Pier Paolo Pasolini: l'incontro con Totò
Per un cinema ideologico e surreale
Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre a livello della realtà. E’ una specie di ideologia personale, di amore nel vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà
Amato dalla gente, non dagli intellettuali. Con Pasolini le scuse dei critici...
Amatissimo dal pubblico, Totò era invece ignorato e sminuito dai critici, che lo consideravano troppo rozzo e non abbastanza impegnato. Il comico ne soffriva: «Solo al mio funerale scopriranno che sono un grande attore», diceva. E benché avesse lavorato con registi di valore come Mario Monicelli, Roberto Rossellini, Mauro Bolognini e Alberto Lattuada, cercava la consacrazione nel cinema che conta. Questa arrivò con Pier Paolo Pasolini, che lo volle nel film Uccellacci e uccellini, una storia surreale ambientata nella periferia romana, e in due episodi, da lui diretti, inseriti in altri due film: Le streghe e Capriccio all’italiana. In quest’ultimo, il più riuscito, Totò interpreta Jago in un Otello messo in scena in un teatro di burattini. Nonostante le personalità agli antipodi, i due si intesero bene e la loro collaborazione fu interrotta solo dalla morte di Totò, nel 1967.
Pier Paolo Pasolini arriva a Roma agli inizi degli anni ’50 dopo aver vissuto varie vicissitudini a Casarsa, luogo in cui fino a quel momento aveva lavorato come poeta prima e pittore poi. La sua è stata una vera e propria fuga dai problemi familiari, economici e di emarginazione legati alla sua omosessualità. A Roma entra in contatto con l’ambiente del cinema grazie a Mario Soldati. Dapprima lavora come attore-comparsa, poi come soggettista e sceneggiatore. Completamente impreparato tecnicamente, nel 1960 matura la decisione di diventare egli stesso regista: "Se mi sono deciso a fare dei film - afferma - è perché ho voluto farli così esattamente come scrivo delle poesie, come scrivo i romanzi". Il suo bisogno nasce principalmente dall’intenzione di voler parlare in un codice diverso: parte dalla consapevolezza della grande crisi storica, sociale e culturale del nostro paese e trova nel codice audiovisivo del cinema il mezzo migliore per poter esprimere poeticamente i suoi temi fondamentali.
Per Pasolini il cinema è strettamente legato alla realtà, ma ciò non deve essere inteso in senso naturalistico. Il suo cinema ha connivenze con la poesia e l’astrazione tanto che lo definirà "cinema di Poesia". Egli, infatti, ci propone attraverso una "sistemazione teorica subspecie semiologica del nuovo cinema in Italia" , una distinzione sostanziale tra "cinema di prosa" che si identifica nel cinema classico, e "cinema di poesia" in cui l’autore-regista svolge un ruolo predominante, esibendo i propri mezzi stilistici. Alla luce di tutto questo, definisce il cinema "lingua scritta dell’azione" poiché il regista a differenza dello scrittore non ha un dizionario al quale attingere e inevitabilmente per poter comunicare dovrà cogliere i segni della realtà che lo circonda. Ma c’è di più: noi tutti viviamo immersi in un mondo in cui vi sono immagini significanti, quelle che Pasolini definisce insegni, e compito del regista, quindi, è quello di cogliere i suoi impegni dalla realtà. Interessante è, in quest’ottica, andare ad analizzare i criteri di scelta degli attori del regista bolognese. "Io ho una specie di idiosincrasia per gli attori professionisti. Non ho, però, sia ben chiaro, una prevenzione totale, e ciò perché non voglio sottoporre la mia attività a delle regole precise […] La mia idiosincrasia dipende dal fatto che un attore professionista è un’altra coscienza che si aggiunge alla mia".
Ho in mente una dozzina di episodi comici, che vorrei girare ancora con Totò e Ninetto, ma forse non potrò farlo per i troppi impegni.
Un discorso a parte va certamente fatto per la scelta di Totò in Uccellacci e uccellini (1965). Lo stesso Pasolini afferma: "La mia ambizione era proprio quella di strappare Totò al codice, cioè decodificarlo. Qual era il codice attraverso cui si poteva interpretare Totò, allora? Era il codice del comportamento dell’infimo borghese italiano, dell’infima borghesia portata alle sue estreme espressioni di volgarità e aggressività [...] Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi, non fa le boccacce dietro a nessuno".
Pasolini realizza una vera e propria trasformazione di Totò-attore non senza polemiche. Totò, come uomo, risultava un piccolo borghese, ma come artista era inscindibile dalla cultura napoletana sottoproletaria. Egli portava in scena una sorta di cliché di se stesso, il clown, la maschera. Ed è stata proprio questa doppia natura di sottoproletario e insieme semplice clown ad avere spinto Pasolini alla scelta di Totò. Coerente alla sua visione del cinema, il regista ha scelto Totò per come esattamente è, alla stessa maniera di come avrebbe preso un non professionista (elemento che è possibile rilevare nella scelta di Ninetto Davoli). "Quindi quando dico Totò nella sua realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo anche di attore". Totò attraverso la collaborazione con Pasolini, dimostra di essere un grande attore: viene chiamato a un ruolo che riesce a svolgere con grande maestria; la stima reciproca che si stabilisce tra attore e regista, farà si che dopo Uccellacci e uccellini del 1965, Totò torni a lavorare con Pasolini anche in altri due episodi, La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole? rispettivamente relativi ai film Le streghe e Capriccio all’italiana, nei quali interpreterà, ancora una volta, ruoli impegnativi e problematici.
È Pasolini che chiude il sipario su Totò; è Pasolini che prepara a Totò una imponente, fastosa, «uscita» e ne celebra, riconoscendola, la grandezza.
Molte qualità, molti valori si possono isolare e descrivere in quei film, ma uno, per me il maggiore, è quello che si impone: l’amore, il rispetto che si coglie nell’occhio che sta dietro la macchina da presa e guarda, con misura delicatissima, il vecchio attore che non risparmia l’ultima sua forza (Uccellacci e uccellini).
Ma c’è qualcos’altro che mi colpisce e, fuor di retorica, mi commuove. Qualcosa che non so quanto sia stato notato. Pasolini restituisce a Totò, in maniera indiretta e ne La terra vista dalla luna in maniera diretta, il suo ruolo di «mamo», che è il ruolo degli esordi, degli inizi, e che qui, al tramonto, acquista una purezza, una altezza, una malinconia che probabilmente non è mai riuscito ad esprimere altrove.
E' stata l’intuizione della natura vera dell’arte di Totò e una sensibilità assai acuta che forse hanno spinto Pasolini a chiudere un cerchio nel quale il lavoro dell’attore sembra, alla fine, esso stesso farsi arte o uscire dall’arte a cui per una vita intera l’attore ha prestato i suoi strumenti.
Dario Fo
Uccellacci e uccellini (1965)
Subito dopo il gran successo di pubblico su scala internazionale de Il Vangelo secondo Matteo, nell’aprile-maggio del 1964 Pasolini ritorna all’opera pubblicando, sul settimanale "Vie Nuove", un soggetto cinematografico strutturato in tre principali episodi, intitolati: L’Aigle, Faucons et Moineaux e Le Corbeau. Qui collegata la pagina di "pasolini.net" in cui è pubblicato il testo originale di Pier Paolo Pasolini ("Vie Nuove", 1965, numeri 17 del 29 aprile, 18 del 6 maggio e 19 del 13 maggio. Il soggetto, se pur rivisto in alcuni punti, rappresenta un'indicazione abbastanza fedele di quella che sarà la struttura definitiva del film. In principio Pasolini aveva pensato Uccellacci e uccellini in tre episodi, ma lo realizzerà come unico film con «dentro» un altro film). Si tratta di tre favole, ognuna con un tema diverso.
L’Aigle racconta di un domatore francese (Monsieur Courneau) che cerca di ammaestrare un’aquila senza riuscirvi: la chiave di lettura di tale episodio è da ricercare nelle critiche che precedentemente erano state mosse, al Vangelo, da Michel Cournot, intellettuale francese e critico della Nouvelle Vague. Nell’episodio Cournot è il domatore esasperato e, l’aquila è il "Terzo mondo", l’irrazionalità che non si lascia "civilizzare" dall’intellettuale laico, convinto che tutto ciò che è difforme debba essere assimilato in relazione ai propri parametri.
In L’Aigle, Pasolini mette a confronto la razionalità e la magia, elementi che si traducono nell’incontro-scontro tra la cultura moderna e la cultura "preistorica" del Terzo mondo. Come afferma Serafino Murri, Pasolini in questo periodo "sembra essere mosso da un terzomondismo un po’ guevariano un po’ sartiano".
Faucons et Moineaux parla di due fraticelli impegnati, su ordine di S. Francesco, a convertire falchi e passeretti alla parola di Dio; riusciti in un primo momento nell’intento rimangono sbalorditi di come poi, nonostante tutto, i falchi continuino a predare i passeri e come nulla possano fare per evitarlo.
Le Corbeau racconta, invece, le vicissitudini di padre e figlio che camminano verso non si sa dove accompagnati da un corvo filo-marxista molto loquace.
Pasolini realizza tutti e tre gli episodi succitati, ma, in sede di montaggio, decide di eliminare il primo e di incorporare il secondo nel terzo come un racconto proferito durante il viaggio dal Corvo. La presenza di Totò ha grande rilevanza nell’intero film: da Pasolini viene utilizzato nei tre episodi come domatore-frate anziano e padre viandante.
Nei primi giorni di lavorazione di "Uccellacci" dilagava una perplessità reciproca tra Totò e Pasolini. Da un lato Totò, a riprese del film inoltrate, non riusciva a capire bene quali fossero le reali intenzioni dell’autore, dall’ altro Pasolini faceva fatica a contenere la personalità dell’attore dal quale non riceveva quel totale abbandono che richiedeva. La stima reciproca che legava i due fece sì che i lavori proseguissero senza intoppi: la situazione migliorò nel corso delle riprese e il film fu terminato.
Innocenti Totò e Innocenti Ninetto, padre e figlio, camminano lungo una desolata e anonima periferia. Entrano nel baretto di una stazione delle corriere. Totò beve qualcosa, Ninetto si scatena con alcuni ragazzi in un ballo moderno suonato dal juke-box.
Pasolini intende fare un film comico con un personaggio a sfondo comico, pur impegnato e significativo, per far capire qualche cosa. E ha creduto di scegliere me. Mi ha spiegato poco, mi ha spiegato volta per volta, cioè: «Io preferirei che tu facessi cosi, cosi, cosi». Ma non so che cosa ci sia prima, e dopo non so cosa viene. Cerco di seguirlo, e in un’intervista mi ha chiamato... ha detto che sono come uno stradivario... Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una gran fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione.
Se ne vanno. Davanti ad una casa è radunata una piccola folla dall’aria mesta. Totò si ferma incuriosito a guardare. Ninetto va ad incontrare una ragazza, che trova vestita da angelo, mentre si sta preparando a una recita religiosa. Poi torna dal padre, insieme al quale assiste ad uno spettacolo terribile: vengono trasportati in quel momento fuori dalla casa i cadaveri di due coniugi, suicidi, si sussurra nella folla, per disperazione. Camminando su un’autostrada in costruzione, padre e figlio incontrano un corvo parlante, che chiede se può accompagnarli nel loro viaggio.
Totò e Ninetto accettano la compagnia del corvo, che da questo momento comincia ad assillarli di domande. L’istinto pedagogico spinge il corvo a raccontare un apologo cristiano-marxista: la storia di uccellacci e uccellini.
Secolo XIII. Campagna umbra. Totò e Ninetto sono frate Ciccillo e frate Ninetto. S. Francesco li incarica di evangelizzare gli uccelli. I due frati si incamminano e trovano per primi i falchi.Frate Ciccillo dopo vani tentativi, riesce a trovare finalmente il modo di comunicare con loro. I falchi lo capiscono. Poi tocca ai passeri. Saltellando nel loro linguaggio, Frate Ciccillo predica la pace e l’amore. La missione è compiuta ma all’improvviso un falco assale e uccide un passero sotto gli occhi increduli dei due fraticelli. Tornano da S. Francesco sconfitti e delusi ma il Santo, dopo averli incoraggiati, li invita a ritentare e a riprendere il cammino. Totò e Ninetto continuano a camminare e incontrano nuove avventure. Trasgrediscono le leggi della proprietà privata, assistono allo spettacolo di una troupe di saltimbanchi e, arrivati davanti a un povero casolare, Totò, per nulla impietosito dallo spettacolo di miseria che gli si presenta davanti, minaccia di sfratto i suoi poveri inquilini che da tempo non pagano l’affitto. Subito dopo Totò e Ninetto giungono in una lussuosa villa per un colloquio con un ingegnere col quale i due hanno dei debiti. Anche qui l’ingegnere non si fa impietosire e gli aizza i cani contro. Il corvo, assistendo a tutti questi avvenimenti, puntualmente li commenta, con il suo consueto e tedioso moralismo marxista. Totò e Ninetto prendono l’autobus e vanno a Roma dove assistono ai solenni funerali di Togliatti. Lungo la strada incontrano una prostituta, Luna, con la quale fanno l’amore a turno in un campo. Il corvo continua a parlare mentre Totò e Ninetto, stufi e affamati, lo ammazzano e lo mangiano. Riprendono il cammino. Si allontanano di spalle lungo una strada bianca come nei finali delle comiche di Charlot. Uccellacci e uccellini s’inserisce in una fase dell’ attività artistica di Pasolini che potremmo definire del "cinema ideologico", di cui avevamo avuto già prova ne Il Vangelo. Ma se in quello, l’attenzione era concentrata sull’ideologia cristiana (predicatoria oseremmo dire), Uccellacci è permeato di ideologia politica, legata al malessere di Pasolini per una società destinata alla deriva, anche per la crisi del Partito comunista italiano. Tale concezione di cinema s’insinua in un periodo storico (la metà degli anni ’60) che vede la nascita dei cosiddetti "film della crisi" legati alla scomparsa di Togliatti. Il "cinema ideologico" di Pasolini fa da ponte tra la fase del "cinema di borgata" (che comprende Accattone, Mamma Roma e La ricotta) e la fase del "cinema del mito"(che va da Edipo re a Medea). Nel film si avverte il profondo senso di disillusione che il regista prova nei confronti dei partiti marxisti, italiani e non. Infatti, come egli stesso ha affermato, non intende una crisi del marxismo, ma proprio una crisi dei partiti marxisti. Questa svolta ideologico-politica raggiunge il suo punto di maggiore espressione con la pubblicazione della raccolta Poesia in forma di rosa nella quale possiamo leggere affermazioni come: "La rivoluzione non è più che un sentimento". Per Pasolini oramai sono passati i tempi in cui era possibile sperare in una rivoluzione e, "l’entusiasmo civile per la resistenza antifascista è oramai solo un ricordo". La morte di tali illusioni coincide, nel film, con i funerali di Palmiro Togliatti: la morte di quella ideologia che il leader del Pci rappresentava. Pasolini monta materiale di repertorio, proponendo quindi i volti realmente disperati di chi assistette alle cerimonie. Senza dubbio, l’autore riesce a connotare di tragicità tale sequenza rendendola la parte più significativa e triste dell’intero film.
E ricostruisce anche particolari significativi da una grande tela di Renato Guttuso (1972, 340x440, MAMbo - Museo di Arte Moderna di Bologna. Il dipinto del maestro siciliano ritrae il corteo che nel 1964 partecipò a Roma ai funerali di Palmiro Togliatti, segretario e leader del Partito comunista Italiano. Al rosso acceso delle bandiere si contrappongono i grigi e i bianchi dei volti dei partecipanti, anacronisticamente mescolati nello stesso evento, quasi a significare che gli ideali sopravvivono agli uomini). Di certo il pessimismo pasoliniano (perché è di pessimismo che si deve parlare), non è un "pessimismo cosmico leopardiano": spera, in cuor suo, che si possa prima o poi attuare quella "rivoluzione delle coscienze" che permetterebbe di capovolgere la situazione di impasse nella quale la società del periodo pare essersi adagiata.
Alla luce di tutto ciò, quindi, il regista arriva a Uccellacci e uccellini al termine di un processo ideologico individuale che lo vede ormai quasi rassegnato. Egli non può fare altro che constatare che la società che lo circonda è irrimediabilmente destinata ad assecondare il conformismo. Tema centrale quindi è la denuncia alla dilagante omologazione a cui si sta assistendo che produce in Pasolini non solo una crisi ideologica ma anche una crisi espressiva. Ed è proprio su questo che si avvertono le principali conseguenze: per comunicare decide di scegliere la favola, "che è astorica per definizione", quasi a volersi astrarre dal contesto, allontanare dalla realtà.
Pasolini cerca, attraverso il cinema di utilizzare un linguaggio (cinema che egli stesso definirà "linguaggio della realtà"), più legato all’elemento visivo, più metaforico: che inevitabilmente paga dazio alla comprensibilità, ma che aggira l’omologante lingua della borghesia. Ed è per questo che Uccellacci di primo acchito sembra di difficile soluzione, così pregno di metafore, sostrati ideologici e sottili ironie.
I protagonisti di questa "incomunicabilità" sono i protagonisti del film: Totò, Ninetto e il Corvo. E’ facile rendersi conto di come in realtà non venga mai a crearsi un dialogo significativo tra Totò e Ninetto da una parte, e il Corvo dall’altra: sembrano parlare lingue diverse. Totò e Ninetto sono i rappresentanti del proletariato, estranei alla storia e, "Innocenti di cognome e di fatto, camminano ignari verso un avvenire che la dottrina comunista non è più in grado di delineare".
Ma i due protagonisti non hanno solo connotazioni negative, ma portano con sé un bagaglio di speranza: "l’irrefrenabile vitalità di Totò e Ninetto è la sola via possibile per uscire dallo stato d’inerzia causato dalla predicazione ideologica affinché, nuovamente, fioriscano 'i garofani rossi della speranza'". I due hanno fisionomie opposte e al tempo stesso complementari, rimandano a due differenti modi di essere e a due generazioni: il giovane e il vecchio, il romano e il napoletano, il cittadino e il campagnolo. Pasolini decide di utilizzare Totò per cercare di sfruttarne il codice gestuale tipico della maschera comica: è evidente, in tal senso, l’intenzione del regista di connotare di allegria e spensieratezza la figura del sottoproletario.
Il Corvo, invece, "viene da lontano, dal paese Ideologia, abitante nella Città del futuro, in via Carlo Marx, al numero 70 volte 7, figlio del sig. Dubbio e della sig.ra Coscienza" . Ben presto ci rendiamo conto di come il Corvo possa essere considerato il protagonista implicito del film. E’ l’intellettuale marxista, l’incarnazione dell’ideologia, che sta attraversando una profonda crisi: una crisi che sta portando i sostenitori di tali ideologie a ripiegare in comportamenti sempre meno distinguibili da quelli dell’"infima borghesia" a riprova della dilagante omologazione alla quale si sta assistendo. E’ possibile identificare nelle spoglie del Corvo lo stesso Pasolini e la sua ideologia, anche se egli cercò, già in fase di realizzazione, di prenderne le distanze: "Dovevo staccare il marxismo del Corvo dal mio, […] doveva essere cosciente della crisi del marxismo ma con delle ragioni che non fossero strettamente le mie". Il Corvo è "cosciente" della sua fine e cerca di lanciare spunti per un ideologia che rinasca dalla fine del pensiero marxista ed è convinto al tempo stesso della sua "sconfitta pedagogica" nei confronti di Totò e Ninetto (elemento che ritroviamo in chiave metaforica anche nella sconfitta di frate Ciccillo nel suo tentativo di ammaestrare i falchi e i passeretti).
Il "racconto del Corvo", che è possibile considerare come il quinto mediometraggio di Pasolini, può essere interpretato, in chiave metaforica, come l’analisi del tema della lotta di classe, molto caro all’autore. I falchi e i passeretti rappresentano gli sfruttatori e gli sfruttati: ma la connotazione favolistica del film porta, inevitabilmente a una semplificazione binaria del mondo con la distinzione dell’esistenza nel creato di buoni e cattivi, oppressori e oppressi. Ma la denuncia vera e propria nei confronti della società classista che va sviluppandosi, Pasolini la realizza in alcune sequenze centrali del film: Totò dapprima è oppressore nei confronti di poveri contadini, impossibilitati a pagare l’affitto e costretti a tenere a letto i propri figli poiché non possono dar loro da mangiare e, successivamente, è oppresso dai debiti con l’ingegnere e dai cani feroci dello stesso.
Il regista inserisce un nuovo concetto della lotta di classe che abbraccia non solo la dottrina marxista ma anche l’induismo e il cattolicesimo. Nell’episodio del proprietario pestato da Totò e Ninetto, Pasolini, attraverso le parole del Corvo ribadisce il dogma dell’abolizione della proprietà privata senza l’utilizzo della violenza: "Bisogna sempre vincere con la non violenza, come Gandhi!, conciliando la rivoluzione comunista e il Vangelo".
Guardando il film in un’altra ottica, possiamo notare come si vengano a delineare due itinerari: quelli dei bisogni corporei e quelli degli aspetti fisici dell’esistenza. Il primo è un percorso che passa dalle feci alla fame e al sesso, il secondo va dalla nascita alla miseria alla morte. In Uccellacci l’elemento della fisicità è ridondante, si esprime attraverso varie forme: dai dolori al ventre che spingono Totò e Ninetto a defecare, al parto "in diretta" dell’attrice durante lo spettacolo, all’aggressione subita dai pastori tedeschi, fino ad arrivare ai rapporti dei protagonisti con una prostituta e all’uccisione del Corvo. "All’astratto simbolismo delle parole del Corvo influenzate dall’ideologia si contrappone l’impellente materialità del corpo proletario schiavo delle sue necessità".
Ma il viaggio dei protagonisti incrocia tantissimi altri elementi di forza metaforica: Totò e Ninetto percorrono una strada che simboleggia la loro vita, senza uno scopo, senza una destinazione. Il contesto che li circonda è semidistrutto: vi regnano le macerie, createsi in seguito al crollo delle ideologie, che non lasciano speranze di ricostruzione e di rinascita. Il cielo di tanto in tanto è solcato da aerei rumorosissimi a riprova del crescente e "omologante" progresso al quale si sta assistendo e, gli autobus vengono continuamente persi a simboleggiare l’ormai svanita possibilità di rivoluzione. Lungo le strade sterrate ritroviamo segnali impossibili (come Istanbul Km. 4.253 o Cuba Km. 13.257) attraverso i quali Pasolini fa sentire la presenza del Terzo Mondo e vie improbabili (come via Benito La lacrima Disoccupato o via Lillo Strappalenzuola scappato di casa a 12 anni) "come lapidi alla memoria di personaggi che non ci sono più".
Con Uccellacci e uccellini si chiude, per Pasolini, il sogno di poter parlare a tutti: adotta un linguaggio metaforico e al tempo stesso ironico, un’ironia che s’insinua nella narrazione stessa. Stilisticamente, il film rappresenta una vera e propria svolta nel cinema pasoliniano che fino al Vangelo era stato dominato da una mescolanza di elementi a volte anche contrastanti. "In Uccellacci pervade l’ideologia, scompare il vezzo/vizio/virtù", che lascia spazio ad una surreale comicità.
In molti tratti del film la lingua e lo stile che vengono adottati sono quelli del cinema muto classico: ricordiamo la lotta tra Totò e Ninetto e i contadini del campo o, ancora, la battaglia a torte in faccia. Per Pasolini la vera comicità è quella del cinema muto: quella di Chaplin e di Keaton. Totò gli permette, in questo senso, di recuperare tale comicità, essendo per lo stesso regista "il più vigoroso tra i mimi comici".
Ma Uccellacci ha anche connnivenze con "Francesco Giullare di Dio" di Rossellini nonostante Pasolini constatasse che il neorealismo non doveva essere considerato come una "rigenerazione" del cinema ma come una vera e propria "crisi vitale".
Pasolini definirà questo suo nuovo modo di fare cinema "cinema d’èlite": egli si rivolge non alla tipica èlite d’intellettuali ma ad un’èlite che è la massa che necessita di essere disomologata.
Con Uccellacci prende avvio una proficua collaborazione del regista con Ennio Morricone, il quale musicò buona parte del film e collaborò per molti altri film successivi. Oltre a realizzare un blues rielaborò due opere mozartiane tratte dal "Flauto Magico" (duetto Papageno-Pamina e Aria di Sarastro) e la canzone partigiana di origine russa, Fischia il vento.
L’opera di Pasolini ebbe parecchi problemi dal punto di vista giudiziario. La censura ne vietò la visione ai minori di diciotto anni (solo in seguito si ebbe una riduzione del decreto ai minori di quattordici). Ma la critica più veemente venne proprio da quella sinistra italiana che non tollerò l’atteggiamento disfattista dell’autore e che portò a una completa rottura tra lo stesso Pasolini e il Pci.
Quasi contemporaneamente, però, il film fu presentato a Cannes dove fu accolto con trionfo e dove Totò ricevette una menzione speciale per la sua interpretazione. Da molti definito film unico della cinematografia italiana, Uccellacci e uccellini se pecca di qualcosa pecca di complessità ideologica, come afferma lo stesso Pasolini: "L’atroce amarezza dell’ideologia sottostante al film […] ha finito forse col prevalere e, evidentemente […] tale amarezza mi ha impedito di vedere le cose e gli uomini con lo sguardo allegro e leggero del perdono".
[...] E’ pericoloso, con Totò, anche l’andare a ritroso. Bisogna andarci piano Sarei tentato di scrivere che Totò attingeva la sua arte da un naturalismo di tipo onomatopeico. Ma, poi? Totò sghignazzerebbe anche di me. La piena comprensione del personaggio ancora, misteriosamente, ci sfugge. Né lo capì Pasolini. Direi, anzi, che Pasolini, come figura d'uomo, è l'anti-Totò per eccellenza. riferendomi a tutto ciò che di patrimonio umano Pasolini non ha e che Totò aveva. E l'errore di Pasolini fu quello di porsi di fronte a Totò in veste critica e di renderlo, in un brutto film, il più possibile somigliante all’idea che Pasolini ha di se stesso. Ne venne fuori un film che di surreale non aveva che la metafisica della marionetta Totò spogliata dei suoi abiti e che si guarda in giro, sgomenta, perché si sente denudata.
Pasolini sfiora il vilipendio di cadavere quando lascia intendere alla TV che tentò di fare di Totò un grande attore. Quel suo film «Uccellacci e uccellini» risultava accettabile soltanto nella misura in cui l'arte di Totò riusciva a resistere alla violenza delle saccenti deformazioni pasoliniane.
Fu lo stesso Totò a dirmelo in un colloquio al quale assisteva anche Franca Faldini, sua moglie, che certo non avrà dimenticato. Mi disse Totò:
«Questo Pasolini, pasolineggia un poi troppo. Stiamo a metà del film e non ho ancora capito che razza, che schifezza di film, stiamo facendo. Certe volte io gli prendo la mano, faccio a modo mio. Insomma, mi capisci, cerco di forzare la situazione. Ma lui urla, mi sgrida, mi strapazza, come se fossi un ragazzino, No. questo non lo devi fare, mi dice, ma io lo faccio lo stesso. Quel corvo, quel corvaccio che mi ha messo addosso. Puzza, quanto è brutto, porta anche un po’ iella. Ma quel corvo è la sua grande trovata. Ci tiene e, per bocca sua, per bocca del corvo, Pasolini filosofeggia. Capirai, che trovata. Esopo, dico io. Fedro, aggiungo, La Fontaine controaggiungo come carico. Ma, dico io, costoro non facevano forse parlare gli animali, da quel dì? E, allora, che razza di trovata è questo corvo di Pasolini che parla? Senti a me, per divertire la gente ci vuole altro: un pappagallo, ad esempio. Una storiella su di un pappagallo, facci caso, fa sempre ridere.» A Pasolini glielo ho detto. Ma lui, sai cosa mi ha risposto? Secco, asciutto: il pappagallo è troppo borghese. E io sai cosa gli ho controrisposto? Che è molto borghese pensare che si sta facendo qualcosa di borghese. Ma, non mi ha capito. Sai come sono certi comunisti, ti danno del tu, ma dopo qualche anno, se non li chiami commendatore, neanche si girano».
Nino Longobardi
Valencia, 4 novembre 2012: mostra '40 anys sense Pasolini', disegni dal film
La terra vista dalla luna (1967)
Già durante le riprese di Uccellacci e uccellini Pasolini pensa alla possibilità di una nuova collaborazione con la strana coppia Totò - Ninetto Davoli. Dapprima studia la realizzazione di un Pinocchio (in cui Totò avrebbe dovuto svolgere "stranamente" il ruolo di Geppetto e, Ninetto Davoli quello del burattino di legno), poi pensa di girare un intero film (Che cos’è il cinema?) suddiviso in quattro episodi: Che cosa sono le nuvole?, La Terra vista dalla luna, Le avventure del Re Magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo, e Mandolini. Ma nel 1966, Dino De Laurentiis gli offre la possibilità di girarne due in altrettanti film: Le Streghe e Capriccio all’italiana. Egli accetta ma il progetto originario non verrà mai più prodotto; non verranno realizzati né il terzo né il quarto episodio.
In Le Streghe gli altri episodi sono girati da Rosi (La siciliana), Bolognini (Senso civico), Visconti (La strega bruciata viva) e De Sica (Una serata come le altre). Nel suo episodio Pasolini è chiamato a trattare un argomento che potremmo definire inusuale per lui: la figura della donna-strega. Decide di rielaborare un racconto fiabesco intitolato Il buro e la bura al quale aggiunge un inizio e una fine. Il racconto narra di un uomo e di suo figlio che cercano una moglie/madre che si prenda cura di loro in sostituzione della precedente defunta.
Il regista comincia le riprese de La terra vista dalla luna nel novembre del 1966 e avverte: "si tratta di una favola surreale e comica […] una storia fuori dal tempo e come qualsiasi storia surreale, s’imparenta con la stregoneria".
Ciancicato Miao e suo figlio Baciù vivono in una borgata fuori dal tempo, dove le baracche sono multicolori e fantastiche come nei fumetti. Rispettivamente vedovo e orfano, piangono addolorati sulla tomba fresca della moglie e madre Crisantema, appena sepolta. Ma i due si rendono conto di non poter fare a meno di una donna e decidono di trovarne un’altra che piaccia a entrambi. Per diversi motivi la vedova, la prostituta e il manichino, che incontrano successivamente, non soddisfano le loro aspettative. Solo in Assurdina Caì, una sordomuta, Ciancicato e Baciù trovano la moglie-madre ideale. Si celebra il matrimonio. Arrivati a casa Assurdina, da perfetta massaia trasforma una disordinata baracca in una bellissima casetta da fiaba. Ma Ciancicato e Baciù non si accontentano e desiderano una casa più accogliente e spaziosa pur non avendo i soldi è per acquistarla. Allora organizzano un piano: Assurdina finge un tentativo di suicidio mentre padre e figlio, a Roma al Colosseo, cercano di impietosire i passanti e di raccogliere una colletta. Ma due strani turisti si arrampicano sul Colosseo, gettano una buccia di banana,e Assurdina scivolando cade di sotto.
Ciancicato e Baciù piangono disperati, ma al ritorno alla baracca Assurdina è lì vestita da sposa che li attende. Assurdina, muta è silenziosa è morta, ma si comporta come se fosse viva: una moglie-madre perfetta. Tutto è come prima. Ciancicato e Baciù sono felici. "Morale:- spiega la didascalia - essere vivi o essere morti è la stessa cosa".
"Visto dalla luna, questo film che s’intitola appunto La terra vista dalla luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla terra sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Paolo Pasolini".
In un primo momento, La terra vista della Luna, ci appare come la continuazione di Uccellacci e uccellini. Lasciati Totò e Ninetto, nel film precedente, lungo la strada, in un finale tutto chapliniano, li ritroviamo in vesti diverse in una società che potremmo definire inserita nel "dopo storia". Ma, ben presto, ci rendiamo conto che l’elemento ideologico, che aveva caratterizzato gran parte di Uccellacci, qui viene tenuto maggiormente a bada, facendo in modo che rimanga nella penombra del racconto. Ma sembra che non vi riesca del tutto: in una sequenza dell’episodio, Totò/Ciancicato afferma: "La vita è un sogno e gli ideali stanno qua (sotto la suola delle scarpe)". Alle prese con la "surrealtà" e con la "comicità", il regista bolognese aveva come primo obiettivo quello di formulare un nuovo linguaggio, "il linguaggio filmico", meno logico e comprensibile ma che al tempo stesso sfuggisse al "senso comune" e all’interpretazione omologante. Alla stessa maniera di come avveniva in Uccellacci, in La terra vista dalla Luna vi è "incomunicabilità" tra i personaggi: emblematici sono, in tal senso, il mutismo di Assurdina e gli sforzi di Totò/Ciancicato, costretto a movimenti da marionetta, pur di farsi capire.
Ma la vera grande novità del film è l’utilizzo del colore. "Proprio il colore, composto da tonalità accese ed evidenti contrasti, è la chiave espressiva dove risulta più evidente la sperimentazione pasoliniana". Egli cerca di fornire un nuovo punto di vista: una visione che superi la maniera comune di vedere le cose, una sorta di sguardo alieno: non a caso La terra vista dalla luna. Proprio l’utilizzo delle tonalità accese per primo comunica la connotazione favolistica dell’episodio. La folla grigia, che si accalca sotto il Colosseo quasi ad attendere il suicidio di Assurdina, rappresenta la società senza più individualità, uniformata dalla testa ai piedi. L’utilizzo dei colori richiama l’espressionismo che ha contraddistinto buona parte del cinema pasoliniano e che raggiunge qui la sua massima espressione.
Il contesto in cui i personaggi si muovono è caratterizzato da "paesaggi cromaticamente assurdi" quasi completamente deserti e privi della presenza umana. Totò/Ciancicato e Ninetto/Baciù vivono in un mondo che si potrebbe definire un "Terzo Mondo" all’interno dell’occidente. Pasolini si riferisce a quel Terzo mondo culturale, rappresentato dalla massa che è inconsapevole della sua sorte. Questa visione è arricchita dalla presenza di due turisti pronti a fotografare ogni aspetto dello squallore che li circonda: rappresentano la società dei consumi, l’industria culturale di massa. I due turisti causeranno la morte/non morte di Assurdina con la loro sete di scatti.
Ma La terra vista dalla luna fonda il suo significato principale sulla dicotomia vita-morte. "La vicenda è ridotta ai termini elementari e fondamentali dell’esistenza umana". Ma, in questo mondo "fuori dal mondo" (lunare possiamo dire), anche questa dicotomia viene superata: "Nessun personaggio può morire, per il semplice fatto che è già morto e appare ormai solo filmicamente come pura immagine e finzione narrativa".
In un’altra ottica, Pasolini analizza e discute, nel film, la condizione della donna in una società siffatta. Assurdina rappresenta il vero e proprio desiderio maschilista in persona: una donna bella, brava nelle faccende di casa, che sappia cucinare e che, perdipiù, non dica nulla. E, quindi, non è importante che sia viva o morta, ciò che conta è che continui a svolgere i suoi compiti di brava moglie-madre. Pasolini ci offre nel suo episodio una "strega" completamente inedita, che è ben lontana dal tipico cliché (e non vi erano dubbi) della strega-donna cattiva e spietata.
La morale, esplicitata da una didascalia finale, afferma: "Essere morto o essere vivi è la stessa cosa". Tale affermazione, tratta dalla filosofia indiana, non vuole essere solo e semplicemente critica e pessimistica, ma nasconde un’esortazione da parte dello stesso Pasolini: bisogna ricominciare a comunicare, innalzare gli ideali e le ideologie che stanno "sotto le suole delle scarpe", "essere lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dai tentacoli mostruosi del nonsenso sociale e dei suoi schematismi da marionette".
Senza dubbio in La terra vista dalla luna Pasolini si rifà, ancora più scopertamente di quanto non fosse avvenuto in Uccellacci e uccellini, al cinema muto di Chaplin. In questo episodio fa ancora più utilizzo, rispetto al precedente, delle immagini accelerate e delle gag clownistiche di Totò: il suo sembra un vero e proprio omaggio a Charlot.
Nonostante la centralità del ruolo della Mangano, Totò può essere considerato il protagonista del film: egli reindossa i panni del clown sfruttando la comicità che aveva contraddistinto le sue origini artistiche e, a distanza di anni, pare non essere affatto a disagio.
La terra vista dalla luna fu girato quando Pasolini già stava lavorando all’Edipo re e ancora una volta, come già era successo per Uccellacci, fu vietato ai minori di diciotto anni. Tornato dal Marocco, Pasolini, ritornerà ancora a lavorare con la coppia Totò-Ninetto per l’altro episodio in programma: Che cosa sono le nuvole?
Che cosa sono le nuvole? (1967)
Tra marzo e aprile 1967 Pasolini, appena tornato dal Marocco, è già al lavoro per la realizzazione del secondo episodio promesso a Dino De Laurentiis. Il film nel quale s’inserisce Che cosa sono le nuvole? è Capriccio all’italiana: ennesimo film della grande produzione di pellicole a episodi che ha caratterizzato quel periodo. Al film prendono parte vari registi di spessore come: Steno nell’episodio Il mostro della Domenica, Bolognini in Perché e La gelosa, Monicelli ne La bambinaia e Zac in Viaggio di lavoro. Pasolini girò il suo cortometraggio nell’arco di una settimana, utilizzando oltre al duo Totò-Ninetto, attori come Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti e l’amico-scrittore Francesco Leonetti.
Tutto si svolge all’interno di un teatro, prima della messa in scena dell’Otello di Shakespeare: alle pareti sono affissi i quattro manifesti degli spettacoli in programma, si tratta, in realtà, dei quattro titoli dei progetti di film comici che Pasolini ha in mente in quel periodo che campeggiano su altrettanti capolavori di Velásquez. Sulla locandina che riproduce "Il nano don Diego de Acedo detto El Primo" è presente il titolo: La terra vista dalla Luna; sulla riproduzione de "Il principe Baltasar Carlos con un nano", il titolo Mandolini (film che avrebbe dovuto contenere una serie di sketch comici interpretati da Totò e Ninetto); e infine, sul manifesto che ritrae il "Filippo IV", il titolo Le avventure del Re Magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo (che si trasformerà negli anni successivi nel progetto del Porno-Teo-Colossal).
Il cartellone de La terra vista dalla luna giace a terra, strappato, a indicare uno spettacolo che ha già avuto luogo. "Prossimamente" e "Domani" annunciano rispettivamente Mandolini e Re Magio Randagio. Escludendo La terra vista dalla luna nessuno di questi progetti di pellicole comiche fu realizzato: solo Sergio Citti nel 1996 realizzerà I Magi randagi.
Sul manifesto che indica lo spettacolo di "Oggi" ritroviamo su "Las Meninas" del pittore di Siviglia, il titolo Che cosa sono le nuvole?. "Las Meninas" può essere considerata una delle opere più importanti della storia dell’arte proprio per la sua carica innovativa. Essa viene considerata come il primo caso di mise in abyme (o struttura in abisso), che consiste nel prendere come punto focale dell’opera la creazione artistica, ovvero la rappresentazione nel suo realizzarsi, nel suo farsi. Quindi notiamo, come l’opera di Velásquez si leghi alla "rappresentazione nella rappresentazione" dell’Otello di Shakespeare che propone Pasolini. Detto questo, ecco la storia del film.
In uno scalcinato teatrino di periferia va in scena l’Otello di Shakespeare recitato dai burattini. L’azione è incentrata sulla gelosia di Otello provocata ad arte dal malvagio Jago, il suo cattivo consigliere.
Fuori scena il burattino Otello, che è appena nato (è stato appena costruito) e non conosce ancora il mondo, poco convinto del suo ruolo, chiede spiegazioni al burattino Jago, che gli risponde: "Siamo in un sogno dentro un sogno". La vicenda si sviluppa in scena come nella tragedia shakespeariana.
Quando Otello, costretto dal suo destino di burattino-attore e dall’odio che deve per forza recitare, sta per uccidere Desdemona, gli spettatori non trattengono la loro ira e, per salvare la povera fanciulla innocente, saltano sul palcoscenico e lo ammazzano insieme al malvagio Jago. Nello sgabuzzino-camerino gli altri burattini piangono addolorati la morte dei loro compagni. Arriva l’immondezzaro, carica sul suo camion i due burattini-cadaveri, li trasporta alla discarica e li butta via. Nel mondo reale i due burattini si rendono conto della "straziante, meravigliosa bellezza del creato!"
Con Che cosa sono le nuvole?, Pasolini decide di abbandonare definitivamente la trattazione ideologica (seppure in alcuni casi ceda alla tentazione), che già abbondantemente è stata utilizzata in Uccellacci prima e, in toni più sommessi in La terra vista dalla luna poi, lasciandosi andare alla pura creazione poetica.
All’interno dell’episodio i personaggi svolgono senza dubbio un ruolo importante; i più rappresentativi sono: Jago/Totò, che nel film svolge il ruolo del saggio che aiuta Otello/Ninetto nella ricerca di se stesso nel mondo reale, del senso della sua esistenza e, Otello/Ninetto appunto che, appena creato, è costretto a recitare in una tragedia che non conosce con un copione che non ha mai studiato. Sembra che sia spinto da una forza sovrannaturale che lo spinge a dire parole e a fare gesti che non condivide e che anzi egli stesso respinge. Ben presto Otello, con l’aiuto di Jago, si rende conto di non vivere nella realtà ma in una rappresentazione di essa in cui tutti gli altri burattini, come lui, sono costretti a svolgere azioni decise da qualcun altro per loro.
Inevitabilmente, vivendo in un "mondo nel mondo", gli stessi protagonisti hanno a che fare con due Dei: un Dio-marionettista che "regge le fila della rappresentazione" e che risponde alle domande con il "forse" e un Dio-autore che, seppur interpretato da Francesco Leonetti (lo stesso che aveva dato voce al corvo di Uccellacci), s’identifica nello stesso Pasolini. Infine vi è l’immondezzaro (interpretato da Domenico Modugno) Caronte di anime-inanimate traghettate al mondo reale. L’unica maniera per poter assaporare la "straziante meravigliosa bellezza del creato" è quella di morire per poter rinascere, ma solo per pochi attimi, quegli attimi che permettono a Jago e Otello di scoprire le nuvole. "Otello- Iiiiiih, che so’ quelle? / Jago- Sono…sono…le nuvole… / Otello- E che so’ le nuvole? / Jago- Boh! / Otello- Quanto so’ belle! Quanto so’ belle! / Jago- Oh, straziante meravigliosa bellezza del creato!"
E poi c’è il pubblico che decide di venir fuori dal suo ruolo e intervenire sulla scena per evitare che la tragedia si compia, regalando alla rappresentazione un finale diverso da quello che Shakespeare aveva pensato. Irrompe sul palco, impedisce a Otello di uccidere Desdemona, e dopo aver eliminato Jago e Otello, porta in trionfo Cassio. Rileviamo qui una doppia citazione di Pasolini, una riferita alle sceneggiate a cui il pubblico prendeva spesso vivacemente parte e l’altra a Don Chisciotte che, per correre in aiuto del valoroso Don Gaiferos, salì sul palcoscenico per fare strage di burattini.
Pasolini, in questa maniera, ritrae ancora una volta il pubblico/massa ignorante e inconsapevole che non è in grado di accettare qualsiasi evento esca dai canoni dell’ "etica borghese": questa interpretazione ci permette quindi di rilevare ancora una volta la sua insoddisfazione nei confronti della società, e d’individuare alcuni cenni della sua denuncia alla dilagante omologazione, già ampiamente trattata in Uccellacci. Quindi, i personaggi di Che cosa sono le nuvole?, seppur marionette, sono in grado di provare emozioni alla stessa maniera degli esseri umani: hanno paura quando vengono trasportati alla discarica, piangono quando qualcuno di loro muore, rimangono estasiati dalla bellezza del mondo reale. Non hanno urgenti bisogni fisici come i personaggi delle due pellicole precedenti, ma bisogni morali. Ma se i nostri attori vivono una rappresentazione nella rappresentazione (o in un "sogno nel sogno" come afferma Jago/Totò), se hanno due Dei ai quali rivolgersi, allora vivono una doppia vita e una doppia morte al tempo stesso. Ed è qui che ritroviamo, forse con maggiore evidenza, la dicotomia vita-morte, già analizzata in La terra vista dalla luna. Lo stesso Pasolini, obbligato a indicare i rapporti che legano i due episodi afferma che, oltre allo stile comico-picareso che contraddistingue entrambi, un punto fondamentale d’incontro è quello che riguarda la definizione de "l’ideologia della morte": "Quell’ideologia che fa corpo con l’inesplicabile mistero della vita, di quella disperata vitalità che assume valore e significato solo grazie al mistero del suo avere fine". In quest’ottica Pasolini ritrae la vita come un viaggio senza senso e la morte come nascita, come recupero del senso della vita.
Ma c’è un altro aspetto che lega Che cosa sono le nuvole? al cortometraggio precedente, ed è l’utilizzo del colore: la stranezza cromatica contraddistingue anche quest’ultima opera del regista bolognese. Jago, completamente colorato di verde dimostra la falsità dei personaggi nel loro non essere umani. Sicuramente il colore (utilizzato con la sapienza degli artisti) ha permesso a Pasolini d’incrementare l’espressività dei suoi film.
Per quanto riguarda le musiche utilizzate nell’episodio c’è da dire che, dopo la collaborazione con Ennio Morricone, che aveva caratterizzato le due pellicole precedenti, in Che cosa sono le nuvole? Pasolini realizza con Modugno una canzone (dallo stesso titolo del film) scritta dal regista bolognese e musicata e interpretata dal cantante polignanese: i due si ritrovano dopo l’esperienza di Uccellacci, quando Modugno aveva cantato i titoli di testa.
Pasolini dopo questo episodio per i suoi film successivi è pronto a dar vita a una vera e propria rivoluzione linguistica, che avrà inizio con la poetica dell’immagine, "sciolta dai legami logici, sbilanciata sul versante delle pure emozioni". Il suo primo tentativo sarà Edipo re, film che aveva già cominciato a girare in contemporanea con l’episodio trattato.
Con Che cosa sono le nuvole? si chiude la trilogia comica di Pasolini nata con Uccellacci e uccellini, consolidatasi con La terra vista dalla luna, e ha fine la collaborazione Pasolini/Totò/Ninetto a causa della morte del secondo che avverrà un mese dopo la fine delle riprese. Totò, quindi, non farà mai in tempo a vedere il suo ultimo lavoro: "La morte del burattino Jago si sovrappone a quella del principe dei comici: entrambi abbandonano le assi del palcoscenico, i fili tagliati da una Parca crudele". La morte di Totò interrompe, quindi, quel rapporto di collaborazione con Pasolini che finalmente aveva intrapreso i binari giusti. Egli era entusiasta del lavoro che stava svolgendo, proprio perché Pasolini gli permetteva di recuperare quella comicità dei primordi, quella del clown e del burattino. Alla luce di questo Pasolini abbandona definitivamente l’ambito grottesco-picaresco e, Che cosa sono le nuvole? rimarrà l’ultimo episodio del ciclo comico da egli stesso progettato.
Totò nelle parole di Pier Paolo Pasolini
Dicono che Totò fosse principe. Una sera che eravamo a cena insieme diede una mancia di ventimila lire a un cameriere. Di solito i principi non danno simili mance, sono molto taccagni. Se Totò era principe, era dunque un principe molto strano. In realtà conoscendolo risultava un piccolo borghese, un uomo di media cultura, con un certo ideale di vita piccolo borghese. Come uomo. Ma come artista, qual è la sua cultura? La sua cultura è la cultura napoletana sottoproletaria, è di lì che viene fuori direttamente. Totò è inconcepibile al di fuori di Napoli e del sottoproletariato napoletano.
Come tale Totò legava perfettamente con il mondo che io ho descritto, in chiave diversa perché il mondo da me descritto era in chiave comica e tragica, mentre Totò ha portato un elemento clownesco, da Pulcinella, però sempre tipico di un certo sottoproletariato che è quello di Napoli. Un comico esiste in quanto fa una specie di cliché di se stesso, egli non può uscire da una certa selezione di sé che egli opera. Nel momento in cui ne uscisse non sarebbe più quella figura, quella silhouette che il pubblico è abituato ad amare e conoscere e con cui ha un rapporto fatto di allusioni e di riferimenti.
Anche Totò ha fatto il cliché di Totò, che è un momento inderogabile per un comico per esistere. Entro i limiti di questo cliché, i poli entro cui un attore si muove sono molto ravvicinati. I poli di Totò sono, da una parte, questo suo fare da Pulcinella, da " marionetta disarticolata "; dall'altra c'è un uomo buono, un napoletano buono starei per dire neorealistico realistico, vero. Ma questi due poli sono estremamente avvicinati, talmente avvicinati da fondersi continuamente. È impensabile un Totò buono, dolce, napoletano, bonario, un po' crepuscolare, al di fuori del suo essere marionetta. È impensabile un Totò marionetta al di fuori del suo essere un buon sottoproletario napoletano.
Il problema del rapporto tra regista e attore è un tasto molto delicato. Non voglio certo pretendere di risolverlo qui. Quando dicevo che ogni comico oggettiva se stesso in una specie di figura assoluta, stilizzata, di cliché di se stesso, volevo dire che l'attore comico crea se stesso, inventa se stesso, quindi compie un'operazione poetica, artistica, di carattere e livello estetico e non semplicemente comunicativo e strumentale. E quindi nel momento in cui Totò ha creato e inventato se stesso ha continuato sempre a inventarsi; la sua opera di inventore continua, non cessa nel momento in cui si inserisce dentro l'invenzione di un altro. Praticamente il Totò in un film mio o in un film di un altro regista è inscindibile dal film; teoricamente invece lo è, si può scindere, e si può trovare dentro la creazione del regista il momento creativo dell'attore. Evidentemente egli è sempre inventore, è sempre un creatore, sempre un artista in qualsiasi film si trovi. Se lo si trova nel film di un autore, è difficile capire qual è il momento suo dell'invenzione, se invece lo si trova in un film mediocre o addirittura in un film brutto, allora invece questa operazione è molto più facile. Si scopre immediatamente il momento creativo di Totò, e lo si gode di più.
Il recupero che viene fatto oggi di Totò mi sembra un recupero puramente casuale, che non ha altro senso che quello di proporre alla volgarità degli anni Settanta la volgarità degli anni Cinquanta. Sono convinto che i film che ha fatto Totò durante gli anni Cinquanta sono tutti orribili, squallidi e volgari. Non per colpa sua, perché in questo caso bisogna ipotizzare una dissociazione assolutamente netta, precisa, drastica, tra autore del film e attore. In quanto attore Totò si è autocreato ed è vissuto autonomamente, ma i film che ha fatto sono oggettivamente brutti. Se ne salvano alcuni, ma non sono quelli del recupero attuale. Si recuperano i brutti film di Totò perché sostanzialmente nulla è cambiato, e anzi probabilmente quanto a volgarità e a sottocultura gli anni Settanta non hanno nulla da invidiare agli anni Cinquanta. In realtà non c'è stato un caso Totò negli anni Cinquanta. Negli anni Cinquanta Totò è stato uno dei tanti prodotti, una delle tante merci che si sono consumati quasi senza accorgersene, non è stato un caso di cultura. Perché negli anni Cinquanta c'erano altri problemi, altri casi molto più interessanti, più vivi, più reali, anche se come tutte le cose umane naturalmente oggi superati. Invece oggi Totò è una scoperta, che ha carattere di una scoperta cosiddetta culturale, mentre secondo me non lo è. Il che significa che negli anni Settanta si sono scatenate delle forze, degli interessi che erano rimasti sopiti allora e che esplodono adesso.
Nel mio film io ho scelto Totò per la sua natura, diciamo così, doppia. Da una parte c’è il sottoproletariato napoletano, e dall’altra c'è il puro e semplice clown, il burattino snodato, l'uomo dei lazzi e degli sberleffi. Queste due caratteristiche insieme mi servivano a formare il mio personaggio. Ed è per questo che l'ho usato. Nel mio film Totò non si presenta come piccolo borghese, ma come proletario o come sottoproletario, cioè come lavoratore. E il suo non accorgersi della storia è il non accorgersi della storia dell'uomo innocente, non del piccolo borghese che non vuole accorgersene per i suoi miseri interessi personali e sociali.
Io uso attori e non attori. Praticamente mi comporto con loro nello stesso modo, li prendo per quello che essi sono, non m'interessa la loro abilità. Se prendo un non attore, lo prendo per quello che lui è. Mettiamo Ninetto Davoli. Non era attore quando ha cominciato a recitare con Totò, e l'ho preso per quello che era, non ne ho fatto un altro personaggio. La stessa cosa ho fatto di Totò. Naturalmente un attore porta in questa operazione la sua coscienza e magari anche la sua opposizione al fatto di essere usato per quel brano di realtà che lui è. Molte volte non lo accetta, allora resiste, ecc. Ma sostanzialmente il risultato espressivo finale non tiene conto degli apporti professionali di un attore, ma di quello che l'attore è, anche in quanto attore. Quando dico che prendo una persona per quello che è intendo soprattutto come uomo. Nel fondo di Totò c'era una dolcezza, un atteggiamento buono e al limite qualunquistico, ma di quel tipico qualunquismo napoletano che non è qualunquismo, che è innocenza, che è distacco dalle cose, che è estrema saggezza, decrepita saggezza. Quindi quando io dico Totò nella sua realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo anche di attore.
La mia ambizione in Uccellacci è stata quella di strappare Totò dal codice, cioè di decodificarlo. Com'era il codice attraverso cui uno poteva interpretare Totò allora? Era il codice del comportamento dell'infimo borghese italiano, della piccola borghesia portata alla sua estrema espressione di volgarità e aggressività, di inerzia e di disinteresse culturale. Totò innocentemente faceva tutto questo facendo parallelamente, attraverso quella dissociazione di cui parlavo prima, un altro personaggio che era al di fuori di tutto questo. Però evidentemente il pubblico lo interpretava attraverso questo codice, allora io per prima cosa ho cercato di passare un colpo di spugna su questo modo di interpretare Totò. E ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo ghignare, tutto il suo fare gli sberleffi alle spalle degli altri. Questo è scomparso completamente dal mio Totò. Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi. Non fa le boccacce dietro a nessuno. Sfotte leggermente qualcuno, ma come un altro potrebbe sfottere lui, perché è nel modo di comportarsi popolare quello di sfottere qualcuno, ma è una sfottitura leggera e mai volgare. Quindi come prima cosa ho cercato di decodificare Totò, e avvicinarlo il più possibile alla sua vera natura, che veniva fuori in quel modo strano che dicevo. Una volta fatto questo, l'ho opposto in quanto protagonista all'intellettuale marxista ma borghese. Ma è un antagonismo che sta nelle cose, non sta in Totò o nel corvo che fa l'intellettuale, sta nelle cose. Che cosa ho opposto? Ho opposto un personaggio innocente fuori dall'interesse politico immediato, cioè fuori dalla storia, a chi invece fa della politica il suo vero e più profondo interesse e vive in quella che lui crede essere la storia. Cioè ho opposto esistenza a cultura, innocenza a storia.
Il rapporto di Totò con il dialetto è molto realistico. Totò ha probabilmente deciso sin dalle origini di non essere un attore dialettale napoletano, come in un certo senso, Eduardo De Filippo e i tipici attori dialettali. Ha voluto essere un attore dialettale, di origine napoletana, ma non strettamente napoletano. La sua lingua è stata una specie di mimesi del dialetto o del modo di parlare del napoletano, del meridionale, emigrato in una città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua burocratica, di lingua militaresca, di modi di dire dei vari gerghi del parlare comune, per esempio quello sportivo, mettiamo. Nell'uso che io ho fatto di Totò ho eliminato tutto questo, ho eliminato le parole dette fra virgolette, le citazioni burocratiche o militaresche o sportive, e gli ho dato un linguaggio che non è un linguaggio puramente dialettale, mettiamo o il napoletano o il romano, ma un misto dei due. È la lingua che può parlare un immigrato meridionale che vive da venti, trent'anni a Roma e quindi ha perso le sue caratteristiche linguistiche mescolandole con le nuove.
Pier Paolo Pasolini, 1973
Totò biografia: l'ultimo incontro
L’incontro con Pier Paolo Pasolini è tra i più inattesi e sorprendenti dell’intera biografia artistica del grande attore, oltre che uno dei più produttivi sul piano creativo. Quando Pasolini va a casa di Totò per incontrarlo, con un’umiltà che pochi altri avevano avuto prima di lui, è già uno scrittore famoso attorno al quale c’è aria di scandalo. Se ne era andato da Casarsa, dove faceva l’insegnante, quando alla vigilia delle elezioni del ‘48 un ragazzo aveva confessato al parroco di aver avuto rapporti con lui. Venuto a Roma con la madre, aveva fatto la fame prima di cominciare a lavorare a qualche sceneggiatura. Il suo primo grande successo letterario l’aveva ottenuto a metà anni Cinquanta con Ragazzi di vita e Una vita violenta, il dittico delle borgate che aveva raccontato la realtà “diversa” del sottoproletariato romano. Poeta incoronato al Premio Viareggio, dopo Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo aveva pubblicato Poesia in forma di rosa, di cui Totò conosceva a memoria Supplica a mia madre che l’aveva molto colpito. Il passaggio al cinema aveva rivelato un autore di grandi qualità con film notissimi come Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo. Sul settimanale «Vie Nuove» - dove tiene una rubrica di corrispondenza con i lettori in cui, dialogando soprattutto con i giovani, interviene nel dibattito politico e culturale contemporaneo - ha appena pubblicato il soggetto del film che comincerà a girare nell’ottobre e che s’intitolerà Uccellacci e uccellini. Il primo impatto tra il principe e lo scrittore non è esaltante. Pasolini è scortato da Ninetto Davoli, che nel film sarà il figlio di Totò. Ninetto, riccioluto come una pecorella, non fa ancora l’attore, indossa un vecchio paio di jeans sporchi e stinti. Gli sembra un sogno essere lì con Totò, di cui aveva visto tutti i film, stare vicino a un mito. Non appena lo vede sbotta a ridere, nonostante le gomitate di Pier Paolo, che gli dice: «Oh, sta’ bono, carmate»
Si mettono in poltrona per prendere il caffè in attesa che si avvii una discussione che stenta a decollare. Lo scontro tra timidi consente appena di parlare, tra le lunghe pause di imbarazzato silenzio, del progetto del film che dovrebbero cominciare di lì a poco. Quando si congedano, il principe non può trattenere un respiro di sollievo e spruzza dell’insetticida sul posto occupato da Ninetto. I jeans zozzi gli fanno senso, non li sopporta proprio. In realtà non condivide neppure la stessa moda dei jeans che considera un caso di esterofilia. Ma che almeno siano puliti, di bucato. E non può non ricordare che nei tempi eroici degli inizi aveva solo due camicie, non poteva permettersi di più, ma andavano e venivano dalla lavanderia di continuo, come treni su un binario. Sul set le cose andarono molto meglio, soprattutto tra Totò e Ninetto che stavano sempre assieme e si erano molto immedesimati nei ruoli di padre e figlio. Il principe aveva preso in simpatia quel ragazzone allegro che aveva sempre fame e non si sentiva per niente intimidito di fronte a lui. Lo aiutava nel lavoro, porgendogli la battuta, mettendosi d’accordo su come risolvere un’azione, mettendolo a parte dei suoi ricordi e dei suoi umori nelle lunghe pause tra una ripresa e l’altra in cui qualche volta si metteva a cantare o recitava A livella. La disinvoltura di Ninetto favorì anche i rapporti tra Totò e Pier Paolo, che continuavano a darsi del lei e a trattarsi con reciproca deferenza, imprigionati nella loro timidezza. Ma la diffidenza del primo incontro è ormai superata. Il principe ha la massima fiducia nel regista, nella sua preparazione e nella sua cultura, gli si affida completamente da quando ha capito che sta facendo qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno aveva fatto prima con lui. Quando una sera, rincasando stanco e infreddolito dopo una giornata di lavoro, Totò dice che Pierpa’ gli ha fatto ripetere una scena soltanto due volte, si capisce che il sodalizio cinematografico si è trasformato in amicizia. Il film viene girato tra ottobre e dicembre nella campagna vicino a Roma, a Cecafumo, nella borgata di Torre Angela, all’Acqua Santa, all’Alberone, al Tiburtino, alla Pontina, alla Fiumara di Fiumicino. Il principe non si tira indietro e affronta le scene più faticose, cammina nel fango, affonda nella melma i pesanti zoccoli di legno coperto soltanto da un saio di sacco che lascia passare il freddo e il vento da ogni parte.
L’episodio francescano dell’evangelizzazione degli uccelli viene girato nella campagna vicino a Tuscania, tra i boschi, ed è particolarmente faticoso. Ci vogliono ventisette ore di riprese per fare le tre inquadrature di Totò con gli uccelli sugli alberi, sempre con il saio di sacco e i tremendi zoccoli di legno ai piedi. L’unico problema fu il corvo ammaestrato che durante tutta la lavorazione ce l’aveva con gli occhi di Totò e cercava di beccarlo proprio lì. Naturalmente, Totò se ne preoccupava moltissimo perché da anni il suo problema erano proprio gli occhi. Fu necessario mettere del nastro isolante nero sul becco dell’uccello, in modo che, così impastoiato, non tentasse più di beccare nessuno. Naturalmente quand’era lontano o stava a terra il nastro gli veniva tolto, ma Totò, che ci vedeva così poco, non se ne accorgeva e con un po’ di apprensione continuava a chiedere: «Quella bestia, che fa quella bestia?». Il corvo è destinato a fare una brutta fine anche nella storia del film, che comincia con Totò e Ninetto, padre e figlio, che si aggirano per le borgate. Il loro viaggio non ha un vero e proprio inizio né una vera e propria fine. Camminano, parlano tra loro della vita e della morte, si imbattono in una coppia di suicidi e in una ragazza-angelo, senza meravigliarsi di nulla da quegli innocenti che sono. Né li sorprende l’arrivo di un corvo parlante che dice di venire dal paese di Ideologia e di essere figlio del Dubbio e della Coscienza. Il corvo racconta ai due un apologo del Milleduecento, in cui Totò è frate Cicillo e, insieme a frate Ninetto, predica agli uccelli. Solo dopo una lunga, snervante attesa riesce a trovare il modo di parlare ai falchi e a trasmettere loro il messaggio evangelico. Altrettanto lunga e faticosa è l’attesa per evangelizzare i passeri, con cui riesce finalmente a comunicare grazie a una serie di saltelli.
Nonostante la predicazione, alla prima occasione i falchi si buttano sui passeri e li sbranano. Allo sconcerto di fra’ Cicillo e di fra’ Ninetto, San Francesco risponde che il mondo bisogna cambiarlo e li invita a ricominciare tutto daccapo. Totò e Ninetto, ridiventati sottoproletari di oggi, si comportano da falchi sfrattando una povera contadina e da passeri quando si prostrano, in veste di debitori insolventi, davanti a un signore che aizza loro contro i cani, mentre nel salotto i suoi ospiti sfoggiano le raffinatezze culturali degli intellettuali. Totò e Ninetto incrociano per qualche momento i funerali di Togliatti e poi proseguono come prima senza sapere dove stanno andando. Padre e figlio non respingono una prostituta di nome Luna che trovano sul loro cammino. Ammazzano infine il corvo saccente e se lo mangiano prima di continuare il viaggio. Uccellacci e uccellini deve molto della sua straordinaria forza poetica e della sua duratura efficacia alla reinvenzione del personaggio Totò, scelto da Pasolini come espressione tipica del sottoproletariato napoletano, risultato di secoli di miseria e di fame, ma insieme anche puro e semplice clown, il burattino snodabile e disarticolato, l’uomo dei lazzi imprevedibili e degli sberleffi esilaranti. Pasolini non impone un “suo” personaggio all’attore, ma lo sceglie proprio per quello che è, per il suo volto più profondo e segreto, per la realtà che rappresenta come uomo e come attore. Scompaiono la cattiveria, l’aggressività, il gusto persecutorio di prendere in giro, la stessa volgarità (che sono stati per tanto tempo i tratti più superficiali e riconoscibili del personaggio) per ritrovare al fondo di Totò una inesauribile riserva di dolcezza, di innocenza, di distacco dalle cose, di saggezza.
Il Totò di Pasolini è tenero e indifeso, dolcissimo e innocente. Se prende in giro qualcuno lo fa in modo garbato e mai volgare, senza aggressività. Anche i rapporti tra Totò e Ninetto sono privi di ogni conflitto generazionale, di ogni forma di rivalità. Pasolini li vede come campioni di umanità, vecchi e nuovi al tempo stesso, due personaggi che rappresentano la massa innocente degli italiani estranei alle trasformazioni della storia. Nonostante un ultimo tentativo di reinserirlo nel montaggio del film, alla fine viene eliminato il breve episodio del domatore e dell’aquila che Pasolini aveva girato con Totò, nei panni di Monsieur Courneau, Ninetto e gli animali del circo - che vengono curiosamente chiamati la Signora Aquila, Monsieur lo Scimpanzé del Ruanda, il Leone d’Algeria, il Cammello del Ghana, la Signora Iena del Sahara - perché considerato estraneo alla struttura favolistica che il film aveva progressivamente preso. Ma il frammento inedito di circa otto minuti - intervallato da alcuni “pensieri” di Pascal - è stato conservato dal Fondo Pasolini e costituisce una ulteriore occasione per vedere Totò alle prese con l’inedito personaggio del domatore che sfoggia una bellissima divisa con alamari e mostrine. Il film esce nel maggio 1966 e suscita sin dall’inizio discussioni e polemiche, anche se è quasi unanime il riconoscimento dei grandi risultati raggiunti da Totò. Quando nello stesso mese il film viene presentato al Festival di Cannes, le discussioni riprendono sulla Croisette ma il film ottiene una menzione speciale proprio per l’interpretazione di Totò.
Nel novembre dello stesso anno Pasolini, che sta già lavorando al suo prossimo film ispirato all’Edipo re, gira con Totò il cortometraggio La Terra vista dalla Luna, mentre tra marzo e aprile dell’anno successivo, appena tornato dal viaggio in Marocco dove era stato per i sopralluoghi del film, rincontra il principe per un secondo cortometraggio intitolato Che cosa sono le nuvole? Il primo corto - che sembra riprendere il clima surreale e fiabesco di Uccellacci e uccellini per raccontare il viaggio di Ninertto e di Totò alla ricerca di una moglie - è girato come una comica del cinema muto affidandosi alla forza dell’immagine. Il regista non ha scritto una vera e propria sceneggiatura ma ha disegnato piuttosto un curioso storyboard fatto di vignette che sembrano fumetti, nei quali campeggia il profilo allungato e il mento appuntito di Totò.
Il secondo cortometraggio prosegue sulla stessa linea comica e picaresca fino a diventare, sia pure nelle forme della favola, una poetica riflessione sul senso dell’esistenza, sul rapporto tra apparenza e realtà, tra l’azione e il pensiero, tra la vita e la morte. Sul rozzo palcoscenico di un teatrino di periferia un misterioso burattinaio fa muovere le marionette tra cui ci sono Jago e Otello, Desdemona, Cassio e tanti altri. Jago e Otello, e cioè Totò e Ninetto, sono scontenti dei loro ruoli perché, buoni e gentili, si vedono costretti ad essere malvagi e brutali. Fatti a pezzi dal pubblico contrariato, faranno l’ultimo viaggio nel camion della spazzatura che li porta in una discarica, in cui restano con gli occhi aperti a fissare il cielo e le nuvole.
Così la stampa dell'epoca
Pier Paolo Pasolini si trova attualmente in Marocco, per girare il film «Edipo re». Siamo stati noi a dargli la notizia della scomparsa di Totò. Erano le 19.30 quando lo abbiamo raggiunto, telefonicamente, a Quar Zazate. Sconvolto. Pasolini ci ha donato queste poche righe:
Spero che il lettore di Paese Sera possa immaginare lo stato d'animo in cui io mi trovo. E' assurdo che lo riesca a dire qualcosa di sensato. In questi ultimi due anni ho lavorato quasi ininterrottamente con lui; l'ultima volta l'ho visto, felice, in una serata in cui lo premiavano.
E' stato sottratto alla nostra vita, come se fosse stato rubato. Alla mia, come una parte di me stesso, quando dovevamo lavorare ancora insieme quattro o cinque episodi che dovevano formare un intero film.
lo ho già immaginato a una a una tutte le facce che egli avrebbe fatto nelle vesti del Re Mago randagio, un Re Mago arrivato in ritardo al presepio per le mille peripezie e le mille buone azioni compiute e, quando arriva davanti al presepio, ormai vuoto, muore di stenti e di stanchezza e un angelo lo prende per mano e lo porta in paradiso ballando al suono di una musica di Mozart.
Pier Paolo Pasolini «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967
Totò, Pasolini e la malacritica
Vogliamo dire tutto il male possibile di Totò? Va bene, chi ce l'ha sulla punta della lingua si accomodi, a patto che riesca ad essere sincero e profondo quasi quanto lo scrittore napoletano Giuseppe Marotta (che negli anni '50 fu critico cinematografico di straordinarie sensibilità e originalità), di cui pubblichiamo un breve e luminoso «controritratto» a Totò che risale a più di vent'anni fa. Non c'è niente di nuovo, dunque, nell'affermare che Totò fu un dissoluto amministratore del suo ingente talento. Tuttavia, la più recente riscoperta del geniale comico partenopeo scatena naturalmente, forse in pari misura, entusiasmi e dissensi.
Alludiamo, in particolare, a un paio di lettere giunte all’ Unità, che segnalano un «cedimento culturale» nell'ammirazione continua di Totò, vista in chiave populistico-consumistica da lettori che lanciano assilli di portata universale: insomma, che cosa ci venite a dire, adesso, che non dovevamo leggere Hemingway bensì vedere i film di Totò? Si potrebbe osservare che, se noi comunisti ci fossimo posti sempre dinanzi ad alternative del genere, staremmo ancora complottando in qualche scantinato. Ma non serve neanche sostenere, in contrasto, che Totò sarebbe un eroe nazional-popolare in senso gramsciano, perché i due ragionamenti burocratici, entrambi monchi, si annullano a vicenda. Occorre, piuttosto, rilanciare continuamente, di Totò in Totò, una visione laica della cultura come pura esperienza da trasmettere, senza pregiudizi, affinché il gusto (che antica parola, eh?) nasca e si consolidi liberamente.
Allora, così si finisce col capire perché le giovani generazioni stroncate dalla i livida ideologia sono corse spontaneamente incontro a questa vecchia maschera della commedia dell'arte, e al contempo si chiariscono nuovamente te altrettanto istintive ostilità di una Italia nordista, rigorosamente colta e di sinistra, che purtroppo non riesce ancora a considerare la napoletanità meno esotica della negritudine, se non nei termini previsti e imprevisti dalla Cassa del Mezzogiorno. Si giunge perciò al paradosso di far propria la iattura esistenziale di un povero cristo della Louisiana senza riuscire ad afferrare l'anima nera di Totò.
Evitare, è soprattutto il concetto di «riscoperta» che va demistificato, poiché Totò mori in stato di grazia artistica (dopo l'incontro con Pasolini) e in umana riconoscenza (la folla sterminata che accompagnò la sua bara adornata di bombetta non era certo una Italietta meschina e qualunquista, che quella, ai tempi, usciva di casa solo per andare a votare scudo crociato), quindi ci rimase ben poca gloria per gli archeologi. Totò è di tutti, lo è sempre stato, e beati i poveri di spirito.
L'immagine dei funerali è uno dei tanti elementi chiave per capire Totò contenuti nelle due ultime, indispensabili puntate della trasmissione televisiva Pianeta Totò in onda oggi e domani sulla Rete due alle ore 18,50. Perdonateci l'ingenuità, ma solo adesso abbiamo còlto la suprema ironia della poesia ’A livella (Totò la recita alla «guardiamoci nelle palle degli occhi», concludendo con un impertinente «Ostrega!», che vede accomunati nell'eleganza della morte un marchese e un netturbino, ossia il Totò vanitoso a caccia di titoli nobiliari e il Totò plebeo che lo vede dall'alto in basso.»
Ma il grande protagonista, umile tra le quinte, di questo finale degno di Totò è, come avevamo accennato, Pier Paolo Pasolini, che lo volle simbolico interprete di Ucccllacci e uccellini (il film «ideocomico» prediletto dal poeta, scrittore e regista tragicamente scomparso), e di due episodi girati per De Laurentiis, vale a dire La terra vista dalla Luna (da Le streghe, 1966) e Che cosa sono le nuvole (da Capriccio all'italiana, 1967). Uccellacci e uccellini lo conoscete già, gli altri due vi stupiranno certamente perché contengono tutto il Pasolini fiabesco che verrà negli anni 70, con la «trilogia della vita» (Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte).
Pasolini, che odiava, in arte, tutto ciò che avesse puzzo di naturalismo, mostrò Totò alla stregua di un «materiale espressivo» dirompente, e mai rapporto fu altrettanto generoso e paritario fra questo regista e un attore. Totò, diceva Pasolini, possiede la volgarità, l'ingenuità, la violenza, la felicità di una verità poetica. Tutti coloro che lo hanno, per così dire, ultimamente riscoperto, sono infatti attratti dal fascino di questa verità. Peccato che Marotta, questo Totò, non abbia potuto conoscerlo perché, disgraziato, lo ha preceduto nel commiato. Avrebbe capito, tutt'un tratto, che Totò esisteva per essere e non per interpretare.
David Grieco, «Corriere della Sera», 15 gennaio 1981
Riferimenti e bibliografie:
- "Il principe Totò" (Orio Caldiron) - Gremese editore, 2002
- Nino Longobardi, «Il Messaggero», 6 gennaio 1974
- "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977
- "Totò. Manuale dell'attor comico", Dario Fo, Aleph, Torino, 1991
- http://pasolinipuntonet.blogspot.it
- Pierpaolo Pasolini a Livio Garzanti, gennaio 1967, in P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1986
- Pierpaolo Pasolini, Lettera aperta, in Occhio Critico, Anno I n. 2, nov. 1966
- Tracce e linee guida per la realizzazione del presente articolo, sono tratte dal blog dedicato a Pierpaolo Pasolini "Pierpaolo Pasolini - Le pagine corsare" - Autrice e curatrice: Angela Molteni - Autori associati: Alessandro Barbato, Claudio Rampini, Marco Taffi. Nel blog, negli archivi e nei sommari si possono reperire gli ipertesti, gli interventi, le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
- Pier Paolo Pasolini, «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967
- David Grieco, «Corriere della Sera», 15 gennaio 1981