe del sorriso" (Vittorio Paliotti) - Fausto Fiorentino Ed., 1977
- Pier Luigi Razzano, «Repubblica», 15 aprile 2017
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
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