Pier Paolo Pasolini: l'incontro con Totò



Per un cinema ideologico e surreale


Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre a livello della realtà. E’ una specie di ideologia personale, di amore nel vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà


Totò e Pasolini: l’aristocratico del ridicolo incontra il poeta del disagio

Totò, principe della risata e re delle platee popolari, per anni fu trattato dai critici come il cugino imbarazzante del cinema italiano: quello simpatico, certo, ma che non si invita ai festival internazionali. Nonostante avesse lavorato con registi di un certo calibro (Monicelli, Rossellini, Bolognini e Lattuada — mica la sagra del corto amatoriale), Totò bramava un riconoscimento vero, quello con la R maiuscola, magari tra un film impegnato e un aperitivo con intellettuali in dolcevita. Era così convinto della sua grandezza incompresa che dichiarò con amaro sarcasmo: «Solo al mio funerale scopriranno che sono un grande attore». (E spoiler: aveva ragione.)

E fu allora che arrivò Pier Paolo Pasolini, con la sua aura da poeta maledetto e un passato da fuggiasco culturale — scappato da Casarsa, da una famiglia opprimente e da un’Italia che non sapeva proprio che farsene della sua omosessualità. A Roma, tra una comparsata e una sceneggiatura, Pasolini decise che i suoi romanzi e le sue poesie non gli bastavano più: voleva parlare anche col cinema, e farlo con lo stesso lirismo con cui si scrive un verso di Ungaretti, ma magari con più sottotesto sociale e meno enjambement.

Il suo era un cinema serio, ma non serioso: un cinema di poesia, come lo chiamava lui, dove il regista non è un semplice narratore, ma un demiurgo visivo, uno che piega la realtà ai propri tormenti interiori (e alle proprie elucubrazioni semiologiche, che non mancavano mai). Pasolini rifiutava gli attori professionisti, non per snobismo, ma perché – diceva – “sono un’altra coscienza che si aggiunge alla mia”. Tradotto: gli rompono la regia poetica.

Eppure con Totò, attore professionista per antonomasia (e anche per necessità economica, visto quante ne ha girate), l’alchimia fu istantanea. Due mondi all’apparenza inconciliabili — il comico napoletano dalla maschera buffa e il regista intellettuale con la perenne espressione tragica — si fusero in una collaborazione breve ma folgorante. Totò recitò in Uccellacci e uccellini, poi in episodi di Le streghe e Capriccio all’italiana, dove interpretò un Jago da teatro dei burattini: tragico e ridicolo, sublime e farsesco, insomma... perfettamente pasoliniano.

Una collaborazione che fu interrotta solo dalla morte di Totò, che, ironia della sorte, confermò la sua profezia: solo da morto gli riconobbero il genio. E Pasolini? Continuò per la sua strada, tra poesia, politica, polemiche e pellicole, sempre a cercare la verità nel caos visivo del mondo. Magari un po’ meno buffa di quella di Totò, ma non meno disperatamente umana.


Ho in mente una dozzina di episodi comici, che vorrei girare ancora con Totò e Ninetto, ma forse non potrò farlo per i troppi impegni.


L’attore che non recita: Pasolini, Totò e il sogno del cinema vero

Pasolini, quando sceglieva gli attori, non cercava i soliti volti scolpiti dalla scuola di recitazione o dagli studi di Cinecittà, ma quelli segnati dal sole, dalla fatica, e magari anche da un po’ di ignoranza del copione. Per lui il cinema era poesia, non un ufficio di collocamento per attori con curriculum. E la poesia, si sa, non tollera l’interferenza di chi vuole “interpretare”: Pasolini voleva attori che si lasciassero plasmare, come creta fresca nelle mani dell’artista-poeta. Altro che metodo Stanislavskij: qui c’era il metodo Pasolini, fatto di sguardi, silenzi, e una sana diffidenza verso la professionalità.

Certo, ogni tanto capitava che i produttori gli piazzassero qualche nome grosso nel cast, e lui, un po’ a denti stretti, accettava. Così ci ritroviamo la Magnani a far soffrire con la sua voce roca, la Mangano che non sorride mai, la Callas che porta la tragedia greca nei campi italiani, e persino Orson Welles, catapultato in un mondo in cui la ricotta ha più pathos di Amleto. Tutti bravi, per carità, ma secondo Pasolini un tantino ingombranti.

Poi c’è il caso Totò. Ah, Totò! Il principe della risata, l’uomo che parlava coi piedi, con gli occhi, col busto — e che sembrava impossibile da togliere dalla camicia del cliché. Ma Pasolini ci riesce. Lo prende, lo decodifica, e ce lo restituisce non più come maschera urlante dell’infima borghesia, ma come uccellino spiumato, tenero e malinconico, un clown disarmato che smette di far ridere per far pensare. Una rivoluzione, insomma. E una sfida: strappare l’uomo Totò all'attore Totò.

E la magia funziona. Totò, messo a nudo e ricucito dalla mano pasoliniana, si dimostra un attore gigantesco, uno che non ha bisogno di facce buffe per farsi ricordare. Tra i due nasce una stima profonda, quasi commovente, che li porta a lavorare insieme più volte, anche in cortometraggi sperimentali dove il senso si nasconde dietro nuvole di cartapesta e lune arancioni.

In fondo, la storia di Totò e Pasolini è un po’ come un film in bianco e nero: sembra lontana, ma ci parla ancora. Ci racconta di un cinema che non voleva piacere, ma dire qualcosa. Di un artista che cercava la verità anche dove sembrava non esserci. E di un attore, il più comico dei comici, che ha saputo essere grande quando ha smesso di far ridere.

E noi, oggi, un po’ li invidiamo. Perché in quel loro cinema fatto di poesia, miseria e intuizioni geniali, c’era qualcosa che adesso manca: la libertà di essere veri, anche stonati, anche fuori fuoco.


È Pasolini che chiude il sipario su Totò; è Pasolini che prepara a Totò una imponente, fastosa, «uscita» e ne celebra, riconoscendola, la grandezza. Molte qualità, molti valori si possono isolare e descrivere in quei film, ma uno, per me il maggiore, è quello che si impone: l’amore, il rispetto che si coglie nell’occhio che sta dietro la macchina da presa e guarda, con misura delicatissima, il vecchio attore che non risparmia l’ultima sua forza (Uccellacci e uccellini).

Ma c’è qualcos’altro che mi colpisce e, fuor di retorica, mi commuove. Qualcosa che non so quanto sia stato notato. Pasolini restituisce a Totò, in maniera indiretta e ne La terra vista dalla luna in maniera diretta, il suo ruolo di «mamo», che è il ruolo degli esordi, degli inizi, e che qui, al tramonto, acquista una purezza, una altezza, una malinconia che probabilmente non è mai riuscito ad esprimere altrove. E' stata l’intuizione della natura vera dell’arte di Totò e una sensibilità assai acuta che forse hanno spinto Pasolini a chiudere un cerchio nel quale il lavoro dell’attore sembra, alla fine, esso stesso farsi arte o uscire dall’arte a cui per una vita intera l’attore ha prestato i suoi strumenti. 

Dario Fo


Uccellacci e uccellini (1965)

Ho scritto la sceneggiatura tenendo presente un corvo marxista ma non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero. A questo punto, il corvo è diventato autobiografico, una specie di metafora irregolare dell’autore. Totò e Ninetto rappresentano invece gli italiani innocenti che sono intorno a noi, che non sono coinvolti nella storia, che stanno acquisendo il primo jota di coscienza. Non scelgo mai un attore perché finga di essere qualcos’altro da quello che egli è, ma lo scelgo proprio per quello che è. Volevo un personaggio estremamente umano, cioè che avesse quel fondo napoletano e bonario, e così immediatamente comprensibile, che ha Totò. E nello stesso tempo volevo che questo essere umano così medio, così «brava persona», avesse anche qualcosa di assurdo, di surreale, cioè di clownesco, e mi sembra che Totò sintetizzi felicemente questi elementi.

Uccellacci, uccellini e un corvo marxista: diario di una favola ideologica che non visse felice e contenta

1. Il contesto: Pasolini post-Vangelo, con l’anima in fermento

Nel 1964, mentre il mondo rincorre il boom economico e il Vaticano II, Pier Paolo Pasolini, ancora profumato dal successo de Il Vangelo secondo Matteo, decide di scendere di nuovo in campo, ma stavolta non per predicare, bensì per sputare metafore. E lo fa come solo lui sa fare: pubblicando su Vie Nuove un soggetto cinematografico articolato in tre episodi dal sapore di farsa favolistica, destinato poi a diventare uno dei suoi film più enigmatici e politicamente inquieti: Uccellacci e uccellini.

In origine c’erano tre episodi:

L’Aigle: un domatore frustrato alle prese con un’aquila indomabile.

Faucons et Moineaux: due fraticelli tentano, su mandato di San Francesco, di evangelizzare falchi e passeretti.

Le Corbeau: un viaggio stralunato di padre e figlio accompagnati da un corvo logorroico e marxista.

Alla fine, Pasolini decide di realizzare un film unico, dove i tre episodi vengono compressi, rimescolati e serviti come un’unica pietanza con ripieno ideologico. Il primo episodio viene tagliato, il secondo diventa un racconto interno al terzo. Tutto è cinema nel cinema, in un pastiche narrativo che è già manifesto della crisi di senso dell’epoca.

2. L’Aigle: il Terzo Mondo non si addomestica

Il primo episodio mai giunto sullo schermo racconta di Monsieur Courneau, domatore francese, che tenta invano di ammaestrare un’aquila. Traduzione: un’intellettuale occidentale (Cournot, critico cinematografico della Nouvelle Vague, che aveva mosso critiche a Pasolini) cerca di civilizzare il Terzo Mondo secondo i suoi criteri razionali e illuministi.

Spoiler: l’aquila se ne frega, e Pasolini pure. Il messaggio è chiaro: la razionalità europea non può assimilare ciò che sfugge alle sue categorie, e il Terzo Mondo rimane irriducibile, enigmatico, fieramente selvaggio.

3. Faucons et Moineaux: falchi predatori e passerotti pacifisti

Nel secondo episodio, Totò e Ninetto (già anticipatori dei protagonisti del film definitivo) sono due fraticelli inviati da San Francesco a evangelizzare gli uccelli. Lo fanno con zelo e candore, e per un momento funziona: falchi e passeri ascoltano la parola divina.

Ma poi, l’istinto ha la meglio: i falchi riprendono a predare i passerotti. Tutto torna come prima. Il messaggio? La bontà non basta, e nemmeno la fede può annullare la violenza strutturale. Si può predicare la pace, ma il mondo segue altre leggi. San Francesco consola, ma la delusione rimane.


Non ho mai «messo al mondo» un film così disarmato, fragile e delicato come Uccellacci e uccellini. Non solo non assomiglia ai miei film precedenti, ma non assomiglia a nessun altro film. Non parlo della sua originalità, sarebbe stupidamente presuntuoso, ma della sua formula, che è quella della favola col suo senso nascosto. Il surrealismo del mio film ha poco a che fare col surrealismo storico; è fondamentalmente il surrealismo delle favole. Mai ho scelto per tema di un film un soggetto così difficile: la crisi del marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta, poeticamente situata prima della morte di Togliatti, subita e vissuta, dall’interno, da un marxista, che non è tuttavia disposto a credere che il marxismo sia finito (il buon corvo dice: «Io non piango sulla fine delle mie idee, perché verrà di sicuro qualcun altro a prendere in mano la mia bandiera e portarla avanti! E’ su me stesso che piango...

Pasolini intende fare un film comico con un personaggio a sfondo comico, pur impegnato e significativo, per far capire qualche cosa. E ha creduto di scegliere me. Mi ha spiegato poco, mi ha spiegato volta per volta, cioè: «Io preferirei che tu facessi cosi, cosi, cosi». Ma non so che cosa ci sia prima, e dopo non so cosa viene. Cerco di seguirlo, e in un’intervista mi ha chiamato... ha detto che sono come uno stradivario... Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una gran fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione.


4. Le Corbeau: il film nel film e l’apocalisse ideologica

Nel terzo e più corposo episodio, Totò e Ninetto, ora padre e figlio, camminano per una periferia desolata. Incontrano un bar, un juke-box, una recita religiosa, e poi un evento tragico: il suicidio di due coniugi, simbolo della disperazione silenziosa del popolo.

È qui che compare lui: il corvo parlante, intellettuale marxista travestito da volatile, che si unisce ai due nel loro pellegrinaggio senza meta. Inizia a pontificare, a fare domande, a raccontare storie (tra cui Faucons et Moineaux, che diventa così un flashback narrato), trasformando il viaggio in una lezione ambulante di filosofia politica.

Totò e Ninetto ascoltano? Sì, ma più per cortesia che per convinzione. E a un certo punto, spinti dalla fame (metaforica e reale), fanno ciò che ogni proletario farebbe dopo ore di monologo marxista: uccidono il corvo e se lo mangiano. Fine del dibattito.

5. La morale della favola (se favola si può chiamare)

Pasolini mette in scena una società in rovina, un’ideologia (quella marxista) in piena crisi di rappresentazione, e una chiesa che ha perso il contatto con i falchi e i passerotti del mondo reale.
Il viaggio di Totò e Ninetto è un’odissea postmoderna tra simboli morti, utopie svanite, autobus persi (letteralmente), e strade che portano a Istanbul o Cuba, chilometri impossibili come sogni irrealizzabili.

Il film è tutto un’allegoria: il corpo (che defeca, ama, soffre, muore) contro l’astrazione dell’ideologia. Totò e Ninetto sono il popolo vero, ingenuo, concreto, vitalistico. Il corvo è l’intellettuale che ha perso il contatto con la realtà, che parla una lingua che nessuno ascolta più. Pasolini stesso si identifica nel corvo, ma cerca di prenderne le distanze: sa di essere in crisi, ma vuole ancora parlare.

6. Totò e Ninetto: la speranza che resiste

Totò è maschera comica, mimo chapliniano, ultimo baluardo di un umorismo che Pasolini considera sacro. Ninetto è la vitalità giovane, l’energia ingenua. Insieme rappresentano l’Italia che cammina, sì, senza sapere dove, ma ancora cammina. Innocenti, nel nome e nei fatti.

Nonostante tutto, Pasolini lascia un barlume di speranza: nei corpi che danzano, nei sorrisi ingenui, nella voglia di vivere che sopravvive alla retorica e al disincanto. I "garofani rossi della speranza" sono appassiti, ma forse non del tutto morti.

7. Il linguaggio del film: un cinema di favole e pugni allo stomaco

Pasolini sceglie la favola, "astorica per definizione", per sfuggire al linguaggio borghese e creare un cinema "d’élite", ma non per intellettuali: un’élite disomologata, una massa pensante. Il suo è "cinema ideologico", ponte tra la fase neorealista e quella mitica.

C’è dentro Chaplin, c’è Morricone, c’è Mozart, ci sono partigiani e saltimbanchi, c’è poesia, c’è bile. E c’è pure la censura, che vieta il film ai minori di 18 anni (poi ridotti a 14), e una sinistra scandalizzata, che accusa Pasolini di disfattismo. Lui risponde con Cannes, dove riceve onori e riconoscimenti.

E il suo sguardo, malinconico e lucido, resta lì: inchiodato su un’Italia che ha perso la voce, e cerca ancora di capire se quella del corvo valesse la pena ascoltarla.


🗺️ Mappa dei Simboli

1. Il Cammino Infinito
Significato: Rappresenta il viaggio esistenziale senza meta dell'uomo moderno, un'odissea tra ideologie fallite e realtà disilluse.

2. Il Corvo Parlante
Significato: Simbolo dell'intellettuale marxista logorroico e disconnesso dalla realtà. La sua uccisione e consumo da parte dei protagonisti indica il rifiuto delle ideologie astratte.

3. I Frati Evangelizzatori
Significato: Rappresentano il tentativo della religione di portare armonia tra oppressori (falchi) e oppressi (passerotti), fallendo a causa della natura intrinseca degli esseri.

4. Falchi e Passerotti
Significato: Allegoria della lotta di classe; i falchi (potenti) predano i passerotti (deboli), evidenziando l'inefficacia della predicazione senza cambiamento strutturale.

5. Totò e Ninetto
Significato: Incarnano il popolo semplice, che affronta la vita con ingenuità e pragmatismo, spesso ignaro delle grandi ideologie.

6. La Prostitute e gli Attori Itineranti
Significato: Simboli delle classi marginalizzate e della cultura popolare, spesso ignorate dalle grandi narrazioni ideologiche.

7. Il Suicidio dei Coniugi
Significato: Rappresenta la disperazione e l'alienazione dell'uomo moderno, schiacciato da una società indifferente.

8. Funerale di Togliatti
Significato: Simbolo della fine di un'epoca e della crisi del comunismo italiano, inserito nel film come documento reale.


Questo Pasolini, pasolineggia un poi troppo. Stiamo a metà del film e non ho ancora capito che razza, che schifezza di film, stiamo facendo. Certe volte io gli prendo la mano, faccio a modo mio. Insomma, mi capisci, cerco di forzare la situazione. Ma lui urla, mi sgrida, mi strapazza, come se fossi un ragazzino, No. questo non lo devi fare, mi dice, ma io lo faccio lo stesso. Quel corvo, quel corvaccio che mi ha messo addosso. Puzza, quanto è brutto, porta anche un po’ iella. Ma quel corvo è la sua grande trovata. Ci tiene e, per bocca sua, per bocca del corvo, Pasolini filosofeggia. Capirai, che trovata. Esopo, dico io. Fedro, aggiungo, La Fontaine controaggiungo come carico. Ma, dico io, costoro non facevano forse parlare gli animali, da quel dì? E, allora, che razza di trovata è questo corvo di Pasolini che parla? Senti a me, per divertire la gente ci vuole altro: un pappagallo, ad esempio. Una storiella su di un pappagallo, facci caso, fa sempre ridere.» A Pasolini glielo ho detto. Ma lui, sai cosa mi ha risposto? Secco, asciutto: il pappagallo è troppo borghese. E io sai cosa gli ho controrisposto? Che è molto borghese pensare che si sta facendo qualcosa di borghese. Ma, non mi ha capito. Sai come sono certi comunisti, ti danno del tu, ma dopo qualche anno, se non li chiami commendatore, neanche si girano.

Antonio de Curtis


Valencia, 4 novembre 2012: mostra '40 anys sense Pasolini', disegni dal film


La terra vista dalla luna (1967)

Visto dalla luna, questo film che s’intitola appunto La terra vista dalla luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla terra sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Paolo Pasolini.

“La Terra vista dalla Luna”: una favola colorata con una botta di esistenzialismo marxista

Mentre Totò e Ninetto ancora si scrollavano la polvere di “Uccellacci e uccellini”, Pasolini già li voleva rispedire davanti alla macchina da presa. L’idea originale era ambiziosa: un film a episodi con un titolo che suona come una tesi di laurea in semiotica: “Che cos’è il cinema?”. Avrebbe dovuto contenere quattro racconti surreali: tra questi “La Terra vista dalla Luna”. Ma come spesso accade con i progetti artistici e gli sponsor che stringono il portafoglio, ne rimasero in piedi solo due. Così “La Terra” finì incastrata tra un Visconti e un De Sica nella cornice de “Le Streghe”, film antologico dove la Mangano regna come musa e pretesto.

Il soggetto: Totò e Ninetto nel Terzo Mondo della fantasia
Pasolini gira nel 1966 questo episodio con l’intento dichiarato di creare una favola surreale, comica e... lunare. La storia si apre su un paesaggio che sembra disegnato da un bambino sotto acido: baracche colorate, povertà estetizzata, situazioni grottesche.

Ciancicato Miao (Totò) è un vedovo, mentre il figlio Baciù (Ninetto) è un orfano allegro e un po’ svanito. Piangono sulla tomba della defunta Crisantema, madre e moglie, e decidono che serve una nuova donna in casa – mica per amore, ma per le faccende domestiche. Dopo vari tentativi fallimentari con una vedova, una prostituta e perfino un manichino (sì, proprio un manichino), trovano l’ideale: una donna sordomuta, Assurdina Caì.

Assurdina: il sogno maschilista in technicolor
Assurdina è l’incarnazione del sogno di ogni maschilista pasoliniano: bella, laboriosa, muta. Trasforma la baracca in una casetta da fiaba in quattro mosse da casalinga disperata ma efficiente. Ma Ciancicato e Baciù vogliono di più: una casa vera, con spazio per l’ambizione e le truffe.

Ecco allora il piano geniale: Assurdina dovrà fingersi suicida mentre i due vanno al Colosseo a raccogliere elemosine. Solo che due turisti scemi, nel loro zelo documentaristico, provocano la caduta reale di Assurdina, scivolata su una buccia di banana. Morta? Mica tanto. Al ritorno è lì, vestita da sposa, pronta a servire in eterno.

La morale? “Essere vivi o morti è lo stesso”
Lo dice una didascalia finale, come fosse un tweet del Buddha in esilio: “Essere vivi o essere morti è la stessa cosa”. È un’affermazione che Pasolini mutua dalla filosofia orientale, ma che infila dentro la sua visione disillusa della modernità: una società dove l’identità è annientata e la donna può essere anche cadavere, purché pulisca e non parli.

Simboli, streghe e suole delle scarpe
Pasolini usa la figura della strega in modo provocatorio: non è più l’arpia malefica, ma la donna ideale secondo la società patriarcale. La vera stregoneria è rendere desiderabile questa immagine muta e accondiscendente. Totò, nel frattempo, se ne esce con perle tipo: “La vita è un sogno e gli ideali stanno qua”, indicando la suola delle scarpe. La comicità slapstick si mescola alla tragedia ideologica.

Il colore come linguaggio alieno
Pasolini sperimenta: la pellicola è un’esplosione di colori violenti, contrastati, espressionisti. Ogni elemento visivo serve a estraniare lo spettatore, portarlo fuori dal realismo, costringerlo a vedere il mondo come da un’altra galassia. Da qui il titolo: “La terra vista dalla luna”, ovvero da lontano, con occhi nuovi, disillusi, ma ancora capaci di meraviglia.

I turisti cannibali e l’industria culturale
Tra i tanti simboli c’è anche un’accusa chiara alla società dei consumi: i due turisti che fotografano tutto, anche il dolore, anche la morte, rappresentano la fame dell’industria culturale occidentale di “contenuti” da vendere. Assurdina muore per colpa loro. O forse no. O forse è già tutto una farsa.

Pasolini, Totò e il ritorno al muto
La comicità del film è costruita come un omaggio dichiarato a Charlie Chaplin: mimica esasperata, gag visive, ritmo accelerato. Totò ritorna clown, ma un clown tragico, tragicamente attuale. È il burattino di un sistema in cui anche la morte ha smesso di fare paura perché è solo l’altra faccia dell’indifferenza.

Il commento critico

“La terra vista dalla luna” è una favola che ride con la bocca storta. Pasolini, armato di ironia feroce e poesia luttuosa, ci porta in un mondo dove la morte è decorativa e la vita una farsa teatrale, il tutto immerso in un technicolor da cartone animato rotto. Dietro la comicità slapstick, dietro le gag di Totò e le espressioni assenti di Ninetto, si cela una visione profondamente inquieta: la società non è solo alienante, ma ormai indifferente alla differenza tra l’essere e il non essere.

La donna, qui, è muta non per scelta narrativa, ma perché la società patriarcale l’ha zittita definitivamente, trasformandola in un oggetto funzionale, decorativo, ma privo di identità. E non è un caso che Assurdina possa continuare a essere moglie e madre anche da morta: tanto il sistema non richiede più umanità, solo efficienza silenziosa.

Pasolini usa il mezzo cinematografico non per raccontare storie consolatorie, ma per smontare pezzo dopo pezzo le narrazioni ipocrite della modernità. Anche il colore – acceso, violento, incoerente – diventa un linguaggio altro, che grida mentre i personaggi tacciono. È cinema che non vuole piacere, ma disturbare, una fiaba disfunzionale per adulti che credono ancora nelle favole ma sanno che non finiscono mai bene.

In definitiva, “La terra vista dalla luna” non è una semplice parabola grottesca: è una diagnosi, un bollettino clinico travestito da burletta, in cui Pasolini ci avverte che stiamo ridendo di noi stessi, senza accorgerci che il sipario è già calato e noi siamo rimasti a recitare davanti al nulla.


🧠 Simboli e Significati in “La terra vista dalla luna”

🎭 Personaggi come archetipi sociali

Ciancicato Miao (Totò) Vedovo clownesco, goffo e affamato di ordine. L’uomo popolare post-ideologico, burattino in un mondo dove anche le emozioni sono in saldo

Baciù (Ninetto) Figlio ingenuo e devoto, sempre in scia del padre. Gioventù senza guida, senza ribellione, in balia del passato e dell’assurdo

Assurdina Caì Donna sordomuta, ideale moglie/madre, perfetta anche da morta. La femminilità oggettificata, icona del maschilismo pasoliniano portato al parossismo

🏠 Spazi e oggetti come paesaggio interiore

La baracca multicolore Dimora iniziale, trasformata in "casetta da sogno". Simbolo del Terzo Mondo dentro l’Occidente, ma anche della povertà estetizzata e addomesticata

La casa desiderata Una casa vera, che però non possono permettersi. Il miraggio borghese, il sogno piccolo-borghese di riscatto che genera mostri (o tentativi di truffa)

Il Colosseo Scenario del tentativo di carità con suicidio simulato. L’Impero decaduto, vetrina per turisti, oggi tempio della spettacolarizzazione della miseria

🎨 Elementi estetici e visivi

Colore acceso e contrastato Estetica volutamente “fumettosa” e innaturale. Linguaggio alieno per mostrare il reale da un’altra angolazione; critica al “realismo” ipocrita

Movimenti da marionetta Totò si muove come in un film muto. Rappresentazione della condizione umana come teatrino grottesco, burattini senza autore né copione

Immagini accelerate Tipiche del cinema muto alla Chaplin. Omaggio ironico al passato e al linguaggio perduto della comicità vera, non “televisiva” né edulcorata

💀 Tematiche esistenziali

Assurdina morta che vive Continua a fare la moglie anche dopo la morte. Critica feroce al ruolo femminile standardizzato: meglio morta che indipendente e parlante

Didascalia finale (“Essere vivi o morti è lo stesso”) Frase chiave che chiude il film. Sintesi della visione pasoliniana: la società annienta identità, ideali, perfino la differenza tra vita e morte

La buccia di banana Oggetto banale che causa la caduta (forse letale). Tragico ridicolo del quotidiano: la morte può venire da una gag da cartone animato. La vita è una farsa, ma senza applausi

📷 Critica alla società dei consumi

I turisti fotografi Causa indiretta della “morte” di Assurdina. L’occhio occidentale che consuma dolore e povertà come souvenir. L’industria culturale che trasforma il dramma in intrattenimento

La colletta al Colosseo Tentativo di monetizzare la tragedia. Mercificazione del dolore, cinismo di chi chiede carità non per sopravvivere, ma per “scalare socialmente”

🧙 Il tema della strega

La “strega” domestica Assurdina è l’anti-strega: perfetta, muta e servizievole. Ribaltamento del mito della donna potente e minacciosa: ora la vera “strega” è quella che si conforma fino all’autocancellazione 


Che cosa sono le nuvole? (1967)

Pasolini e le nuvole: manuale per burattini metafisici e altri disadattati

Immaginate un teatro decadente, un po’ in rovina, ecco dove si svolge questa tragica commedia. Prima dell’Otello di Shakespeare, ovviamente, il palcoscenico è decorato da manifesti di film che Pasolini ha pensato (e mai realizzato). E qui arriva la prima battuta ironica del regista, la sua parodia della cultura alta: i manifesti di film comici ispirati a grandi opere di Velásquez. Ecco i titoli che avrebbero dovuto accompagnare queste pellicole: La terra vista dalla Luna (ispirato al "Nano don Diego de Acedo detto El Primo"), Mandolini (ispirato a Il principe Baltasar Carlos con un nano), e Le avventure del Re Magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo (ispirato a Filippo IV). Ah, l’ironico contrasto tra il mondo della pittura barocca e quello dei sogni cinematografici pasoliniani! È come se il regista volesse farci capire che nella sua visione del mondo, l’arte e la cultura si mescolano in una danza di parodia e ribaltamento, creando un'irriverente distorsione della realtà.

Ma attenzione, perché qui si annida un aspetto fondamentale della sua poetica: l’auto-ironia e il disincanto verso le ideologie. Quei progetti di film comici? Solo fantasmi. Alla fine, la realtà è ben diversa: l’unico film che prenderà vita sarà I Magi randagi (1996, ma non lo farà lui, ahimè), mentre il resto rimarrà un sogno a metà tra la speranza e la delusione.

"Las Meninas" e L’Opera d’Arte: La Rappresentazione nella Rappresentazione

E ora, il cuore del discorso: l’arte come specchio della realtà, come un "sogno dentro un sogno", che Pasolini adatta magnificamente alla sua visione della vita e della morte. Per farlo, si rifà alla mitica Las Meninas di Velásquez, una delle opere più innovative nella storia dell'arte, che rappresenta, in sostanza, una "mise en abyme", ovvero un’immagine che contiene altre immagini, una rappresentazione che si riflette su sé stessa. Ed è proprio su questa idea che Pasolini costruisce la sua trama. I burattini di Otello sono la rappresentazione di un’opera, ma anche la rappresentazione dentro un’opera, dentro un altro livello di realtà. Capite l’inghippo?

In questa cornice, l’Otello di Pasolini è un burattino appena nato, confuso, senza copione, costretto a recitare un ruolo che non comprende. Non è solo una tragicommedia, è una riflessione esistenziale sulla vita stessa, che, come il burattino, non ha un vero controllo su di sé. E poi c'è Jago, il mentore malvagio, che non è altro che un altro burattino, ma che, paradossalmente, aiuta Otello a prendere consapevolezza della sua esistenza: un vero e proprio "saggio" in un mondo che non ha senso, ma in cui lui è costretto a recitare.

La Rivolta del Pubblico: La Messa in Discussione della Tragedia

E qui, in un colpo di scena che farebbe impallidire Shakespeare stesso, arriva il pubblico. Sì, proprio loro, quelli che normalmente dovrebbero essere solo spettatori passivi, ma che, come in una sceneggiata napoletana, irrompono sulla scena, salvano Desdemona, eliminano Jago e Otello, e portano in trionfo Cassio. Questo è Pasolini che, con un sorriso amaro, ci fa riflettere sulla follia della massa: il pubblico non accetta la tragedia, non si adatta a una fine inevitabile. E così, Pasolini ribalta la visione classica e ci mostra la sua critica alla società di massa, incapace di accettare qualsiasi cosa che non rientri nei binari dell’"etica borghese".

E qui, come se non bastasse, Pasolini ci regala una doppia citazione: la prima è una riflessione sulle sceneggiate, dove il pubblico partecipava attivamente alla rappresentazione, e la seconda è un omaggio al Don Chisciotte, che, come i moderni spettatori, scendeva dal palcoscenico per cambiare il corso degli eventi.

La Doppia Vita dei Burattini e la Morte come Nascita

Ma non finisce qui, ahimè. Questi burattini, pur non essendo "umani", provano emozioni umane: piangono, hanno paura, si estasiato davanti alla bellezza del mondo. Pasolini, con il suo consueto tocco malinconico, ci dice che anche loro sono in grado di esperire una "doppia vita", una vita che non è autentica, ma costretta a essere un ruolo. Ed è qui che si inserisce il concetto di "vita-morte", che Pasolini esplora a fondo.

In Che cosa sono le nuvole?, la morte non è solo la fine della vita, ma anche una possibilità di rinascita. Questo è il mistero della vita, che assume significato solo grazie al suo fine. Ma attenzione, non è un mistero qualsiasi: è un mistero che si svela solo in pochi, straordinari attimi. E quindi, la morte diventa un atto di purificazione, un "recupero del senso della vita".

L’Immondezzaro, il Traghettatore delle Anime

Arriva l’immondezzaro, che è anche il Caronte delle anime "inanimate" (interprete Domenico Modugno, già visto in Uccellacci). Questo personaggio traghetta i burattini morti dalla discarica al "mondo reale", come se la morte fosse solo una tappa intermedia, una fase necessaria per accedere alla vera bellezza del creato. Ah, quanto è straziante questa bellezza, Pasolini ci lascia con questa riflessione esistenziale in bocca, come un epitaffio della sua poetica.

Il Colore, la Musica, e l’Addio alla Comicità

In Che cosa sono le nuvole?, Pasolini usa il colore come un linguaggio visivo per accentuare l’alterità dei suoi personaggi. Jago è verde, come se fosse un mostro della falsità, un altro simbolo della sua marionetta non umana. Poi c’è la musica di Modugno, che con una canzone che porta il titolo stesso del film, fa da commento emotivo al viaggio senza senso che i burattini intraprendono.

E alla fine, la trilogia comica di Pasolini si conclude: Uccellacci e uccellini, La terra vista dalla luna, e Che cosa sono le nuvole? sono il culmine di una ricerca estetica e filosofica che, purtroppo, viene interrotta dalla morte di Totò, che non avrà mai il piacere di vedere l’ultimo lavoro di Pasolini. La morte del burattino Jago si sovrappone alla morte di Totò: un simbolo perfetto della fine di un'epoca e di un tipo di comicità che non vedrà mai più la luce.

In Sintesi: La Morte come Poetica, la Vita come Rappresentazione

Quindi, cosa ci lascia Che cosa sono le nuvole?? Un racconto su marionette, pubblici, e divinità, che non può non farci riflettere sulla nostra stessa esistenza. Pasolini ci mette davanti a un mondo dove la morte è la via per la comprensione del significato della vita, e dove la vita stessa è una grande, assurda rappresentazione. Un’opera che si chiude con un senso di perdita, ma anche con una speranza: quella della bellezza, effimera quanto le nuvole, che possiamo solo ammirare prima di svanire.

In poche parole, un film che non è solo un film, ma una riflessione sul teatro, sulla vita, sulla morte, e sulla tragica bellezza di ogni cosa che non può durare. E Pasolini, con il suo acuto disincanto, ci lascia una domanda: che cosa sono le nuvole, se non un altro modo per guardare il cielo e dimenticare la miseria del nostro mondo?

1967 Che cosa sono le nuvole


Totò nelle parole di Pier Paolo Pasolini

Dicono che Totò fosse principe. Una sera che eravamo a cena insieme diede una mancia di ventimila lire a un cameriere. Di solito i principi non danno simili mance, sono molto taccagni. Se Totò era principe, era dunque un principe molto strano. In realtà conoscendolo risultava un piccolo borghese, un uomo di media cultura, con un certo ideale di vita piccolo borghese. Come uomo. Ma come artista, qual è la sua cultura? La sua cultura è la cultura napoletana sottoproletaria, è di lì che viene fuori direttamente. Totò è inconcepibile al di fuori di Napoli e del sottoproletariato napoletano.

Come tale Totò legava perfettamente con il mondo che io ho descritto, in chiave diversa perché il mondo da me descritto era in chiave comica e tragica, mentre Totò ha portato un elemento clownesco, da Pulcinella, però sempre tipico di un certo sottoproletariato che è quello di Napoli. Un comico esiste in quanto fa una specie di cliché di se stesso, egli non può uscire da una certa selezione di sé che egli opera. Nel momento in cui ne uscisse non sarebbe più quella figura, quella silhouette che il pubblico è abituato ad amare e conoscere e con cui ha un rapporto fatto di allusioni e di riferimenti.
Anche Totò ha fatto il cliché di Totò, che è un momento inderogabile per un comico per esistere. Entro i limiti di questo cliché, i poli entro cui un attore si muove sono molto ravvicinati. I poli di Totò sono, da una parte, questo suo fare da Pulcinella, da " marionetta disarticolata "; dall'altra c'è un uomo buono, un napoletano buono starei per dire neorealistico realistico, vero. Ma questi due poli sono estremamente avvicinati, talmente avvicinati da fondersi continuamente. È impensabile un Totò buono, dolce, napoletano, bonario, un po' crepuscolare, al di fuori del suo essere marionetta. È impensabile un Totò marionetta al di fuori del suo essere un buon sottoproletario napoletano.

Il problema del rapporto tra regista e attore è un tasto molto delicato. Non voglio certo pretendere di risolverlo qui. Quando dicevo che ogni comico oggettiva se stesso in una specie di figura assoluta, stilizzata, di cliché di se stesso, volevo dire che l'attore comico crea se stesso, inventa se stesso, quindi compie un'operazione poetica, artistica, di carattere e livello estetico e non semplicemente comunicativo e strumentale. E quindi nel momento in cui Totò ha creato e inventato se stesso ha continuato sempre a inventarsi; la sua opera di inventore continua, non cessa nel momento in cui si inserisce dentro l'invenzione di un altro. Praticamente il Totò in un film mio o in un film di un altro regista è inscindibile dal film; teoricamente invece lo è, si può scindere, e si può trovare dentro la creazione del regista il momento creativo dell'attore. Evidentemente egli è sempre inventore, è sempre un creatore, sempre un artista in qualsiasi film si trovi. Se lo si trova nel film di un autore, è difficile capire qual è il momento suo dell'invenzione, se invece lo si trova in un film mediocre o addirittura in un film brutto, allora invece questa operazione è molto più facile. Si scopre immediatamente il momento creativo di Totò, e lo si gode di più.

Il recupero che viene fatto oggi di Totò mi sembra un recupero puramente casuale, che non ha altro senso che quello di proporre alla volgarità degli anni Settanta la volgarità degli anni Cinquanta. Sono convinto che i film che ha fatto Totò durante gli anni Cinquanta sono tutti orribili, squallidi e volgari. Non per colpa sua, perché in questo caso bisogna ipotizzare una dissociazione assolutamente netta, precisa, drastica, tra autore del film e attore. In quanto attore Totò si è autocreato ed è vissuto autonomamente, ma i film che ha fatto sono oggettivamente brutti. Se ne salvano alcuni, ma non sono quelli del recupero attuale. Si recuperano i brutti film di Totò perché sostanzialmente nulla è cambiato, e anzi probabilmente quanto a volgarità e a sottocultura gli anni Settanta non hanno nulla da invidiare agli anni Cinquanta. In realtà non c'è stato un caso Totò negli anni Cinquanta. Negli anni Cinquanta Totò è stato uno dei tanti prodotti, una delle tante merci che si sono consumati quasi senza accorgersene, non è stato un caso di cultura. Perché negli anni Cinquanta c'erano altri problemi, altri casi molto più interessanti, più vivi, più reali, anche se come tutte le cose umane naturalmente oggi superati. Invece oggi Totò è una scoperta, che ha carattere di una scoperta cosiddetta culturale, mentre secondo me non lo è. Il che significa che negli anni Settanta si sono scatenate delle forze, degli interessi che erano rimasti sopiti allora e che esplodono adesso.

Nel mio film io ho scelto Totò per la sua natura, diciamo così, doppia. Da una parte c’è il sottoproletariato napoletano, e dall’altra c'è il puro e semplice clown, il burattino snodato, l'uomo dei lazzi e degli sberleffi. Queste due caratteristiche insieme mi servivano a formare il mio personaggio. Ed è per questo che l'ho usato. Nel mio film Totò non si presenta come piccolo borghese, ma come proletario o come sottoproletario, cioè come lavoratore. E il suo non accorgersi della storia è il non accorgersi della storia dell'uomo innocente, non del piccolo borghese che non vuole accorgersene per i suoi miseri interessi personali e sociali.

Io uso attori e non attori. Praticamente mi comporto con loro nello stesso modo, li prendo per quello che essi sono, non m'interessa la loro abilità. Se prendo un non attore, lo prendo per quello che lui è. Mettiamo Ninetto Davoli. Non era attore quando ha cominciato a recitare con Totò, e l'ho preso per quello che era, non ne ho fatto un altro personaggio. La stessa cosa ho fatto di Totò. Naturalmente un attore porta in questa operazione la sua coscienza e magari anche la sua opposizione al fatto di essere usato per quel brano di realtà che lui è. Molte volte non lo accetta, allora resiste, ecc. Ma sostanzialmente il risultato espressivo finale non tiene conto degli apporti professionali di un attore, ma di quello che l'attore è, anche in quanto attore. Quando dico che prendo una persona per quello che è intendo soprattutto come uomo. Nel fondo di Totò c'era una dolcezza, un atteggiamento buono e al limite qualunquistico, ma di quel tipico qualunquismo napoletano che non è qualunquismo, che è innocenza, che è distacco dalle cose, che è estrema saggezza, decrepita saggezza. Quindi quando io dico Totò nella sua realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo anche di attore.
La mia ambizione in Uccellacci è stata quella di strappare Totò dal codice, cioè di decodificarlo. Com'era il codice attraverso cui uno poteva interpretare Totò allora? Era il codice del comportamento dell'infimo borghese italiano, della piccola borghesia portata alla sua estrema espressione di volgarità e aggressività, di inerzia e di disinteresse culturale. Totò innocentemente faceva tutto questo facendo parallelamente, attraverso quella dissociazione di cui parlavo prima, un altro personaggio che era al di fuori di tutto questo. Però evidentemente il pubblico lo interpretava attraverso questo codice, allora io per prima cosa ho cercato di passare un colpo di spugna su questo modo di interpretare Totò. E ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo ghignare, tutto il suo fare gli sberleffi alle spalle degli altri. Questo è scomparso completamente dal mio Totò. Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi. Non fa le boccacce dietro a nessuno. Sfotte leggermente qualcuno, ma come un altro potrebbe sfottere lui, perché è nel modo di comportarsi popolare quello di sfottere qualcuno, ma è una sfottitura leggera e mai volgare. Quindi come prima cosa ho cercato di decodificare Totò, e avvicinarlo il più possibile alla sua vera natura, che veniva fuori in quel modo strano che dicevo. Una volta fatto questo, l'ho opposto in quanto protagonista all'intellettuale marxista ma borghese. Ma è un antagonismo che sta nelle cose, non sta in Totò o nel corvo che fa l'intellettuale, sta nelle cose. Che cosa ho opposto? Ho opposto un personaggio innocente fuori dall'interesse politico immediato, cioè fuori dalla storia, a chi invece fa della politica il suo vero e più profondo interesse e vive in quella che lui crede essere la storia. Cioè ho opposto esistenza a cultura, innocenza a storia.

Il rapporto di Totò con il dialetto è molto realistico. Totò ha probabilmente deciso sin dalle origini di non essere un attore dialettale napoletano, come in un certo senso, Eduardo De Filippo e i tipici attori dialettali. Ha voluto essere un attore dialettale, di origine napoletana, ma non strettamente napoletano. La sua lingua è stata una specie di mimesi del dialetto o del modo di parlare del napoletano, del meridionale, emigrato in una città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua burocratica, di lingua militaresca, di modi di dire dei vari gerghi del parlare comune, per esempio quello sportivo, mettiamo. Nell'uso che io ho fatto di Totò ho eliminato tutto questo, ho eliminato le parole dette fra virgolette, le citazioni burocratiche o militaresche o sportive, e gli ho dato un linguaggio che non è un linguaggio puramente dialettale, mettiamo o il napoletano o il romano, ma un misto dei due. È la lingua che può parlare un immigrato meridionale che vive da venti, trent'anni a Roma e quindi ha perso le sue caratteristiche linguistiche mescolandole con le nuove.

Pier Paolo Pasolini, 1973


Nel 1967 il regista pensa ad un film che raccolga una dozzina di episodi comici, ancora indeciso tra un titolo semiotico, Che cos'è il cinema, e il più popolare Smandolinate. Oltre al già girato La Terra vista dalla Luna, ci andrebbero dentro Che cosa sono le nuvole?, Le avventure del Re Magio Randagio e il suo Schiavetto Schiaffo, Mandolini, forse anche il Pinocchio. L’idea è di realizzarli a poco a poco, tra un progetto e l’altro, approfittando di occasioni come Capriccio all’italiana, altro film a episodi prodotto da De Laurentiis: tornato dai sopralluoghi marocchini per l' Edipo Re, nel giro di una settimana Pasolini filma Che cosa sono le nuvole?, un gioiello di poesia e spettacolo che chiude in un cerchio perfetto una carriera irripetibile. Totò ridiventa burattino e torna a quell’Otello già parodiato in A prescindere e prima ancora agli esordi, mutuato da un antico numero del maestro De Marco. Stavolta è Jago, verde d’invidia, e sul palcoscenico incrocia i rappresentanti vecchi e nuovi dell’arte guitta, il glorioso Pisacane già compagno dei De Filippo e poi rilanciato come Capannelle nei Soliti ignoti che interpreta Brabanzio, e l’ultimo fenomeno comico cinematografico, il duo Franchi & Ingrassia, che qui sono Cassio e Roderigo; ma ecco anche il teatro e il cinema contemporanei, con Adriana Asti e Laura Betti che bamboleggiano come Bianca e Desdemona, e naturalmente Ninetto, il cui Otello ha un rapporto filiale con Jago/Totò in una nuova variazione della coppia nata in Uccellacci e uccellini. I protagonisti sono 'burattini in libertà', che seguono le linee di un testo prefissato domandandosene la ragione, interrogandosi sulla verità profonda delle cose. Quando il pubblico inferocito decide di impedire l’assassinio di Desdemona, Jago e Otello vengono assaliti e ‘ammazzati’, l’immondezzaro Domenico Modugno li viene a prendere e li getta in una discarica, dove i due vedono per la prima volta le nuvole e, scoprendo la “straziante meravigliosa bellezza del creato”, credono di essere in paradiso.

Totò biografia: l'ultimo incontro

L’incontro con Pier Paolo Pasolini è tra i più inattesi e sorprendenti dell’intera biografia artistica del grande attore, oltre che uno dei più produttivi sul piano creativo. Quando Pasolini va a casa di Totò per incontrarlo, con un’umiltà che pochi altri avevano avuto prima di lui, è già uno scrittore famoso attorno al quale c’è aria di scandalo. Se ne era andato da Casarsa, dove faceva l’insegnante, quando alla vigilia delle elezioni del ‘48 un ragazzo aveva confessato al parroco di aver avuto rapporti con lui. Venuto a Roma con la madre, aveva fatto la fame prima di cominciare a lavorare a qualche sceneggiatura. Il suo primo grande successo letterario l’aveva ottenuto a metà anni Cinquanta con Ragazzi di vita e Una vita violenta, il dittico delle borgate che aveva raccontato la realtà “diversa” del sottoproletariato romano. Poeta incoronato al Premio Viareggio, dopo Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo aveva pubblicato Poesia in forma di rosa, di cui Totò conosceva a memoria Supplica a mia madre che l’aveva molto colpito. Il passaggio al cinema aveva rivelato un autore di grandi qualità con film notissimi come Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo. Sul settimanale «Vie Nuove» - dove tiene una rubrica di corrispondenza con i lettori in cui, dialogando soprattutto con i giovani, interviene nel dibattito politico e culturale contemporaneo - ha appena pubblicato il soggetto del film che comincerà a girare nell’ottobre e che s’intitolerà Uccellacci e uccellini. Il primo impatto tra il principe e lo scrittore non è esaltante. Pasolini è scortato da Ninetto Davoli, che nel film sarà il figlio di Totò. Ninetto, riccioluto come una pecorella, non fa ancora l’attore, indossa un vecchio paio di jeans sporchi e stinti. Gli sembra un sogno essere lì con Totò, di cui aveva visto tutti i film, stare vicino a un mito. Non appena lo vede sbotta a ridere, nonostante le gomitate di Pier Paolo, che gli dice: «Oh, sta’ bono, carmate»

Si mettono in poltrona per prendere il caffè in attesa che si avvii una discussione che stenta a decollare. Lo scontro tra timidi consente appena di parlare, tra le lunghe pause di imbarazzato silenzio, del progetto del film che dovrebbero cominciare di lì a poco. Quando si congedano, il principe non può trattenere un respiro di sollievo e spruzza dell’insetticida sul posto occupato da Ninetto. I jeans zozzi gli fanno senso, non li sopporta proprio. In realtà non condivide neppure la stessa moda dei jeans che considera un caso di esterofilia. Ma che almeno siano puliti, di bucato. E non può non ricordare che nei tempi eroici degli inizi aveva solo due camicie, non poteva permettersi di più, ma andavano e venivano dalla lavanderia di continuo, come treni su un binario. Sul set le cose andarono molto meglio, soprattutto tra Totò e Ninetto che stavano sempre assieme e si erano molto immedesimati nei ruoli di padre e figlio. Il principe aveva preso in simpatia quel ragazzone allegro che aveva sempre fame e non si sentiva per niente intimidito di fronte a lui. Lo aiutava nel lavoro, porgendogli la battuta, mettendosi d’accordo su come risolvere un’azione, mettendolo a parte dei suoi ricordi e dei suoi umori nelle lunghe pause tra una ripresa e l’altra in cui qualche volta si metteva a cantare o recitava A livella. La disinvoltura di Ninetto favorì anche i rapporti tra Totò e Pier Paolo, che continuavano a darsi del lei e a trattarsi con reciproca deferenza, imprigionati nella loro timidezza. Ma la diffidenza del primo incontro è ormai superata. Il principe ha la massima fiducia nel regista, nella sua preparazione e nella sua cultura, gli si affida completamente da quando ha capito che sta facendo qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno aveva fatto prima con lui. Quando una sera, rincasando stanco e infreddolito dopo una giornata di lavoro, Totò dice che Pierpa’ gli ha fatto ripetere una scena soltanto due volte, si capisce che il sodalizio cinematografico si è trasformato in amicizia. Il film viene girato tra ottobre e dicembre nella campagna vicino a Roma, a Cecafumo, nella borgata di Torre Angela, all’Acqua Santa, all’Alberone, al Tiburtino, alla Pontina, alla Fiumara di Fiumicino. Il principe non si tira indietro e affronta le scene più faticose, cammina nel fango, affonda nella melma i pesanti zoccoli di legno coperto soltanto da un saio di sacco che lascia passare il freddo e il vento da ogni parte.

L’episodio francescano dell’evangelizzazione degli uccelli viene girato nella campagna vicino a Tuscania, tra i boschi, ed è particolarmente faticoso. Ci vogliono ventisette ore di riprese per fare le tre inquadrature di Totò con gli uccelli sugli alberi, sempre con il saio di sacco e i tremendi zoccoli di legno ai piedi. L’unico problema fu il corvo ammaestrato che durante tutta la lavorazione ce l’aveva con gli occhi di Totò e cercava di beccarlo proprio lì. Naturalmente, Totò se ne preoccupava moltissimo perché da anni il suo problema erano proprio gli occhi. Fu necessario mettere del nastro isolante nero sul becco dell’uccello, in modo che, così impastoiato, non tentasse più di beccare nessuno. Naturalmente quand’era lontano o stava a terra il nastro gli veniva tolto, ma Totò, che ci vedeva così poco, non se ne accorgeva e con un po’ di apprensione continuava a chiedere: «Quella bestia, che fa quella bestia?». Il corvo è destinato a fare una brutta fine anche nella storia del film, che comincia con Totò e Ninetto, padre e figlio, che si aggirano per le borgate. Il loro viaggio non ha un vero e proprio inizio né una vera e propria fine. Camminano, parlano tra loro della vita e della morte, si imbattono in una coppia di suicidi e in una ragazza-angelo, senza meravigliarsi di nulla da quegli innocenti che sono. Né li sorprende l’arrivo di un corvo parlante che dice di venire dal paese di Ideologia e di essere figlio del Dubbio e della Coscienza. Il corvo racconta ai due un apologo del Milleduecento, in cui Totò è frate Cicillo e, insieme a frate Ninetto, predica agli uccelli. Solo dopo una lunga, snervante attesa riesce a trovare il modo di parlare ai falchi e a trasmettere loro il messaggio evangelico. Altrettanto lunga e faticosa è l’attesa per evangelizzare i passeri, con cui riesce finalmente a comunicare grazie a una serie di saltelli.

Nonostante la predicazione, alla prima occasione i falchi si buttano sui passeri e li sbranano. Allo sconcerto di fra’ Cicillo e di fra’ Ninetto, San Francesco risponde che il mondo bisogna cambiarlo e li invita a ricominciare tutto daccapo. Totò e Ninetto, ridiventati sottoproletari di oggi, si comportano da falchi sfrattando una povera contadina e da passeri quando si prostrano, in veste di debitori insolventi, davanti a un signore che aizza loro contro i cani, mentre nel salotto i suoi ospiti sfoggiano le raffinatezze culturali degli intellettuali. Totò e Ninetto incrociano per qualche momento i funerali di Togliatti e poi proseguono come prima senza sapere dove stanno andando. Padre e figlio non respingono una prostituta di nome Luna che trovano sul loro cammino. Ammazzano infine il corvo saccente e se lo mangiano prima di continuare il viaggio. Uccellacci e uccellini deve molto della sua straordinaria forza poetica e della sua duratura efficacia alla reinvenzione del personaggio Totò, scelto da Pasolini come espressione tipica del sottoproletariato napoletano, risultato di secoli di miseria e di fame, ma insieme anche puro e semplice clown, il burattino snodabile e disarticolato, l’uomo dei lazzi imprevedibili e degli sberleffi esilaranti. Pasolini non impone un “suo” personaggio all’attore, ma lo sceglie proprio per quello che è, per il suo volto più profondo e segreto, per la realtà che rappresenta come uomo e come attore. Scompaiono la cattiveria, l’aggressività, il gusto persecutorio di prendere in giro, la stessa volgarità (che sono stati per tanto tempo i tratti più superficiali e riconoscibili del personaggio) per ritrovare al fondo di Totò una inesauribile riserva di dolcezza, di innocenza, di distacco dalle cose, di saggezza.

Il Totò di Pasolini è tenero e indifeso, dolcissimo e innocente. Se prende in giro qualcuno lo fa in modo garbato e mai volgare, senza aggressività. Anche i rapporti tra Totò e Ninetto sono privi di ogni conflitto generazionale, di ogni forma di rivalità. Pasolini li vede come campioni di umanità, vecchi e nuovi al tempo stesso, due personaggi che rappresentano la massa innocente degli italiani estranei alle trasformazioni della storia. Nonostante un ultimo tentativo di reinserirlo nel montaggio del film, alla fine viene eliminato il breve episodio del domatore e dell’aquila che Pasolini aveva girato con Totò, nei panni di Monsieur Courneau, Ninetto e gli animali del circo - che vengono curiosamente chiamati la Signora Aquila, Monsieur lo Scimpanzé del Ruanda, il Leone d’Algeria, il Cammello del Ghana, la Signora Iena del Sahara - perché considerato estraneo alla struttura favolistica che il film aveva progressivamente preso. Ma il frammento inedito di circa otto minuti - intervallato da alcuni “pensieri” di Pascal - è stato conservato dal Fondo Pasolini e costituisce una ulteriore occasione per vedere Totò alle prese con l’inedito personaggio del domatore che sfoggia una bellissima divisa con alamari e mostrine. Il film esce nel maggio 1966 e suscita sin dall’inizio discussioni e polemiche, anche se è quasi unanime il riconoscimento dei grandi risultati raggiunti da Totò. Quando nello stesso mese il film viene presentato al Festival di Cannes, le discussioni riprendono sulla Croisette ma il film ottiene una menzione speciale proprio per l’interpretazione di Totò.

Nel novembre dello stesso anno Pasolini, che sta già lavorando al suo prossimo film ispirato all’Edipo re, gira con Totò il cortometraggio La Terra vista dalla Luna, mentre tra marzo e aprile dell’anno successivo, appena tornato dal viaggio in Marocco dove era stato per i sopralluoghi del film, rincontra il principe per un secondo cortometraggio intitolato Che cosa sono le nuvole? Il primo corto - che sembra riprendere il clima surreale e fiabesco di Uccellacci e uccellini per raccontare il viaggio di Ninertto e di Totò alla ricerca di una moglie - è girato come una comica del cinema muto affidandosi alla forza dell’immagine. Il regista non ha scritto una vera e propria sceneggiatura ma ha disegnato piuttosto un curioso storyboard fatto di vignette che sembrano fumetti, nei quali campeggia il profilo allungato e il mento appuntito di Totò.

Il secondo cortometraggio prosegue sulla stessa linea comica e picaresca fino a diventare, sia pure nelle forme della favola, una poetica riflessione sul senso dell’esistenza, sul rapporto tra apparenza e realtà, tra l’azione e il pensiero, tra la vita e la morte. Sul rozzo palcoscenico di un teatrino di periferia un misterioso burattinaio fa muovere le marionette tra cui ci sono Jago e Otello, Desdemona, Cassio e tanti altri. Jago e Otello, e cioè Totò e Ninetto, sono scontenti dei loro ruoli perché, buoni e gentili, si vedono costretti ad essere malvagi e brutali. Fatti a pezzi dal pubblico contrariato, faranno l’ultimo viaggio nel camion della spazzatura che li porta in una discarica, in cui restano con gli occhi aperti a fissare il cielo e le nuvole.



Così la stampa dell'epoca

Pier Paolo Pasolini si trova attualmente in Marocco, per girare il film «Edipo re». Siamo stati noi a dargli la notizia della scomparsa di Totò. Erano le 19.30 quando lo abbiamo raggiunto, telefonicamente, a Quar Zazate. Sconvolto. Pasolini ci ha donato queste poche righe:

Spero che il lettore di Paese Sera possa immaginare lo stato d'animo in cui io mi trovo. E' assurdo che lo riesca a dire qualcosa di sensato. In questi ultimi due anni ho lavorato quasi ininterrottamente con lui; l'ultima volta l'ho visto, felice, in una serata in cui lo premiavano.

E' stato sottratto alla nostra vita, come se fosse stato rubato. Alla mia, come una parte di me stesso, quando dovevamo lavorare ancora insieme quattro o cinque episodi che dovevano formare un intero film.

lo ho già immaginato a una a una tutte le facce che egli avrebbe fatto nelle vesti del Re Mago randagio, un Re Mago arrivato in ritardo al presepio per le mille peripezie e le mille buone azioni compiute e, quando arriva davanti al presepio, ormai vuoto, muore di stenti e di stanchezza e un angelo lo prende per mano e lo porta in paradiso ballando al suono di una musica di Mozart.

Pier Paolo Pasolini «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967


Totò, Pasolini e la malacritica

Vogliamo dire tutto il male possibile di Totò? Va bene, chi ce l'ha sulla punta della lingua si accomodi, a patto che riesca ad essere sincero e profondo quasi quanto lo scrittore napoletano Giuseppe Marotta (che negli anni '50 fu critico cinematografico di straordinarie sensibilità e originalità), di cui pubblichiamo un breve e luminoso «controritratto» a Totò che risale a più di vent'anni fa. Non c'è niente di nuovo, dunque, nell'affermare che Totò fu un dissoluto amministratore del suo ingente talento. Tuttavia, la più recente riscoperta del geniale comico partenopeo scatena naturalmente, forse in pari misura, entusiasmi e dissensi.

Alludiamo, in particolare, a un paio di lettere giunte all’ Unità, che segnalano un «cedimento culturale» nell'ammirazione continua di Totò, vista in chiave populistico-consumistica da lettori che lanciano assilli di portata universale: insomma, che cosa ci venite a dire, adesso, che non dovevamo leggere Hemingway bensì vedere i film di Totò? Si potrebbe osservare che, se noi comunisti ci fossimo posti sempre dinanzi ad alternative del genere, staremmo ancora complottando in qualche scantinato. Ma non serve neanche sostenere, in contrasto, che Totò sarebbe un eroe nazional-popolare in senso gramsciano, perché i due ragionamenti burocratici, entrambi monchi, si annullano a vicenda. Occorre, piuttosto, rilanciare continuamente, di Totò in Totò, una visione laica della cultura come pura esperienza da trasmettere, senza pregiudizi, affinché il gusto (che antica parola, eh?) nasca e si consolidi liberamente.

Allora, così si finisce col capire perché le giovani generazioni stroncate dalla i livida ideologia sono corse spontaneamente incontro a questa vecchia maschera della commedia dell'arte, e al contempo si chiariscono nuovamente te altrettanto istintive ostilità di una Italia nordista, rigorosamente colta e di sinistra, che purtroppo non riesce ancora a considerare la napoletanità meno esotica della negritudine, se non nei termini previsti e imprevisti dalla Cassa del Mezzogiorno. Si giunge perciò al paradosso di far propria la iattura esistenziale di un povero cristo della Louisiana senza riuscire ad afferrare l'anima nera di Totò.

Evitare, è soprattutto il concetto di «riscoperta» che va demistificato, poiché Totò mori in stato di grazia artistica (dopo l'incontro con Pasolini) e in umana riconoscenza (la folla sterminata che accompagnò la sua bara adornata di bombetta non era certo una Italietta meschina e qualunquista, che quella, ai tempi, usciva di casa solo per andare a votare scudo crociato), quindi ci rimase ben poca gloria per gli archeologi. Totò è di tutti, lo è sempre stato, e beati i poveri di spirito.

L'immagine dei funerali è uno dei tanti elementi chiave per capire Totò contenuti nelle due ultime, indispensabili puntate della trasmissione televisiva Pianeta Totò in onda oggi e domani sulla Rete due alle ore 18,50. Perdonateci l'ingenuità, ma solo adesso abbiamo còlto la suprema ironia della poesia ’A livella (Totò la recita alla «guardiamoci nelle palle degli occhi», concludendo con un impertinente «Ostrega!», che vede accomunati nell'eleganza della morte un marchese e un netturbino, ossia il Totò vanitoso a caccia di titoli nobiliari e il Totò plebeo che lo vede dall'alto in basso.»

Ma il grande protagonista, umile tra le quinte, di questo finale degno di Totò è, come avevamo accennato, Pier Paolo Pasolini, che lo volle simbolico interprete di Ucccllacci e uccellini (il film «ideocomico» prediletto dal poeta, scrittore e regista tragicamente scomparso), e di due episodi girati per De Laurentiis, vale a dire La terra vista dalla Luna (da Le streghe, 1966) e Che cosa sono le nuvole (da Capriccio all'italiana, 1967). Uccellacci e uccellini lo conoscete già, gli altri due vi stupiranno certamente perché contengono tutto il Pasolini fiabesco che verrà negli anni 70, con la «trilogia della vita» (Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte).

Pasolini, che odiava, in arte, tutto ciò che avesse puzzo di naturalismo, mostrò Totò alla stregua di un «materiale espressivo» dirompente, e mai rapporto fu altrettanto generoso e paritario fra questo regista e un attore. Totò, diceva Pasolini, possiede la volgarità, l'ingenuità, la violenza, la felicità di una verità poetica. Tutti coloro che lo hanno, per così dire, ultimamente riscoperto, sono infatti attratti dal fascino di questa verità. Peccato che Marotta, questo Totò, non abbia potuto conoscerlo perché, disgraziato, lo ha preceduto nel commiato. Avrebbe capito, tutt'un tratto, che Totò esisteva per essere e non per interpretare.

David Grieco, «Corriere della Sera», 15 gennaio 1981


Riferimenti e bibliografie:

  • "Il principe Totò" (Orio Caldiron) - Gremese editore, 2002
  • Nino Longobardi, «Il Messaggero», 6 gennaio 1974
  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977
  • "Totò. Manuale dell'attor comico", Dario Fo, Aleph, Torino, 1991
  • http://pasolinipuntonet.blogspot.it
  • Pierpaolo Pasolini a Livio Garzanti, gennaio 1967, in P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1986
  • Pierpaolo Pasolini, Lettera aperta, in Occhio Critico, Anno I n. 2, nov. 1966
  • Tracce e linee guida per la realizzazione del presente articolo, sono tratte dal blog dedicato a Pierpaolo Pasolini "Pierpaolo Pasolini - Le pagine corsare" - Autrice e curatrice: Angela Molteni - Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi. Nel blog, negli archivi e nei sommari si possono reperire gli ipertesti, gli interventi, le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
  • Pier Paolo Pasolini, «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967
  • David Grieco, «Corriere della Sera», 15 gennaio 1981