Le «spalle» di Totò
Molte volte il mio partner non ne può più di avermi accanto, non vede l'ora che la scena finisca per andarsi a riposare. Ma io continuo a non dargli pace: gli sto addosso, lo circondo da ogni lato, lo tocco e lo ritocco.
Il ruolo della «spalla»
Il ruolo tradizionale della «spalla» è quello di esaltare, far emergere al meglio le qualità, gli effetti, del primo attore. E accade, qualche volta o spesso, che le qualità e gli spazi dell’attore che fa da «spalla» vengano ristretti, assai impoveriti, soffocati da una funzione puramente meccanica. Non accade così con Totò primo attore.
Egli ha sempre mostrato una straordinaria forza nel ribaltare la chiave della «spalla». Le usava, se ne serviva, ma riconosceva loro valori grandissimi. Riusciva a far scattare, in questi attori, una sorta di dimensione, di spessore, di bravura persino, che moltissimi di loro non possedevano naturalmente. In genere erano attori anche mediocri che, al suo fianco, apparivano però nobili, degni, con delle corde e possibilità alte. Ricordo un film in cui Carlo Croccolo recitava, nel ruolo di «spalla», con Totò. Sembrava davvero un attore grandissimo. Non credo che abbia poi fatto niente di quel livello, perché da solo incapace e, con altri, privo dell’appoggio che Totò sapeva dare.
Ecco, era questo il suo segreto: saper sostenere l’altro; porsi, nei suoi riguardi, come una specie di asta per il salto in alto che, con la sua grande elasticità, dà appoggio e permette a tutti di librarsi in aria, di superare l’ostacolo.
La galleria che formano questi volti è varia, affollata; e tuttavia in nessuna immagine, in nessuna inquadratura, c’è il segno di una prevaricazione. Mi piace, a tratti, fermarmi a guardare questi volti, e dinanzi a tanti di loro spespunteggiatura, una sottolineatura, un trattino di distanza.
Così come ricordo, tra i «giochi» più belli, quelli che Totò faceva con Aldo Fabrizi. Difficilmente ho trovato Fabrizi così bravo come quando lavorava con Totò. Mi sembra proprio che, in questi casi, la versatilità di Totò fosse tale da riuscire a ritagliare il proprio profilo in rapporto agli attori con i quali recitava.
Svolgeva e guardava al lavoro dell’attore con la cognizione e l’etica di un grande mestiere. Anche quando - e questo è un mirabile paradosso - si obbligava a recitare in film decisamente orridi. Non bisogna dimenticare, infatti, che spesso ha avuto degli autori che erano di una pochezza assoluta, da cui riceveva mediocrità e a cui dava fama. E allora il prodigio, il mirabile del paradosso: dover riconoscere che la sua bravura consisteva nel riuscire a salvarsi in film appunto orridi.
Dario Fo
C’è una vecchia e complimentosa «frase fatta» che si mormora alle signore quando esse si scusano di averci inavvertitamente voltata la schiena : «Le belle donne non hanno spalle». Ebbene, per i comici di Rivista si può affermare esattamente il contrario. I bei comici hanno le «spalle». Ma per chiarire questo d’altronde mediocre calembour è bene spiegare che la «spalla», nel gergo di palcoscenico, è l’attore che fa da diretto ed immediato antagonista al comico. Barile, per intenderci, era la «spalla» di Ridolini; Gianni è la «spalla» di Pinotto. I francesi chiamano la cosa donner la réplique, gli anglosassoni chiamano la persona stooge. Un comico senza una buona «spalla» è come una pietra preziosa senza castone, come un violino senza l’archetto, come un uomo senza la propria ombra. E vi ricorderete — no? — la tragica leggenda dell’uomo che vendette la propria ombra.
Forse il pubblico non si rende ben conto dell’importanza artistica d’una buona «spalla». Ma chi abbia intima dimestichezza con la ribalta sa i prodigi di affiatamento, i miracoli di tempismo, il preciso istinto umoristico e la sicurezza di scena che occorrono per adempire utilmente ed artisticamente a questo non facile compito. Un passo di più e la buona «spalla» può diventare un buon comico. E se quel passo non viene, a volte, compiuto è forse nella tema di non trovare per se stessi una «spalla» altrettanto brava. Il nostro palcoscenico di Rivista ne conta alcune che sono veri maestri del genere.
Nel gravoso ruolo di "spalla" si sono alternati, in varia misura e soprattutto nel cinema, ottimi attori, alcuni provenienti dal teatro dialettale napoletano, quali Agostino Salvietti, Enzo Turco, Giacomo Furia, Ugo D'Alessio, Carlo Croccolo, Eduardo Passarelli (storica prima "spalla" nel teatro di Totò), Peppino De Martino, Nino Taranto e Pietro De Vico. Altri con esperienze artistiche consolidate in teatro e a cinema, più che "spalle" vanno considerati co-protagonisti, fra i quali Carlo Rizzo, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Macario, Luigi Pavese.
Mario Castellani
L’ottima «spalla» di S.A.R.I. Totò. Magro, distinto, piacevole, Castellani — come abbiamo già narrato — si avviava brillantemente per la carriera di dicitore-danseur. Ha incontrato per via Totò e si è fermato all’insegna del buonumore. Ormai Castellani ha talmente ben compreso la comicità del suo illustre collega che — forse — potrebbero apparire entrambi sulla scena, senza un rigo di copione scritto, senza aver preso il minimo accordo, senza aver ricevuto il più vago suggerimento, e divertire ugualmente il pubblico per mezz’ora.
Qualche sera avevo l'impressione che stesse per picchiarmi. Era la scena del wagon-lit in teatro, in cui ero davvero intrattabile. Angariavo in ogni modo il povero Castellani, gli impedivo di dormire, gli gettavo la valigia dalla finestra, gli ripetevo una dopo l'altra, le mie solite frasi di disturbo: "sono un uomo di mondo; ma lei non sa chi sono io; quando c'è la salute; tampoco; a prescindere; eziandio; comunque; appunto, dico..."
Al contrario della «spalla» tradizionale, Castellani non finge di incollerirsi per le buffe scemenze del proprio interlocutore, ma anzi sembra sforzarsi di comprenderle, con elaborato interesse, e di fraintenderle, poi, con stupore dignitoso. La sua corretta mansuetudine, allora, serve da sprone alla balordaggine dell’altro, che si fa petulante, proterva, aggressiva. Quando Castellani vorrebbe ribellarsi, è troppo tardi: Totò si è ormai impadronito della situazione e ci gioca, ci giostra, sbatacchiandola in ogni senso al suo inimitabile modo. Tutto questo può parere semplice: ma per arrivare alla progressione esilarante della famosa scena del vagone-letto, ad esempio, ci vuole veramente dell’arte. E la parola non è troppo grossa.
Carlo Rizzo
Inarrivabile «spalla» di Macario è, in un certo senso, un figlio d’arte. Suo zio è stato celebre nel campo dell’Operetta: Carlo Lombardo. Suo fratello e sua sorella sono ottimi elementi minori della Rivista. Corpulento, cordiale, sicuro di se, egli oppone alle aeree indecisioni, alle astratte timidezze, alle lunari scemenze di «Maca», un massiccio buon senso, una solida bonomia, una robusta logica. Alla comicissima balbuzie più spirituale che materiale dell’altro, Rizzo va incontro con alluvionale facondia. È inevitabile che Macario finisca per brancolare in quel torrente di parole e si aggrappi a quella che gli passa più vicina, credendo di salvarsi; ed ecco la parola che gli sembrava così promettente e sicura, si sgretola nelle sue mani malferme e dalle briciole, da ogni briciola, sprizza una risata, brilla un concetto ameno, rimbalza un sorriso. E allora Rizzo lancia un’occhiata a «Maca», tra sorpresa e divertita: sembra domandarsi che razza di individuo sia quell’ometto dalla faccia d’uovo pasquale, dalla bocca a spicchio di luna. Da quel momento lo tratta con la rassegnata pazienza che si usa per i bambini, si fa paterno, quasi materno. «Maca» se ne approfitta subito e — là — butta fragoroso, scattante, il più audace dei suoi frizzi, quello che farà veramente andare su tutte le furie il povero Rizzo. Arte, signori miei, arte anche questa, credeteci sulla parola. Con Totò ebbe modo di incontrarsi solo in "Totò di notte n.1"
Enzo Turco
Forse non era nato per fare la «spalla». Le sue innegabili doti di comicità e di spontaneità potevano dargli diritto — come ai grandi di Spagna — di tenere il cappello in testa dinnanzi a Sua Maestà La Risata. Ma Turco è napoletano e perciò è filosofo oltre che artista. Egli deve essersi chiesto quanto formaggio gli sarebbe rimasto, visto che tanti «sùrice» di buona dentatura e di acuti unghioli erano vittoriosamente mossi all’attacco della forma di cacio capocomicale. E allora ha deciso di dedicarsi al lardo, lasciando parmigiano, provolone e pecorino ai sorci più grossi. Dopo tutto anche il lardo, quando lo si scelga ben stagionato e ben salato, è cibo sopraffino. Ecco dunque Turco «spalla» di Taranto. Napoletano l’uno, napoletano l’altro. Si capiscono a occhiate; meglio ancora, a sbatter di palpebra. Dal modo con cui Nino inizia una battuta, Enzo sa come dargli la ribattuta. Dal modo con cui Enzo pone un interrogativo, Nino sa come deve rispondergli. Sentirli recitare assieme è un piacere cordiale e sottile per chi sia appassionato d’arte scenica; è un po’ del glorioso San Carlino che si affaccia nei loro dialoghi; è la tradizione classica che si perpetua, insaporita dal più originale modernismo. Il nasetto a patatina, il viso minuto, la fronte stretta di Turco si contrappongono amenissimamente al naso rapace, alla faccia faunesca, alla fronte mascagnana di Taranto. E mentre Nino ama — col roteare degli occhi da rana, con le smorfie della bocca tumida — sottolineare l’umorismo di certe battute, Enzo affetta di scivolarvi su, con un gesto vago della mano curiosamente piccola e con un tipico moto del capo, uguale a quello delle foche quando acchiappano a volo il pesciolino-premio della loro bravura. Chi è assiduo frequentatore della Rivista, vada con la mente, per un attimo, al Turco degli sketches : «Edipo turistico» e «Il mago di Napoli». Se non è arte quella, saremmo curiosi di sapere che cosa s’intenda per arte.
Edoardo Passarelli, Renato Mariani e Peppino De Martino
Figli d’arte, tutti e tre. De Martino — figurarsi — discende da un Pulcinella eccelso. Passarelli viene addirittura da una famiglia della quale si può dire, parafrasando l’affermazione del «Gastone» petroliniano (il quale asseriva che in casa sua, se non erano inventori, non nascevano) che se ì rampolli non erano attori, non li metteva al mondo. Mariani è il meno napoletano (il vero «terrone» era il suo povero papà, un tempo lui pure ottimo attore di Rivista).
Tutti e tre sono i pittoreschi astucci che fan risaltare.
il fulgore delle pietre preziose affidate alla loro custodia. Tutti e tre sono i valenti pianisti che accompagnano i virtuosi del violino della comicità. E i critici musicali sanno che per accompagnare degnamente al piano uno Jascha Heifetz, un Menuhin o uno Stern, occorre indiscutibilmente un artista.
Riferimenti e bibliografie:
- "Guida alla rivista e all'operetta" (Dino Falconi - Angelo Frattini), Casa Editrice Accademia, 1953
- "Totò. Manuale dell'attor comico", Dario Fo, Aleph, Torino, 1991