Totò al Teatro «Nuovo» di Napoli

Approf Teatro Nuovo

Riviste, rose e rovinose storie d’amore: Totò alla conquista di Napoli

I – Totò: Dal Marchesato d’Occasione al Principato Ufficiale

Prima che il successo si decidesse a bussare anche alla sua porta (forse trattenuto nel traffico delle ambizioni partenopee), il nostro caro Totò, di giorno attore e di notte aristocratico DIY, aveva già deciso di autoinvestirsi Marchese De Curtis. Nonostante il titolo fosse più improvvisato di una battuta di varietà, lui lo sfoggiava con la stessa nonchalance di chi ti invita a cena e poi ti presenta il conto. Ma il 1929 segna una svolta esistenziale: Totò, con la sicurezza burocratica di chi ha finalmente visto il proprio certificato di nascita senza errori, decide che il marchese non basta più. Ora vuole essere principe. E guai a prenderlo per il naso: Armando De Gregorio, suo paroliere di fiducia, prova a scherzare sul titolo e viene fulminato da Totò con un serissimo:

Maestro, vi prego: a queste cose tengo molto.

Evidentemente Totò aveva capito che l’apparenza conta, a prescindere (già, proprio quel “a prescindere” che nascerà da qui, fra una parola difficile annotata su un taccuino e l’altra). Siamo davanti a uno di quegli autodidatti di genio che trasformano la mancanza di studi in uno stile di vita: pronto a saccheggiare dizionari ambulanti alla ricerca di termini roboanti, armato sempre di carta e penna come un novello esploratore delle parole difficili.

II – Il Teatro della Vita

Mentre prendeva appunti come un allievo fuori corso, Totò girava per l'Italia Settentrionale con la compagnia di Achille Maresca, raccogliendo consensi ovunque come un influencer ante litteram. Grazie al suo talento gommofacciale (marchio registrato), la sua comicità surreale mandava il pubblico in visibilio senza che dovesse nemmeno aprire bocca.

Ma il colpo di scena arriva a La Spezia, marzo 1929, quando una maschera gli annuncia l’arrivo di un "barone napoletano" in cerca d’udienza. Totò già pregustava un’accoglienza da red carpet aristocratico. Si pavoneggia:

"Il principe De Curtis sarà lieto di riceverlo."

Solo che il barone – spoiler! – era in realtà Vincenzo Scala, cassiere del "Teatro Nuovo" di Napoli, e portava con sé un contratto da firmare, non una pergamena nobiliare. Il messaggio era chiaro: vuoi diventare una star? Firma qui.

E Totò, con una teatralità degna di un premio Oscar (o forse di un premio della pesca di beneficenza), chiede trecento lire al giorno: una cifra da far svenire un impresario qualsiasi... ma non Vincenzo Scala, che firma di slancio, probabilmente mentre già si figurava la moglie di Aulicino preparargli la bara.

III – Dal “Teatro Nuovo” al Successo Mostruoso

Il “Teatro Nuovo” non era un teatro qualsiasi: era il gotha, l'Olimpo, la Silicon Valley della comicità dialettale napoletana. Nato nel 1724, cresciuto tra opere buffe e pionieri della risata, era ormai il santuario dove si misuravano i veri grandi.

E Totò non tradì. Con la rivista "Messalina", scritta apposta per lui da Kokasse e con accanto una soubrette da urlo, Lia Thomas, fece saltare in aria il pubblico: entrò vestito da Caio Silio e bastò arrampicarsi su una scenografia come un macaco per scatenare ovazioni a raffica. A scena finita, le urla del pubblico riecheggiavano manco fosse il San Paolo durante un Napoli-Juventus.

Con "Messalina" Totò si consacrò. Non più solo il "comico di gomma": ora era un titano della scena, una creatura mitologica capace di far ridere anche solo sgranando gli occhi.

IV – Le Donne, i Fiori e i Pasticci Amorosi

Con la fama arrivò anche uno stile di vita degno di un vero principe... capriccioso. Totò soggiornava in hotel di lusso, andava a teatro in taxi (un lusso proibitivo per l’epoca) e spendeva fior di quattrini – letteralmente – in mazzi di fiori per le donne.

Come prevedibile, venne circondato da uno sciame di ammiratrici: attrici, signore della Napoli bene, mogli distratte, e chi più ne ha più ne metta. Il povero barone Scala, da ambasciatore teatrale, si trasformò suo malgrado anche in ambasciatore amoroso, portavoce delle suppliche femminili più disperate.

Tra una conquista e l'altra, Totò fece naufragare un matrimonio promesso all’ultimo minuto (arredamento già acquistato, tanto per gradire), segno che la sua arte principale non era solo recitare ma anche... dribblare.

V – La Tragedia di Liliana Castagnola

Tuttavia, in mezzo a questo carosello un po' tragicomico, c’è una pagina nera. In questo stesso periodo dorato, Totò fu coinvolto in una storia d'amore tormentata e disperata con la splendida Liliana Castagnola, una donna affascinante che, purtroppo, terminò la sua vita suicidandosi per amore suo.

Un evento che scosse profondamente Napoli – abituata a storie eclatanti ma non a tragedie di questa portata – e lasciò in Totò una ferita che, dietro tutte le sue maschere di scena, rimase aperta per sempre. Liliana sarebbe stata il suo rimpianto più dolce e doloroso.

Conclusione:

Totò, da autoproclamato marchese a principe consacrato del teatro, non si limitò a far ridere; costruì un personaggio che sfidava le convenzioni sociali, mischiava il tragico e il comico come pochi altri e viveva ogni giorno come se il palcoscenico fosse la sua vera patria. Una carriera “a prescindere” da tutto, e una vita tanto brillante quanto piena di ombre struggenti.


Lo scorbutico impresario Aulicino

Nel secondo decennio del 1900, Gennaro Di Napoli era capocomico e animatore al Teatro Nuovo di Napoli con il suo repertorio scarpettiano, ingaggiato dall’impresario Molinari, che aveva fama d’essere abile come dimostrò traghettando la sala al primo dopoguerra. Il teatro sopravvisse, lui no.

Alla guida gli successe il genero, Eugenio Aulicino, il cui unico rapporto con il teatro era l’esser figlio dell’appaltatore del guardaroba del Bellini. A dispetto di tutto divenne un importante, scorbutico e infaticabile impresario, scritturando una giovanissima Titina De Filippo che poi gli propose i suoi fratelli. Eduardo molti anni dopo, già coronato dal successo, andò a fargli visita. Gli chiese come mai non avessero lavorato insieme più a lungo. E Aulicino: «Sai che cos’è, Eduà? Tu vuò cumannà... Io, pure...».


Le riviste di Totò

Morto Gennaro Di Napoli, nel cuore degli anni Venti, bisognava inventarsi qualcosa. Aulicino dice al suo uomo di fiducia: «Alla Spezia c’è la compagnia di Achille Maresca con Totò. Prendi il treno e non torna’ ca senza ‘o contratto ‘e Totò. Qualunque paga». E così fu.

I fatti

Finiva l’anno 1928 e Aulicino suggerì agli autori abituali di scrivere in collaborazione uno spettacolo musicale, da intitolare (questa volta con dubbio buon gusto) Il ’29 (il numero corrispondente nella cabala napoletana ad un organo maschile).

Lo spettacolo fu approvato e andò in iscena, ma, contrariamente a quanto Aulicino si attendeva, non fu uno spettacolo fortunato: nel febbraio di quel fatidico ’29, Don Gennaro Di Napoli si mise a letto con una banale influenza. Dopo pochi giorni morì. Malgrado che egli avesse già un’età rispettabile, il colpo giunse inatteso e lasciò tutti sgomenti e sperduti. Una nuova crisi si apriva per il teatro Nuovo, e, questa volta (dati i tempi e la mutata sensibilità del pubblico) difficile a risolversi.

Gennaro Di Napoli era stato per il Nuovo quello che Antonio Petito era stato per il San Carlino. Sia l’uno che l’altro — a prescindere dalle loro personali virtù di attori — costituivano il perno centrale di un motore che girava in esclusiva funzione di essi. Intorno a loro potevano esserci attori bravissimi e spesso artisti geniali (al San Carlino: Scarpetta, De Angelis, Di Napoli, Altavilla e al 'Nuovo'. Salvietti, Della Rossa, Crispo, Schioppa, Pretolani, Raffaele Di Napoli) ma sia il Petito che il Di Napoli rimanevano mattatori laureati e consacrati, senza i quali la scena, pur popolata, rimaneva vuota e inconsistente.

E come al San Carlino la situazione si palesò grave alla scomparsa di Petito (tanto grave che la Compagnia si sfasciò e il teatro si chiuse) parimenti al 'Nuovo' Aulicino venne a trovarsi in un serio impiccio.

L’impresario del San Carlino, Silvio Maria Luzi, si arrese presto all'ineluttabile, ma Aulicino non pensò nemmeno lontanamente a sciogliere la Compagnia e a chiudere il teatro.

Eppure la successione sarebbe stata facile, come, del resto, tale appariva un po’ a tutti, poiché Agostino Salvietti, il più giovane della compagine artistica, aveva tutte le qualità per aspirare a tale successione e di esserne ben degno.

Allevato alla scuola di Gennaro Pantalena, divenuto esperto in quella dei due Scarpetta, padre e figlio, dotato di una brillante cultura (caso raro in quei tempi, era passato al teatro dopo di avere iniziato gli studi classici ed era l’unico attore napoletano che poteva leggere il latino e pronunziarlo con proprietà di accenti) spiritoso, moderno, battutista di classe e francesizzante per i calembours e le boutades che arricchivano il suo linguaggio, parlatore inesaurible, simpatico e di enorme comunicativa col pubblico, si sentiva preparato a raccogliere la pesante eredità e presentarsi alla ribalta nella veste del mattatore.

Ma l’impresario Aulicino non fu di questo avviso. Giudicò la soluzione troppo facile, e, comunque, non tale da scuotere il pubblico, che era rimasto sotto lo choc della scomparsa del Di Napoli. Egli amava considerarsi l’impresario dalle trovate a sorpresa e dalle decisioni esplosive, e non intendeva, in questa speciale occasione, venir meno a tale fama, che credeva, e non a torto, di godere.

E appena conclusasi, come meglio si era potuto, la stagione teatrale in corso, Aulicino chiamò Vincenzo Scala, suo parente, sua persona di fiducia e gestore del botteghino, e gli disse:

- Alla Spezia, agisce la Compagnia di Achille Maresca con Totò. Prendi il treno, va alla Spezia e scrittura Totò...

- Totò?!... Ma non sarà facile.

E l’altro con tono calmo e perentorio, come era suo costume:

- Viciè, va’ a La Spezia e non tornà ccà senza ’o contratto ’e Totò... He capito buono?

- Ma... la paga?

- Qualunque paga!

Scala partì e dopo tre giorni al teatro Nuovo giunse un telegramma: «Totò firmato contratto stop arrivo stasera ore 22. Vincenzo».

La cosa era fatta e la Compagnia Molinari (poiché sempre così si sarebbe chiamata) si apprestava, con l’acquisto di un comico singolare come Totò, ad affrontare una svolta eccezionale e pericolosa. Tanto pericolosa che lo stesso impresario giudicò opportuno invitare Salvietti a rimanere in Compagnia, promettendogli parti adeguate nei nuovi spettacoli e paga migliorata. Ma su questo fronte Aulicino perdette la battaglia. Salvietti, colpito profondamente nei suoi più gelosi sentimenti, sdegnosamente rifiutò e a nulla valsero insistenze, promesse e lusinghe. Con l’allontanamento dalla Compagnia di un attore come Salvietti, quella tale svolta diveniva ancor più pericolosa, ma il dado ormai era tratto e bisognava coraggiosamente mettersi al lavoro.

Per affiancare a Totò un’attrice di carattere brillante e musicale fu scritturata Lia Thomas (sorellastra di Mariella Gioia) che aveva iniziata una fortunata carriera nel campo dell’Operetta, e venne affidato a Kokasse, il più giovane degli autori stabili del teatro, l’incarico di scrivere lo spettacolo di debutto. Si scelse il genere caricaturale di ambienti, personaggi e avvenimenti storici (che aveva avuto per il passato grande fortuna, e che, rinverdito da queste esperienze del Nuovo, doveva averne altrettanto alla Radio e nel teatro nazionale) e Kokasse, con la valida e preziosa collaborazione di Maria Scarpetta, sua moglie, scrisse Messalina, in cui Totò nella parte di Caio Silio, potette sfoggiare tutte le sue doti di comico grottesco e musicale.

Lo spettacolo, che andò in iscena nel settembre del 1929, fu presentato in una ricca e sfarzosa cornice, tipo Folies Bergère e il successo fu pieno e clamoroso.

Seguirono I tre Moschettieri, altro spettacolo dello stesso genere con Totò-D’Artagnan, la fantasia Bacco, Tabacco e Venere, e, quando si credette che Totò fosse maturo e accettabile per un genere più recitato e meno fantasioso, andarono in iscena nel 1930 Santarellina, ’O Balcone ’e Rusinella di Scarpetta e Amore e Cinema di Carlo Mauro.

L’anno teatrale si era felicemente concluso e la prova era brillantemente riuscita. E mentre si discuteva se fosse o non fosse il caso di ripeterla nel prossimo anno, Cabiria, una delle più belle e popolari soubrettes del tempo, piombò a Napoli, scritturò Totò con una paga favolosa e in aereo se lo portò via.

Si era alla fine di maggio. Quattro mesi erano più che sufficienti per organizzare una nuova Compagnia Molinari, che, dopo quasi mezzo secolo di vita non era ancora disposta a morire. Solo le fiamme avrebbero potuto distruggerla.

F. De Filippis - M.Mangini ("Il Teatro «Nuovo» di Napoli" , Arturo Berisio Editore, Napoli, 1967)


Riferimenti e bibliografie:

  • "Totò, principe del sorriso", Vittorio Paliotti - Fausto Fiorentino Ed., 1977
  • "Il Teatro «Nuovo» di Napoli" (F. De Filippis - M.Mangini), Arturo Berisio Editore, Napoli, 1967